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Autore: SilviAngel    09/10/2016    1 recensioni
Storia a brevi capitoli scritti dal punto di vista di Matt.
Dal testo:
"Vedo, in una colorata carrellata di immagini, i miei genitori, i miei giocattoli, i miei primi amici, il primo riconoscimento ottenuto alla gara di fotografia alle scuole medie e poi lentamente i colori sbiadiscono così come la mia esistenza davanti agli occhi del mondo.
L’infanzia lascia il posto all’adolescenza.
Un’adolescenza in cui mi sono trasformato in un’immagine sfocata, sempre relegata in secondo piano, se non addirittura sullo sfondo."
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Matt Daehler, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora, questa mia storia merita alcune parole di presentazione.
So che Matt è da sempre un personaggio poco amato e spesso sottovalutato, ma l'aver avuto il piacere di conoscere l'attore, mi ha spinto a creare questa serie di brevi capitoli tutti scritti dal punto di vista di Matt e che attraversano la seconda stagione.
Ho inoltre (grazie all'aiuto preziosissimo di una mia amica) avuto la possibilità di regalare a Stephen Lunsford la traduzione della fanfiction.
Spero che questo esperimento possa piacere, a me ha dato tanto.
Buona lettura.

ISTANTANEE


Cap. I – Allison Argent
Se solo mi fossi soffermato a pensarci avrei ammesso, almeno a me stesso, di essermi trasformato in un dannato e fin troppo abusato luogo comune.
Io, un ragazzo normale mi ero preso una madornale sbandata per la migliore amica della ragazza più bella e invidiata della scuola, elemento che portava la sorridente Allison Argent, sia chiaro, per merito e diritto, sul secondo scalino del podio.
Certo la popolarità di Lydia languiva parecchio da qualche settimana a quella parte o forse addirittura era in leggero e costante declino ma, insieme, quelle due ragazze erano uno dei pilastri della struttura sociale del Beacon Hills High School.
 
Il mio attaccamento non era però legato alla mera visibilità ottenuta dalla ragazza o alla bellezza della stessa. Tutto era successo lentamente, senza che io fossi in grado di individuare con esattezza l’attimo in cui gli sguardi casuali si erano tramutati in voluti, prima, e in ricerca costante filtrata spesso dall’obiettivo della mia fotocamera, poi.
Era bella, fattore assolutamente innegabile.
Con quei capelli lunghi e scuri, quegli occhi profondi e il sorriso in grado di togliermi la parola ogni volta, a maggior ragione quando mi ritrovavo ad esserne il fortunato destinatario.
Perché sì, Allison Argent mi sorrideva.
Non quanto avrei voluto, ma era accaduto e ancora continuava ad accadere di tanto in tanto.
 
La prima volta era successo nel bel mezzo di una lezione di storia dell’arte.
Ero uscito di casa di corsa, come sempre, e tra le cose che quel giorno avevo scordato – andava annoverato in esse purtroppo anche il pranzo – vi era il quaderno degli appunti.
Lei, seduta nel banco accanto al mio, se ne era immediatamente accorta e prima ancora che potessi andare in cerca di aiuto, alcuni candidi fogli erano apparsi sul ripiano del mio tavolo.
Dopo aver immediatamente sollevato il viso, per nulla abituato a gesti di gentilezza nei miei confronti, mi imbattei nel sorriso più sincero e genuino che avessi mai ricevuto e in quel momento decisi che avrei fatto di tutto pur di intrappolarlo per sempre nei miei ricordi e, possibilmente, anche in decine e decine di scatti.
 
Da quel momento tutto era scivolato in una lenta e inafferrabile concatenazione di eventi. Avevo cercato di incontrarla il più possibile e di creare occasioni di dialogo. Ero arrivato addirittura a tentare di cambiare alcuni corsi così da poterli sostituire con altri seguiti da Allison.
All’inizio le cose non erano andate benissimo e i risultati tardavano ad arrivare, era innegabile che stesse conservando il suo tempo per quell’inetto di Scott McCall, ma a un certo punto, qualcosa era cambiato.
Certo il suo sorriso aveva perso quel tocco che lo rendeva indiscutibilmente luminoso, ma aveva ricominciato a passare il tempo con qualcuno che non fosse quello sciocco e tra colore che ne beneficiarono vi ero anche io.
 
Ed è per questo che un giorno alla fine di una lezione iniziammo a parlare e, senza che me ne accorgessi, mi ritrovai a passeggiare con lei nei corridoi della scuola. Situazione che avevo avuto il coraggio di immaginare solo nei miei sogni.
Un attimo dopo era purtroppo arrivata Lidya e aveva trascinato via da me la sua amica, ma nulla e nessuno avrebbero potuto strapparmi via quel ricordo.
Tornai a casa quel giorno con un sorriso sulle labbra che la mia famiglia non comprese, troppo abituata al mio silenzio o al massimo al mio acido cinismo e quando – sempre sorridendo – lasciai la tavola nessuno fiatò.
 
Mi rifugiai nella mia camera e, collegata la fotocamera al pc portatile, iniziai a scaricare nella memoria esterna tutte le fotografie fatte quel giorno.
Alcune, le più fredde e noiose, erano quelle che sarebbero servite per l’articolo del giornale sui miglioramenti della pavimentazione del parcheggio, ma la maggior parte immortalava i miei amati compagni di liceo.
Scatti rubati.
Scatti che immortalavano momenti top e madornali flop.
Scatti che a volte mi toglievano il respiro se avevano come soggetto la bella Argent.
Una fotografia di quella giornata mi bloccò letteralmente.
Raffigurava Allison con gli occhi socchiusi e il capo piegato di poco verso il basso, il sorriso timido che illuminava l’intera immagine e io immaginai il momento, la mia personale e perfetta versione della scena.
Mi vidi parlarle impacciato sotto il sole, seduto accanto a lei su quel basso muretto e farle un buffo ma sincero complimento.
La vidi arrossire, sorridere, e poi – come perfettamente ritratto nella fotografia – abbassare impercettibilmente il capo.
Il mio viso si rivestì di un istantaneo sorriso che così come era nato, morì in un attimo.
Tornai infatti al mondo reale, strappato a forza dal mio mondo perfetto quando la suoneria del cellulare riempì la camera.
Con le urla del redattore capo di quell’insulso giornaletto riguardo le mie scadenze e la mia incostanza nelle orecchie, il mio indice pigiò sul tasto del mouse, scorrendo così alla fotografia successiva inondando lo schermo del pc con visi insulsi e grigi.
 
Cap. II – Scott McCall
 
Odio.
Semplice, naturale e profondo odio.
Questo sentivo attraversarmi le viscere e la mente quando, ogni santo giorno posavo i miei occhi su quell’insignificante ragazzo.
Ero qui quando lui e il suo allegro compare non valevano niente, esattamente come me.
Ero qui quando, di punto in bianco, la sua buona stella era inspiegabilmente sorta a illuminare le genti di Beacon Hills.
Inizialmente non compresi come mai improvvisamente fosse divenuto bravo nel lacrosse, al centro delle attenzioni di mezza scuola e soprattutto importante agli occhi di Allison.
Poi, d’un tratto tutto divenne limpido e mi accorsi di quante cose non si svolgevano in modo naturale né nella sua vita né nella vita di coloro che gli gravitavano attorno.
Ma tutto ciò non era comunque ancora rilevante.
Ciò che mi faceva digrignare i denti dalla rabbia era osservare come lei attendesse ogni mattina il suo arrivo. Come le labbra di Allison si distendessero aprendosi in un dolce sorriso non appena lo vedeva da lontano parcheggiare la sua scassata bicicletta. Come allungava quasi in modo infantile la mano verso di lui mentre Scott copriva i pochi scalini dell’ingresso e, soprattutto, come le loro labbra si univano per un veloce bacio.
Le mie mani stringevano istintivamente ogni volta la cinghia della fotocamera che avevo al collo e, silenzioso, li raggiungevo, superandoli, invisibile come sempre.
 
Poi d’un tratto tutto mutò ancora.
Una mattina, apparentemente uguale a tutte le altre, vidi sopraggiungere Scott a capo chino.
Come se su di lui fosse calato un acetato seppia, un filtro in grado di smorzare di colpo e in modo eccessivo la felicità che era solito avere già a quell’ora del mattino, a passo lento si incamminò verso la scuola e io, nello spostare la mia attenzione, vidi che quel giorno non vi era nessuno ad attenderlo sull’ultimo gradino.
Il mio cuore perse un battito, ma lo costrinsi a calmarsi.
Forse la fidanzata era semplicemente assente e quindi tutto si sarebbe spiegato in modo semplice, forse aveva un impegno o un progetto scolastico che l’aveva costretta a non essere lì presente o forse, ma non dovevo crogiolarmi in quell’eventualità, i due avevano litigato.
Avrei dovuto indagare, riflettei, raggiungendolo.
Intanto però non riuscii a trattenermi e, passandogli accanto, lo apostrofai ghignando “Tutto solo oggi McCall?”
Scott voltò il capo verso di me, guardandomi come se fossi un alieno, con un lampo di evidente fastidio negli occhi prima di esordire con parole che furono l’ennesima – ma oramai abituale – stilettata al mio ego.
“E tu saresti?”
Inspirando e affrettando i miei passi, lo superai entrando nell’edificio, imboccando il corridoio che mi avrebbe condotto alla prima lezione.
Nonostante fossi abituato ad essere un’ombra, una presenza sullo sfondo, sgranata, sfumata e distorta, la sua cattiva e perfida domanda vorticava nella mia mente.
Del tutto incapace di concentrarmi, le parole dell’insegnante scivolarono via fino al suono fastidioso della campanella.
 
Non appena mi ritrovai in corridoio, spinto da un lato e dall’altro da persone che neppure si prendevano la briga di scusarsi o anche solo evitare di finirmi addosso, vidi a pochi metri da me Scott confabulare come suo solito con quel suo strambo amico.
Se già mi era difficile comprendere come un inetto quale era Scott fosse riuscito a ritagliarsi all’improvviso un posto al sole, davvero mi sembrava uno scherzo di pessimo gusto vedere che un evento simile stava accadendo anche a quel mucchietto di ossa scoordinate che andava sotto il nome di Stiles Stilinski.
Mi avvicinai ai due che, ignari dei miei movimenti, continuavano tranquillamente a parlare tra loro.
Inutili chiacchiere di indizi e telefonate, nulla che potesse alla fine interessarmi, ma d’un tratto il nome della giovane Argent saltò fuori e il mio udito si affinò.
“Dovrei vedere Allison questo pomeriggio dopo scuola ma suo padre sta facendo il mastino”
“E che vuoi che sia un mastino per un lupo!” cercò di tranquillizzarlo il figlio dello sceriffo, guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’amico “Ok, ok sto’ zitto. Non si parla di lupi, zanne o artigli a scuola, ricevuto”
 
Avevo sempre sospettato che quei due fossero strani, ora ne avevo solo l’assoluta certezza e anche gongolando per le difficoltò che Scott stava incontrando nel vedersi con Allison, non mancai di accorgermi di un particolare a prima vista insignificante ma che, secondo me, necessitava solo di essere messo nella giusta prospettiva per divenire d’un tratto importante.
Non ero l’unico a tenere gli occhi – e probabilmente anche le orecchie – sui due ragazzi. A pochi metri dall’armadietto di McCall, Whitman tentava di passare inosservato, cosa abbastanza difficile per lui, mentre osservava con rabbia malcelata Scott.
Stava succedendo qualcosa e avrei fatto di tutto per scoprirlo.
Carpii ancora qualche altra parola, all’apparenza prive di senso: lupi, morso, luna piena.
Da un lato sarei scoppiato volentieri a ridere in faccia a quegli sfigati, ma qualcosa pizzicava in un angolo della mia testa.
Forse era necessario fare qualche ricerca.
 
Cap. III – Stiles Stilinski
 
Di nuovo solo e al sicuro nella mia camera, intento come ogni sera a scaricare nella memoria del computer gli scatti della giornata, iniziai a tirare le fila di quanto osservato. Come se stessi appendendo al filo ogni fotografia appena uscita dalla soluzione affinché diventasse nitida e potesse acquisire significato e contorni, richiamai alla mente tutto ciò che avevo passo passo scoperto.
 
Vi era Allison appena arrivata in città con la sua famiglia.
Vi erano Stiles e Scott sempre più strambi, ma senza alcuna ragione apparente meno emarginati di quanto non fossero solo fino a poco tempo prima.
Vi era Jackson, leader indiscusso non solo della squadra di lacrosse ma di tutto l’universo scolastico, che impiegava il suo preziosissimo tempo a spiare i due sfigati della scuola.
Questo era di gran lunga un elemento da non sottovalutare, se non il più importante di tutti, dovetti ammettere a me stesso, aggiungendo quindi un altro soggetto da tenere sotto controllo alla mia lista.
Il trasferimento immagini quella sera era più lento del solito e, oscurando lo schermo, decisi di mettermi a letto.
Forse la notte avrebbe portato il fantomatico consiglio o almeno un brandello di logica ai vari tasselli presenti.
 
Il giorno appena iniziato sembrava simile a tutti quelli che lo avevano preceduto e dopo aver evitato un’interrogazione di chimica, mi apprestai a raggiungere la mensa, domandandomi quale disgustoso intruglio avrebbero tentato di rifilare.
Alla fine il pasto fu migliore di quanto ipotizzato, il cibo era vagamente commestibile e, dalla sua posizione, avevo assistito a scene che, al momento, non riuscivo ancora a comprendere del tutto ma che ero certo fossero piene zeppe di dettagli fondamentali.
Stiles si stava ingozzando come d’abitudine.
Scott stava distruggendo il vassoio della mensa.
Jackson stava ghignando strafottente come il solito.
Mantenendo sempre l’attenzione sugli studenti, abbandonai la sala mensa e seguii lo sfigato dato che avevamo lezione insieme
Se già Finstock era insopportabile come coach, come insegnante di economia era a dir poco sfiancante.
 
Macchina fotografica al collo e braccia piene di libri e appunti, andai verso la mia auto e, d’un tratto, mi tornò alla mente un evento accaduto tempo prima e a cui, forse, non avevo dato la giusta importanza.
 
Flashback
 
Stiles era appena uscito in retromarcia dal parcheggio e stava per lasciarsi alle spalle la scuola quando il suono stridente di una brusca frenata costrinse tutti i presenti a cercarne la causa.
La Jeep di un colore improponibile aveva inchiodato per non investire un ragazzo.
Osservando meglio, mi accorsi di quanto l’ultimo arrivato fosse malfermo sulle proprie gambe e addirittura in procinto di svenire, cosa che avvenne infatti un attimo dopo.
 
Cercai di avvicinarmi alla scena, incurante dei clacson che riempivano l’aria con impazienza, e riuscii a vedere quanto stesse accadendo davanti al muso arrugginito dell’auto.
Un giovane pallido come un cencio era riverso a terra e se Stiles si era trasformato nell’emblema dell’ansia, Scott, accorso rapido a soccorrere il malcapitato, con una calma insolita cercò di rimetterlo in piedi, nascondendolo per quanto possibile alla vista degli altri studenti.
Accucciato a terra, posai i libri accanto alle mie ginocchia e stringendo tra le mani la fotocamera, iniziai a scattare senza particolare attenzione, avrei filtrato in un secondo momento le immagini ottenute.
Quando lo sconosciuto fu al sicuro nell’abitacolo della Jeep, Stiles partì sgommando, mentre Scott tornando alla sua bicicletta passò accanto a Jackson, rimasto fino a quel momento in coda dietro l’auto del figlio dello sceriffo e che sembrava arrovellarsi su mille pensieri.
 
Ringraziando il traffico e gli studenti che bighellonavano senza meta nel parcheggio, ebbi il tempo di raggiungere la mia auto e mettermi a seguire quella sgangherata auto blu.
Pur non conoscendo impegni o abitudini di Stiles mi resi conto che non stava guidando né verso casa propria, né verso l’ospedale, considerando lo stato in cui versava il passeggero.
Sovrappensiero non mi accorsi immediatamente che l’auto aveva bruscamente accostato e fermandomi dietro essa, sperando di non essere visto, mi abbassai dietro il volante, cercando comunque di sbirciare.
I due stavano battibeccando.
Pur non udendo nulla, era più che evidente e, sorridendo, scossi più e più volte il capo.
Forse sarei arrivato a sera con, tra le mani, uno scoop assolutamente inaspettato: il giovane e innocente Stiles Stilinski, che da anni professava imperituro amore per la reginetta del liceo, in realtà se la faceva con un bad boy, alla faccia del genitore paladino della legge.
Incrociai le dita di non aver commesso un epico errore avendo deciso di seguire loro e non Scott e, non appena la Jeep ripartì, mi rimisi all’inseguimento.
Dopo alcuni minuti di viaggio, Stiles parcheggiò davanti a uno studio veterinario e, se già prima non avevo idea di cosa stesse accadendo davanti ai miei occhi, ora dovetti ammettere di aver, per un attimo, dubitato fosse tutto reale.
Avvicinandomi senza fare rumore – dopo aver lasciato in auto tutta la mia attrezzatura, perché per una volta mi sarei affidato esclusivamente ai miei occhi – sbirciai all’interno.
Lo sconosciuto era accasciato a terra e se prima pareva stare male, ora sembrava all’orlo del collasso. Arretrai velocemente nell’attimo in cui compresi che i due stavano di nuovo per spostarsi e cercando di intuire i loro movimenti dall’esterno, andai alla ricerca di un nuovo punto di osservazione.
Dopo aver girato l’angolo dell’edificio e aver guardato in alcune finestre, trovai quella che faceva al caso mio.
 
Ciò a cui assistei mi lasciò senza parole e con mille dubbi.
Quel ragazzo – Stiles lo aveva chiamato Derek – aveva ordinato al mio compagno di scuola di amputargli il braccio.
Sulle prime pensai stesse scherzando, ma quando vidi il figlio dello sceriffo con un arnese decisamente tagliente tra le mani, dovetti rivedere le mie idee.
Poi gli eventi si susseguirono velocemente: l’arrivo di Scott, il consegnare a Derek quello che pareva un proiettile, lo strano sbuffo di fumo che si levò dal tavolo, il corpo accasciato e inizialmente immobile dello sconosciuto, per finire con la ripresa miracolosa e quasi immediata di quest’ultimo.
 
Di nuovo davanti al pc, iniziai a tirare le fila di quanto accaduto in passato e di quanto stesse avvenendo ora, giungendo ben presto al punto focale.
Mesi addietro, Stiles aveva lasciato la scuola in compagnia di un tipo assai poco raccomandabile e che non ricordavo di aver mai visto prima, senza tralasciare la sua pessima cera e la immediata e improvvisa guarigione.
Forse stare addosso al figlio dello sceriffo si sarebbe rivelato più proficuo di quanto avrei mai potuto pensare. Tutti conoscevano la brutta abitudine del ragazzo di parlare a sproposito e forse qualcosa di compromettente sarebbe ben presto saltato fuori.
Come da parecchie sere a quella parte, mi misi a letto, con la speranza che il nuovo giorno mi avrebbe dato qualcosa che avrebbe reso migliore la mia intera esistenza.
 
Cap. IV – Jackson Whittemore
 
Passarono alcuni giorni duranti i quali presi lentamente coscienza di alcune cose.
Prima tra tutte la mia iniziale idea di seguire Derek Hale si rivelò completamente inutile. Ogni volta in cui riuscivo a non perderne misteriosamente le tracce, lo sconosciuto si limitava ad attività ordinarie e quotidiane e di certo non mi interessava quale fosse la sua lavanderia di fiducia o la marca di caffè che acquistava al supermercato.
 
Ciò in cui m’imbattei, però a seguito di questi inutili appostamenti, fu la proverbiale fortuna inaspettata: scoprii che non ero l’unico a seguire – o tentare di seguire – Derek.
Successe più volte, infatti, che nel pedinare il ragazzo più grande mi ritrovassi in realtà a pedinare Jackson, prova inequivocabile che ci fosse davvero qualcosa di strano.
Il giovane Whittemore era per me l’emblema di tutto ciò che rendeva da sempre odiosa la scuola e l’intero universo che vi gravitava attorno. Un universo composto da feste e parallele esclusioni da queste.
Come facile immaginare, conobbi soprattutto queste ultime, anche se vi fu in passato una festa alla quale venni invitato, ma non ho intenzione di rivangare il passato anche se il ricordo di quella sera mi tormenta tutti i giorni.
 
Il giovane ricco e viziato non brillava certo di sufficiente scaltrezza e fu solo quando decisi di farmi scoprire che si accorse di me. All’inizio parve solamente scocciato e per nulla imbarazzato dalla consapevolezza di essere stato scoperto, ma con l’andare dei giorni si instaurò una distorta abitudine, come se ad ogni pedinamento l’uno si accertasse silenziosamente della presenza dell’altro.
Per questo avvertii un certo fastidioso quando mi resi conto della sua assenza e iniziai, senza quasi accorgermi, a osservarlo attentamente nei corridoi della scuola.
Era successo qualcosa.
L’atteggiamento sfrontato e irriverente di Jackson pareva essersi amplificato ed essere giunto all’ennesima potenza. Fui addirittura testimone della sua rottura con  Lydia Martin la ragazza più popolare e ricercata dell’intera scuola.
Le mie giornate erano ora quindi equamente divise tra il pedinamento di Derek, quello di Jackson e il dannato lavoro per l’insulso giornale della scuola.
Dopo aver passato l’intero pomeriggio a editare e rivedere bozze di impaginazione, Jackson mi chiamo per chiedermi in prestito la mia attrezzatura video.
Inizialmente ero restio – quella roba valeva parecchi bigliettoni – ma qualcosa mi convinse ad accettare.
Feci la consegna e, invece di mettere in moto l’auto e andarmene, attivai il collegamento tra la videocamera e il mio cellulare e iniziai a spiare ciò che avveniva nella camera di Jackson.
Le riprese durarono pochi attimi e poi l’immagine scomparve.
Iniziai a cadere nell’oscurità più nera ma mentre ciò accadeva, inspiegabilmente tutto attorno a me diventò limpido e cristallino.
Qualcosa attrasse la mia attenzione e allontanai lo sguardo dallo schermo per volgerlo allo specchietto. Accanto alla ruota posteriore della mia auto era accucciato un essere ricoperto di squame – sembrava la versione anni 2000 del Mostro della Laguna – ma invece di provare terrore, cosa che chiunque con un po’ di sale in zucca avrebbe sentito, avvertii nascere, lenta e profonda, una connessione tra me e la creatura.
Sentii qualcosa nascere nel profondo, come se il mio cuore e la mia mente si stessero fondendo alle sue, come se stessimo divenendo una cosa sola.
Un solo cuore pulsante e carico d’odio, una sola mente traboccante vendetta e crudeltà.
Quando a separarci vi furono solamente non più che un paio passi, la creatura si arrestò.
Fu l’istinto a guidarci. Le nostre mani combaciarono tra loro pur se divise dal sottile vetro della mia auto.
Il legame era stato completamente instaurato e sentivo che insieme nessuno avrebbe potuto fermarci.
Sarei scoppiato a ridere per l’eccessivo tasso zuccherino delle sensazione provate, sembrava avessi incontrato il mio grande amore e non la mia perfetta macchina da guerra.
Così come iniziato tutto finì. La creatura scomparve e io ripresi a respirare prima di farmi forza e mettere in moto la mia auto.
 
Non riuscii a chiudere occhio quella notte e non appena misi piede nell’edificio scolastico, la sensazione di unione e complicità che avevo sentito la sera precedente mi colpì potente al centro del petto.
La creatura era lì.
Guardandomi attorno, inizialmente, non notai nessun comportamento strano, fino a quando non vidi Jackson che, probabilmente per la prima volta nella nostra intera carriera scolastica, mi guardava dritto in viso.
L’epifania investì con forza la mia mente.
Era lui.
Jackson Whittemore era il mostro squamoso che avevo visto la sera prima e per qualche ragione avevo una connessione particolare con lui.
 
Abbandonai all’istante qualunque interesse per Derek Hale. Avevo trovando il nome della sua famiglia non appena le mie ricerche si erano spostate verso il folklore locale, il soprannaturale e tutto ciò che, fino a un attimo prima, pensavo neppure esistesse.
Sul momento non mi soffermai a chiedermi come fossi riuscito in un lasso di tempo così breve a tirare le fila di argomenti così segreti e pericolosi.
Se fossi stato completamente lucido – e non già in parte vittima del legame potente e istintivo con quello che avevo scoperto essere chiamato kanima – avrei dato il giusto peso a questa eccessiva semplicità, domandandomene il motivo, chiedendomi se, forse, non ci fosse qualcuno a spianarmi la strada.
 
Scoprii che il kanima non fosse altro che un licantropo incompleto, un’aberrazione della mutazione. Qualcosa nel profondo dell’animo di Jackson aveva impedito al suo corpo di mutare in un mannaro completo, volgendo invece a un mostro privo di controllo e coscienza, ma legato a filo doppio a colui che l’istinto aveva riconosciuto come padrone.
Sentii di essere io, la metà mancante di quel sodalizio e da quel giorno lavorai sodo per poter di nuovo essere a contatto con la creatura, sacrificando spesso ore di sonno e di fotografia.
Stando alle scarne letture che trovai sull’argomento – sempre apparse quasi magicamente nella sezione occulto della biblioteca cittadina – il legame avrebbe condotto il kanima ad essere il braccio armato della volontà del proprio master, ma non capii la completa portata di queste parole se non giorni dopo averle lette.
Una notte ebbi un incubo, ordinaria amministrazione, nonostante gli anni passati da quella dannata festa in piscina e sudato e terrorizzato nel mio letto, augurai la morte a quel dannato signor Larey.
 
Ciò che fu tutto meno che ordinario fu il pesante brusio che mi accolse una volta giunto a scuola il mattino successivo.
Dopo alcuni tentativi scoprii quale fosse la notizia del giorno: il vecchio insegnante di nuoto era stato barbaramente ucciso la notte prima.
Sollevando il capo, senza degnare di uno sguardo l’anonimo compagno di scuola che mi aveva ragguagliato, incrociai gli occhi impassibili e freddi di Jackson.
E lì compresi, semplicemente desiderando qualcosa, avrei spinto il kanima ad agire di conseguenza, poco importava se i desideri riguardassero il dolore o la morte di qualcuno.
Ghignando mi diressi alla prima lezione della giornata, con cuore leggero e la mente piena zeppa di possibili nuovi suggerimenti per il mio piccolo cucciolo assassino.
 
Cap. V – Lydia Martin
 
E alla fine come avrei potuto non imbattermi in lei?
La regina indiscussa della Beacon Hills High School.
La ricchissima, bellissima e invidiatissima Lydia Martin.
Certo, a voler essere sinceri e pignoli, non che se la stesse passando a meraviglia in quegli ultimi giorni.
Jackson inebriato da una sensazione di potere che ancora non aveva compreso – povero piccolo cucciolo verde ignaro del suo ruolo – aveva deciso di lasciarla e per di più in modo abbastanza plateale nel bel mezzo del corridoio.
Come se ciò non fosse sufficiente, la sua migliore amica sembrava avere da qualche tempo un ascendente molto marcato sul suo ex ragazzo e, ciliegina sulla torta, sembrava che qualunque azione compisse o qualunque outfit azzardasse non fosse in grado di riportare su di lei i riflettori della popolarità e l’attenzione del corpo studentesco.
 
In fin dei conti non mi ero mai interessato a lei o a qualunque cosa la coinvolgesse per il semplice fatto che mai avrei potuto entrare in quel mondo, mai ne avrei fatto parte e, nonostante la mia passione e l’abitudine di nascondermi dietro un obiettivo, l’idea di osservare l’élite non mi attraeva fino al punto di voler conoscere ogni dettaglio della sua vita e del suo gruppo di piccoli lacchè.
A contrario, essere un lacchè pareva essere l’ambizione massima di Stiles.
Se il mio odio per la gran parte degli studenti non fosse stato così profondo e democratico, avrei quasi provato pena per lui.
Sempre lì in attesa di un cenno, di un saluto, di uno sguardo, per poi scoprire ogni volta che lui non ne era mai il destinatario o la causa.
Sì, se nel mio cuore ci fosse stato posto per altro che non fossero rabbia e odio, avrei potuto provare simpatia per quel povero ragazzo invisibile.
Ma se così fosse stato, avrei forse odiato ancora di più Lydia e ciò che ella rappresentava.
Sarei di certo arrivato a disprezzarla ancora di più ritenendo che Stiles meritasse ben altro, che meritasse qualcuno che mettesse al primo posto.
 
Raramente il mio obiettivo e la mia attenzione si erano soffermati così a lungo sulla ragazza, ma in quei giorni, pensai potesse tornare utile e in parte fu così.
La vidi interagire in modo imbarazzato con Jackson, con Allison e addirittura in modo palesemente sfrontato con Scott.
Chissà cosa avrebbe pensato Stiles se avesse saputo che la sua presunta anima gemella aveva tentato di entrare nelle grazie – e forse nei pantaloni – del suo migliore amico.
L’interesse per la giovane Martin scemò però in un baleno di fronte ai cambiamenti intervenuti in un anonimo membro del corpo studentesco della Beacon Hills High School e che mi costrinsero a richiamare alla mente altri accadimenti simili.
 
Cap. VI – Il branco
 
Il primo a cambiare atteggiamento e look era stato il figlio di quell’inetto, di quell’insulso mezzo insegnante che neppure si era accorto di quanto stesse accadendo durante quella assurda festa, ma come già detto, non voglio parlare di quell’episodio.
Isaac Lahey quel giorno stava percorrendo il corridoio principale dell’edificio scolastico nella piena consapevolezza che, probabilmente, per la prima volta in tutta la sua vita, gli occhi di tutti erano puntati con ammirazione verso di lui.   
Abbigliamento accattivante e sguardo insolente.
Cosa diavolo poteva essere successo allo sfigato, sempre spaventato dalla propria ombra e che a malapena aveva il coraggio di alzare lo sguardo quando qualcuno per puro caso si rivolgeva a lui?
Forse avrei dovuto iniziare a indagare anche in quella direzione.
E così feci, anche se non fu per nulla facile all’inizio, ma d’un tratto in una normale serata di pedinamenti tutto cambiò, evolvendo in un modo inaspettato.
 
Ero seduto nella mia auto, appostato di fronte alla casa di Isaac e osservavo i rari movimenti che avvenivano nella porzione di finestra che riuscivo a scorgere e anche da quella distanza l’odio che sentivo per quell’uomo – il padre del mio compagno di scuola – era qualcosa di viscerale e primitivo da annullare qualunque altra cosa.
A causa delle grida del coach provenienti dalla casa – ricordavo troppo bene quella voce – non mi accorsi immediatamente di due accadimenti che si svolsero appena fuori dell’obiettivo della mia fotocamera: da un lato Isaac che a capo chino usciva di casa sbattendo la porta e dall’altro Jackson che tranquillo passeggiava lungo il marciapiede.
Quando vidi il co-capitano della squadra di lacrosse, mi domandai cosa diamine ci facesse in giro a quell’ora e poi, dopo l’ennesimo grido del signor Lahey, in attimo qualcosa cambiò. Definitivamente.
Jackson alzò lo sguardo e inconsapevolmente – dubito potesse vedermi così bene da così lontano – legò i suoi occhi ai miei. Lentamente scese dal marciapiede e sicuro si mosse verso di me. Non fu il fatto che il rampollo di casa Whittemore stesse cercando un contatto con me a lasciarmi senza parole, ma il fatto che, quando a separarci vi furono solamente non più che un paio passi, si arrestò e, voltatosi, se ne andò veloce.
Con il cuore che batteva all’impazzata e la testa piena di mille ipotesi, congetture e tentativi di spiegazione, misi in modo l’auto e mi allontanai da quella via.
Non vidi il coach lasciare la propria abitazione, non lo vidi salire in auto e neppure scorsi Jackson seguirlo.
 
Raggiunta casa, mi coricai senza neppure preoccuparmi di spogliarmi. Gli occhi fissi al soffitto.
Sentivo che qualcosa fosse inesorabilmente successo. Sapevo che qualcosa fosse profondamente cambiato.
Ciò che non sapevo era che quella notte avrebbe segnato l’inizio della mia vendetta.
 
Il giorno dopo, appresi la notizia della tragica e per nulla compianta morte del signor Lahey come il resto del corpo studentesco, esattamente nel momento in cui Isaac veniva cercato in lungo e in largo per la scuola da due agenti della polizia.
Mi disinteressai velocemente del mio biondo compagno di scuola quando, pochi giorni dopo, venni distratto da un cambiamento ancora più eclatante di quello che aveva coinvolto Isaac.
 
Erika era sempre stata una ragazza invisibile o meglio, invisibile per la maggioranza del tempo.
Facevano lampante eccezione i pochi momenti di notorietà dovuti a qualche scherzo di pessimo gusto legati alla sua malattia, ma quando quel giorno entrò in mensa, per la prima volta gli occhi di tutti si posarono con ammirazione su di lei.
Ero come sempre in un tavolo posto accanto a una delle finestre con un’ottima luce e buona angolazione su quasi tutta la sala quando tutti gli studenti presenti si zittirono. Spostai la mia attenzione dal mancato rispetto di ogni norma igienica da parte dell’addetta al purè per guardare davanti a me.
Una ragazza bellissima si stava muovendo felina tra i tavoli addentando maliziosamente una mela e attirando su di sé gli sguardi adoranti dei ragazzi e l’invidia delle ragazze. Impiegai alcuni secondi per riconosce in quella bomba sexy la povera Erika evitata e derisa da tutti.
Ella usò la mensa come un’improvvisata passerella e, voltate le spalle ai suoi occupanti, se ne andò.
Il silenzio si mantenne per alcuni attimi fino a quando lo stridore di alcune sedie non infranse la bolla.
Vidi Scott e Stiles uscire rapidamente, quasi la stessero inseguendo e io, sfruttando la mia posizione, volsi lo sguardo oltre la finestra e ciò che vidi mi meravigliò ancora più della trasformazione della mia compagna di scuola.
Erika, ancheggiando con una sicurezza mai avuta, girò attorno al muso nero e lucido di un’auto sportiva.
Un’auto che più volte avevo tentato di pedinare senza successo.
L’auto di Derek Hale.
 
Mille domande iniziarono a occupare la mia mente e intanto la notte veniva impegnata dai miei piani di vendetta e le morti – piacevoli e tanto attese – continuavano a sommarsi una all’altra.
Il legame che avevo scoperto avere con Jackson si rafforzava ogni giorno di più e diventava più viscerale ad ogni uccisione.
 
Intanto a scuola pareva essere tornata un’apparente normalità.
Erika si vedeva poco o nulla e Isaac era rientrato dopo essere stato scagionato per quanto accaduto al padre.
Ciò che destò nuovamente il mio interesse fu notare questa strana coppia bionda iniziare a girare attorno a un ragazzo apparentemente anonimo quanto loro.
Era alto, di carnagione scura e avrebbe sicuramente avuto successo in qualunque sport se solo fosse stato membro di una qualunque squadra della scuola.
Avevo dovuto chiedere in giro per conoscere chi fosse lo studente e scoprii un nome alquanto originale: Vernon Boyd.
Come accaduto in precedenza, non appena i miei occhi, il mio obiettivo e la mia attenzione si focalizzarono su di lui, mi accorsi di avere compagnia e precisamente quella degli ormai onnipresenti Scott e Stiles.
Come se alla fine io e quei due avessimo in fondo lo stesso fine anche se ancora non sapevamo quale fosse.
 
Troppi fili si stavano aggrovigliando nella mia mente.
Scott.
Derek.
Erika, Isaac e Boyd.
E poi Jackson. La mia unica certezza e unico legame forte.
Intanto le morti continuavano in modo perfetto, eccezion fatta per quel piccolo intoppo del campeggio, beh, poco male, me ne sarei occupato in prima persona.
 
Cap. VII – Ship
 
Le cose non stavano andando come avevo pianificato e sperato.
Allison, dopo un meraviglioso attimo, si era nuovamente allontanata da me e il bacio che le avevo rubato bruciava ora come veleno.
Non potevo averla e non lo sopportavo.
In aggiunta a ciò, troppe persone sembravano essere oramai a un passo dallo scoprire quali fossero state, da qualche mese a quella parte, le attività extra curriculari mie e di Jackson.
 
Tutto degenerò d’un tratto quando mi resi conto che qualcosa non andava nel mio corpo. Era cominciato con l’errore del kanima.
Cioè dal fatto che Jessica fosse sopravvissuta e io avessi dovuto ovviare a ciò.
Da quel momento in poi, ogni volta in cui Jackson entrava in scena per compiere la mia personale vendetta qualcosa accadeva alla mia pelle. All’inizio vidi solamente una piccola chiazza di squame appena a lato del mio ombelico ma in modo rapido si estense poi a buona parte del fianco, risalendo quasi fino al petto.
Avevo bisogno di informazioni ed ero più che certo che solamente coloro che erano calati più di me nel soprannaturale sarebbero state in grado – volenti o nolenti – di fornirmele.
 
Tutto andò a rotoli quando Scott e Stiles tirarono le fila di quanto da me sapientemente orchestrato e quando li vidi accompagnati dallo sceriffo entrare nella stazione di polizia, capii che le mie ore di libertà fossero oramai agli sgoccioli.
Mi fu sufficiente concentrarmi e pochi minuti dopo la lucertola scivolò fuori dalla zona d’ombra del parcheggio.
Ero pronto per una memorabile ultima di scena.
Mi appostai sul retro dell’edificio, seduto appena sotto la finestra dell’ufficio dello sceriffo, pronto a muoversi nell’attimo in cui la situazione sarebbe apparsa senza vie d’uscita.
Sentii purtroppo che le conclusioni a cui erano giunti, altro non fossero che la pura e semplice verità.
Grazie alla conferma telefonica che supposi avesse ricevuto Scott riguardo alla mia presenza in ospedale la sera della morte di Jessica, anche lo sceriffo si convinse che dietro le morti degli ultimi mesi ci fossi io.
Era giunto finalmente il momento di agire.
Fu estremamente semplice farmi strada silenziosamente tra gli agenti presenti nella stazione di polizia grazie alle doti di Jackson e prendere di sorpresa quella spina nel fianco che andava sotto il nome di Stiles Stilinski.
 
Le mie azioni scivolarono via leggere, una concatenata all’altra.
Riuscii a costringere un figlio a incatenare il padre.
Riuscii a convincere un lupo mannaro e il suo fido aiutante a distruggere una enorme quantità di prove.
Riuscii a sperare per un attimo che forse ne sarei uscito vivo e libero.
Solo il rumore di un auto in avvicinamento mi obbligò a rivedere i miei piani.
Doveva essere arrivata la madre di Scott, ultimo tassello da incastrare anche a forza nel mio mosaico.
Grande fu la mia sorpresa – mentirei se non ammettessi che per un piccolo attimo ebbi paura – quando, aperta la porta vidi il grande e grosso alpha di Beacon Hills.
La sorte ancora mi sorrideva dato che immediatamente il corpo di Derek questo cadde pesantemente a terra mentre alle sue spalle apparve Jackson in forma semiumana.
 
Ciò che avvenne subito dopo fu esilarante.
Stiles a causa della sua lingua lunga era stato anch’egli graffiato dal kanima e quindi temporaneamente paralizzato.
Il destino volle però che invece di cadere sul duro e freddo pavimento della centrale, terminasse la sua caduta sull’altrettanto duro, ma caldo, petto di Derek.
Quei due erano la versione arcobaleno della classica coppia che non fa altro che battibeccare e se non avessi dovuto portare avanti la mia vendetta, ammetto che avrei desiderato documentare con mille e più scatti rubati l’evolversi di quella stramba relazione.
Chissà, forse, nonostante tutto, avrei potuto lasciare in vita Stiles e Derek e sperare che la nave dell’amore lasciasse finalmente il porto per dirigersi verso il mare aperto.
 
Nuovamente il rumore di un auto attirò la mia attenzione e dopo aver sbeffeggiato ancora un poco il grande e potente alpha di Beacon Hills, fui costretto a lasciare sola la coppietta e a dirigermi verso l’ingresso con Scott.
Mai una gioia.   
 
Cap. VIII
 
Matt Daehler
 
Cosa è andato storto?
Cosa non ho tenuto nella debita considerazione?
Ora sono qui, sommerso dall’acqua, che tanto mi ha tolto e tanto ho odiato.
Il mio viso sente la fluidità dell’elemento, il mio naso si sta riempiendo del liquido e lo sento invadermi la gola e la trachea.
Mani stringono le mie spalle tenendo l’intero mio corpo sotto il livello dell’irrisorio rigagnolo che scorre appena fuori città.
Tutto ciò che ricordo è un vecchio che mi si è avvicinato fissandomi in viso con troppo odio e cattiveria per essere alla mera ricerca di una informazione e io, sottovalutando la sua pericolosità, ho commesso l’errore fatale di considerarlo esclusivamente per ciò che appariva, un uomo.
 
Inaudita è la forza con cui riesce ad avere immediatamente la meglio su di me. Con un semplice spintone, nel quale all’apparenza sembra non aver dato fondo alla sua completa forza, riesce a mandarmi a terra, facendomi ruzzolare lungo il leggero declino, per poi trascinarmi fino alla piccola riva e da lì nel fiume.
Inaspettata è la cattiveria con cui spinge, quasi ringhiando, la mia testa sotto l’acqua.
So di aver commesso azioni riprovevoli, anche se ai miei occhi altro non erano che mera giustizia, ma non comprendo cosa mai possa volere da me quest’uomo.
Non riesco a immaginare cosa possa spingerlo a compiere un’azione per me senza motivazione alcuna.
Non parla o forse sono io a non udire nulla. Il mondo attorno a me è completamente ovattato dall’acqua.
Solo quando, con estrema fatica, riesco a riportare la testa verso l’alto e a respirare per un secondo una fulminea, quanto mai inutile considerato che morirò, intuizione si fa largo nella mia mente.
 
Jackson.
Ecco cosa vuole quello che, in un attimo di lucidità, ricordo essere il nonno di Allison.
Davvero a Beacon Hills nessuno è come sembra.
Quell’uomo vuole la mia creatura.
Vuole la sua forza e la sua potenza vendicativa.
Con amara ironia, mi rendo conto che neppure nel momento della mia morte io sono al centro dell’attenzione.
Non sono io ad essere davanti all’obiettivo, in un perfetto primo piano.
Io sono solo l’ostacolo da superare, da cancellare, da uccidere.
 
Con amara ironia, mi ritrovo a compatire Scott, Stiles, Derek e tutti gli altri.
Io volevo vendetta.
Io uccidevo chi aveva ucciso me.
Al contrario, l’uomo che ho di fronte è odio.
È odio allo stato più puro e pericoloso e, con il kanima nelle sue mani, con il kanima a esaudire ogni più bieco e sottile desiderio, nessuno sarebbe stato al sicuro, nessuno avrebbe potuto sperare di essere al sicuro.
 
La vita sta lentamente lasciando il mio corpo e la mia coscienza in un ultimo rantolo di speranza si domanda se Jackson avvertirà l’attimo in cui il nostro legame verrà reciso.
Mi domando se gli mancherò come maestro, come padrone, come unica persona che lo capiva e che aveva guardato con coraggio e senza disgusto dentro la sua oscurità così come lui aveva più volte banchettato con la mia.
 
La mia faccia è tornata sotto l’acqua. Non ho più la forza per tentare di emergere ancora.
Ma in fondo perché lottare?
Anche riuscissi ancora a incamerare una boccata d’aria – l’ultima – cosa cambierebbe?
Nulla.
Meglio allora lasciarsi andare, abbandonarsi alla mera legge del più forte.
Sento freddo.
La mani, che avevo più volte stretto attorno ai polsi o alle braccia che mi tenevano giù, perdono ogni forza e le dita rimangono intorpidite e immobili.
Le mie gambe che invano avevano scalciato più volte – almeno all’inizio della mia aggressione – sono anch’esse inermi.
Il cliché più abusato nella cinematografia e nella letteratura mi si presenta davanti in tutta la sua sfolgorante e grigia mediocrità.
 
La mia vita.
 
Vedo, in una colorata carrellata di immagini, i miei genitori, i miei giocattoli, i miei primi amici, il primo riconoscimento ottenuto alla gara di fotografia alle scuole medie e poi lentamente i colori sbiadiscono così come la mia esistenza davanti agli occhi del mondo.
L’infanzia lascia il posto all’adolescenza.
Un’adolescenza in cui mi sono trasformato in un’immagine sfocata, sempre relegata in secondo piano, se non addirittura sullo sfondo.
Le immagini ingialliscono, perdendo i contorni e i dettagli.
E poi ecco sopraggiungere i ricordi degli ultimi mesi.
Il sorriso di Allison, l’indifferenza di Lydia, la sbadataggine di Stiles e Scott e poi veloci a seguire tutte le comparse che avevano preso parte a quella mia agognata ricerca di vendetta.
Le immagini volgono al rosso, al sangue che avevo versato.
So che quelle azioni mi hanno condotto direttamente alla situazione attuale, ma non riesco a osservarle se non con soddisfazione e conforto.
 
La pellicola è giunta a termine o forse sarebbe meglio dire – riconoscendo i giusti meriti alla tecnologia digitale – che la mia scheda di memoria è piena.
Forse c’è spazio solo per un’ultima fotografia e allora facciamo in modo che sia memorabile, che sia da premio Pulitzer.
Senza filtri, vera.
 
Chiara e semplice luce lunare a riempire di mille riflessi la lenta corsa dell’acqua del piccolo fiume.
Stacco dalla zona illuminata, buio tutto attorno.
Un’ombra ritta e immobile a pochi passi di distanza mi volge le spalle guardando chissà dove: il mio assassino.
Un corpo che galleggia senza vita.
   
 
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