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Autore: Midori Kumiko    22/10/2016    0 recensioni
Ormai era deciso. Sarebbe cominciato quel periodo di terrore, angoscia e paura. In questo gioco mortale avremmo dovuto partecipare come alleate, pur possedendo caratteri diversi, anzi opposti. Avremmo dovuto fare la stessa fine di tutti gli altri...o forse no? Storia scritta a quattro mani: da me e dalla mia migliore amica (Questa è la nostra prima fanfiction)
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 5: La casa dell'orrore
 
-Adesso mi racconti cosa diavolo è successo l’altra sera!- mi urlò in faccia quella squilibrata ammanettatrice di persone. Insomma, nemmeno io mi portavo a presso un paio di manette! Comunque, avrei dovuto immaginare che avrebbe fatto tutte queste domande: mi era sembrato fin troppo bello che, il giorno prima, fosse stata sempre in silenzio.
 
-Ma che cazzo fai?! Lasciami andare, squilibrata!- gli urlai, tentando di tirare dalla parte opposta, sperando che quelle manette fossero giocattoli e che si rompessero subito. E invece niente.
 
-Ora non ti lascerò andare fino a quando non mi avrai spiegato il perché dell’altra sera, al supermercato!- mi guardò con sguardo serio e determinato, forse convinta che quello stratagemma potesse funzionare. Cosa gli costava aspettare qualche giorno per ricevere direttamente da lui spiegazioni?
 
-Non m’importa quello he tu vuoi, io me ne vado.- dissi cominciando a dirigermi verso la fermata, trascinandola lungo la strada: prima o poi si sarebbe stancata, no? La gente per strada ci guardava male, forse pensando che stessimo svolgendo qualche gioco perverso, ma in quel momento non me ne fregava niente. L’importante era togliersi di torno quella palla al piede. Per fortuna, o sfortuna, l’autobus arrivò subito: lì, di certo, con tutta quella gente, non avremmo potuto parlare di omicidi al supermercato e  di telefoni che predicono il futuro. Una volta entrate, infatti, quella papera stava per aprir bocca, ma si bloccò all’istante, ragionando sulla possibile reazione degli altri passeggeri. In questo modo, potei godermi pochi minuti di adorato silenzio.. fino a quando non scendemmo dal mezzo.
 
-Ora puoi darmi delle spiegazioni!- insisteva lei, mentre ormai non si opponeva più nemmeno a essere trascinata, anzi, mi seguiva. Non avevo intenzione di farla entrare in casa mia, così intrapresi un percorso più lungo per tornare. Ero persino scesa qualche fermata più in là, per ritardare quell’inferno, ma non era servito a granché. L’anatra continuava a starnazzare insulse domande riguardo “il mio gesto spregevole al supermercato”, ed io ero stata costretta a ripetere più volte il giro della via per non condurla nella mia casa. Ormai si era fatto tardi, il cielo stava assumendo una tonalità blu oltremare, dopo il fiammeggiante tramonto visto poco prima. Possibile che non gli cedessero le gambe? Erano già passate diverse ore, e lei continuava a parlare: ma non gli si seccava la lingua?! Stanca di ripetere sempre lo stesso giro, deviai ancora una volta, inoltrandomi in una via mai presa, o comunque che non doveva essere molto frequentata, a giudicare dalle finestre e le porte sbarrate degli appartamenti della via. Davanti a noi, passò un gatto nero dagli occhi verde smeraldo, luccicanti come fanali. Non ero mai stata una tipa superstiziosa, ma ero sicura che quella fifona lo fosse quanto bastava per farla scappare, oppure convincerla a togliere quelle stupide manette. Di fatto, la sentii immobilizzarsi dietro di me, puntando i piedi per terra e certamente guardando in direzione dell’animale. Era fatta.
 
-Oh mio Dio! Che gattino stupendo! Awwwww! Vieni qui micio!- con una forza a dir poco sovrumana, mi trascinò con sé verso quel gatto che, vedendo quella pazza, era scappato all’interno di un edificio abbandonato. Avrei voluto tanto poterlo fare anch’io.
 
-No, gattino! Non scappare!- incredibile come una ragazzina fosse disposta a infilarsi in un edificio del genere pur di guardare un stupido gatto spelacchiato. Forse l’avevo sottovalutata: un minimo di coraggio doveva averlo, se era seriamente disposta a entrare in una casa del genere. Il palazzo si stagliava nel cielo notturno senza stelle, illuminato appena da un lampione dalla spettrale luce azzurrina e dal pallore della luna piena semicoperta dalle nuvole. L’esterno era dipinto di un orrido grigio metallico, macchiato in diversi punti: doveva essere piuttosto vecchio e malandato, poiché erano ancora visibili sotto la vernice le passate dei passati intonaci bianchi. Le finestre o erano un barlume di vetri infranti e tende semi ammuffite o erano sbarrate da assi di legno marcio. Un pennuto, poi, dall’alto del malandato camino sul tetto dalle tegole rosicchiate, sembrava osservare la scena con malvagio divertimento, con quei suoi occhi giallognoli, luminosi come fari nella notte. Assorta nelle mie osservazioni, non mi accorsi di essere stata trascinata da quella gattomane malata all’interno della casa spettrale.
 
-Dove sarà finito..?- si chiese tra sé e sé, irritandomi ancor di più. Ma che cazzo gliene fregava di un gatto spelacchiato, probabilmente affetto da qualche strana forma di rabbia?!
 
-Aspetta.. Ma dove siamo finite?!- ok. Ora avevo raggiunto il limite di sopportazione umana massima.
 
-Dove siamo finite?! Vuoi sapere in quale fottuto posto siamo finite per colpa tua?!- esplosi, mentre lei mi fissava con sguardo da pesce lesso. -Sai, vorrei tanto saperlo anch’io, peccato che non abbia con me la mia palla di vetro!- urlai qualche altra imprecazione al cielo, trattenendomi dal prendere a pugni il muro, per timore che quella catapecchia mi crollasse in testa. Però, pensandoci bene, almeno quella gattara e quel micio spelacchiato sarebbero crepati all’istante. La mocciosa se ne restò in silenzio, mentre le tremava il labbro inferiore e i suoi occhi si riempivano di lacrime: ci mancava solo che si mettesse a frignare. Era colpa sua se ci trovavamo in quella situazione. Udii alle mie spalle uno strano rumore, come lo scatto di una chiave nella serratura di una porta, ma non ci feci troppo caso: probabilmente si trattava solo di qualche asse di legno caduta, o di qualche strano animale, poteva persino essere quel maledetto gatto.
 
-Senti,- cominciai, rivolgendomi alla ragazzina, trattenendomi dall’urlare per non sentirla lagnare. –evita di metterti a piangere, la situazione è già abbastanza problematica. Piuttosto, prendi le chiavi di queste maledette manette e finiamola con questa buffonata.- le dissi con tono risoluto, ma lei non accennava ad aprirle, ma, anzi, i suoi occhi si riempirono ancor più di lacrime.
 
-Senti, finora mi sono trattenuta, ma ti assicuro che, se non mi togli queste cazzo di manette, potrei diventare estremamente violenta, e tu pregheresti non avermi mai incontrata.- le intimai con tono minaccioso,  non certo per fare scena, ma perché ero talmente infuriata che avrei potuto fare veramente qualunque cosa. –Anzi, sarebbe un’ottima occasione per..- stavo per ammettere, ormai seriamente intenzionata a farla fuori: non avrei fatto altro che anticipare l’inevitabile. Proprio mentre mi avvicinavo a lei, bloccandole il polso ammanettato, lei m’interruppe, pronunciando una frase talmente sussurrata da essere inaudibile.
 
-Che?!- le urlai contro, intimandole di ripetere, già frustrata per quel suo fastidioso modo di fare. Possibile che non fosse nemmeno capace di comporre una frase di senso compiuto?!
 
-NON HO LA CHIAVE!- urlò allora la mocciosa con tutta la voce che aveva, sgolandosi e facendo rimbombare l’urlo su tutte le pareti malandate, con un conseguente eco sinistro. Silenzio. Rimasi in silenzio, guardando fissa il terreno, perché sapevo, ne ero certa, che se l’avessi guardata negli occhi l’avrei uccisa seduta stante.
 
-Cosa cazzo significa che non hai le chiavi?!- le urlai contro, e seguirono i suoi lamenti accompagnati da altre lacrime.
 
-Me le sono dimenticate!- mi disse lei per giustificarsi: ma dove cazzo le aveva prese quelle manette?!
 
-Come è possibile che tu non abbia le chiavi?!- immaginavo le avesse prese da un qualche negozio compromettente, ma era chiaro che dovessero avere compresa la chiave!
 
-Insomma, dove cavolo le hai prese?! Le hai rubate a un poliziotto demente?!- le chiesi con tutta la rabbia trattenuta fino a quel momento, ficcandomi le unghie nel palmo per trattenermi dallo strozzarla, perché altrimenti non avrei saputo come togliere le manette.
 
-….- rimase in un preoccupante silenzio lei.. e io non potevo credere che quella fosse la reale provenienza delle manette. No, non poteva essere stata idiota a tal punto da fregare delle manette e dimenticarsi la chiave. Questo non potevo accettarlo. Cominciai a dirigermi a sguardo basso e a grandi falcate verso il portone da cui eravamo entrate.
 
-C-che cosa fai?! Dove mi trascini?!- chiese la ragazzina con tono tremante, proprio quando aveva appena finito di frignare.
 
-Voglio uscire da questo posto. è già abbastanza soffocante averti vicina, se ci si aggiunge la muffa e la polvere di questo posto muoio di asfissia.- afferrai la maniglia cigolante e arrugginita della porta, abbassandola e tirandola verso l’interno. La porta non si mosse di un centimetro. Riprovai e riprovai, ottenendo sempre lo stesso risultato. Pensai di provare a sfondarla, ma di certo non ci sarei riuscita con quel peso morto affianco.
 
-P-perché non si apre?!- perfetto. La serata ideale. Ammanettata a una gattomane, rinchiusa in una casa polverosa, con un gatto malato vagante, e con un possessore nei paraggi.
 
 
P.O.V. FUJIKO
 
Continuammo a ispezionare a passo lento e controllato quella casa dell’orrore, dove qualunque cosa poteva celarsi nell’ombra, senza che noi ce ne accorgessimo minimamente. Ogni volta che la suola delle mie scarpe incontrava il vecchio e scricchiolante legno delle assi del pavimento, degli inquietanti e prolungati cigolii si diffondevano per tutta la casa, immersa nel silenzio. Tutto ciò, ovviamente, contribuiva ad aumentare il mio battito cardiaco, quasi la pressione sanguigna minacciasse di salire fino a quando le mie vene non fossero scoppiate dal terrore.
 
 Stanca di arrancare nel buio a quel modo, senza nemmeno sapere dove mettere i piedi senza il rischio d’inciampare, estrassi con mano leggermente tremante il telefono dalla tasca, cercando di rischiarare l’oscurità che ci circondava con la luce del display. Quella luce abbaiante mi accecò per qualche secondo, fino a quando non mi abituai e fui in grado di dirigere il fascio di luce difronte a me.
 
Davanti a me, Aisu camminava a passo sicuro, senza esitazione, quasi ci fosse stata anche prima della luce a illuminare il passaggio. Compieva passi lunghi e felpati, tanto che in confronto a me lei faceva cigolare la metà delle volte quelle maledette e inquietanti assi. Procedeva certamente più velocemente di me, che non avevo affatto pretta d’inoltrarmi ulteriormente in quella casa, anche se l’idea di quel micio sperduto in quell’orribile abitazione mi faceva sentire terribilmente in colpa. Aisu non si voltò nemmeno una volta per guardarmi, semplicemente mi trascinava dietro di sé come fa un prigioniero con un blocco di cemento legato a una caviglia. Sembrava quasi sperasse che il suo polso, o più probabilmente il mio, si staccasse a forza di essere trascinato, in modo da potersi il più possibile allontanare da me. beh, non potevo certo biasimarla: quella di ammanettarci era senz’altro stata una scelta avventata (e folle), specialmente essendomi dimenticata di rimediare le chiavi. Mi chiesi più volte che cos’avrebbe pensato mia madre se avesse saputo che qualche giorno prima avevo assistito a un omicidio in un supermercato, che avevo sottratto delle manette a un onesto e autorevole poliziotto per mettere “in trappola” la mia nuova compagna di classe e che ora mi ritrovavo a vagare con quest’ultima in una casa abbandonata a quell’ora tarda alla ricerca di un gatto. Quella donna aveva partorito una pazza criminale, a quanto pareva.
 
In quella situazione così spettrale e paurosa, non potei fare a meno d’immaginarmi la rilassante scena di me e mia madre sdraiate insieme sul divano, sotto una calda e comoda trapunta rossa, sorseggiando cioccolata calda la Vigilia di Natale. Erano rare le volte in cui io e mia madre riuscivamo a intraprendere dei veri momenti madre-figlia, poiché lei viaggiava molto spesso per lavoro. Riuscivamo a trascorrere insieme la maggior parte delle festività, ma era capitato comunque diverse volte che mamma dovesse partire improvvisamente per un impegno, costringendomi a unirmi ai festeggiamenti delle famiglie di Kim e Alice, come un vero parassita. Ovviamente, le due mie amiche non mi avevano mai fatto pesare la cosa, conoscendo la complicata situazione lavorativa di mia madre. Tutto il contrario: spesso erano loro a invitarmi a festeggiare con le loro famiglie, accogliendomi sempre come benvenuta, con immenso calore. Purtroppo, in quel momento mi ritrovavo in una situazione ben diversa da quella di una rimpatriata fra amiche e parenti, e il gelido vento della cruda realtà mi trapassò le ossa facendomi rabbrividire.
 
Fiduciosa dell’apparente gran sicurezza di Aisu, mi lasciai trasportare da lei, stando solo ben attenta a dove mettere i piedi, giusto per non caderle addosso. Detto fatto, improvvisamente mi ritrovai a sbattere con la fronte chinata contro la schiena di Aisu, ora immobile davanti a me. Perché si era fermata?
 
 Mi sporsi leggermente da dietro di lei, illuminando la scena col telefono, per vedere meglio cos’avesse attirato la sua attenzione. Dinnanzi a noi, si trovava un particolare porta socchiusa: anch’essa era costituita da un legno piuttosto secco e malandato, che probabilmente di sarebbe sbriciolato con poco, ma qualcuno sembrava averlo preventivato. I bordi della porta, infatti, erano stati rinforzati con un qualche tipo di metallo grigio scuro dall’aria piuttosto resistente. Strano che in una casa di una tale età, per di più abbandonata da chissà quanto, fosse stata effettuata una restaurazione del genere…
 
-Mettiti qui- ordinò perentoria Aisu, trascinandomi oltre la soglia della porta, mentre lei rimaneva nella stanza, ponendo così la catena delle manette in mezzo al passaggio della porta. Non compresi le sue intenzioni fino a quando non afferrò saldamente la maniglia dall’aria nuova di zecca della porta, sbattendo violentemente la porta nel tentativo di spezzare le manette. Quella catena, però, non era poi così lunga, e i nostri polsi erano piuttosto vicini al punto di contatto tra il metallo della porta ed essa. All’idea del mio piccolo polso frantumato da quei colpi brutali, mi lasciai sfuggire un urletto di terrore all’ennesimo colpo della porta.
 
-Ti ho fatto male?- domandò lei, oltre la porta socchiusa, senza che riuscissi a leggere la sua espressione. Era la prima volta che mostrava il minimo interesse nei miei confronti, per lo meno che si preoccupasse della mia salute.
 
-N-no.- balbettai titubante in risposta, ancora scossa all’idea del polso rotto, che presi a massaggiare con l’altra mano come se si fosse realmente fratturato.
 
-Ah,- asserì lei semplicemente. –Peccato.- a quel suo commento gelido, freddo, indifferente ed estremamente perfido, ogni mia minima speranza che avesse cominciato ad accettarmi come essere umano mi crollò addosso come un enorme macigno.
 
Che antipatica, possibile che non abbia un minimo di riguardo verso gli altri?! Non la sopporto proprio!, m’infuriai mentalmente. Erano rare le volte in cui mi arrabbiavo a tal punto per il comportamento di una persona: la mia filosofia era sempre stata “sorridi e gli altri ricambieranno il tuo sorriso!”, ma quella tipa nemmeno sorrideva! Era inutile insistere con lei: se continuava a ostentare quell’aria da dura, io non ci potevo fare niente. D’altronde, non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire, no?
 
Dopo qualche altro colpo, i cerchi delle catene sembravano finalmente deformarsi, fino ad arrivare al punto di rottura, lasciandoci finalmente libere, anche se le due estremità rimanevano comunque legate ai polsi.
 
-Finalmente- mormorò lei: immaginavo la sua gioia nel non essere più vicina a un essere vivente, senz’altro una sensazione rigenerante e appagante per una sociopatica come lei.
 
Aisu non perse tempo, riprendendo subito a camminare a passo svelto e silenzioso, costringendomi a velocizzare l’andatura per starle dietro: poteva almeno aspettarmi, quell’antipatica. Mentre attraversavamo l’ennesima stanza buia, non potei fare a meno di far roteare il mio telefono nel tentativo di mettere a fuoco ogni angolo della camera, giusto per accertarsi che non ci fossero mostri i agguato o gattini indifesi e impauriti nascosti da qualche parte. Fortunatamente e sfortunatamente, nemmeno l’ombra di mostri e gattini, ma la sagoma di un oggetto attirò la mia attenzione. Sembra proprio.., decisi di avvicinarmi per verificare se si trattasse effettivamente di ciò che pensavo. Avvicinatami al tavolo malandato su cui era poggiato, potei accertare che le mie speranze erano fondate: che fortuna sfacciata!
 
-Aisu, guarda!- presi in mano quella grossa mascherina dall’aria anche piuttosto pesante che, grazie ai numerosi film d’azione e di spionaggio, ero riuscita a identificare come occhiali da visione notturna. Aisu li afferrò senza tanti convenevoli, subito indossandoli e premendo a caso un po’ di tasti, fino a quando non sembrò trovare quello giusto per accenderli.
 
-Sono occhiali da vista notturna: con questi si vede benissimo.
 
Continuammo a camminare mentre seguivo lei che si muoveva con un passo sempre più sicuro e rapido mentre io, intimorita, mi facevo luce col telefono. Per curiosità, mi fermai un attimo per guardare che ore fossero, poiché mi sembrava fosse passata un eternità dal nostro ingresso nella casa. Non ebbi neanche il tempo di guardare il telefono che Aisu era già scomparsa dalla mia vista.
 
-Maledizione!- imprecai tra me e me. Iniziai a sentire il cuore battere più velocemente, le gambe tremare ed il respiro sempre più veloce. "Merda. Non adesso, non è il momento! Calmati!" Mi appoggiai un attimo alla parete di legno per riprendere controllo di me stessa e del mio corpo.
 
-Ok, forza Fujiko andrà tutto bene...- mi ripetevo, ricominciando a camminare con il sudore freddo e col cuore ancora in gola.
 
Arrivai alla fine di quel corridoio lunghissimo e vidi una figura dietro l'angolo. Senza pensarci due volte corsi verso di essa, credendo fosse Aisu. Mi gettai d'impulso tra le sue braccia ma subito notai che qualcosa non quadrava. Era molto più alto di me e le sue braccia più possenti. La luce del mio telefono a contatto con il suo corpo mostrava muscoli ed una camicia bianca. Non era Aisu...
 
D'impulso mi staccai da lui spingendolo via ma con la luce del telefono notai che fece uno scatto verso di me.
 
A causa della spinta di prima inciampai in qualcosa e caddi a terra. Ero terrorizzata! Stava venendo verso di me! Senza pensarci due volte, presi la prima cosa da terra che mi capitò tra le mani; non riuscii a capire cosa fosse, data la scarsa illuminazione, ma era molto pesante. Diedi due colpi alla cieca: il primo non colpii nulla, ma subito al secondo si sentì un suono sordo ed il tizio cadde a terra. Subito lasciai cadere tutto ciò che avevo tra le mani accasciandomi al suolo. Il cuore mi batteva forte. Notai che il tizio non si muoveva più e mi misi le mani alla testa urlando dal terrore.
 
"Cazzo Cazzo cazzo oddio ho ucciso una persona.”
   
 
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