Serie TV > Merlin
Ricorda la storia  |      
Autore: Amber    20/10/2016    1 recensioni
Il Drago Khilgharra ha profetizzato il ritorno di Arthur dopo la sua prematura morte. Merlin ci crede e fiducioso aspetta. Passano gli anni, passano i secoli e lui continua ad aspettare. Il mondo intorno a lui cambia e il tempo diventa una trappola in cui annegare.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nel futuro
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Se siete qui a leggere vi avverto: siate prudenti. Perché questo è male, questo è Angst allo stato puro è… lacrime a non finire e testate contro il muro.
In realtà mi sarebbe piaciuto curare di più la parte riguardante la Storia… ma non volevo che la lettura diventasse troppo pesante, senza contare che avevo paura di divagare e di perdere il punto di quello che volevo raccontare con questo… dramma. Perché questo è un dramma sappiatelo, cioè siete avvertiti.
Capiamoci: io amo l’Happy Ending ok? Io non scrivo queste cose. No, non lo faccio. E invece il finale super aperto mi ha ucciso e mi ha fatto esplodere quindi si, ho pensato, lo scrivo e basta.
E a voi tutti che avrete il coraggio di arrivare alla fine di questa cosa… sappiate che mi dispiace tanto. Tornerò con qualcosa di meno drammatico, promesso.
Tanto amore e tanto Merthur
Amber
 
1000 ANNI DI SOLITUDINE
 
-Abbi fede. Perché quando Albion ne avrà bisogno… allora Arthur risorgerà-
 
I primi 100 anni erano passati fiduciosi. Merlin era rimasto ben saldo nei suoi principi, attendendo impaziente, perché di sicuro quello sarebbe stato l’anno del ritorno. Al che il moro passava le giornate scrutando Avalon, sussultando ad ogni increspatura della sua superficie senza mai perdersi d’animo, camminando ininterrottamente avanti e indietro sulle sue rive.

 
I successivi 200 anni erano stati più complicati, complice il fatto che il paesaggio intorno a se stesse cambiando radicalmente. La foresta stava pian piano sparendo, sostituita da villaggi più grandi e invenzioni via via più particolari: il mondo andava avanti e non si fermava. Merlin si era improvvisamente reso conto che non riusciva a stare al passo con i tempi, troppo preoccupato nello studiare Avalon, e scioccato si era rimproverato: nel momento in cui Arthur fosse ricomparso non poteva fare la figura dello sciocco dimostrandogli di non riuscire più a girare per la loro stessa terra, sarebbe stato ridicolo! Quindi si era ripromesso di documentarsi e di rimanere costantemente aggiornato su tutto, senza però mai abbandonare il lago.
Dopotutto, il tempo non gli mancava no?

 
I 200 anni a venire erano stati decisamente più difficili. Camelot era sparita, letteralmente spazzata via dalla guerra con i conquistatori oltre mare e lui si era ritrovato a fuggire dalla sua stessa casa, da Avalon. Non troppo lontano, mai troppo lontano, ma abbastanza da rendersi conto che fuori dal piccolo angolo che si era ritagliato per vivere nel passato, c’era tutto un mondo nuovo che non conosceva ma che lo affascinava enormemente. Quindi, dopo aver fatto decine, centinaia di prove per essere assolutamente certo di continuare a sentire il lago anche a grandi distanze, si era messo in viaggio.
Ed era andato ovunque il suo occhio si posasse, ovunque la sua mente desiderasse andare, ovunque il suo cuore bramasse.
Ma non aveva solo visto luoghi, aveva anche conosciuto gente, aveva sentito storie, aveva scambiato parole e racconti –mai troppo approfonditi da parte sua- e si era sentito così felice, così completo dopo 500 anni, vivendo avventure in giro per tutto il globo.
E ogni sera, prima di addormentarsi, chiudeva gli occhi e portava la sua magia là, fino al grande lago di Avalon, studiandolo e interrogandolo, ma non giungeva mai alcuna risposta da quelle quiete acque. La tristezza e la nostalgia iniziavano a schiacciarlo in modo tale che improvvisamente l’oggi era diventato domani
-Ho tempo- si diceva –Ho già controllato ieri, ci penserò domani-
Così lasciava andare, il tempo che volava inesorabile, abbandonandosi al presente e a quello che gli offriva: la musica, le opere, il teatro, l’arte, le innovazioni, la scienza, l’astronomia, la conversazione occasionale, tutte cose che lo allietavano tenendolo occupato, almeno finché le amicizie non diventavano troppo serie e durature, le domande sul suo aspetto immutato non più scherzose ma sospettose. Allora lui semplicemente con una scusa se ne andava, cambiando luogo e paese, interrompendo ogni legame creato, ricominciando tutto da capo e riscoprendo altre meraviglie.
 

Almeno finché, all’alba del nuovo secolo 100 anni dopo, in una piccola e sperduta cittadina nel Nord dell’Austria, assistendo a teatro ad una tragedia in cui il Re protagonista moriva solo e abbandonato da tutti, non si era reso conto con orrore che era da quasi vent’anni che non controllava Avalon.
Vent’anni.
La magia –che usava ben poco e molto di rado a causa delle inquisizioni- era scoppiata dalle sue mani senza controllo e lui si era ritrovato piegato in due a vomitare anche l’anima in mezzo a gente urlante che scappava da teatro, non capendo come esso potesse essere crollato in quel modo, come un maledetto castello di carta.
Ricordava di aver mollato tutto e di essersi messo in viaggio verso la Bretagna con il verme crescente della colpa che gli stritolava il cuore e la paura ad attanagliargli la mente, paralizzandola. E quando si era ritrovato davanti alle rive di Avalon senza riconoscerle, aveva deciso che i viaggi per lui erano finiti, per sempre.
 

I 200 anni successivi passarono nell’angoscia. Dopo essere stato certo senza alcuna ombra di dubbio che no, Arthur non si era risvegliato durante la sua assenza, si era ritrovato ancora più disperato e morboso nell’attesa. Passava ogni giorno, ogni minuto, ogni istante scrutando il lago e le sue rive, interrogando l’acqua con forza e senza alcun rispetto. E la pena aveva lasciato presto il posto alla rabbia, che era scoppiata nel grido di odio e frustrazione che aveva emesso a pugni chiusi, piangendo e scatenando non intenzionalmente una tempesta torrenziale che era durata giorni
“Se è questa la mia vita” aveva pensato bagnato fradicio, solo ed esausto, le ginocchia a terra e il capo chino “Allora sarebbe stato meglio se il Drago avesse taciuto”
Perché non solo odiava Khilgharra per la speranza, flebile e inutile che gli aveva lasciato; non solo odiava se stesso per ciò che era, per la sua natura immortale, per ciò che aveva fatto, che avrebbe potuto fare e per ciò che non aveva fatto; non solo odiava i suoi genitori per la vita stessa che gli avevano donato e che a quel punto mai avrebbe voluto avere; lui, si era ritrovato a pensare con la bile che gli bruciava la gola, odiava anche Arthur.
E imprecava contro di lui, lo malediva con le parole e con il cuore, lo insultava e l’accusava. Ma valeva se poi si ritrovava a  piangere, singhiozzando come un bambino? Lo pregava di tornare da lui, lo minacciava, gli gridava contro e subito dopo si scusava. Poi si malediva e lo insultava di nuovo.
Sfinito, quello era il termine che lo definiva mentre notte e giorno iniziavano a confondersi tra loro: la sera lo vedeva tremante, distrutto, la pelle ipersensibile dalla troppa magia repressa; il mattino stravolto, gli occhi umidi di pianto, la testa che scoppiava a causa di terribili incubi; e il tempo… quello ormai non valeva più niente, ma allo stesso tempo era tutto.
Che nome si doveva dare a un sentimento così ossessivo? Così distruttivo?
 

Altri 100 anni e stavolta dopo la rabbia venne il turno della depressione. Quella nera, soffocante, infinita, insidiosa.
Merlin si era ritrovato a puntarsi contro la lama del suo stesso coltello
“Sarebbe facile” aveva pensato atono “Niente più attese, niente più immortalità. Basta solo un affondo deciso e…”
Però non lo faceva, il coraggio gli mancava. Come avrebbe fatto Arthur se si fosse risvegliato solo, in quel mondo ormai irriconoscibile dove le persone giravano in auto su strade di cemento invece che su cavalli su sentieri battuti? Dove le guerre non si combattevano più con spade ma con fucili? Come avrebbe potuto cavarsela?
Ma il moro si ritrovò presto con un problema ben più grosso tra le mani e la depressione si fece più angosciante e pericolosa. Accorgersene fu come mettere un piede in fallo, saltare un gradino credendo che ci sia, fu come inciampare sui suoi stessi piedi finendo gambe all’aria: non si ricordava più di Arthur. Si sforzava di farlo, ma giorno dopo giorno la memoria lo ingannava: aveva perso l’esatta sfumatura con cui i suoi capelli color oro brillavano nel bagliore del sole; non ricordava più la forma degli occhi, si certo erano azzurri questo lo sapeva bene, ma la forma? Grandi, piccoli, un po’ allungati? Ricordava un naso dritto, ma le labbra? Tendeva a focalizzarsi sul suo sorriso, grande, pieno, con piacere sapeva che facendolo i denti un po’ storti facevano capolino senza che lui potesse nasconderli, ma com’era il suono della sua risata? Aveva nei? Merlin non lo credeva, e anche se lo aveva spogliato, vestito e aiutato a fare il bagno tante volte non era certo se ci fossero imperfezioni nelle sue spalle larghe o nelle braccia da guerriero. E le mani? Maschili, grandi… più che altro il moro credeva di ricordare la sensazione dei calli derivanti dagli sfiancanti allenamenti.
Ma la voce… la voce di Arthur. Dopo 900 anni ad ascoltare accenti, voci, mille e più persone che chiamavano il suo nome, dopo i toni arrabbiati, ironici, dolci, menefreghisti, dopo aver ascoltato oratori, studiosi e scienziati, dopo aver ascoltato i lamenti sofferenti di interi popoli, dopo tutta un’intera esistenza senza aver mai più sentito la sua voce, Merlin non la ricordava affatto. Sapeva che Arthur aveva uno strano modo di pronunciare il suo nome, una cadenza strana tra la E e la R, ma se scandagliava la sua memoria… essa lo ingannava come non mai. Perché sopra la sua voce ce n’erano mille altre non importanti, insignificanti, ma che gli ostruivano la memoria –come aveva potuto permetterlo?
-Dio no- si era ritrovato a singhiozzare, le mani affondate nel basso fondale del lago, le dita ad artigliare la sabbia melmosa. Così rischiava di veder risorgere Arthur e di non riconoscerlo affatto, di passare davanti a un uomo biondo, ben piantato e dagli occhi azzurri e non farci caso.
Faticava a ricordare le sue movenze, la sua gestualità, la sua ironia… non ricordava più perché ridevano tanto insieme. Un tempo era davvero stato una persona con cui divertirsi? Merlin aveva passato così tanto tempo da solo che non credeva di esserlo più: ci si può dimenticare come essere divertenti?
Poteva la sua vita diventare ancora più miserabile?

 
Rassegnazione. Inerzia.
Merlin a questo punto l’aveva aspettata come un assetato nel deserto
“Ecco” pensò sdraiato guardando il lago “Ora sto bene”
Gli ultimi 100 anni erano passati così, come un ubriaco. La mano affondata nel lago per sentire, la magia ridotta a una scossa così lieve da non essere quasi percepita e il sentimento del nulla a chetargli le viscere, la mente e il cuore.
Aspettava, ma il tempo non era più importante. Merlin era quasi convinto che se fossero passati altri 100 schifosi anni lui nemmeno se ne sarebbe accorto, cementato lì, diventando un tutt’uno con quella riva, sua unica amica. Dopotutto chi meglio di lei lo conosceva? Aveva visto le sue lacrime, la sua rabbia, lo aveva sentito parlare quando non c’era anima viva, aveva visto il brutto e il bello e, ovviamente, non si era mai lamentata.
Questo lo faceva ridere.
Perché chi, se non un pazzo, discorreva con la riva di un lago?
-Signore?- Merlin aprì un occhio e non rispose quando vide una bambina piegata su di lui, tutta infagottata perché era Dicembre e in teoria la gente normale aveva freddo in quel periodo dell’anno. In teoria –Signore sta bene? Non ha freddo?-
Appunto.
Il moro tornò a guardare il lago. A volte dimenticava che i bambini tendevano ad avere una visione diversa delle cose e che il leggero velo che lui si era tessuto intorno per nascondersi dal mondo con loro non funzionava
-Vattene- gli rispose laconico dopo interi minuti. Chissà, forse lei se ne sarebbe andata e lui sarebbe potuto tornare al suo nulla
-Siete il custode del lago?- domandò eccitata la bimba, i capelli corti neri non del tutto nascosti dal cappellino colorato –Gli abitanti del luogo dicono…-
-Vattene- E le lanciò l’occhiata più cattiva del repertorio perché… no, non voleva avere un’altra voce a sovrapporsi a quella di Arthur “Avalon scacciala, scacciali tutti” pregò.
Ma da quando quel maledetto lago lo ascoltava?
Perché era così difficile stare solo nel suo niente? Non si accorgevano che quel velo era calato per un motivo? Perché nessuno comprendeva il bisogno altrui della solitudine e della privacy?
-Ma tu non hai la giacca e c’è freddo- sbottò la sua interlocutrice pestando il piede, incurante dei suoi desideri. Lui non l’ascoltò e tornò a chiudere gli occhi, la corrente del lago gli scivolava tra le dita dolcemente, con la famigliarità di una vecchia amica –E’ vero quello che si dice in giro? Dicono che da oltre 400 anni qui ci sia un custode magico che aspetta il ritorno della sua amata maledetta da una potente strega. Sei tu forse?-
-400 anni sono pochi…- gli rispose lui, poi la guardò –Perché ti interessa?-
-Perché è molto romantico!- esclamò la bimba sognante –Anche io voglio che il mio lui mi aspetti… e mi aspetti… e mi aspetti… è prova di grande amore vero?- domandò eccitata
-O di grande stupidità- ringhiò il moro –Vattene. Non sai di cosa parli-
-Quindi sei davvero tu! Lo sai, credo che tu sia incredibile! Ma perché non spezzi la maledizione e non te la riprendi? Non sai come fare?- domandò curiosa –Anche se sei magico?-
-Non è una cosa che si spezza. Aspetto e basta- rispose con un nodo alla gola. Aspettava e basta. Dio, che tristezza dirlo ad alta voce
-Ma tutti gli incantesimi si spezzano con il Vero Amore! Questo insegna la Disney-
-Forse allora non lo è... Vero Amore-
Oh, questo faceva ridere. Vero Amore.
Peccato non ci fosse nulla da ridere
-Ma la tua lei ti aspetta!- esclamò scioccata la bambina
-Non c’è nessuna lei maledizione, piantala! È il mio Re, ok? Ed è un asino ma è il mio Re e ha bisogno di me e anche io ho bisogno di lui, ma non c’è. Non c’è! Non è da nessuna parte e tu non dovresti vedermi quindi piantala, vattene, sparisci!- gridò tirandosi a sedere e lanciandole addosso la sabbia del fondale, la mano scossa da uno spasimo di rabbia. La piccola lo osservò, le labbra tremanti, gli occhi grigi pieni di lacrime, la giacca nera sporca e lui si sentì un po’, ma solo un po’, in colpa –Scusa, scusami. Bimba tu non centri solo…-
-Oh, è così triste. Tu lo ami ma lui non lo sa? Oppure lo sa ma non ti sente? È rinchiuso troppo in profondità forse? Forse è per questo che non lo riesci a raggiungere? È troppo triste- singhiozzò lei e lui sospirò abbassando gli occhi.
Oh no, troppe emozioni
-Si, diciamo di si-
-Ma non puoi… parlare forte? Così forse ti sente?-
Merlin scosse il capo e sentì qualcuno chiamare la bambina
-Dovresti andare. I tuoi genitori ti chiamano-
-Sei qui domani?-
-Forse, ma tu non tornerai. Su, vattene-
Lei era rimasta silenziosa un solo, intenso secondo, le lacrime ancora umide sulle guance
-Signor custode…- Ma venne chiamata ancora e il moro non seppe mai cosa volesse dirgli. La bambina gli mise solo la sciarpa intorno al collo, un nodo storto e veloce, e scappò via sparendo oltre il velo calato.
Merlin guardò quel piccolo fazzoletto di lana rossa intorno al suo collo e si sdraiò, tornando ad affondare la guancia sulla riva
-Vero Amore… si, certo- Rimase in silenzio, ma affondò la mano nel lago. Attese… e attese, si morse il labbro, sperò di non tremare –Arthur? Arthur… io ti amo quindi… puoi tornare da me? Per favore… puoi solo smetterla di fare l’asino e… venire qui da me?- sussurrò con gli occhi enormi, il cuore che pompava nel petto fino al cervello.
Ma non successe niente.
Rise. Singhiozzò e quasi si strappò via la pelle dal volto, gridando.
Pazzo!, gridò là sua mente. Pazzo, pazzo, pazzo, pazzo…
La magia rispose per lui con uno scoppio involontario, le acque si incresparono e…
E pazzia fu.
 
***
 
Se qualcuno avesse chiesto ai condomini del palazzo anni 80 chi abitava nell’attico al quarto piano, in pochi avrebbero saputo rispondere.
 
Il postino, Marcus Tacher, che ogni mese recapitava le bollette in quella via non aveva mai visto nessuno e non aveva mai messo alcuna lettera in quella buca targata Merlin Emrys, successivamente modificata con l’aggiunta del nome Arthur Pendragon. In realtà la cosa lo faceva abbastanza ridere e raccontava sempre a casa o agli amici di questi due fantomatici omonimi del famoso mito che sembravano vivere in quel condominio
-Sicuramente è la stramba copertura per una tresca- commentava divertito a fine racconto.
 
L’amministratore condominiale, David Poole, non aveva contatti diretti con il proprietario dell’appartamento, Merlin Emrys, ma non gli importava più di tanto: gli assegni gli arrivavano puntuali come un orologio e questa era l’unica cosa a cui badasse. In più non c’erano mai state lamentele di sorta da parte degli altri condomini o da lui direttamente, e una grana in meno nel suo lavoro era quello che voleva, anche perché al moretto non importavano assemblee o altro, si limitava ad accettare quello che gli veniva proposto e tanti saluti. Segretamente, il sig. Poole, adorava quel tipo di clienti.
 
La famiglia Tate del primo piano, composta dai genitori e un bambino in età scolastica, non avevano nulla da dire su Merlin: era un moretto gentile e sorridente, un po’ troppo sorridente, che li salutava con fin troppo entusiasmo quando incrociava il sig.r Tate e figlio ogni mattina mentre andavano a scuola, o la sera quando la sig.ra rientrava dal lavoro al suo stesso orario
-Vi porterò un po’ di torta che ha fatto Arthur- diceva loro facendo l’occhiolino al figlio, Clark –Ne ha fatta troppa, come sempre-
La cosa faceva piacere più al figlio che ai genitori, ma andava bene così e con i loro impegni che li tenevano fuori tutto il giorno non avevano il tempo per badare a ciò che succedeva a quello strambo ragazzo del quarto piano.
 
Al contrario la vecchietta ottantenne del secondo piano, la sig.ra Emily Gibbs, impicciona come pochi, rimaneva ore incollata con l’orecchio alla porta e ogni volta era l’occasione buona per interrogare quel moretto che non lo convinceva affatto sul pianerottolo davanti a casa sua, tendendogli essenzialmente un agguato
-Dovreste venire a cena o a pranzo da me uno di questi giorni, tu e il tuo ragazzo. Vi cucino le lasagne-
-Ma no sig.ra Gibbs- era solito rifiutare il moro con un sorriso –E’ davvero molto gentile come sempre, ma Arthur è molto impegnato in questo periodo e anche io purtroppo. Come sta sua nipote?-
-Non è affatto un disturbo. Voglio solo conoscere questo misterioso condomino comparso nel nulla e che si è appioppato in casa tua! Non venite mai alle assemblee, lui non passa mai per le scale e l’ascensore qui non c’è. Dimmi figliolo, sei nei guai forse?-
-Ma no, cosa dice?- rideva Merlin abbracciandola di slancio –E’ così cara signora! Arthur non esce quasi mai solo perché è un artista, gliel’ho già detto no? Fa degli orari tutti suoi, per questo non lo vede mai. Ora scappo al lavoro e grazie per l’invito, non mancherò di dirlo ad Arthur-
E no, nessuno rifiutava le sue lasagne per così tante volte di fila. Quindi era sospetto, molto sospetto. Urgevano sistemi estremi all’istante!
 
La giovane donna trentunenne in carriera del terzo piano, Penny Devinson, dividendosi tra lavoro, madre malata e bollette da pagare non aveva tempo per le sciocchezza della vecchietta sotto di lei di cui nemmeno ricordava il nome, ma la sig.ra continuava a insistere, a insistere… e a insistere. Quindi fu presto detto e la donna si ritrovò a suonare all’attico al quarto piano, inquieta e infreddolita davanti all’unica porta esistente su quel pianerottolo, sperando di poter vedere questo fantomatico ragazzo in modo da tranquillizzare quell’impicciona, per poi poter tornare senza alcun indugio alla sua vita. Sapeva che Merlin non c’era –quel ragazzo non c’era mai durante il giorno-, ma qualcuno doveva esserci, quell’Arthur di sicuro, perché la sig.ra Gibbs l’aveva assicurata che nessun’altro era sceso da quelle scale, tranne la famiglia straniera che non parlava una lettera d’Inglese con cui Penny condivideva il pianerottolo. Suonò di nuovo, con un po’ più insistenza
-Che succede Penny?-
Sussultò girandosi di scatto e Merlin era lì, qualche scalino sotto di lei che la osservava severamente
-Mi manca lo zucchero- rispose di getto, arrossendo per la menzogna
-Ti prego di non suonare così insistentemente al campanello. Arthur è un artista e tende a star sveglio la notte a lavorare. Se fai così lo svegli e dopo è irritabile da matti-
Lei si ritrovò ad annuire, la bocca secca
-Scusa, non lo farò più. Non sei al lavoro oggi?-
Lui le sorrise gentilmente e arrossì, la scostò da davanti la porta ed entrò in casa lasciando l’uscio appena socchiuso, raccomandandosi che l’aspettasse un attimo lì fuori senza però risponderle
-Arthur… ah, sei sveglio? Si, è Penny che chiede lo zucchero, sai la ragazza del terzo piano. Tranquillo amore, ci penso io- Merlin rise dopo un istante di silenzio, lo sportello della cucina che veniva chiuso –Si, so che dovrei essere al lavoro ma a metà strada sono tornato indietro, non ne avevo proprio voglia. Oggi voglio stare con te e… Asino piantala! Penny è fuori, non posso farla aspettare mentre ascolta le tue stupidaggini- lo rimproverò –Si, perché sono cose private!- Merlin era ricomparso sull’uscio e le aveva allungato un sacchetto, rosso in viso e sorridente –Dici che ti basta?-
Penny non aveva controllato, i peli delle braccia dritti, le sopracciglia corrugate
-Merlin…-
-Mh?- Lui stava lanciando un’occhiata dietro la porta esibendosi in una smorfia buffa, ma tornò a concentrarsi su di lei –Ti manca anche il sale?-
-Senti ma Arthur…?-
-Si l’hai svegliato, ma sai cosa? Hai fatto proprio bene, è un asino con seri problemi di autogestione e… si mi hai sentito bene! Dormire di giorno fa male, lo dicono tutti!- esclamò aprendo di più la porta e voltandosi indietro, verso il salotto –Diglielo anche tu Penny- chiese in modo finto-serio puntando il pollice verso l’interno.
La donna guardò dentro l’appartamento.
L’attico era bellissimo, totalmente in ordine, molto grande, luminoso e le vetrate al di là delle finestre donavano la visione del misterioso lago Avalon. Sulla parete sopra il divano color rosso scuro c’era un bellissimo paesaggio ad olio raffigurante un castello con alti torri e una foresta rigogliosa. C’era la televisione in un angolo, intravedeva addirittura la cucina con il tavolo, il tappeto e la scarpiera all’ingresso con tre paia di scarpe della stessa misura, un solo cappotto appeso nel gancio di fianco a lei ma… null’altro. L’appartamento era vuoto. Non c’era nessuno tranne Merlin e lei, bloccata sull’uscio, la lingua incollata al palato.
Arthur l’artista non c’era
-Penny?- la chiamò Merlin preoccupato –Stai bene? Sei un po’ pallida-
Ed era ridicolo che lui chiedesse a lei se stesse bene
-Si- mormorò lei –Bene. Ecco… grazie per lo zucchero Merlin-
-Nessun problema, torna quando vuoi. Anzi, se ogni tanto vuoi venire a disturbare Arthur a caso fallo pure, hai la mia benedizione!- esclamò il moro sorridendo, prima di roteare gli occhi blu –Ma lo senti che arie si da?- sussurrò poco velatamente.
Lei non rispose quando capì che lui si era già scordato di lei, voltandosi a litigare e battibeccare con… il nulla.
Fu lei a richiudere la porta dell’appartamento il più piano possibile e a scappare da quel pianerottolo, lo zucchero che si spargeva a terra come neve. Si sbatté la porta di casa alle spalle, il cuore che batteva a mille e si chiese sconvolta cosa esattamente dovesse fare.
Era stato scritto un manuale su “come dire al tuo simpatico vicino di casa che è un pazzo psicopatico che parla con un inesistente moroso convivente”?
 

Merlin si accoccolò sul divano, il sole pomeridiano che entrava dalla grande vetrata e lasciò che la magia lavorasse per lui. Il divano divenne un letto a baldacchino con le coltri rosse, le ampie finestre si rimpicciolirono creando all’esterno l’illusione di una foresta, i muri divennero di spessa pietra e il sole inondò la stanza
-In realtà mi piace il nostro divano, sai?- sussurrò Arthur, sprofondando nel materasso accanto a lui
-A me piace di più il tuo letto- si stiracchiò ridendo e affondò il viso nel cuscino
-Oh, ecco un’altra cosa che avresti dovuto dirmi 1000 anni fa-
-Ma piantala- E Arthur lo fece, si zittì. Merlin alzò gli occhi su di lui ed eccolo lì il suo Arthur: ecco i suoi capelli biondi illuminati dal sole, i suoi occhi azzurri espressivi, le sue labbra tirate in un sorriso, il rosso Pendragon della maglia a fasciarlo come un guanto. Si perse nel guardarlo e sospirò di felicità, quasi gli vennero le lacrime agli occhi –Sei qui-
-Sono qui-
-Non andrai più via?-
-Mai più-
Merlin allungò una mano, indugiò un attimo e si indirizzò verso la sua guancia: avvertì pelle morbida e calda, il respiro sulle sue dita, la consistenza dolce dei suoi capelli color oro. La magia crepitò appena dalla punta delle sue dita e rese i lineamenti del Re impercettibilmente più definiti, più reali, più veri.
Arthur incurante, rimase fermo, sorridendo, aspettando di dire quello che lui voleva sentirsi dire, proprio come da programma
-Arthur ti amo-
-Anche io ti amo idiota-
E anche se era magia, pazzia, illusione o stupidità non importava.
Andava bene così.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Merlin / Vai alla pagina dell'autore: Amber