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Autore: Aaanatema    16/10/2016    2 recensioni
Non sempre la solitudine ci protegge come dovrebbe.
[Who!lock]
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia é nata in seguito ad un periodo, due settimane circa, in cui il mio cervello é stato sottoposto a talmente tanto angst da rifiutarsi di sopportarlo senza una terapia. Questa é stata la mia terapia, una OS carica di fluff in cui due dei miei mondi preferiti si intrecciano. Ho cercato di mantenere Sherlock IC, ma se pensate che sia OOC (cosa che, non lo nego, mi rattristerebbe) fatemelo sapere, così che possa aggiungerlo nelle avvertenze. É abbastanza lunga, quindi mettetevi comodi ;)

Spero vi piaccia, un grande abbraccio,
-Perla_sognatrice

The story of an alone man



John si premette velocemente la mano sulla fronte, nel tentativo di togliere il sudore e la sabbia che gli stavano impregnando gli occhi, rendendo difficoltoso guardare l'ambiente che lo circondava. Era silenzioso. Troppo, considerata la carneficina che si stava consumando lì poco più di un attimo prima. Il clima afoso sembrava gravargli sopra le spalle insieme allo zaino con le munizioni della sua Browning [1] e le poche attrezzature mediche che gli erano rimaste. Nascosto dietro una roccia, respirava affannosamente e, al contempo, il più silenziosamente possibile data l'agitazione e la fatica. Deglutì due volte, sentendo la gola arida per la sete e per l'imposizione di non parlare che si dilungava da quattro giorni. Chiuse per un attimo gli occhi, rivolgendo il capo al cielo sgombro di nuvole, dove il Sole brillava così ardentemente da rischiare di accecarlo.

Ti prego, Dio: fammi vivere.

Dopodiché, uscì allo scoperto, pronto a fare fuoco sui propri nemici e, subito dopo averli eliminati, dedicarsi all'assistenza dei propri compagni sopravvissuti. Prese la mira quando intravide un uomo entrare nel suo campo visivo. Poi, un rumore sferragliante lo circondò, e all'improvviso non era più all'aperto, ma dentro un ambiente circolare. John, completamente disorientato, strinse con più forza l'arma, fino ad individuare un individuo situato al centro della stanza, vicino a quella che sembrava una grossa consolle, munita di pulsanti e leve di cui John non sapeva decifrare la funzione. 

"Sei un medico militare, vero? Per il tuo bene spero che la risposta sia sì. Ho già sbagliato due volte, ed io detesto sbagliare" disse quello, non accennando a spostarsi da dietro la lunga colonna che s'innalzava dal pavimento fino al soffitto.

"Chi lo vuole sapere? Perché mi hai portato qui?" chiese John, con tono d'acciaio. "Ho una pistola e non ho nessuna paura di farne uso."

"Mmh, scontato. E stranamente deludente. Io, sono la persona che ti ha appena salvato la vita. E ora metti giù quel coso" ribatté quello, avvicinandosi con due larghe falcate.

John, trovandoselo a meno di un metro di distanza, spalancò la bocca, in preda alla confusione. Il suo aspetto poteva essere definito solo come bizzarro: indossava un'aderente camicia color pervinca, una giacca candida con toppe nere che si allargavano sui gomiti simili a macchie d'inchiostro, bretelle a strisce dei medesimi colori s'intravedevano al di sotto, scarpe e pantaloni scuri. E un cravattino. Bianco. Completamente. I capelli corvini gli ricadevano morbidamente sulla fronte, in perfetto contrasto con la pelle lattea. Gli occhi sembravano sospesi nell'indecisione di svariati colori: azzurro ghiaccio, verde, grigio. 

"Allora?" chiese l'uomo sollevando un sopracciglio. Alzando gli occhi al cielo con aria scocciata, infilò una mano all'interno della giacca, estraendo un altrettanto singolare oggetto delle dimensione di una bacchetta. Premette un pulsante e quello, illuminandosi di luce verdastra, venne puntato verso la sua pistola, facendo rotolare a terra le pallottole che essa conteneva.

"Bene" disse prontamente John, ridestandosi da quello stato di trance. Gettò a terra l'arma, raddrizzando le spalle. 

L'uomo davanti a sé accennò un sorriso, mettendo le mani in tasca. "Io sono il Dottore. Prego, comunque."

Si girò nuovamente, spostando un monitor davanti a sé. 

"John Watson. Quinto-" 

"Sì, sì. Eccetera" lo interruppe il 'Dottore', o chiunque lui fosse.

"Come puoi dire di avermi salvato la vita? Non capisco come io possa-" Iniziò nuovamente John, subito frenato dalla risata dell'altro.

"Un proiettile ti avrebbe perforato la spalla. Qui, esattamente in questo punto" spiegò, poggiando delicatamente l'indice destro sulla sua spalla sinistra. "Saresti morto dissanguato molte, molte ore più tardi. Agonizzando."

John deglutì sonoramente, prima di passarsi frettolosamente la lingua sulle labbra. "Come facevi a saperlo? Dei miei compagni, là fuori..."

Il Dottore scosse la testa, una sola volta, con incredibile rigidezza. "Sono morti. Tutti morti" esalò, la voce sottile e sofferta. 

John chiuse gli occhi, strinse i pugni e i denti, ma l'ondata di rabbia che lo sommerse non fu affatto repressa. Voleva chiedere perché avesse salvato lui, e non gli altri. "Dove sono?" optò infine, la voce rauca.

"Sul TARDIS. Ti spiegherei l'acronimo, ma non credo che ora come ore tu sia nelle condizioni di apprenderlo" rispose muovendo distrattamente le dita per aria, come se stesse componendo della musica, prima di sfregarle animatamente tra loro.

"Che cos'è un TARDIS?" chiese sempre più seccato John, quando si accorse che l'altro non avrebbe continuato la sua spiegazione se non incitato.

"É una macchina in grado di viaggiare attraverso il Tempo e lo Spazio. Potresti erroneamente definirmi un alieno, ma dato che l'unica caratteristica fisica che ci differenzia sono i miei due cuori, oltre alle Rigenerazioni, ovvio-" spiegò animatamente, mentre il suo sguardo mutava continuamente, dal confuso all'entusiasta, fino a diventare riflessivo.

"Che?" replicò scioccamente John, inclinando la testa da un lato e socchiudendo le palpebre.

Il Dottore si sfregò la fronte con una mano. "Intelligenza nella media, shock troppo vicino per assimilare informazioni... Certo, che idiota!" borbottò distrattamente fra sé. Poi girandosi verso John: "Desideri una tazza di tè?"

"Tè?" 

Sbuffò, provocando in John un moto di fastidio, prima di incrociare le braccia sul petto e guardarlo con aria scettica. 
"Sì, tè. Sei palesemente inglese. Dimmi una cosa: gli umani tendono sempre a ripetere quello che sentono oppure è un tuo tratto caratteriale?"

"Del tè. Sì, certo. Perché no" rispose John, mentre un'idea prendeva consistenza nella sua mente.

L'altro si piegò sui talloni, spostando un tassello del pavimento a grate e rivelando una teiera e una tazzina. Versò il contenuto ambrato e poi lo porse a John. Quest'ultimo con un sorriso, la prese, guardando il Dottore sistemare nuovamente il tassello. Prima che si potesse rialzare in piedi, John capovolse la tazzina sul suo capo, beandosi dell'espressione sconvolta che il diretto interessanti gli rivolse. 

Dopo una breve e liberatoria risata, John mise un ginocchio a terra, così da potersi trovare alla sua stessa altezza. "Non sono stupido. Viaggi nel tempo? Bene, dimostramelo. Le tue deliziose tazze di tè puoi pure-"

"Niente imprecazioni" ribatté il Dottore sfoderando il sorriso più ampio e veritiero che John avesse mai visto. "Oh, mi piaci!"

John sbatté un paio di volte le palpebre, prima di alzarsi nuovamente in piedi. "Il tuo nome. Voglio sapere il tuo nome" insistette, avvicinandosi a lui. 

Il Dottore gli si fece vicino, intrappolandolo tra il suo corpo e la consolle mettendo le mani a lato dei suoi fianchi. "Sono stato chiamato in molti modi. Ho avuto molte facce. Molte personalità."

"E quale sei adesso?" chiese John, stringendo le dita sul freddo metallo che si trovava dietro di lui.

Il sorriso del Dottore, spuntato nuovamente sulle sue labbra, si fece enigmatico, durando un secondo soltanto. "L'Undicesimo"

"Quindi é così che dovrei chiamarti? 'Ehi, Undicesimo, é finito il latte, puoi andare a comprarlo?'" domandò ironicamente John, frustrato.

Protendendosi ancor più verso di lui, il Dottore riuscì ad esclamare e sussurrare al tempo stesso. 

"Geronimo!"[2] fu ciò che disse. John, nel suo smarrimento, dovuto alla vicinanza fisica e a quell'insieme di sensazioni, non si accorse che il Dottore aveva abbassato una leva. Il TARDIS cominciò a tremare sotto i loro piedi, mentre il Dottore correva avanti e indietro tra un pulsante e l'altro. 

"Sai, penso che ti chiamerò Undicesimo" 
Dopo questo, John svenne. L'ultimo suono che sentì fu la risata trattenuta del Dottore.

*

"Sveglia sveglia." 

John si strofinò gli occhi, aprendoli lentamente. Tirandosi sui gomiti, si rese conto di trovarsi in un letto, cambiato e lavato. Indossava un pigiama con dei ricci. Aggrottò le sopracciglia.

"Io... Tu hai..." rantolò, stringendo tra le dita il cotone del pigiama. Si alzò frettolosamente in piedi, scoprendo un paio di ciabatte di feltro sul pavimento. 

"Mmh, no. Ci ha pensato il TARDIS" disse distrattamente il Dottore, spingendosi dei grossi occhiali da chimico sopra la fronte. In quel momento, John si accorse che teneva due provette in ciascuna mano, che avevano un'aspetto decisamente radioattivo. 
"Vestiti, siamo arrivati" finì, prima di uscire dalla porta. 

John si guardò intorno, finché non si accorse che ai piedi del letto c'era una grossa valigia scura. La poggiò sul materasso e, dopo averla aperta, scoprì che conteneva tutti i suoi vestiti. Scosse la testa nell'inutile tentativo di fare ordine nei propri pensieri. Dopodiché indossò camicia, maglione beige, jeans e scarpe comode. Si sentiva strano, dopo il lungo periodo passato in Afghanistan, ma decise di lasciar perdere. Per un attimo, riuscì persino a dimenticarsi della guerra e delle vittime (e gli amici) che essa aveva mietuto. 
Si chiuse la porta alle spalle, procedendo in linea retta fino a trovarsi nello stesso posto di molte ore prime. Lì trovò il Dottore piegato sopra un grosso zaino, mentre le sue mani scomparivano all'interno prima di gettarsi con noncuranza svariati oggetti alle spalle. John fu costretto ad abbassare la testa un paio di volte per schivare un cappello vintage e quella che sembrava un teschio fatto di metallo.

"Pare che dovrò fare a meno della carta psichica"[3] si lamentò quello, chiudendo la zip dello zaino con un movimento secco.

"La carta- che?" 

"Niente che sia importante, al momento" disse tristemente il Dottore, lanciando un'occhiataccia allo zaino.

John cominciava davvero a stancarsi di fare domande senza ricevere una vera risposta. Quell'uomo irradiava un fascino tutto suo che, mischiato all'istinto di John che gli diceva che di lui poteva fidarsi, creava un risultato potenzialmente pericoloso.

"Seguimi" ordinò il Dottore con un gesto della mano, prima di spalancare la porta.

"Questo sembra l'inizio di una promettente amicizia" commentò ironicamente John, sollevando lo sguardo al soffitto.

Dopo aver varcato la soglia si accorse di trovarsi davanti al Big Ben, e sorrise nel riconoscerlo. La neve scendeva lievemente, coprendo di un sottile strato il terreno, simile a zucchero a velo. 

"Neve? Ad Agosto?" realizzò, un attimo di troppo più tardi.
John socchiuse gli occhi, sconvolto. "E questa é... una cabina blu della polizia. Una cabina della polizia spaziale o qualcosa del genere?"

Il Dottore si leccò il dito indice e lo alzò a mezz'aria, come se stesse cercando di individuare la direzione del vento.

"Fine Diciannovesimo secolo. Il... 1887, se non erro"[4] spiegò il Dottore con aria compiaciuta, ignorando il resto delle domande. "Non ti vedo ancora convinto, John. Su, voglio presentarti una persona."

John, in tutta quella confusione mentale, riuscì solo a dirsi che quella era la prima volta che il Dottore lo chiamava per nome.

Camminarono per un breve tragitto, in mezzo a carrozze trainate da cavalli. Impossibile che quella fosse una messinscena. Era molto più probabile che fosse impazzito o che si trovasse in una specie di stato comatoso. Il sogno era da escludere, data la propria capacità di decidere il proprio comportamento. In più, John riusciva a leggere i volantini pubblicitari affissi ai muri delle abitazioni.

Giunti davanti ad una porta laccata di nero, il Dottore batté il batacchio tre volte in rapida successione. John non dovette aspettare nemmeno un minuto per trovarsi davanti un uomo sulla trentina, con un paio di folti baffi marroni. Sorrideva felicemente, scrutando il Dottore con evidente ammirazione.

"Oh, signor Sherlock Holmes! Qual buon vento" esclamò, stringendogli animatamente la mano. "Chi é il suo amico, se mi é permesso chiedere?"

Il Dottore guardò John dritto negli occhi, una luce selvaggia ad animarli. "Carta psichica" ribadì sottovoce, senza quasi muovere le labbra. Poi: "Lui é il mio caro amico John Watson. John, ti presento il signor Arthur Ignatius Conan Doyle."

*

Due settimane dopo

"Vuoi dire che Arthur Conan Doyle ha scritto dei romanzi basati su di noi?" domandò John, seduto sui gradini all'ingresso del TARDIS, sfogliando distrattamente una nuova uscita del "Daily Mail".

Il Dottore, guardandolo negli occhi, premette bottoni, girò in senso antiorario una manopola e alzò una leva. "A volte capita, di influenzare gli eventi. É un cambiamento relativamente irrilevante, che non modifica i punti fissi del Tempo" spiegò schiacciando un grosso pulsante rosso, dopo aver fatto una mezza giravolta.

"Dove stiamo andando?" chiese John, interessato. "Sherlock?" lo chiamò nuovamente, con un lungo sospiro.

La prima volta che l'aveva fatto, al posto del solito e formale 'signor Holmes' (come si confaceva all'anno corrente), il Dottore l'aveva guardato tra il sorpreso e il meravigliato, le labbra dolcemente schiuse. E John si era reso conto che per lui ormai era davvero solo Sherlock, perché mentre il resto del mondo l'avrebbe sempre chiamato Dottore lui avrebbe avuto il piacere - e il privilegio - di non farlo. Era meglio di un nomignolo, e di gran lunga più intimo.
Avevano finalmente lasciato la Londra ottocentesca, (dopo aver risolto un interessante caso riguardo dei Giradischi che intrappolavano la voce delle persone), e John lì si era abituato a molti difficili aspetti del suo carattere.

"Non ne ho idea. É più divertente non sapere. Sto solo cercando un supermercato" rispose semplicemente, passando il palmo aperto amorevolmente sulla console.

John scosse la testa. "Fantastico. Davvero fantastico."

"Sono lieto che tu condivida la mia idea" disse distrattamente, sistemandosi il cravattino. "Vieni?" 

"Come sempre" rispose automaticamente John. 

Una volta sospinta la porta verso l'interno, si ritrovò davanti lo sguardo vacuo di un merluzzo nel reparto surgelati. "Sei davvero atterrato all'interno del supermercato?" domandò John, allibito.

"Mi limito a risparmiare tempo" ribatté oltraggiato il Dottore, sporgendosi oltre la sua spalla. Poi, senza aspettarlo, perfettamente incurante del gruppo di persone che si erano radunate attorno al TARDIS, Sherlock si era infilato in una corsia, scomparendo alla vista. 

Prontamente, John estrasse dalla tasca dei jeans quella che a lui sembrava un semplice foglietto rettangolare in un portafoglio, ma che a chiunque possedesse immaginazione appariva in modo diverso. "Ispezione... della qualità dei prodotti" disse John, sventolando loro davanti la carta. 

Si chiuse la porta alle spalle, prima di raggiungere Sherlock, che aveva le braccia ingombre di sacchetti di marshmallow, Jaffa Cakes [5], e un numero esorbitante di filtri di tè. 

"Hai pagato, almeno?" chiese John, vedendolo rientrare. 

"Gerstofesì" mugugnò, con un sacchetto di marshmallow tra le labbra. "Certo che sì" ripeté, dopo aver visto l'espressione confusa oltre ogni limite di John.

Prima di salire nuovamente, John si accorse che sul ripiano di uno scaffale c'erano arrotolate due carte da venti sterline. 

"Prendi" lo sorprese Sherlock a tradimento, lanciandogli una confezione di Earl Grey. 

Sherlock si arrotolò le maniche della camicia nera fino ai gomiti, prima di aprire tutti e cinque i sacchetti di marshmallow e rovesciarne il contenuto sulla consolle.

"Quindi... marshmallow" disse John, con un sorriso.

"Marshmallow" disse semplicemente il Dottore in riposta. Se ne mise uno in bocca con espressione dubbiosa, per poi masticarlo con fare guardingo. "Ci vorrebbe del ripieno alla banana, non credi? Sono troppo... semplici, ecco"[6] disse prendendone un secondo tra indice e medio, guardandolo controluce.

"A volte le cose semplici sono le migliori" disse John, sentendosi come se all'improvviso Sherlock non stesse più parlando dei marshmallow ma di lui.

"O al mirtillo. O erano le melanzane? Mi confondo sempre" disse il Dottore addentandone distrattamente un altro.

"Io propendo per i mirtilli" commentò John. Non riusciva a smettere di guardare Sherlock, stupendosi di quanto la tenerezza fosse controbilanciata da un risvolto fortemente erotico. Deglutì prima di avvampare.

Decise di seppellire il viso nelle pagine di un libro per il resto della serata, mentre Sherlock infilava diversi composti all'interno dei marshmallow. 

*

Londra, XXII secolo

"Come avete fatto a non notare il risvolto dei suoi jeans? Lestrade, sei un idiota!" proruppe Sherlock, indicando con gesto stizzito il cadavere di un uomo ai piedi di un divano con la fantasia a fiori macchiata da schizzi di sangue.

"É per questo che ti ho chiamato! Per vedere quello che a noi stava sfuggendo" s'infervorò l'altro, diventando paonazzo.

"A mio parere, quella é stata davvero un'azione da idiota" commentò sottovoce Anderson, prelevando un campione d'intonaco.

"Mai quanto tradire tua moglie con un androide"[7] ribatté Sherlock con fare altezzoso.

"She- Dottore, taci" si corresse John, repentinamente. "Ora, saresti così gentile da spiegarci perché la testa di quell'uomo é volata dall'altra parte della stanza?"

Sherlock arricciò il naso, ma John si accorse che quel gesto era solo un modo per bloccare sul nascere un minuscolo sorriso. "I marshmallow" rispose soltanto, guardando John come se dovesse continuare lui la spiegazione.

"Quindi... é stato ucciso dal cibo spazzatura. Illuminante" sospirò Lestrade, passandosi stancamente una mano tra i capelli brizzolati.

Sherlock si dilungò in una spiegazione di come l'assassino - un geniale ed inventivo tredicenne - fosse riuscito a modificare la composizione molecolare di quel particolare tipo di dolce, facendo sì che esplodesse non appena venuto a contatto con la saliva umana.

"Eccezionale" lo lodò John una volta fuori, sentendosi scaldare il cuore quando vide le sue guance imporporarsi di un lieve rossore. "Non sei abituato ai complimenti, vero?"

Il Dottore si strinse nelle spalle, cominciando a maneggiare quello che molto tempo prima John aveva scambiato per una bacchetta, ma che poi si era rivelato essere un cacciavite sonico, dalle molteplici funzioni.

"Non é quello che le persone dicono di solito" si giustificò semplicemente.

"E che cosa dicono di solito?" domandò John, rabbuiandosi.

"'Fuori dai piedi. Portami con te.' Richieste stupide."

"E allora perché lasci che io viaggi con te?"
John aggrottò le sopracciglia, inquieto.

Sherlock sorrise, infilandosi nuovamente nella tasca della giacca il cacciavite sonico. "Perché tu non me l'hai chiesto."

*

"Gettalo. Subito. Fuori. Di. Qui" scandì lentamente John, additando l'organo che Sherlock stava stimolando con delle prese elettriche.

"Non se ne parla nemmeno. Questo cervello é fondamentale per i risultati del mio esperimento" ribatté stizzito, facendo turbinare la vestaglia rossa nello spazio circostante, considerata la velocità con cui si era girato verso John. "Non hai mai mostrato avversità verso i miei esperimenti" aggiunse, tornando a dedicarsi al suo lavoro.

"Perché non si trattava di parti del corpo precedentemente appartenute ad un essere vivente" argomentò John, sollevando lo sguardo al cielo. 

Non aveva idea di che ore fossero, nel TARDIS era impossibile dirlo, ma entrambi erano in pigiama, e John avrebbe volentieri evitato quella conversazione per dedicarsi a un sonnellino.

"Tecnicamente, apparteneva ad un Cyberman, quindi-"[8] cominciò Sherlock, facendo schioccare la lingua con aria di disappunto, quando John emise un lamento di pura frustrazione.

"Ho detto: fuori. O ti lascerò sul primo pianeta a cui andremo incontro" lo minacciò, incrociando le braccia sul petto. 

Sherlock sollevò ironicamente un sopracciglio. "Correggimi se sbaglio, ma penso che all'interno della mia abitazione-"

"La nostra abitazione" intervenne John, cominciando ad innervosirsi. 

"Vuoi smettere di interrompermi? Sta cominciando a diventare noioso" commentò, alzandosi in piedi e mettendosi le mani sui fianchi. 

John sorrise. "Hai detto che ti avrei dovuto correggere se avessi sbagliato, e l'ho fatto."

"Oh, John..." si lamentò Sherlock, passandosi energicamente entrambe le mani sul volto. "Neanche se te lo chiedessi per favore?" aggiunse speranzoso, riuscendo a trasformare l'intero viso in una smorfia sofferente.

"Oh, non provarci. Non con me." 
John cominciava a sentirsi vacillare, ma non avrebbe ceduto; a costo di prenderlo a mani nude e lasciarlo fluttuare per sempre nello Spazio, John si sarebbe liberato di quel dannatissimo cervello.

"Valeva la pena tentare" sospirò Sherlock, facendo spallucce, con un accenno di broncio.

Fece appena in tempo a completare la frase che il telefono a fianco della consolle cominciò a squillare. John e Sherlock si guardarono negli occhi per un secondo che parve infinito, prima che entrambi si lanciassero verso l'oggetto.

"Avete chiamato il Dottore, se- John, smettila di spingermi!" rispose Sherlock, tenendo una mano premuta contro il petto dell'amico nel tentativo di tenerlo lontano. "Sì, certo. State pronti: sto arrivando" disse con tono entusiasta, mentre il suo volto si illuminava come una lampadina, al culmine dell'esaltazione.

"Chi era? Dove dobbiamo andare?" domandò immediatamente John, dopo che Sherlock ebbe riappeso.

"Bevi una tazza di tè, se vuoi. Mangia un muffin, se preferisci. Stiamo per salvare il mondo in pigiama!" esclamò abbassando una leva e facendo partire il TARDIS con un forte sobbalzo.

"Sei un Signore del Tempo, perché non possiamo andare a vestirci?" 
John lo guardò serrando con forza la mascella, per impedirsi di scoppiare a ridere come uno stupido.

Sherlock smise di fare quello che stava facendo, tenendo una mano sospesa in aria e l'altra premuta contro un timer, con sguardo allibito.

"John Watson, vorresti privare il mondo della vista del tuo stupendo pigiama con i ricci?" chiese, arricciando maliziosamente un angolo delle labbra.

John smise di opporre resistenza, ed entrambi si lasciarono andare ad una sentita risata.

*

"Sherlock, la regina Elisabetta I ti ha convocato!" urlò John, frizionandosi con forza i capelli bagnati con un asciugamano. Fissò lo scanner, cercando di decifrare qualcosa dal messaggio appena ricevuto, senza però riuscirne ad arrivare a capo. 

"Okay, andiamo" annunciò Sherlock, coprendosi le spalle con il lenzuolo più strettamente.

Dopo un attimo di smarrimento John, in ordine, sbatté più volte le palpebre, arrossì e tossì rischiando di soffocare nella propria saliva. 

"Sherlock, cosa....?" chiese con un filo di voce, facendo scorrere lo sguardo sul suo corpo, soffermandosi sulla nuda clavicola e la curva elegante delle spalle scoperte.

Poi, scioccamente, vedendo che Sherlock era intenzionato a sistemarselo adesso con maggiore cura, si coprì gli occhi con la mano sinistra.

"Che diamine stai facendo, John?" 
La voce di Sherlock aveva un'inflessione perplessa e incuriosita.

"Questo dovrei essere io a chiederlo! Stiamo per incontrare la prima Regina d'Inghilterra e tu... sei impresentabile, ecco" ribatté, dandogli le spalle risolutamente.

"Non mi dire che questo ti imbarazza."
Ora la sua voce suonava molto più che leggermente divertita. "Il TARDIS, per qualche ragione, ha deciso di far sparire i miei vestiti. Mi é rimasto solo questo" spiegò, avviandosi con nonchalance all'uscita.

"Posso prestarti qualco-"

"No."

John si rassegnò a seguirlo. "Questo non cambierà il corso della storia, vero?"

"La storia della Terra influenzata dal mio abbigliamento? E perché mai?" domandò Sherlock, girandosi verso di lui con sguardo impenetrabile.

Il pomo d'Adamo salì e scese velocemente. John sentiva il bisogno fisico di bere una tazza di tè. Non riuscendo a sostenere lo sguardo di Sherlock, lo rivolse altrove, serrando con forza la mandibola. "Era soltanto un'ipotesi."

"Un'ipotesi" ripeté Sherlock, inclinando la testa da un lato. "Bene. Stai migliorando" concluse con un breve sorriso.

Appena mise piede fuori dal TARDIS, Sherlock si ritrovò nel bel mezzo di una sessione del tè delle cinque. John imprecò tra i denti: accidenti a lui e ai suoi desideri! 
La Regina, comodamente seduta su un divano in stile rococò li accolse con un gesto elegante del capo.

"Dottore, é un piacere fare la sua conoscenza. Voi e il vostro compagno gradite qualcosa?" 

"Veramente, noi-"
John ripeteva quella frase in automatico da diverso tempo.

"Avete un muffin? Adoro i muffin" lo interruppe Sherlock, sedendosi al fianco della Regina, senza dar segno di averlo sentito. Allo sguardo confuso della donna, Sherlock aggrottò le sopracciglia e si portò entrambe le mani tra i capelli, scuotendoli energicamente. "Errore mio. Sono qualche secolo in anticipo. Gli scones andranno benissimo."

John si chiese se sarebbe più riuscito a pensare alla Patria e alla Corona senza associarli al tè delle cinque.

*

"Credo solo che dovresti pensare alle conseguenze, prima di dichiarare una guerra al Nuovo Stato dello Sciroppo d'Acero!" ansimò John, cercando di tenere il ritmo del Dottore. Il bosco era scuro, lugubre e fitto di alberi.

Il quale, non sembrando nemmeno lontanamente affaticato, abbassava la testa a causa di un ramo e saltava una radice a piè pari sfoggiando un'espressione al limite dell'esaltazione.

"Oh, non osare dire che non sono stato provocato!" replicò.

"Questa non é una ragione sufficiente! I tuoi amici..." iniziò John, sentendo la milza dolergli sempre più insistentemente.

"Io non ho amici" rispose immediatamente Sherlock, con aria seria e, al contempo, intrisa di rabbia.

John poté sentire distintamente il rumore di qualcosa dentro di sé che si frantumava. Si arrestò di colpo, lo sguardo fisso nel vuoto, i pugni stretti convulsamente lungo i fianchi. 

"John, muoviti!" lo incitò Sherlock, tornando verso di lui.

John sentì uno scricchiolio. Il suono chiaro e metallico di una sicura che veniva tolta. Guardò verso Sherlock, che sembrava non essersi accorto di nulla, se non dell'effetto che le sue parole avevano avuto sull'altro.

"É vero, John: io non ho amici. Ne ho solo..."
Sherlock chinò il capo, torcendosi le dita convulsamente.

John si lanciò verso di lui, facendolo cadere a terra. Tenne i gomiti ai lati del viso di Sherlock, sentendo pezzi di zolle crollargli sulla schiena a causa dell'esplosione.

"...uno" completò Sherlock, fissandolo come se improvvisamente John avesse detto qualcosa di straordinariamente intelligente.

"Ottima scelta, allora" disse John, alzandosi nuovamente in piedi.

*

"Delle persone sono morte" lo accusò il Dottore, cercando di mantenere l'espressione imperscrutabile.

James Moriarty passò dal sorridere sardonicamente ad atteggiare il viso in modo grottesco. "Questo é quello che le persone fanno!"

Il Dottore strinse i pugni dietro la schiena, affinché fossero nascosti alla vista dell'altro.

"Non così. Non quando ci sono io a poterlo impedire" replicò gelidamente.

Jim, infilandosi le mani nelle tasche del completo blu con un sorriso e dondolando sui talloni, si avvicinò di un passo. Sul tetto dell'Empire State Building l'aria soffiava ininterrottamente, facendo gonfiare i vestiti di entrambi.

"Oh, ti ho cercato per così tanto tempo. Quello era solo il mio modo per attirare la tua attenzione" gli sussurrò all'orecchio, tanto che il Dottore dovette lottare contro l'impulso di ritrarsi. 

Moriarty gli appoggiò una mano sul petto, a metà strada da ciascun cuore. "Non ti muovere" soffiò in modo cantilenante. "O il tuo fedele cagnolino morirà" finì, infilandogli una mano all'interno della giacca, estraendo il cacciavite sonico.

Aveva lasciato John nel TARDIS, il posto più sicuro dell'Universo, per quanto ne sapeva. Ma John era dannatamente testardo ed avventato, quindi c'erano grandi probabilità che fosse stato catturato. Il Dottore, per una volta, sentiva di non desiderare di correre alcun rischio.

Il Dottore sbuffò. "Minacce, Jim. Non hai nient'altro" lo rimproverò. E poi: "Sei convinto che io sia un eroe."

"Immagino che la tua mente sia al pari della mia. Ma un uomo che non usa armi," dichiarò, gettando il cacciavite sonico oltre la balaustra, nel vuoto, "non é altro che un idiota."

Il Dottore rise, senza allegria. Con movimenti veloci si slacciò il papillon. "Ed é proprio qui che sta il tuo errore: nel considerarmi umano."

Prima che l'altro potesse replicare alcunché, il Dottore gli aveva già legato i polsi con la stoffa del cravattino. Stringendolo in una morsa ferrea, il Dottore si buttò oltre il cornicione.

Mentre cadevano, mormorò all'orecchio di Jim. "Sono perfettamente sacrificabile. Questa é la mia mossa"
E con questo smise di cingergli le spalle, lasciandolo cadere pochi metri sotto di lui. 

"Addio, John" disse chiudendo gli occhi e allargando le braccia.

Poi, una piattaforma solida. L'impatto non era stato doloroso come si era aspettato. La Rigenerazione era comunque necessaria?

"Tu... maledetto incosciente!" urlò qualcuno.

Sherlock aprì gli occhi. "Cosa?"[9]

"Oh, sta' zitto, per l'amore di Dio!" ribadì la sua posizione John, alla console.

"Cosa?!" 
Sherlock era incredulo.

"Tutta quella scena per far sembrare il TARDIS il macchinario più complicato mai esistito e poi trovo questo" disse John, lanciandogli un libro, che gli ricadde in grembo. "Manuale per l'uso" spiegò, scuotendo la testa.

"Cosa?!"

John sorrise, incrociando le braccia sul petto. "Dottor Watson, se ti interessa. E adesso chi sta diventando ripetitivo?"

*

John camminava lentamente, sorreggendosi con una mano alla parete, data la forte sonnolenza. Il suono che stava seguendo, a tratti lento e malinconico, a tratti più impetuoso e travolgente, lo portò davanti ad una porta scura, di legno massiccio. John, credendo si trattasse di un sogno, la aprì senza un attimo di esitazione, trovandosi davanti una comune camera da letto, con una tavola periodica appesa ad una parete. 
Sherlock gli era difronte, gli occhi chiusi, mentre imbracciava un violino dall'aspetto tanto antico quanto nuovo. Quella sera indossava una vestaglia blu, che metteva in risalto i tratti spigolosi del suo corpo. John detestava che con un abbigliamento così comune riuscisse comunque a farlo sembrare ultraterreno in ogni suo gesto o movenza. La musica adesso era dolce ed incalzante, prima di diventare improvvisamente veloce e lugubre. Quando Sherlock smise di suonare, infilando il violino all'interno della suo custodia, John si rese conto che stava ansimando, colto dall'emozione che quel brano era riuscito a trasmettergli. 

"Mycroft" spiegò Sherlock, fissandolo intensamente, le mani infilate nelle tasche della vestaglia. "É il nome che ho dato al mio TARDIS. Era evidente che te lo stessi chiedendo."

"Era... uhm... sublime" John avrebbe voluto cercare le parole con cura, ma aveva ancora una mano sul pomello della porta, ed improvvisamente si sentì in imbarazzo. "Posso...?"

"Non vedo perché no" rispose Sherlock, sollevando ironicamente un sopracciglio.

"Io- Scusa. Non volevo invadere la tua privacy" continuò John, chiudendosi la porta alle spalle. 

"John. Non c'è problema" disse Sherlock, sedendosi sul bordo del proprio materasso.

"Sembrava che stessi soffrendo" gli fece notare John, affiancandolo. 

Sherlock serrò la mascella più strettamente. "Era solo un solfeggio."

"Io non credo. Sembrava che stessi componendo."

"Esattamente" Sherlock accennò un sorriso. "Finalmente non ti limiti più a guardare."[9]

John sbuffò. "Com'è possibile che ogni frase che ti esce di bocca sia un complimento e un'offesa insieme?"

Sherlock fece spallucce. "Talento naturale?"

John non trattenne una risata, anche se si rendeva conto che le palpebre gli si stavano facendo sempre più pesanti. 

"Forse dovresti andare a letto, John. É molto tardi." 
Ovvio che a Sherlock quel particolare non fosse sfuggito.

"Forse hai ragione" disse John, alzandosi con leggera fatica. 

Sherlock lo accompagnò alla porta, posandogli una mano sulla schiena. 

"Buonanotte, Sherlock" disse John, prima di stringerlo in un breve quanto inaspettato abbraccio. Sebbene Sherlock fosse rimasto immobile, fu deluso che il calore di John non gli penetrasse sotto pelle, scaldandolo fin nel profondo.

"Buonanotte, John" replicò, la voce calda e stranamente dolce.

Sherlock restò a guardare la porta chiusa davanti a sé per più di cinque minuti.

*

"Mi serve dell'acido cianidrico" borbottò Sherlock, in modo assente. 

John lo osservò camminare nervosamente fra le diverse sezioni del laboratorio, di un bianco immacolato, esclusi i liquidi fluorescenti contenuti in backer dalle forme più disparate.   

"Un liquido letale? Perché mai?" 
John incrociò le braccia sul petto, aggrottando le sopracciglia con aria rassegnata.

"Non é letale. Non per me, almeno" rispose guardandosi attorno, le palpebre socchiuse con forza data la concentrazione.

John si leccò rapidamente le labbra, e Sherlock lasciò vagare pigramente lo sguardo sulla fronte corrugata e lo stupore che racchiudevano gli occhi dell'altro. Il suo Palazzo Mentale era stracolmo, traboccante d'informazioni su John Watson. Cose futili che chiunque altro non avrebbe notato nemmeno se si fosse soffermato a cercarle.  Ma Sherlock le custodiva gelosamente in una confortevole stanza immaginaria che aveva assunto l'aspetto di un vivace salotto indubbiamente inglese.

Si legò un laccio emostatico intorno all'avambraccio, prese la siringa con due dita e, dopo aver fatto penetrare l'ago nella vena, premette lo stantuffo con un unico secco gesto. La sua testa, i pensieri che vi vorticavano all'interno impetuosamente, si fecero all'improvviso leggeri, ovattati.

"Sherlock, cosa-" iniziò John, raggiungendolo con veloci e nervose falcate. "Dimmi che non hai appena fatto quello che credo di aver visto."

Sherlock, guardandolo sotto le palpebre pesanti, appoggiò la schiena al tavolo e rilasciò un sospiro. "E a che scopo dovrei mentirti?"

"Acido cianidrico?! Che effetti ha su di te?" lo interrogò precipitosamente, tanto che le parole si accavallavano l'una all'altra.

Sherlock sentì il pollice di John scottargli lungo la giugulare, e deglutì a vuoto.

"Potresti paragonarlo alle droghe" spiegò, reclinando il capo per poterlo osservare meglio.

Sherlock si aspettava che il volto di John si coprisse di disgusto, invece John strinse più forte la presa e lo fissò, infuriato. Ma Sherlock non aveva mai visto un John Watson aldilà dei suoi modi cordiali, i morbidi (ed orrendi) maglioni, la fiducia del tutto ingiustificata che aveva nei suoi confronti. Il John che aveva davanti ora, era quello che aveva vissuto la guerra, che l'aveva odiata per ogni singolo secondo, e che eppure non credeva che sarebbe mai riuscito ad abbandonare. 

"Perché?" chiese, il tono inquietantemente calmo. 

Sherlock lo osservò schiudendo le labbra, sorpreso. "Perché... no?" replicò gelidamente.

"Con me non ti sarà più concesso. Consideralo un avvertimento" disse John, le mani ai lati del suo viso.

"O una minaccia." Sherlock arricciò il naso, infastidito. "Non sto danneggiando irrimediabilment-"

"Sta' zitto. Zitto. Che cosa devo fare per convincerti, dannazione?" domandò John, spingendo la schiena di Sherlock contro il tavolo, dolorosamente.

"Io-" iniziò Sherlock, prima che John, ancora una volta, sbriciolasse tutte le informazioni che credeva lo aiutassero a capire il mistero di cui John Watson, apparentemente inconsapevole, si circondava.

Gli infilò una mano dietro il collo, facendola salire rapidamente per circondargli la nuca e passare le dita fra i suoi capelli. Sherlock singhiozzò una volta, quando John gli strinse il fianco possessivamente, prima di incollare precipitosamente le labbra sulle sue. John muoveva le labbra, rilasciava sospiri e leccava, succhiava e mordeva qualunque parte riuscisse a raggiungere. Sherlock, abbandonato l'imbarazzo della sua inesperienza, lo tirò a sé per la cintura dei pantaloni, per poi circondargli la vita con una gamba. E Sherlock, in preda ad una sensazione estatica non faceva altro che ripetere 'JohnJohnJohnJohnJohn' come una preghiera, l'unica certezza a cui aggrapparsi.

Poi John si staccò da lui con un rantolo, mentre Sherlock, le guance arrossate e le labbra gonfie, respirava pesantemente. John percorse la lunghezza dello zigomo di Sherlock con il pollice, lentamente.

"Non puoi perché mi importa troppo" si giustificò John, appoggiando la fronte sulla sua.

E Sherlock capì che per lui era lo stesso. 

Note:

[1] Pistola in dotazione all'Esercito Britannico. 

[2] É l'intercalare dell'Undicesimo Dottore. Ammetto di essere stata sul punto di usare "Allons-y", ma poi la frase di John avrebbe perso di senso.

[3] Nella serie tv di "Doctor Who", la carta psichica ha l'aspetto di un pezzo di carta bianca, e il Dottore la usa generalmente per infiltrarsi in un posto in cui se no non gli sarebbe consentito l'accesso, o più semplicemente per non dover rivelare la sua identità. 

[4] Il 1887 é l'anno in cui A. C. Doyle ha pubblicato il primo romanzo sulla storia del (consulting) detective più conosciuto al mondo, ovvero, inutile dirlo, Sherlock Holmes.

[5] É una marca di biscotti inglesi, credetemi, sono buonissimi. Lo so, lo so, in questa OS ho nominato più dolci che personaggi ;)

[6] É un riferimento al Decimo Dottore, amante dei muffin alla banana. Dolci, ancora una volta.

[7] Spero che si sia capito che l'androide in questione sia Sally Donovan, ma una nota in più non guasta.

[8] Un Cyberman é un robot che in principio era umano, di cui conserva ancora soltanto il cervello.

[9] Questa nota é probabilmente quella più superflua. "Tu guardi ma non osservi, John."
 
   
 
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