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Autore: _Akimi    10/10/2016    2 recensioni
[Aomine x Kise] - 1996, New York, Bronx.
"Adorava il suo modo di palleggiare, come riusciva a far scomparire la palla tra le proprie mani e come, di consuetudine, finiva con lo sfidare le leggi della fisica fluttuando verso il tabellone per poter schiacciare.
E Daiki era molte altre cose: Ryouta era rimasto ammaliato dal suo carisma, dalla determinazione che lo portava ad essere un ragazzo forte nonostante le avversità, e Kise non poteva essere arrabbiato con lui, sebbene la sua caparbietà li avesse portati ad una situazione spiacevole."
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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{1996, New York – Bronx}


Kise soffiò un paio di volte sul suo caffé, con la mano sinistra era intento a messaggiare sul suo nuovo cellulare e l'unico suono che riecheggiava nella sua mente, oltre il premere dei tasti, era il palleggiare di Aomine che si allenava nel campetto pubblico.
Il biondo rimaneva seduto su una delle panchine in vernice verde, alle spalle una lunga fila di mattoni rossi formava un muro che, come molti altri, era già stato imbrattato di graffiti e frasi poco eleganti.
In quell'ambiente non era una novità sentirsi osservato; Ryouta aveva scoperto tristemente che ogni strada di New York aveva qualcosa da raccontare: nascondeva segreti in quelle scritte colorate sui muri, dietro alle recinzioni dei campi da basket o nelle biciclette abbandonate dai bambini per entrare in qualche negozio.
Aveva sentito voci, a riguardo del Bronx, ma non aveva dato importanza a quella parte di città sino a quando – più per caso che per curiosità – si era ritrovato a girovagare in qualche vicolo dall'aspetto poco rassicurante.
Aveva sentito voci, sì, pettegolezzi e cattiverie: i suoi compagni di college gli avevano raccontato che si trovava di tutto, nel Bronx, perchè quel posto era come un piccolo inferno a New York e molti studenti non consideravano un caso l'alta percentuale di afroamericani in quella zona.
Kise li aveva spesso ascoltati, ma i loro discorsi non lo avevano scosso mai più di tanto: conosceva persone di tutte le etnie e non considerava un ispanico, un italiano o un irlandese una persona da allontanare per precauzione; potevano essere giovani come lui, lavoratori, studenti, e anche se il loro tenore di vita spesso era differente dal suo, non si sentiva giustificato dal trattarli come esseri inferiori.
Aomine glielo aveva fatto capire in poco tempo; le strade di New York avevano molto da raccontare, ma nella via che portava al campo da basket – che era la stessa non molto lontana dall'appartamento di Daiki – Kise aveva trovato tutto ciò che nessun attico di lusso potesse donargli.
La vita della città in cui era nato risiedeva tutta lì, nel sorriso semplice dei bambini che uscivano dai negozi con delle caramelle in mano, dei padri che ritornavano a casa con i panni logori per il lavoro e di giovani costrette a fare quello che le ragazze di Upper East Side vedevano casualmente solo nei film.
La Fifth Avenue era un paradiso, se paragonata ad un qualsiasi vicolo del quartiere, eppure gradualmente Ryouta aveva imparato a riconoscere più tag dei writer di strada che le firme di abiti di alta moda mondiale.
Non si era allontanato dal suo usuale stile di vita, questo doveva pur ammetterlo, ma i pomeriggi trascorsi in compagnia di Aomine erano divenuti più frequenti ed era quasi un rito, per loro, incontrarsi al solito parco semplicemente per parlare.
La maggior parte delle ore passavano in fretta, Daiki giocava, Ryouta lo osservava muoversi agilmente verso il canestro e poi succedeva che tentava anche lui, sebbene avesse smesso di praticare sport già da un paio di anni.
Il loro rapporto si era, così , sviluppato velocemente, una mattina Kise offriva una colazione degna di un Re a Aomine e una sera era Aomine a regalare un nuovo ricordo al biondo; quest'ultimo imparava, viveva piccoli frammenti della vita dell'altro e nonostante si fosse reso conto di quanto fosse dura lì, non aveva mai provato compassione per Daiki.
Aomine aveva molti difetti: era testardo, impulsivo e orgoglioso, ma Ryouta al loro primo incontro lesse una determinazione nel suo sguardo che mai prima di allora aveva trovato in qualcuno; Aomine era rude, non si riservava dal dedicargli qualche critica di troppo, ma Kise si limitava a ridere al suo eccessivo cinismo e ribatteva con piccolo sorrisi a cui l'altro era del tutto vulnerabile.

«Hai finito di scrivere con quella roba?»
Daiki rubò il caffé ancora caldo del compagno e lo vide poco dopo alzare lo sguardo spaesato, non ancora completamente consapevole di non avere più tra le mani la propria bevanda.
Aomine era di fronte a lui, la canotta stropicciata aderiva al suo corpo e le gambe erano fasciate da un paio di pantaloncini grigi che lo coprivano sino alle ginocchia.
Il suo respiro pareva affannoso, la fronte imperlata di sudore si corrucciò non appena bevve un sorso di caffè, stringendo le dita attorno al logo Starbucks con poco più sotto il nome di Kise scritto in nero.
«Quanto paghi per questa merda?»
Daiki accennò un sorriso sarcastico e Kise si limitò a sbuffare, allungando la mano per riprendere il bicchiere accartocciato; ormai conosceva bene Aomine e quest'ultimo aveva l'abitudine di criticare qualsiasi cosa gli ricordasse la bella vita dei bianchi newyorkesi.
Kise non era superficiale, ma presentarsi in un quartiere come quello con abiti firmati e un cellulare da chissà quanti dollari era un comportamento che l'altro non condivideva pienamente, oltre a trovarlo sconsiderato.
Il tasso di criminalità negli Stati Uniti era di per sé piuttosto alto, persino Daiki ne aveva fatte di sciocchezze – anche se non aveva mai detto nulla al biondo – e Ryouta sembrava la vittima perfetta da cui ottenere qualcosa per tirare avanti.
«Per prima cosa, linguaggio, Aomine Daiki.» Iniziò a parlare pacatamente Kise, nascondendo un sorriso beffardo dietro alla bevanda ancora fumante. «E poi non costa così tanto ed è buono.»
Avvicinò di nuovo il bicchiere alle labbra, sorseggiando il caffé a piccoli sorsi; era abituato a non rinunciare mai alla sua colazione, che fosse fuori casa o insieme alla sua famiglia, e Starbucks era un buon rimpiazzo quando non poteva svegliarsi con il profumo di biscotti preparati da sua sorella.
«Comunque, ti ho comprato una ciambella.»
Kise abbassò lo sguardo verso la piccola tracolla che si portava appresso, frugò per brevi attimi dentro di essa per poi porgere un pacchetto marrone all'altro ragazzo; Aomine non chiedeva mai nulla, ma sapeva che Ryouta non avrebbe smesso di comprare qualcosa anche per lui.
Il biondo aveva la strana abitudine di non ascoltare mai i suggerimenti altrui, Daiki gli aveva ripetutamente detto – più per orgoglio che per gentilezza – che non doveva sentirsi in dovere di offrirgli qualche dolce ogni mattina, ma Kise faceva sempre di testa sua e non rinunciava mai ad augurargli un buon giorno a modo suo.
«Al momento preferirei solo bere qualcosa di freddo, mangiala tu.»
Kise posò il suo sguardo su di lui, lo osservò asciugarsi il viso con un lembo della propria maglia e i suoi occhi non poterono che ricadere sulle linee composte dei suoi addominali, messe in ulteriore risalto dalla tonalità bronzea della sua carnagione.
«Lo sai che non posso, mia madre controlla tutto quello che mangio.»
Questa volta fu Aomine ad alzare il capo, per pochi attimi non incontrò gli occhi del biondo poiché quest'ultimo abbassò velocemente la testa, fingendo di cercare qualche cosa di importante nella propria borsa.
Daiki non era così sciocco da credere a quei comportamenti, aveva spesso notato il lieve rossore sulla pelle diafana di Kise, l'ingenuo modo a lui familiare per nascondere l'imbarazzo o semplicemente per osservare con la coda dell'occhio Aomine.
Erano passati un paio di mesi dalla prima volta in cui Daiki lo aveva effettivamente scoperto, era avvenuto così in fretta che Ryouta non aveva avuto neppure il tempo di distogliere lo sguardo da lui: Aomine ricordava ancora le guance completamente imporporate dell'altro, il nervosismo che lo portava a mordersi il labbro e la lunga curva delle sue ciglia che nascondeva un paio di iridi imbarazzate.
«Un giorno dovrai proprio spiegarmela questa cazzata.»
Kise ascoltò le parole di Aomine senza darci particolare peso; trovava inutile raccontare delle strambe manie della sua famiglia ad un ragazzo che viveva in un contesto completamente diverso dal suo.
In parte lo invidiava, sapeva che la vita di Daiki non fosse semplice come la sua, ma invidiava la libertà che quel ragazzo emanava in ogni suo gesto, i veri valori che la sua famiglia gli aveva insegnato e persino il lato più maleducato di lui.
Era cresciuto in una realtà difficile mentre Kise trovava i più grandi problemi anche nelle cose più piccole, problemi che Daiki considerava semplici sciocchezze.
«Non c'è nulla da spiegare, mia madre ha trovato un'agenzia che mi fa fare un paio di servizi fotografici, sai, qualche rivista locale, nulla di importante.»
Nel parlare, Ryouta strinse tra le dita il ciondolo che pendeva dalla sua tracolla, accennando un breve sorriso per non arrivare al punto di lamentarsi della sua vita davanti ad Aomine; si era ripromesso di non farlo più da quando aveva litigato con lui in una situazione simile a quella.
All'inizio aveva trovato la reazione di Daiki esagerata, ma una volta messa da parte la rabbia, Kise aveva imparato a comprendere l'altro e si era sentito in colpa raccontando delle sue vicende con così tanta leggerezza.
Si era sentito un vero ipocrita e così aveva cominciato a domandare, chiedeva se sua madre stesse bene, se suo padre avesse ancora problemi con il proprio lavoro e se frequentava ancora il solito gruppo di amici con cui giocava spesso a basket.
Erano piccole cose, ma Aomine segretamente le apprezzava e Kise voleva divenire una persona fidata per lui; non era mai stato bravo ad ascoltare gli altri, con Daiki era persino più difficile perché non si apriva facilmente nel raccontare di sé, ma Ryouta aveva imparato a scoprire la sua persona un passo alla volta.
«Non dovresti farlo se non ti va. Puoi smettere quando vuoi.»
Aomine rispose con tono semplice, si affiancò a lui abbandonandosi sulla panchina e senza particolare vergogna, allungò il braccio sullo schienale, incurante se fossero pochi i centimetri a dividerlo dalla nuca di Kise.
«Per te è solo una questione di soldi, non tutto si fa perchè si guadagna bene.»
Daiki non aveva mai chiesto direttamente quanto guadagnasse per fare un paio di stupide foto, ma sapeva che valevano alle volte ben più che lunghe ore passate in fabbrica o a pulire il casino che la gente lasciava nelle camere di un qualsiasi hotel della città; Aomine era convinto che la passione e il lavoro non potessero coincidere, almeno non nel suo caso e in quello della sua famiglia.
Non invidiava Kise per la vita che faceva, ma non condivideva assolutamente il suo pensiero; tutto era una questione di soldi: dallo svegliarsi ogni fottuto giorno in un misero appartamento al camminare per le vie del quartiere nella speranza di non beccarsi qualche proiettile nel fianco.
«Stai di nuovo parlando come uno yankee, Kise.»
Aomine si voltò verso di lui, un sorriso provocatorio ad illuminargli il volto alleggeriva il significato di quelle parole; Ryouta non ne faceva neppure più una questione personale, sapeva che Daiki lo avrebbe sempre e comunque visto come il tipico borghese di New York, probabilmente non ai livelli di un fastidioso W.A.S.P., ma non avrebbe negato di averlo pensato durante i loro primi incontri.
«Perché io sono uno yankee, Aominecchi.»
Ryouta lo guardò increspando le labbra; trovava i sorrisi di Daiki affascinanti quanto rari, il ragazzo non era solito mostrare molte emozioni oltre il suo essere indifferente o spavaldo, eppure Kise riusciva a vedere oltre al suo orgoglio.
Aomine sapeva essere gentile se si impegnava, mostrava una dedizione che Ryouta aveva trovato in ben poche persone, eppure pareva quasi vergognarsene, temendo di sembrare troppo vulnerabile davanti ai suoi amici o parenti.
«Allora ci sono solo tre yankee che possono essere una piccola eccezione.»
Iniziò a parlare Daiki, attirando l'attenzione di Kise che, davanti a quell'improvvisa affermazione, non poté che osservare l'altro con eccessiva curiosità.
«Paul Arizin...»
Continuò, notando come l'espressione di Ryouta cambiò per nulla stupito nel sentire Aomine citare niente altro che un giocatore professionista dell'NBA.
«Bill Clinton
Questa volta, invece, Kise non trattenne una piccola risata divertita; non immaginava Daiki come una persona interessata alla politica, anzi, probabilmente era uno di quei cittadini che si scordava accidentalmente di votare oppure che non ricordava neanche il nome di qualche presidente del passato.
«Ovviamente non sto dicendo che siano i migliori.»
Si corresse poco dopo, destreggiandosi tra l'essere divertito e serio; non ne faceva propriamente una questione di etnia, il colore della pelle non lo ostacolava, piuttosto, era la società che vedeva Aomine e molti altri in modo differente.
«Voglio dire,» Ricominciò poco dopo, schiarendosi leggermente la voce. «Arizin non è minimamente paragonabile a Michael Jordan e sono sicuro che tra qualche anno voteremo per un presidente afroamericano.»
La fermezza e la serietà nelle sue parole fecero scoppiare Kise in una fragorosa ed eccessiva risata; credeva ben poco a quello che aveva appena sentito dall'altro e trovava ancora più buffo che Aomine ci credesse con così tanta convinzione.
«Davvero divertente. Sai che ho ragione.»
Ryouta incontrò il suo sguardo e si trattenne dal ridere di nuovo, nascondendo un breve sorriso dietro il palmo della mano; non voleva infrangere i piccoli, grandi sogni di Aomine, anzi, la considerava una buona speranza e non era sua intenzione offenderlo con il suo atteggiamento.
«Non è assolutamente vero. Larry Bird, il duo Stockton-Malone
Kise si sforzò di sorridere dolcemente, anche se dentro di sé già stava assaporando il gusto della vittoria; sapeva quanto fosse importante il basket per Daiki, ma anche lui non aveva perso le occasioni per guardare qualche partita dell'NBA o di altri match internazionali.
«Vorresti fregarmi citando il Dream Team? Guarda che la metà dei giocatori sono-»
«Johnson, Barkley, Drexler. Guarda che li ho visti anche io giocare.»
Ryouta si alzò lentamente dalla panchina, si allontanò per pochi attimi per poter buttare il caffé ormai finito nei cestino più vicino e infine ritornò da lui, allungando una mano per convincerlo ad alzarsi.
«Giochiamo uno contro uno, sempre se non sono troppo bianco per i tuoi gusti.»
Un piccolo sorriso di sfida illuminò il viso del biondo; sapeva di avere un vantaggio considerevole, Aomine era certamente più bravo di lui a tirare a canestro, ma si era allenato fino a pochi minuti prima e Kise non si sarebbe fatto scrupoli a sfruttare la sua stanchezza per vincere.

Così sentì le sue dita intrecciarsi con le proprie e il contatto tra le loro mani lo portò solamente a nascondere il rossore del suo volto, parlando della prima cosa che gli balzò per la mente.
«Non mi hai detto chi è il terzo.»
«Come dici?»
Bisbigliò Aomine, fingendo di non aver compreso le parole del biondo; aveva imparato a conoscerlo bene, eppure le sue espressioni non smettevano mai di stupirlo.
«Non mi hai detto chi è la terza eccezione.»
Ripeté Ryouta borbottando; riconosceva il sorriso divertito che Daiki gli stava dedicando e non gli piaceva – almeno così sosteneva – il modo in cui il cestista riusciva ogni volta a prendersi gioco di lui.
Dava spesso colpa alla propria ingenuità, forse era sin troppo buono con Aomine, ma era pur sempre sincero ed era più semplice accettare la verità piuttosto che mentire per orgoglio.
«Non è importante, andiamo a giocare.»
Con quelle parole Daiki si voltò verso il campo, riprese il pallone tra le mani e attese che Ryouta lo raggiungesse.
 
* * *

 
«Aominecchi.»
Daiki si voltò lentamente verso Kise e osservò l'espressione dipinta sul suo volto: le gote leggermente imporporate, un abbozzo di sorriso sulle labbra e gli occhi che si muovevano da una parte all'altra, indecisi se incontrare le iridi color cobalto dell'altro.
Il suo nervosismo era palpabile, aleggiava tra di loro dal primo momento in cui si erano incontrati quella sera e anche se Aomine aveva cercato di ignorarlo, quest'ultimo gli ritornava alla mente ogni qualvolta sentisse la voce di Kise tremare.
«Sei impegnato domani sera?»
Finalmente il biondo parlò, si scostò un ciuffo di capelli dietro all'orecchio, lasciando intravedere il piccolo anello che portava all'orecchio; il metallo scintillò sotto la luce del lampione e Aomine si ritrovò, senza neppure rendersene conto, di nuovo a scrutare con attenzione il viso arrossato del compagno.
«Abbiamo una partita con dei ragazzi di Harlem, è un cinque contro cinque.»
Le parole di Aomine riecheggiarono nel silenzio di quell'anonima serata e Kise rispose con un sorriso, cercando di celare il più possibile la vena di delusione che stava avendo la meglio su di lui.
Sapeva che Daiki aveva ben altro da fare, doveva preoccuparsi del lavoro part-time come corriere in una piccola azienda di Manhattan e non voleva obbligarlo ad occupare tutto il suo tempo libero rinunciando alla sua solita compagnia.
Aveva pensato più di una volta di unirsi al resto del gruppo, in fondo gli amici di Aomine non dovevano essere cattive persone, ma qualcosa lo aveva sempre fermato e così si ritrovava a rimuginare in cerca di una soluzione migliore per entrambi.
«Perché? Volevi fare qualcosa assieme?»
Kise trattenne una breve risata nervosa non appena sentì la sua domanda; era inutile sentirsi agitato davanti a Daiki – continuava a ripeterselo nella speranza di calmarsi, ma non era così facile mentire a sé stesso.
Non avevano mai passato altro tempo assieme al di fuori del campetto di basket, il loro punto di incontro era sempre stato quello e una parte di Ryouta temeva che cambiare quell'abitudine avrebbe portato Aomine a sospettare di lui.
«Pensavo solamente che potremmo andare al cinema.» Iniziò a parlare lentamente, sentendo il proprio viso avvampare sempre di più.
Era solo uno stupido film – Pensò per giustificarsi da quello che aveva appena detto; Daiki non sembrava esattamente il genere di persona interessata a vedere una pellicola in compagnia, ma Kise lo desiderava segretamente già da un paio di settimane.
«Ecco, è che...» Si morse il labbro inferiore prima di poter continuare la frase; «ho comprato due biglietti, sono stato un idiota perché avrei dovuto prima domandartelo.»
Aomine lo vide stringere le spalle per poi accennare un sorriso gentile; si comportava sempre così quando preso dall'imbarazzo, oramai Daiki aveva imparato a riconoscere quei segnali e sebbene non comprendesse il suo senso di vergogna, trovava i suoi gesti involontariamente adorabili.
«E sono per domani? Penso di poter saltare una partita, anche se perderanno sicuramente senza di me.»
Kise non mise in dubbio le sue parole; lo aveva visto giocare a basket moltissime volte e anche come suo saltuario avversario aveva compreso che le sue abilità andavano ben oltre ad una grande passione.
Aomine viveva per la pallacanestro, si destreggiava sul campo in modo del tutto naturale: schiacciava, palleggiava e correva; Kise era certo che con le giuste conoscenze, il ragazzo avrebbe potuto essere molto di più che un semplice giocatore di quartiere.
«No, assolutamente. Non devi saltare la partita. Posso – posso chiedere a qualche mio compagno di corso.»
Ryouta non poteva credere a ciò che Aomine gli avesse appena detto; non gli aveva neppure domandato che film fosse e aveva subito proposto una soluzione per poter passare la serata assieme.
Era un gesto insignificante per Daiki, in fondo poteva giocare altre partite durante la settimana, ma per Kise la possibilità di passare un giorno insieme valeva ben più che la compagnia di un qualche suo viziato amico.
«Allora mettiamola così, sono disposto a venire, l'importante è che non sia Romeo e Juliet.»
Aomine si allungò sulla panchina, incurante se più di una volta il suo ginocchio sfiorò quello di Kise; era divenuta un'abitudine, quella di stare così vicino all'altro, non che ci fosse un reale motivo dietro a quei gesti, semplicemente capitava e Ryouta non si era mai lamentato a riguardo.
«Hey, guarda che non c'è nulla di male a vedere Romeo e Giulietta, quel Dicaprio sembra un bravo attore.»
Aomine si limitò a scuotere il capo dubbioso, non era mai stato una gran fanatico di film romantici, era un caso che ne avesse visti un paio in TV, ma non c'era nulla che lo ispirava abbastanza di quel nuovo titolo.
«E' solo agli inizi, secondo me non prendere mai un Oscar in vita sua.»
Daiki doveva pur ammettere di invidiarlo, era giovane ed era riuscito già ad acquisire fama, aspetto che avrebbe voluto provare anche nella sua, di vita.
«Anche se non vincerà un Oscar non significa che non è bravo. Devi pensare lo stesso del protagonista del film che vedremo.»
Kise parlava e nel mentre iniziò a frugare nella sua tracolla alla ricerca dei due biglietti che aveva già comprato; era sicuro che Aomine non ne sarebbe stato deluso, non aveva potuto pensare ad altra persona se non lui e Ryouta era certo di conoscere Daiki ormai sin troppo bene.
«Sarà un altro spocchioso come-»
Aomine socchiuse gli occhi non appena il biondo avvicinò i biglietti al suo viso, premendoli contro la punta del suo naso; solo dopo pochi attimi riuscì ad afferrare il suo polso, allontanandolo infine da sé per poter leggere il titolo del film.
«Spocchioso a chi?»
Daiki rimase accecato dal sorriso soddisfatto che si dipinse sul viso di Kise; non voleva ammetterlo, ma il biondo aveva decisamente vinto e quella fu la prima occasione in cui fu costretto ad accettare una sconfitta contro di lui.
Quasi non ci credeva, non era realmente interessato al cinema, anzi, con i costi per entrare erano passati ormai anni da quando non ne aveva visitato uno, ma Ryouta lo aveva stupito sia con la proposta che con la scelta del film.
«Rimangio quello che ho detto solo perché è Space Jam e Jordan va oltre lo straordinario.»
Kise roteò gli occhi per mostrarsi come solito annoiato da quelle parole, era ormai ovvio per lui quanto Aomine idolatrasse il numero 23 dei Chicago Bulls e in parte condivideva la sua ammirazione, seppur non seguisse la pallacanestro con la stessa devozione di Daiki.

«Comunque, non li avrai comprati solo per convincermi a venire?»
L'improvvisa domanda portò Ryouta a balzare involontariamente sulla panchina; cercò poco dopo di ricomporsi, ma sentiva ancora il suo viso avvampare e sapere di essere osservato da Aomine non era di nessun aiuto.
«Mia sorella mi ha consigliato di chiedertelo, ha detto che sicuramente ti sarebbe piaciuto.»
Kise bisbigliò tra sé e sé, senza neppure rendersi conto di essere stato più sincero di quanto volesse apparire; aveva appena ammesso di aver parlato di lui alla sua famiglia ed era troppo tardi per negare.
L'unica possibilità che gli rimaneva era di ovviare con una qualche scusa, assicurandosi di non sembrare troppo sospetto ai suoi occhi.
«Non – non che lei possa sapere molto. Le hanno detto che è un bel film e visto che ti piace il basket ho pensato che saresti venuto volentieri, tutto qui.»
Ed è l'unico modo per invitarti in un posto che non sia sempre questo campo – Avrebbe volentieri aggiunto, ma quelle parole rimasero inespresse, un seguito di altre preoccupazioni che lo avevano cominciato ad assalire nelle ultime settimane.
«Allora, grazie.»
Aomine bisbigliò quel ringraziamento con non poco imbarazzo, non era abituato a ricevere piccoli regali di ogni genere e in fondo – lo sapeva bene- Kise non era in debito con lui, motivo che lo spingeva ad essere semplicemente gentile nei suoi confronti.
Eppure Daiki non comprendeva, per Ryouta un paio di biglietti non erano nulla, ma non credeva di meritarsi tali attenzioni da parte sua.
«Passo a casa tua? O forse sarebbe meglio-»«Mi puoi dare il tuo indirizzo, non credo che-»
Entrambi parlarono nello stesso momento, lasciando che le parole si accavallassero le une con le altre; sapevano che si trattava di un'informazione personale, forse non erano ancora arrivati ad essere veri e propri amici e fallirono nel sembrare i più spontanei possibili.
«Il cinema è a metà strada, no? Potrei venire io a Manhattan, è più sicuro.»
Aomine si alzò dalla panchina senza guardarlo in viso, non temeva un suo particolare giudizio, ma quella era la verità e anche Kise doveva essere consapevole dei rischi nel viaggiare così spesso sino al suo quartiere.
Non aveva detto nulla a riguardo sino a quel momento, ma Daiki avrebbe volentieri evitato di vedere Ryouta così frequentemente, non perché si fosse stancato di lui, ma solo poiché non voleva che gli succedesse qualcosa di spiacevole.
«Sicuro? Per me? Non sono mica una-»
«Non riguarda essere una ragazza, Kise.» Iniziò a parlare Daiki, voltandosi verso di lui per dedicargli uno sguardo di rimprovero. «Non credo che tu abbia idea di quanti scontri con le armi da fuoco ci siano qui.»
Non voleva entrare nel dettaglio, era più comodo per lui parlare in modo vago; non aveva intenzione di raccontare di qualche suo piccolo furto passato, dei momenti in cui era ritornato a casa con un livido sul volto o dei giorni quando, con un po' di fortuna, era scampato ai soliti ragazzi che cercavano qualcuno con cui iniziare una rissa facile.
«Ci sono armi ovunque, Daiki.»
Ryouta lo osservò con un'espressione confusa sul volto; non capiva sempre il modo in cui si comportava in sua compagnia, tendeva a non sfidare mai i luoghi comuni e forse essere visto come una persona pericolosa lo interessava di più.
«E non bisogna essere afroamericani per saper maneggiare una pistola o per combinare qualche casino.»
Non era una battuta, la sua; Kise trovava la povertà di quel quartiere ingiusta, sapeva che alcune persone lavoravano duramente per poter sopravvivere e non sempre era necessario ricorrere a comportamenti aggressivi per poter far parte della società.
«Come vuoi, presentati qui con i tuoi abiti firmati e con il nuovo cellulare, non devo essere la tua guardia del corpo.»
Aomine si voltò una volta per tutte, raggiunse il pallone che aveva abbandonato ai confini del campo e iniziò a proseguire verso la via che lo riportava a casa, ignorando quanto il cielo fosse ormai diventato scuro e come i primi lampioni illuminassero le strade mal asfaltate.

«Non sono un bambino, posso tornarmene a casa da solo. Senza il tuo aiuto
Kise si alzò dalla panchina gridando quanto bastasse per farsi udire dall'altro; non temeva per la propria sicurezza, non gli importava se fosse ormai sera e per orgoglio non avrebbe chiesto a Aomine di accompagnarlo, anche se non voleva andarsene in quel modo.
«Va bene, Blondie, nessuno ti ferma. La strada per la metropolitana sai qual è.»
Daiki rispose senza voltarsi più indietro; iniziò a palleggiare sul marciapiede per evitare di udire ancora una volta la voce di Kise, ma lo sapeva, era inevitabile sentirlo di nuovo rispondergli perché entrambi erano naturalmente testardi e desideravano avere l'ultima parola.
Era uno sciocco metodo per dichiarare di aver vinto, di saper zittire l'altro, ma giunse solamente un lungo silenzio e Aomine non poté fare altro che girarsi d'istinto.
Sulla strada nessuna ombra proiettata, la panchina era vuota e riecheggiava tra i palazzi il suono di macchine sull'asfalto e di voci assottigliate dalla lontananza; Kise era andato via, questa volta per davvero, e Daiki rimase immobile per lunghi attimi, osservando il punto dove poco prima i due si erano parlati.

* * *


Kise appoggiò una mano contro la rete del campo, attorcigliò le dita attorno i fili di ferro e rimase in quella posizione per lunghi minuti; era consapevole che gli altri lo avevano visto arrivare, ma preferì rimanere in silenzio, senza attirare in nessun modo l'attenzione.
Muoveva lentamente gli occhi da una parte all'altra, osservava i loro movimenti quando saltavano per segnare a canestro, il modo in cui si spingevano per rubarsi la palla o semplicemente la loro costante posizione d'attacco, come se in gioco ci fosse molto più di un semplice match.
Un ragazzo si fece strada tra i suoi avversari colpendoli ai fianchi con numerose gomitate, questi ultimi non si fermavano, anzi, combattevano il più possibile per fermare l'avanzata dell'altra squadra.
Il loro era un gioco sporco, erano incuranti delle regole della pallacanestro e persino della sicurezza dei loro compagni; non si preoccupavano dei lividi violacei sulla loro carnagione scura né della fatica che iniziava a gravare sui loro fisici.
Erano abituati allo sforzo estremo e nulla poteva superare il piacere di poter stare assieme, di dimenticare la situazione in cui erano costretti a vivere sin da quando erano nati.
Ryouta li osservava come una persona esterna, era uno spettatore affascinato e al contempo intimorito da ciò che accadeva abitualmente in quel campo; non si sentiva parte di loro, eppure non poteva fare altro che guardarli e sospirare come se stesse percependo le loro emozioni e la loro adrenalina.
Ripensò alle brevi partite con Aomine, ai loro diversi stili di gioco e a come, anche dopo settimane, l'altro non smetteva di prenderlo in giro poiché si soffermava troppo sul dover seguire le regole; solo dopo un lungo periodo aveva iniziato a sciogliersi, seguiva i movimenti di Daiki per farli diventare suoi, ma lo sapeva, non avrebbe mai avuto il suo stesso talento.
Aomine Daiki era nato per il basketball, Kise lo aveva compreso sin da subito e ammirava di lui la passione che dedicava in ogni singola partita, anche se era solo il biondo ad assistere alle sue giocate.
Adorava il suo modo di palleggiare, come riusciva a far scomparire la palla tra le proprie mani e come, di consuetudine, finiva con lo sfidare le leggi della fisica fluttuando verso il tabellone per poter schiacciare.
E Daiki era molte altre cose: Ryouta era rimasto ammaliato dal suo carisma, dalla determinazione che lo portava ad essere un ragazzo forte nonostante le avversità, e Kise non poteva essere arrabbiato con lui, sebbene la sua caparbietà li avesse portati ad una situazione spiacevole.

«Ohi, biondino, cerchi qualcuno?»
Una voce interruppe i suoi pensieri e solo in quel momento Kise si accorse di avere di fronte a sé un ragazzo che, ancora affaticato dalla partita, ora lo osservava con uno sguardo incuriosito.
Ryouta alzò il capo per osservarlo meglio: era più alto di lui, il portamento fiero scoraggiava non poco il biondo, ma quest'ultimo si sforzò di non lasciarsi influenzare dalla sua apparente ferocia; aveva imparato in poco tempo che i pregiudizi potevano essere letali e neppure un'espressione cupa sarebbe servita ad allontanarlo.
«Ciao, scusa se vi sto disturbando.»
Kise iniziò a parlare cercando di mostrarsi più cortese possibile; era cosciente che mentire non sarebbe servito a guadagnare la sua simpatia, ma non era interessato a fare una nuova amicizia, semplicemente era in cerca di informazioni.
«Non c'è modo che un ragazzo come te potrebbe disturbarci.»
Ryouta osservò un altro giocatore avvicinarsi a lui, appoggiò il braccio contro la rete e sospirò così vicino al viso del biondo che quest'ultimo poté sentire il suo respiro contro la propria pelle.
Non voleva mostrarsi infastidito dal suo improvviso giungere, ma istintivamente si allontanò di qualche passo, sistemandosi nervosamente un ciuffo di capelli dietro all'orecchio.
«Allora, possiamo aiutarti? Hai perso la strada verso casa?»
I due si scambiarono una breve occhiata e risero, ignorando l'espressione infastidita sul volto di Kise; quest'ultimo cominciò ad odiare il loro modo di comportarsi, sapeva che lo stavano trattando con sufficienza e non poteva accettare senza preoccupazione di essere schernito così.
«So dove sono e sono dove voglio essere.» Iniziò a parlare, infilandosi le mani in tasca con altezzosità; volevano scoprire il peggio del suo carattere e Ryouta non si sarebbe trattenuto dal mostrarglielo.
«Sapete dov'è Aomine Daiki?»
Domandò dedicando un'occhiata all'unico ragazzo che era rimasto al centro del campo, un orecchio evidentemente teso verso la loro conversazione e le braccia impegnate a prepararsi per un altro tiro a canestro.
«Aomine. Sì, lo conosciamo.» Uno di loro parlò con un sguardo improvvisamente interessato dalle parole del biondo; erano entrambi straniti nel sapere che un apparente gentiluomo conoscesse un tipo come Daiki e non si preoccuparono di porre domande scomode al nuovo arrivato.
«Ti deve dei soldi, magari?»
Quella domanda lasciò Kise senza parole; dal loro modo di parlare sembrava una questione piuttosto abituale, forse Aomine chiedeva prestiti frequentemente ed era normale che lui non ne sapesse nulla.
«No, io sono un suo-»
Conoscente, amico? - Ryouta non sapeva quali fossero le giuste parole per definire il loro rapporto; non sapeva poi molto della sua vita, parlavano la maggior parte delle volte di semplice sciocchezze, non conosceva di persona nessuno dei suoi amici e mai aveva incontrato qualche membro della sua famiglia.

«Tu sei Kise, vero?»
Non appena sentì chiamare il suo nome, Ryouta balzò sul posto, accennando con la testa per rispondere a quella domanda.
Non immaginava che Aomine avesse parlato di lui a qualcuno, eppure, dopo pochi attimi di silenzio, l'ultimo ragazzo nel campo si avvicinò a loro e lo scrutò per essere sicuro che si trattasse della stessa persona di cui il suo amico aveva parlato.
Anche Kise lo osservò: portava un taglio di capelli sbarazzino, ciuffi rossi andavano a mischiarsi casualmente con altri più scuri e la forma delle sopracciglia lo rendeva più temibile di quanto in realtà fosse.
«Ora si capiscono tante cose.»
Ryouta lo guardò con un'espressione confusa sul volto, l'altro parve imbarazzato nell'esclamare quelle parole, ma nonostante la curiosità di Kise fosse palese, il ragazzo non lo accontentò in nessun modo, cambiando argomento solo dopo pochi attimi di silenzio pregno di questioni irrisolte.
«Comunque Aomine ha rimandato la partita che dovevamo giocare oggi, quindi presumo sia a casa o al lavoro.»
Kise ascoltò con attenzione e si ricordò del match di cui gli aveva parlato Daiki il giorno precedente; trovava piuttosto strano che il ragazzo avesse rinunciato a giocare e, al contempo, non aveva avuto neppure modo di contattarlo per sapere se sarebbe andato assieme a lui al cinema.
La sera precedente non si era conclusa nel migliore dei modi, Kise se n'era andato poco dopo il loro breve litigio e ora si sentiva uno sciocco poiché, per orgoglio, aveva deciso di non ritornare indietro per salutarlo.
Aveva sperato sino all'ultimo che Aomine fosse dietro di sé, che lo avesse rincorso per fermarlo, ma anche Daiki aveva abbandonato la strada per seguire la propria testardaggine.
«Potresti darmi il suo indirizzo?»
Kise lo domandò senza riflettere; sapeva che presentarsi a casa di Aomine non era la migliore delle soluzioni, ma non aveva altre idee per la testa e non aveva intenzione di arrendersi senza tentare di riavvicinarsi a lui.
«Ti diremmo anche dove abita,ma...» «Non ti conosciamo, amico. Non prenderla sul personale, ma Daiki si incazzerebbe con noi.»
Il gruppo la pensava alla stesso modo, forse per esperienze passate, e solo il ragazzo dai capelli rossi pareva ancora dubbioso su che cosa potessero fare per aiutarlo; era combattuto, Kise lo comprendeva dal suo sguardo, e quest'ultimo sperò che insistere sarebbe bastato per convincerlo.
«Posso capire che non siate molto convinti, ma Aomine non potrebbe arrabbiarsi. Dovevate giocare con dei ragazzi di Harlem, vero?»
Accennò uno dei suoi miglior sorrisi; era bravo ad adulare le persone, lo faceva spesso se necessario e aveva imparato a non sentirsi particolarmente in colpa.
Non era sua, la responsabilità, se gli altri finivano con l'essere influenzati sin troppo dai suoi modi gentili o dal suo aspetto gradevole; sfruttava ogni arma a disposizione nei momenti giusti e questa era una di quelle occasioni.
«Non me ne avrebbe parlato se non fossimo amici, quindi fidatevi, potete dirmi dove abita.»
Kise si avvicinò di nuovo alla rete e appoggiò le mani poco distanti dalle braccia degli altri ragazzi; le sue iridi dorate ne incontrarono ora di scarlatte e si sforzò di mantenere quel contatto visivo più a lungo possibile.

«Va bene, dannazione.»
Ryouta accennò un sorriso vittorioso, ma cercò di contenere il suo eccessivo entusiasmo per non destare sospetti; non voleva far trapelare ulteriori informazioni riguardo il rapporto tra lui e Aomine, anche se probabilmente quel ragazzo dai capelli rossi sapeva già più cose del dovuto.
«Ma se quel bastardo mi verrà a dire qualcosa, allora darò la colpa a te. Io non mi prendo nessuna responsabilità.»
Kise diede poca importanza a quella piccola minaccia, ormai aveva già ottenuto ciò che desiderava e non temeva nessuna conseguenza, nonostante una parte di sé era certa che Aomine non gliela avrebbe perdonata così facilmente.
 
* * *


Aomine si alzò pigramente dal suo letto non appena sentì il campanello suonare, abbandonò l'ultima rivista di playboy sotto le coperte e si mise ai piedi le ciabatte, dirigendosi verso la porta di entrata.
Attraversò il piccolo salotto e si fermò solamente per osservare la madre occupata ai fornelli; adorava il buon profumo che proveniva dalla cucina quando si avvicinava l'ora di cena, sua madre e suo padre sapevano anche essere dei pessimi genitori, ma riuscivano a farsi perdonare quando lo viziavano con cibo di ogni sorta.
Forse Aomine era diventato sin troppo dolce con il passare del tempo – questa era la spiegazione che si dava spesso – poiché bastava un piatto in tavola per fargli passare il malumore e anche un abbraccio forzato di sua madre lo faceva ritornare bambino, ricordando quei giorni in cui la sua unica preoccupazione era divertirsi.
A casa Aomine il mondo sembrava semplicemente annullarsi: Daiki si dimenticava di vivere in uno dei peggior quartieri di New York, non ricordava più quante fossero le bollette ancora non pagate e sebbene avesse iniziato a passare più tempo fuori, non dimenticava mai dell'impegno dei suoi genitori per aiutarlo a crescere.
Ormai era un giovane adulto, suo padre glielo ripeteva spesso, ma rimaneva pur sempre il loro unico figlio e stare sotto il tetto di casa propria era una delle poche cose che lo rilassava completamente.
Con loro non serviva mai mentire, nessuna domanda scomoda, solo questioni per assicurarsi che non andasse in cerca di casini; alle volte sua madre insisteva sin troppo, ma Daiki la capiva e perdonava la sua eccessiva curiosità perché comprendeva la sua preoccupazione.

«Papà non aveva detto di avere il turno serale oggi?»
Aomine proseguì trascinando i piedi sul pavimento, odiava doversi allontanare dal proprio letto senza un motivo valido, ma al contempo non voleva infastidire la madre che, come molte altre volte, si preoccupava delle faccende di casa senza disturbare il figlio.
«Sì. Magari è una delle zie, prova a vedere.»
Daiki roteò gli occhi annoiato; odiava qualsiasi parente con cui condivideva un qualsiasi, sciocco legame di sangue, ricordava ancora delle volte in cui le sorelle della madre non smetteva di tempestarlo di domande: chiedevano se avesse intenzione di andare al college, se si fosse finalmente fidanzato o se si fosse deciso ad iscriversi a qualche associazione per iniziare a giocare a basketball ufficialmente.
Aomine evitava sempre le conversazioni con loro, spesso era obbligato a rispondere per cortesia e quello era uno dei tanti motivi per cui odiava festeggiare il Natale o il giorno del Ringraziamento in famiglia.
«Giusto, perché quelle stronze non hanno mai nulla da fare.»
Bisbigliò a bassa voce non appena raggiunse la porta, sospirò profondamente e decise di non aspettare un attimo di più; l'attesa non lo avrebbe aiutato a trattenere la sua eventuale delusione, ma continuò a sperare che si trattasse di un qualche vicino in cerca di qualcosa o di un improbabile fraintendimento.

Aprì la porta lentamente e il suo sguardo rimase immobile davanti a sè; osservò in silenzio la figura sul pianerottolo della palazzina e rimase in silenzio; pensò che l'unica cosa da fare fosse chiudere la porta e lasciare perdere, ma più passavano gli attimi e più il silenzio diventava imbarazzante.
Non poteva credere che Ryouta, quel Ryouta Kise con cui era solito incontrarsi, era ora davanti alla soglia di casa sua.
Come faceva a sapere dove abitava? Perché era qui? - Aomine aveva così tante domande per la testa che si dimenticò persino di non essere l'unico in attesa; anche sua madre era curiosa di sapere chi fosse l'ospite inatteso e vedere il proprio figlio immobile davanti all'entrata non era sufficiente a soddisfare il suo desiderio.
«Grazie al Cielo mi hai aperto tu, non avrei saputo cosa dire se ci fosse stato tuo padre o tua madre.»
Kise si degnò di alzare il capo per poterlo guardare negli occhi, le sue gote erano arrossate come tutte quelle volte in cui cercava vanamente di combattere contro l'imbarazzo e il lieve sorriso formato dalle sue labbra non aiutava Daiki a comprendere la stramba situazione in cui si era ritrovato.
«Tu – che cazzo ci fai a casa mia?»
Aomine si guardò alle spalle per essere certo che sua madre non si fosse già avvicinata per controllarlo, ma anche se la donna non aveva abbandonato la cucina, non si trattenne dal rimproverare il figlio per il linguaggio inappropriato.
«Aomine Daiki, un'altra imprecazione e non ti faccio uscire per una settimana.»
A quelle parole Kise si limitò a nascondere una risata addolcita con il palmo della mano; non si aspettava che Daiki fosse legato a sua madre in quel modo, non che ne fosse infastidito, anzi, era certo che dietro all'apparenza cinica, Aomine fosse un ragazzo particolarmente interessato alla sua famiglia.
«E tu non ridere, non mi hai ancora dato una risposta sensata.»
Ryouta cercò di ricomporsi per poter ritornare alle questioni importanti; era piuttosto chiaro che Daiki non avesse intenzione di uscire, il film era ormai già iniziato da più di venti minuti e raggiungere il cinema dall'appartamento sarebbe stato inutile.
«Non lo so.» Iniziò a parlare il biondo, dedicando a Daiki la classica espressione che rappresentava il suo essere disorientato: le sue labbra formavano sempre una circonferenza perfetta, le sue iridi si ingrandivano per lasciar spazio alla confusione e le sopracciglia si piegavano leggermente all'insù, facendolo sembrare un bambino.
«Intendo dire, volevo solo passare per salutarti, o almeno credo.»
Aomine lo osservò scostarsi un ciuffo di capelli dietro all'orecchio scoprendo il lobo dove indossava il solito, piccolo anello argentato, lo notava spesso quando il biondo era imbarazzato e sebbene fosse in parte arrabbiato con lui, bastavano ben pochi gesti per dimenticarsene.
«Chi ti ha dato il mio indirizzo?»
«Un certo Kagami, penso si chiamasse così.»
Kise strinse le spalle e dedicò di nuovo un sorriso all'altro; voleva evitare che la rabbia di Aomine si riversasse sul suo gruppo di amici, in fondo Ryouta era abbastanza adulto da prendersi le proprie responsabilità e avrebbe volentieri ovviato ad una soluzione migliore.
«Prima che tu possa dire qualcosa a riguardo, ho solo insistito un po' e ha deciso di dirmi dove abiti.»
Daiki rimase in silenzio, avanzò di un passo verso di lui e Kise indietreggiò d'istinto, sgranando gli occhi poiché confuso dall'improvviso atteggiamento da parte dell'altro; non aveva ancora avuto modo di scoprire il lato più aggressivo di lui, non che ci tenesse particolarmente, eppure dalla sua espressione non sembrava intenzionato ad ospitarlo volentieri in casa sua.

«Promettimi che non chiederai mai più di me in giro.»
Aomine lasciò la porta socchiusa alle sue spalle e bisbigliò poco distante dall'altro, incurante della breve distanza che lo divideva dal suo viso; da quella posizione poteva sentire il respiro di Kise infrangersi contro il suo volto, riconosceva il profumo che era solito indossare ai loro incontri e si accorse solo in quel momento di un paio di piccoli nei che seguivano la forma del suo naso.
«Daiki, io-»
«Promettimelo
Aomine incontrò lo sguardo di Kise, osservò il leggero tremolio delle sue iridi e poco dopo si soffermò sulle sue labbra, notando anche queste ultime prese da impercettibili spasmi; era chiaro che avesse delle domande, voleva chiedere il perché di tutta quella riservatezza e il motivo del suo apparire restio.
Pareva quasi non riconoscerlo, non era lo stesso Aomine che aveva incontrato il giorno prima, o forse – cominciò a pensare Kise – non lo aveva mai conosciuto realmente sino a quell'istante.
«Devi dei soldi a qualcuno, Daiki?»
Ryouta parlò con delicatezza, non voleva offenderlo in alcun modo e non desiderava neppure apparire compassionevole; aveva compreso una parte dell'ambiente in cui Aomine era cresciuto, delle sue conoscenze e dei suoi vizi, si era ripromesso di non criticarlo per le sue scelte, anzi, voleva semplicemente aiutarlo.
«Che cosa vorresti insinuare? Non riguarda-»
Aomine non riuscì a finire la frase perché Kise appoggiò una mano contro il suo petto, spingendolo sino a colpire con la nuca la porta di casa; quest'ultima si aprì, ma il biondo fu abbastanza svelto dall'afferrare la maniglia, richiudendola nella speranza che la madre dell'altro non sarebbe giunta subito a controllare.
«Non sto insinuando nulla, smettila di metterti sulla difensiva con me.»
Le parole di Kise riecheggiarono un paio di volte tra le mura dell'edificio, non riusciva a controllarsi in casi come quello e persino Aomine non poté ignorare il lieve tremare proveniente dalla sua voce.
«Sono – sono solo preoccupato per te, va bene?»
Non esisteva più un modo per ritornare indietro, ormai lo aveva confessato e se ne vergognava, seppur consapevole che non ci fosse nulla di strano nell'interessarsi alla vita di un amico.
Il problema era ben celato sotto la superficie, Kise sperava che Aomine non avrebbe indagato oltre e che il loro rapporto non sarebbe mutato per una simil sciocchezza; sì, Ryouta non era ancora pronto ad ammettere di tenere a Daiki come più di un semplice amico.
Aomine era tante cose, per lui in particolare, poiché bastava poco per odiarlo, ma al contempo, anche per ammirare il suo carisma, immaginando avvenimenti che non sarebbero mai accaduti tra di loro.
«Non so cosa ti abbiano detto quegli idioti.» Aomine iniziò a parlare, si schiarì la voce ed evitò di guardare l'altro negli occhi; si sentiva in imbarazzo – non sapeva esattamente per quale motivo -, ma il pensiero che Kise avesse pensato a lui non lo aiutava a nascondere i suoi reali sentimenti.
«Ma non è nulla di cui ti devi preoccupare.»
Ryouta non parve soddisfatto da quella risposta, ma finì lo stesso con l'accennare un breve sorriso; aveva imparato a dire le sue prime piccole bugie quando era un bambino e sapeva riconoscerne quando gliene venivano dette; Aomine era sin troppo onesto per potergli mentire, ma Kise decise in ogni modo di rispettare la sua riservatezza.

«Non dovevi essere al cinema?»
Daiki cambiò all'improvviso argomento e Ryouta decise di non insistere ulteriormente; certo, non trovava particolarmente piacevole discutere dell'ormai serata rovinata, ma apprezzò l'interessamento dell'altro e sapeva che sarebbe arrivato il momento di risolvere ciò che era accaduto la sera precedente.
«Uno stupido doveva venire con me, ma mi trova troppo indifeso per poter andare in giro per New York.»
Aomine incontrò lo sguardo divertito di Kise e per la prima volta da quando lo conosceva, senza neppure rendersene conto, pensò semplicemente a quanto fosse carino; sapeva che non era l'aggettivo che avrebbe spontaneamente dedicato ad un altro ragazzo, ma Ryouta era capace di riservargli sempre piacevoli sorprese e il suo mezzo sorriso era una di quelle.
«Dici che la cucina della signora Aomine può bastare per rimediare? Mia madre prepara le migliori hush puppies degli interi Stati Uniti d'America.»
Kise vide finalmente un sorriso abbozzato sulle labbra di Daiki e, sebbene non trovasse delle frittelle fritte un piatto sano per la sua linea, non riuscì a rifiutare ad una cena calda a casa Aomine.
 
* * *


La madre di Daiki – stava ormai iniziando ad imparare Kise – era una donna estroversa e molto gentile, forse alle volte si concedeva domande un po' troppo personali, ma Ryouta non era infastidito dal suo atteggiamento.
Rispondeva nella speranza di poter placare la sua curiosità, ribatteva per scoprire qualcosa di più a riguardo di suo figlio e la donna, seppur Daiki facesse di tutto per fermarla, raccontava aneddoti che strappavano sempre un sorriso al biondo.
La tavola era imbandita con cibi di diverso tipo e Kise si servì intimorito perché non era abituato ad una cena così abbondante e la madre dell'altro ragazzo non smetteva di invitarlo a prendere qualcosa dai diversi piatti appoggiati di fronte a lui.
Daiki, nel frattempo, non allontanò il proprio sguardo dalla figura di Ryouta: osservava i piccoli sorrisi abbozzati sulle sue labbra ogni qualvolta sua madre parlasse, i brevi attimi in cui abbandonava le posate sul piatto, giocherellando sotto il tavolo con i bracciali che aveva indosso.
Era strano vederlo innervosito, sembrava sentirsi fuori luogo e Aomine iniziò a pensare – per la prima volta – che persino una persona espansiva come Kise avesse i propri limiti; non erano peculiarità che considerava difetti, anzi, lo rendevano in qualche modo meno complicato di quanto Daiki lo avesse considerato inizialmente.

«Hey, Kise.»
Aomine bisbigliò non appena sua madre si allontanò dalla tavola, avvicinandosi alla cucina per poter sistemare i primi piatti.
«Sembri un idiota.»
Il biondo si voltò verso la sua direzione e lo guardò atterrito; non sapeva a che cosa si stesse riferendo, ma era certo che non si trattasse di un complimento.
Oramai conosceva Daiki abbastanza bene e quest'ultimo non era solito dedicargli apprezzamenti di alcun tipo; idiota, stupido – erano aggettivi che non offendevano neanche in minima parte un ragazzo positivo come Ryouta, anche se in quel momento si domandò con spontaneità quali fossero i folli pensieri dell'altro.
«Aominecchi, da che pulpito.»
Il biondo corrucciò la fronte intenzionato a mostrarsi alterato dalle sue parole, ma la realtà era che giustificava i modi di Daiki in ogni situazione ed era più incuriosito che arrabbiato da ciò che gli aveva appena detto.
«Mia madre non ti mangia, se è quello che stai pensando. Non capisco perchè ti comporti in questo modo.»
Ryouta si ritrovò ad arrossire a quell'affermazione; non si immaginava che Daiki potesse comprenderlo così facilmente, aveva fatto il possibile per mostrarsi immune alla presenza della padrona di casa, ma la verità era che la donna lo metteva in parte in soggezione e credeva di poter disturbare la famiglia durante un momento intimo come una cena a casa propria.
Per Kise non era usuale mangiare assieme ai propri genitori, a raccontare la propria giornata o domandare se fosse successo qualcosa di spiacevole; per il biondo non esisteva un momento di raccoglimento e non voleva essere un ospite non desiderato a casa di Daiki.
«Vedi cose che non esistono, Aominecchi.»
Ryouta si avvicinò a lui per non essere udito dalla madre di quest'ultimo, ma per questo non si accorse che la donna si era allontanata dal lavabo per osservarli, sorridendo addolcita nel vedere suo figlio conversare con il suo nuovo amico.

«Ryouta, non hai una ragazza che ti tiene compagnia? Non posso credere che tu ti diverta con uno scalmanato come Daiki.»
Kise si voltò verso di lei e si fece piccolo sulla sedia, stringendo le spalle perché non sapeva come rispondere; sarebbe stato più semplice dire la verità, probabilmente la donna avrebbe compreso i suoi sentimenti senza criticarlo, ma neanche Aomine era a conoscenza delle sue preferenze e rivelarlo davanti alla sua famiglia non era da considerarsi la migliore delle idee.
«Mamma.»
Daiki giunse in suo soccorso e lanciò un'occhiata torva alla madre; non credeva a ciò che aveva appena udito: conosceva sin troppo bene l'indole di sua madre e lasciare che Ryouta diventasse una sua vittima non era qualcosa che lo divertiva particolarmente.
«Ho solo domandato. Sei un ragazzo molto educato e carino, Daiki non ci ha mai presentati e per questo sono curiosa.»
I due ragazzi abbassarono lo sguardo verso il piatto che la donna portò in tavola; si trattava di un dolce, una torta fatta in casa che, seppur d'aspetto gradevole, non avrebbe sicuramente aiutato Kise a mantenere il proprio peso ideale.
Sperava che fosse più semplice rifiutare una piccola fetta, ma in poco tempo si ritrovò con una forchetta da dolce in mano e si limitò a sorriderle, sforzandosi di dimenticare tutte le occasione in cui la sua, di madre, lo aveva rimproverato per non aver seguito il suo programma alimentare.
«No, non sono fidanzato, anche se sono impegnato con lo studio. Mi diverto in compagnia di Daiki e quando mi è possibile mi piace venire qui.»
Le sue gote si imporporarono velocemente nello svelare piccoli dettagli della sua vita; avrebbe voluto dire ben altro, parlare di quanto realmente apprezzasse Daiki e di come, in poco tempo, si fosse invaghito di lui e del suo essere spavaldo.
Si sentiva uno sciocco poiché mentiva a sé stesso, oltre che all'altro ragazzo; si ripeteva che Aomine non era come lui e che rivelare i propri sentimenti li avrebbe semplicemente fatti allontanare.

«Lo sai, mamma, Ryouta abita nell'Upper East Side.»
Daiki iniziò a borbottare con la bocca colma di cibo; sapeva che Kise non lo avrebbe mai invitato a casa sua, non che ci tenesse particolarmente, ma era anche consapevole di non essere il tipico ragazzo da presentare in famiglia.
Le loro situazioni erano sin troppo diverse e per questo sperava segretamente che Ryouta stesse apprezzando quel lato più personale di sé.
«Non che sia un vanto, è sempre e solo New York, Daiki.»
Kise si voltò verso di lui e accennò un sorriso di circostanza; non era infastidito dalle parole di Aomine, ma non comprendeva come la sua vita potesse realmente interessare sua madre; Ryouta non voleva sentirsi etichettato, temeva che raccontare della sua famiglia non avrebbe portato ad altro che farsi odiare dalla donna.
«E che cosa ci fa un ragazzo dell'Upper East Side in una discarica come il Bronx? Daiki non ti deve dei soldi, vero?»
«Mamma.»
Daiki parlò prima che Kise potesse dire qualcosa a riguardo; sapeva che sua madre lo conosceva sin troppo bene, avrebbe solamente influenzato il biondo e sebbene fosse stato sempre sincero con lui, Aomine aveva fatto cose in passato che non avrebbe mai raccontato piacevolmente ad un ragazzo come Ryouta.
«Mi deve solo un biglietto del cinema, a dire il vero.»
Ed era di nuovo lì, sul suo viso: Daiki lo osservò di nuovo stringere le spalle, sorrise con ingenuità e il suo volto parve riflettere le luci tenui della stanza, lasciando Aomine senza più parole.
Upper East Side doveva essere un vero inferno – pensò in quel momento – poiché Ryouta era qualcosa che non aveva mai visto sino ad ora e bastavano piccoli gesti come quelli per disorientare completamente il cinico Daiki.
Kise Ryouta non poteva essere reale, si trattava di un qualche scherzo giunto ad infastidire un cattivo ragazzo come Aomine, un pericolo a cui neppure lui, cresciuto sulla strada, aveva soluzioni per potersi difendere.
Eppure, Daiki non riusciva ad allontanarsene, il biondo era una piacevole incognita che sperava di scoprire con impazienza.
 
* * *

 
«Aominecchi.»
Kise appoggiò la propria bottiglietta di acqua a terra e si voltò lentamente verso l'altro ragazzo.
Avevano appena finito di giocare, un paio di ciuffi di capelli rimanevano attaccati alla fronte per via del sudore e, con non poca pigrizia, Ryouta li scostò, tirandoseli completamente all'indietro.
«Che c'è?»
Daiki non lo stava guardando, era chinato vicino alla panchina e frugava nella borsa alla ricerca di un'asciugamano pulito da usare per asciugarsi il volto; non faceva molto caldo, ma dopo un lungo uno contro uno, persino una persona atletica come Aomine aveva iniziato a percepire un po' di fatica.
Solitamente controllava il proprio borsone prima di uscire di casa, ma negli ultimi giorni era piuttosto distratto e non era certo di aver portato tutto con sé.
«Sei impegnato?»
La domanda di Kise lo raggiunse del tutto fuori luogo; alle volte non lo capiva proprio, quel maledetto ragazzo, poiché trovava sempre un modo per apparire strambo ai suoi occhi e nonostante questo, Aomine finiva sempre con l'arrendersi e accettarlo nella sua stranezza.
«Direi di sì, lo puoi vedere anche tu.»
Rispose con tono sgarbato, non essendo per nulla intenzionato a seguire il discorso; si era impegnato più di una volta per comprenderlo, ma capitava che non riusciva a capire a che cosa alludesse e così lasciava perdere, divertendosi nel vederlo innervosirsi quando ignorato.

«Aominecchi.»
Il biondo scivolò lentamente vicino a lui, si fece spazio sulla panchina e si chinò per poter osservare meglio l'altro mentre era intento a sistemare un paio di oggetti dentro la sua borsa.
Era disordinato, ma alla fine era riuscito a trovare un asciugamano e non appena alzò lo sguardo verso Kise, si limitò a sbuffare, nascondendo il viso con il panno appena trovato.
«Sei insistente oggi, è successo qualcosa?»
Aomine si abbandonò a fianco dell'altro, poggiò il braccio dietro alla nuca del compagno e aspettò di sentirlo parlare; passarono un paio di attimi prima di poter sentire la sua voce e Daiki, seppur si fosse abituato anche al lato più riservato di Kise, non riuscì ad interpretare quel leggero tremolio che percepì non appena il biondo socchiuse le labbra.
«Sai, mi domandavo...» Iniziò a parlare, teneva lo sguardo verso il suo grembo e abbozzò un sorriso fasullo nella speranza che mentire sarebbe servito a qualcosa.
«Non hai mai pensato di trasferirti, di conoscere qualcuno di nuovo?»
Kise cercava di temporeggiare, rimaneva vago per comprendere quel poco che voleva sapere di Aomine e per potersene fare, finalmente, una ragione; non aveva mai visto il ragazzo in compagnia di qualcuno che non fossero i suoi amici, nessuna ragazza, nessuna persona con cui condividesse un legame intimo.
Si trattava semplicemente di compagnia, una partita al campetto, una chiacchierata, ma mai nulla di più; Ryouta sapeva di non poter pretendere, Aomine non aveva mai accennato a nessuna ragazza che lo avesse interessato, nessun commento malizioso al passare di una donna sul marciapiede né un'occhiata di troppo alle forme che si intravedevano attraverso i loro vestiti.
Kise non aveva nessuno da invidiare, nessuno di cui essere geloso; una parte di sé sperava con forza che Daiki fosse solo, ma successivamente?
Doveva essere lui, tra tutti, ad occupare quel posto nella vita dell'altro?
Era una speranza che voleva abbandonare poiché, lo sapeva, ne sarebbe rimasto ferito.
«Lo so che ti sembrerà assurdo, ma vivere qui mi piace. Non vivrò sempre con i miei genitori, ovviamente, però non ho bisogno di altro.»
Aomine parve quasi bisbigliare malinconico, il suo sguardo era ora puntato verso il campo di fronte a sé e da quella posizione, Kise poteva osservare le sue iridi nascondersi dietro alle palpebre ogni qualvolta chiudesse gli occhi; poteva notare come il suo petto si gonfiava ad ogni respiro e le ultime gocce di sudore che solcavano la sua carnagione scura, scomparendo nell'asciugamano che ora aveva attorno al collo.
«Troverò un lavoro migliore, forse, ma non è che io possa fare molto altro.» Ricominciò a parlare e Ryouta distolse lo sguardo non appena lui si girò per osservarlo; «Siamo bloccati qui, eppure molti di noi non se ne vogliono andare. Siamo degli idioti.»
Kise sapeva a chi si stesse riferendo; il Bronx, quando ne parlava Aomine, sembrava un'altra città, un altro mondo.
Ryouta giungeva da una realtà che forse Daiki non avrebbe mai capito, ma il biondo non desiderava che lui capisse; non si trovava nulla, in quello sciocco Upper East Side, che Kise amava più di un piccolo campo o di una compagnia giusta.
«C'è qualcuno a trattenerti qui, oltre la tua famiglia?»
La domanda di Kise giunse alle orecchie di Aomine come un fiebile sibilo, la sua voce tremava di nuovo, più forte di prima, e Daiki non poté che ritornare con gli occhi al suo volto, notando l'espressione malinconica formata dai suoi lineamenti delicati.
«Un'eccezione
Aomine rispose irrigidendosi, la mascella serrata e le mani strette in un pugno; non era da lui soppesare le proprie parole, alle volte si affidava al semplice istinto e quest'ultimo gli suggeriva che non avrebbe avuto un altro momento per confessare la verità.
«Se mi allontanassi da qui finirei con rovinare tutto.»
Ryouta socchiuse le labbra per parlare, ma si fermò poiché non sapeva più che cosa dire; era un passo dalla verità, sapeva che Daiki aveva qualcosa da raccontargli, ma una parte di sé temeva che non avrebbe scoperto qualcosa di piacevole.
Kise aveva avuto sempre una vita facile: amici, denaro da spendere e poche delusioni, non aveva mai assaporato l'amara sensazione di fallire, eppure ora la vedeva lì, proprio di fronte a sé.

«Aominecchi, parli come se fossi innamorato.»
Ryouta non trattenne una risata divertita, strinse le spalle e lasciò che un breve silenzio ricadesse tra di loro; un sorriso ingenuo rimase impresso sul suo viso, si sforzò di increspare le labbra sino a sentire un lieve pizzicare alle gote e sperava, sperava che Aomine non trovasse la menzogna celata dietro ai suoi comportamenti.
Eppure, il silenzio si prolungò più del dovuto, Daiki non lo guardava, le sue iridi cobalto proiettavano la rete e il canestro del campo, la schiena leggermente piegata nascondeva il suo stomaco che, in quel momento, si contorceva silenziosamente.
Anche lui voleva mentire, inconsapevolmente desideravano la stessa cosa e preferivano un silenzio ad una qualsiasi parola di troppo.
«Aomine, non-»
«Non farti strane idee, idiota.»
Daiki lo fermò prima che potesse dire qualcosa di sconveniente; non aveva neppure idea del perché avessero cominciato a discutere, sapeva che era colpa di Kise, era sempre colpa sua; lo portava a dire cose che non avrebbe mai rivelato a nessuno, che non aveva mai pensato prima di incontrarlo.
Non gli era mai interessato affezionarsi a qualcuno, eppure eccolo lì, ora si destreggiava tra l'apparire come un bugiardo o essere scoperto per una sciocchezza.
«Stai arrossendo, allora hai un lato adorabile anche tu.»
Ryouta rise di nuovo, allungò la mano per pizzicare la guancia dell'altro e quest'ultimo, inaspettatamente, rimase fermo, lasciando che le dita sottili del biondo sfiorassero la sua pelle.
Quello era l'unico contatto che potevano avere, assieme a quando giocavano, erano le uniche occasioni in cui Daiki sentiva Kise vicino a sé, tanto dal percepire il suo respiro contro il proprio viso.
«Non immaginare cose che non esistono.»
Il tono severo della sua voce riportò alla realtà il biondo; era strano sentire quelle parole pronunciate da Daiki, ma bastarono per scuotere qualcosa in lui nel profondo.
Si sentì privato di tutte le sue certezze, pareva quasi che Aomine avesse scoperto il suo sciocco gioco e toccò a Kise allontanarsi, nascondendo ingenuamente l'avvampare del suo volto.

«Non c'è nulla di male se fosse la realtà, Aomine.»
Bisbigliò così a bassa voce che Daiki non apprese subito le sue parole; pensò a ciò che aveva appena detto e ritrovò conferma nell'espressione imbarazzata di Kise: anche lui nascondeva qualcosa, doveva necessariamente nascondere qualcosa.
Era uno sciocco modo per allontanare l'attenzione da sé e non era intenzionato a lasciarsi scappare nessuna informazione in più.
«E ora parli tu con l'espressione di una scolaretta innamorata.»
Aomine lo colpì con il gomito al fianco e la sua esclamazione aiutò Kise solamente a sentirsi più in imbarazzo; il suo volto divenne completamente rosso e si sforzò di mantenere un po' di compostezza, rispondendo a tono.
«Non sono una scolaretta.»
«Ma non neghi, come immaginavo.»
La replica di Daiki giunse fulminea e Kise non ebbe neppure tempo di pensare ad un'altra risposta; era inutile mentire arrivati a quel punto e, seppur non la trovasse la soluzione migliore, non poté che confermare le realistiche teorie dell'altro.
«Io non sono come te, non me ne vergogno.»
Non era una verità assoluta e neppure Aomine parve crederci completamente; si ricordava ancora di ciò che il biondo aveva detto a sua madre e non era poi complicato giungere alla conclusione che Kise non aveva ancora il coraggio di dichiararsi alla persona interessata.

«Chi è? Una ragazza del tuo corso?»
Daiki lo domandò cercando di mostrarsi disinteressato, ma in realtà si ritrovava in uno stato di trepidante attesa; immaginava che Ryouta fosse interessato ad un ragazza gentile, che lo lasciasse libero di fare ciò che voleva e disponibile ad accettare il lato più viziato di sé.
Aomine era certo che l'Upper East Side pullulasse di belle ragazze, forse più disinteressate di quelle del Bronx, ma in fondo Kise non sembrava essere una persona in difficoltà quando si trattava di attirare l'attenzione.
«No, non è una studentessa.»
Ryouta deglutì ed evitò di guardarlo negli occhi; non aveva mai mentito spudoratamente ad Aomine e sapeva che quest'ultimo non fosse così sciocco da non comprendere.
Voleva semplicemente dire di avere la persona giusta al suo fianco, desiderava poterlo abbracciare per bisbigliargli che voleva essere lui quella sua eccezione; sognava e anelava ad un rapporto a cui non aveva mai realmente pensato sino ad allora, sino al primo momento in cui aveva incontrato Daiki.
«E' davvero un'idiota, ma mi rende felice.»
Aomine roteò gli occhi perché non immune alle parole smielate appena pronunciate da Kise e, con un'espressione divertita, cercò di alleggerire la situazione con una delle sue usuali battute.
«Hey, non dovresti parlare di me in questo modo.»
Daiki rise apertamente, aspettandosi un qualsiasi rimprovero da parte dell'altro, ma invece, Ryouta rimase in silenzio, il viso arrossato e le mani a stringersi nervosamente attorno alla bottiglietta di acqua.
Doveva aspettarsi l'ironia di Aomine, ma sebbene ne fosse ormai avvezzo, non avrebbe mai immaginato che il ragazzo scherzasse con leggerenza su un argomento come quello.
Era vero, non avevano mai parlato con serietà dei loro sentimenti, ma ora Ryouta non sapeva come affrontarlo, evitando il suo sguardo.
Sapeva che gli occhi di Daiki fossero su di lui, percepiva il suo sguardo su di sé e Kise lasciò scivolare la bottiglietta a terra, coprendosi il viso con le mani.
Il tappo abbandonò la bottiglia in fretta, il liquido trasparente si riverso in terra rendendo il colore arancio del pavimento ancora più scuro.
«Kise-» «Lo so, non c'è bisogno che tu me lo dica, scusami.»
Nella mente di Ryouta apparirono milioni di parole; cosa poteva aspettarsi da una persona come Aomine? Gentilezza, comprensione o semplice disgusto?
Non aveva mai vissuto un episodio come quello in passato, le persone che lo circondavano avevano accettato la sua natura senza ribattere, ma con Daiki era completamente diverso.
Era proprio Daiki l'oggetto dei suoi sentimenti, pensava a lui non come un semplice ragazzo né come uno dei tanti amici con cui condividere momenti; Aomine Daiki era la persona di cui si era invaghito e non poteva ritornare più indietro.

«Idiota, dove stai andando?»
Ryouta riprese il proprio borsone e iniziò a correre, non voleva voltarsi, non aveva il coraggio di affrontare Daiki in quel momento e qualsiasi fossero le intenzioni di quest'ultimo, il biondo era sin troppo spaventato per ascoltarlo.
Le sue gambe si muovevano senza controllo, il vento gli carezzava i capelli e gli occhi iniziarono lentamente a bruciargli; voleva piangere – no, doveva trattarsi del freddo; lo ripeteva per convincersi, ma non appena tentò di ricacciare le lacrime, sentì le proprie guance divenire umide.
«Kise Ryouta, non ti azzardare a scappare come un vigliacco.»
Aomine era a pochi passi da lui, lo raggiunse fermandolo con entrambe le braccia in un movimento del tutto naturale; non aveva neppure riflettuto, semplicemente lo aveva stretto a sé, appoggiando la fronte vicino alla sua nuca.
Le sue narici venivano pizzicate dal pungente odore di sudore che il corpo dell'altro emanava, ma Daiki non se ne curò; riconosceva il profumo di Kise ormai da tempo e averlo visto impegnarsi per vincere un uno contro uno era più piacevole di una qualsiasi, sciocca fragranza firmata.
Ryouta si dimenò per liberarsi, ma la presa di Daiki lo avvolgeva con forza e dovette arrendersi non appena quest'ultimo lo invitò a voltarsi, rimanendo a pochi centimetri dal suo viso.
«Daiki, io pos-»
Aomine fu fulmineo, vide le labbra di Kise socchiudersi per parlare e non attese un attimo di più; non aveva mai immaginato a lungo quel momento, non aveva idea di che cosa significasse baciare un altro ragazzo, ma si trattava di Ryouta e qualsiasi procedura logica perdeva il suo valore.
Così si limitò a poggiare le proprie labbra su quelle dell'altro, carezzò con la punta delle dita le sue guance e percepì il calore emanato dalla sua pelle; ebbe la conferma di ciò che si aspettava, alla vista, il viso di Kise pareva perfetto e al tatto, Daiki non poté che arrendersi alle emozioni che pervasero il suo animo.

Non gli importava delle loro differenze, di ciò che avrebbero pensato gli altri; in quell'attimo – che trascorreva lento – Aomine osservava solamente Ryouta e quest'ultimo, con gli occhi sgranati, afferrò il polso del compagno, seguendo i movimenti della sua bocca.
Kise si sentiva uno sciocco, ma desiderava di non allontanarsi da Daiki; aveva anelato a quel semplice gesto per settimane e ora che lo stava vivendo, si stava rendendo conto di quanto la realtà fosse più piacevole dell'illusione.
Le labbra di Aomine erano screpolate, lo sentiva premere con forza contro la sua bocca, ma sebbene mancasse di romanticismo, Ryouta notava una sfumatura di passione nei suoi occhi, sentimento che aveva notato solo giocando a basket con lui.

Poco dopo, però, i due furono costretti ad allontanarsi l'uno dall'altro; entrambi sentirono l'aria mancare nei polmoni e respirarono lentamente, socchiudendo gli occhi per potersi perdere tra i loro respiri.
Aomine non aveva più parole da sprecare, non era mai stato bravo a parlare e dimostrare i propri sentimenti con l'azione era l'unico modo a lui conosciuto per convincere Kise a non fuggire; sperava che il biondo si fosse convinto a non scappare e, infatti, solo pochi attimi dopo, Ryouta accennò un sorriso, arrossendo di nuovo.
«Non ridere, idiota, se non fosse stato per me-»
Ryouta lo interruppe prima che potesse concludere la frase, poggiò la propria fronte contro la sua e rise di nuovo, stringendo le spalle divertito.
«Non pensavo che quelli del Bronx fossero così coraggiosi.»
Il biondo bisbigliò a pochi centimetri dal suo viso; sapeva che per Aomine tutto si trattasse di una sfida, ma l'insolita compostezza che stava ora mostrando era un dettaglio a cui Kise non riuscì a resistere.
«So fare molto più di così, a differenza tua. Non mettermi alla prova.»
I due rimasero in quella posizione per lunghi attimi, forse minuti; la strada che portava al campo era rimasta la stessa, in lontananza si scorgeva l'appartamento della famiglia di Aomine e poco distante, le luci di New York City illuminavano il cielo fattosi plumbeo.


 
  
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