Cos’è rimato, adesso
L’aria è gelida, questa mattina.
S’insinua negli spiragli delle finestre, sotto le porte,
nelle felpa, tra il collo e la stoffa.
Nel freddo di questa mattina vedo anche un po’ di te.
Con lo sguardo fisso su una formica che, a terra, cammina
indaffarata, cerco di seguire la lezione.
E’ greco, la tua materia preferita. Incredibile che lo
fosse: non è forse quella che tutti odiano?
Ma tu eri così: a seconda dei punti di vista, strano,
luminoso, eccentrico, particolare, incredibile.
Per me eri semplicemente unico. Unico nel significato primo
del termine: non c’era nessuno che ti assomigliasse anche solo in parte; non
c’è nessuno che abbia cambiato la mia vita come hai fatto tu.
La matita che stringo tra le dita si spezza. Non mi ero
accorta di stringerla così forte.
I resti rimangono sparsi sul legno lucido: Sara, di fianco
a me, li osserva inarcando le sopracciglia.
La conosco quell’espressione: sofferenza, un po’ di
compassione.
Non ho bisogno di compassione. O forse sì? Forse è proprio
quello che mi manca?
Affetto, comprensione, un abbraccio. Due parole.
E quei soliti Era così buono. Un bravo ragazzo. Che
disgrazia terribile. Quelle frasi di rito che si ripetono nella mente di
ognuno di noi e poi escono, quando stai per scoppiare e non puoi più farti
bastare lo spazio che hai nei polmoni.
Mi piacerebbe poter gridare, adesso. Tirar fuori il fuoco
che ho nel petto e in gola. Piangere. Sfogarmi.
Mi sentirei meglio, ne sono certa.
E’ morto! E’ morto!
Pronunciare quella frase, ripeterla all’infinito, nella
speranza di poter accettare.
Accettare che non ci sarai più, che la vita prima o poi
arriva al traguardo.
E tu di certo ci hai battuto sul tempo. Hai vinto la corsa,
la gara che siamo costretti a concludere tutti.
Ora mi sarebbe piaciuto sussurrartelo all’orecchio, come un
tempo: Hai vinto. Sei il mio campione.
E poi vederti voltare la testa di scatto, con quei
movimenti improvvisi che mi hanno sempre spaventata, sorridere e strizzare gli
occhi. Tutti e due: quello verde e quello castano. Non sei mai stato capace di
fare l’occhiolino.
Ridevo sempre ai tuoi tentativi vani. Ti sforzavi fino allo
stremo e alla fine scoppiavi in una risata cristallina.
Mi faceva venire la pelle d’oca, quel suono, simile ad una
melodia dolce, familiare. Forse una cantilena di qualche nota sonata classica,
qualcosa di Mozart o di Beethoven.
L’aria che scivola dalla finestra al mio banco mi riscuote.
Sventola i miei fogli e ripristina l’ordine, il suo ordine.
Vorrei poter fare lo stesso. Cancellare, ricominciare da
capo. Poter tornare indietro nel tempo, dirti Ti amo almeno una volta.
Me lo chiedevi. Me lo chiedevi spesso.
Dillo che mi ami.
Ma io mi tiravo sempre indietro, mascherando la paura
dietro a un sorriso fatto apposta.
Non avevo il coraggio di mormorare quelle lettere, di
metterle in fila, di dar loro un senso.
L’amore è una cosa spaventosa, lo sai, no? Risuona in noi,
nelle profondità della nostra anima, cambia tutto ciò che ci circonda. Cambia
il sapore dell’acqua, dell’erba sotto la schiena, del vento d’aprile, del
cielo.
E avevo paura che se avessi aperto la porta che dava su
quel mondo così immenso, così diverso, così sconosciuto e inesplorato, avrei
perso ogni certezza. Come sarebbe andata a finire, poi?
Eppure ora te lo direi, in ogni istante. In ogni mio respiro
ci sarebbe dell’amore, in ogni carezza dell’eternità.
Quell’eternità che ora la malattia ci ha rubato.
Esco dalla classe senza far rumore. Scivolo invisibile tra
i sorrisi che, dopo due settimane da quel giorno, sono tornati a risplendere su
tutti i volti. I tuoi compagni ti hanno dimenticato?
No, questo è solo lo scorrere del tempo.
Per quanto possa essere egoista, anche io vorrei poter fare
come loro. Sorridere ancora.
Ma proprio non ci riesco, per quanto mi sforzi. Non ci
riesco.
La strada verso casa è lunga: mi piace percorrerla da sola.
La compagnia ora non mi interessa e il silenzio dentro di me copre tutte le
voci esterne, straniere. C’è così tanto silenzio.
Mi è sempre piaciuto il silenzio. Ora che ce n’è così
tanto, invece, mi spaventa.
Le case sono uguali a prima: grigie, rosse, con i balconi,
con le piccole imposte. Alcuni vasi di fiori fanno capolino dalle finestre, si
sporgono oltre le ringhiere, mi tendono le mani vermiglie. Non accetto
quell’amichevole stretta: la loro gioia mi insulta.
Oltre quell’angolo, laggiù, c’è la tua casa. Quante volte
ci sono passata di nascosto, prima di averti per me.
Lanciavo un’occhiata attraverso le tende della tua camera,
immaginando di vederti appollaiato sul letto, intento a recitare con foga
qualche passo di Eschilo, o Sofocle. Euripide non ti piaceva, vero?
Ora tua madre è sul portone di casa, sta portando a spasso
il cane. Lo avevi chiamato Elle, come quel giovane che precipitò nel mare.
L’ironia di quel nome risuona tutta nel tuo destino, ora. Precipitato dalle
spalle dell’ariete dorato nel mare della malattia che, con i suoi flutti
infiniti, ti ha portato giù con sé.
Tua madre mi vede; non sorride. Ma c’è speranza nei suoi
occhi.
E io ero rimasta lì, sotto casa tua. Finché, quel giorno, ti eri affacciato alla finestra e avevi salutato con la mano. Imbarazzata per essere stata scoperta, avevo ricambiato titubante. Tu eri uscito sul balcone pieno di fiori rossi e ti eri sporto, fissando i miei occhi con la dolcezza di un uomo che ritrova la libertà perduta.
Ero certa che ti stessi ispirando a Shakespear. Ma che
strano modo di vedere Romeo e Giulietta.
E adesso chi aprirà quella porta, Romeo? Chi uscirà sul
balcone?
Giulietta non è nulla senza Romeo.
Il destino dei due infelici
amanti, quel giorno, ha plagiato il nostro, amore.
Poche righe che non sarei nemmeno degna di
scrivere, per la scomparsa di un mio compagno d’Istituto.
Era un ragazzo favoloso, ma lo conoscevo solo di vista. È incredibile come, a morire, siano sempre coloro che meriterebbero di più di vivere. Esiste davvero il giudizio di Dio?
Spero che queste mie parole rendano almeno l’idea di cosa voglia dire una morte così.
Aki