L’Italia è uno strano paese. Vista dall’alto sembra una lunga striscia
verde, come i nastri colorati fra i capelli biondi delle bambole dai visi
di porcellana.
Questa è la terza volta che torno qui, in veste d’attore e registra al mio
secondo premio oscar. Certo adesso sono un grande artista, ma fino a poco
tempo fa ero solo un ragazzo liceale con la passione per il basket. Sono
passati quasi dieci anni e ora ne ho 27. Sono un po’ più alto di quando
giocavo con la squadra di basket. I miei capelli sono più lunghi, il mio
manager dice che bisogna curare il proprio aspetto quando si diventa degli
attori famosi. Ho un orecchino all’orecchio sinistro, ma lo metto
rarissime volte, perché non mi piace.
A volte mi chiedo dove finisca la mia immagine e dove inizi il mio io,
quello vero e più profondo.
Sospiro senza neppure accorgermene. L’hostess mi offre gentilmente
qualcosa da bere, ma io rifiuto e torno a guardare giù. Sorvoliamo oceani,
terre immense. Il verde sfuma nel colore della terra. Il blu si tinge di
marrone. È un rincorrersi di colori e nell’esplosione generale mi ritrovo
in Italia.
Adesso torno qui per una mostra dei miei
film e un premio a mio nome, il premio “Hiroaki Koshino”. Mi passo una
mano fra i capelli….
Adesso sono un grande artista, con folle d’ammiratori ai miei piedi,
accerchiato da tanta gente che farebbe di tutto per me… eppure ormai è da
molto che non riesco a provare più nulla. È come brancolare sempre nel
buio.
Pensavo che diventare un attore famoso, dimostrando d’essere qualcuno, di
saper fare qualcosa, mi avrebbe reso felice…. Da dove viene quest’immenso
vuoto che sento dentro? Perché mi sento morto, come se in realtà non fossi
mai esistito? Eppure un tempo non era così. Cosa volevo? E adesso cosa
voglio? Cosa cerco con tanta disperazione, cosa desidero con tanto dolore?
L’hostess mi sorride augurandomi un buon soggiorno nel Paese delle Meraviglie e io mi sento un po’ come Alice, mentre scendo le scalette dell’aereo e i giornalisti si accalcano attorno a me per scattarmi delle foto, come tanti soldatini di carta. Sorrido come sempre, nel mio cappotto nero, come il gatto del Cheshire, nel labirinto della Regina di Cuori.
Il signor Murata mi viene incontro sorridendo,
da bravo giapponese che non ha imparato a fare altro. Mi accompagna in
albergo, rispondendo timoroso ad ogni mia domanda.
Facciamo un giro della città e noto uno strano movimento fra i giovani. Vedo
un grosso cartellone pubblicizzare l’evento sportivo del secolo:
“I Chicago Bulls per la prima volta in Italia! Chicago Bulls vs xxx, la
squadra campione d’Italia.”
E così, dopo dieci anni, ci rivediamo un’altra volta, in un Paese straniero
per entrambi.
Ripasso il discorso da fare alla presentazione
della retrospettiva dei miei film, ma non riesco a concentrarmi. Quando le
parole salgono alla mia bocca, il suono che producono risulta stridulo e
falso. Sento che sono altre le parole che la mia mente vorrebbe dire e
ascoltare.
Le pareti bianche sembrano quelle della palestra e il rumore delle auto che,
fuori dall’albergo, sfrecciano sull’asfalto, si acquietano, trasformandosi
nel rumore sordo e ripetitivo di una palla da basket sul parquet. Il rumore
delle suole delle scarpe che stridono scivolando sul pavimento, si confonde
con il mio battito agitato mentre leggo il mio discorso.
Chissà se ha appreso della mostra... chissà se verrà a vedere i miei film, a
vedere me. Chissà se ha dimenticato gli anni passati a rincorrere una palla
arancione, a raccontarci ogni particolare della nostra vita…
“Hiro. Noi due saremo amici per sempre. Niente e nessuno potrà mai dividerci…”
Ma poi quel nessuno e quel niente sono arrivati veloci e le nostre strade si sono divise. All’inizio ci siamo tenuti sempre caparbiamente in contatto, ma poi le parole sono state sostituite dai silenzi e ci siamo accorti di non aver più nulla da dire. Le parole si sono rarefatte… consumate…
Rivedo in silenzio il film che dà inizio alla
mia mostra. Le immagini scorrono veloci sul video, ipnotizzando il mio
sguardo, conducendolo in una danza pericolosa. Il mio primo film da regista
e attore, quello che mi valse il mio primo oscar. Ma non c’era nessuno ad
applaudirmi, ieri come oggi.
Osservo il pubblico davanti a me, mentre recito la mia parte di grande
regista, leggendo come un automa il discorso scritto per me dal mio
segretario. Anche questo falso. Come me. Come questo mondo pazzo in cui mi
ritrovo a vivere come una stella nel firmamento sempre più buio.
Allento la cravatta e mi siedo sulla poltrona
della stanza a me riservata nel grande teatro. Mi passo una mano fra i
capelli, gesto ormai consueto. Chiudo gli occhi cercando di riposare prima
del party a cui parteciperanno persone facoltose, artisti famosi… ma sento
il signor Murata parlare concitatamente nel suo inglese scolastico. Non
presto attenzione alla conversazione perché sarà sicuramente un giornalista.
Il signor Murata sa come trattare i giornalisti, quindi non mi preoccupo.
Sento le voci tacere e la porta aprirsi lentamente. Avverto il rumore
indistinto di passi concitati. Qualcuno deve essere entrato insieme al
signor Murata, quindi riapro gli occhi stancamente per cercare di mettere a
fuoco i miei ospiti.
Benché siano trascorsi diversi anni, non posso non riconoscerli. Sono sempre
gli stessi e per un attimo mi sembra di tornare indietro nel tempo. La
stanza in cui mi trovo si allarga infinitamente e gli spessi muri di fredda
pietra diventano di legno. Il silenzio viene scandito dai passi concitati
sul parquet e dal suono sordo della palla che si avvicina al canestro. Ma è
solo un attimo, poi il signor Murata si avvicina velocemente a me
chiedendomi scusa per la sua inefficienza. Io gli rispondo di stare
tranquillo e gli chiedo di lasciare la stanza.
Quando la porta si richiude dietro le spalle curve del signor Murata, mi
alzo per andare incontro ai miei ospiti, ma due braccia forti non mi danno
neppure il tempo di muovere un passo verso di loro.
<< Hiro-kun! È una vita che non ci si vede! >> mi dice strapazzandomi come
fossi un cuscino.
<< Chi lo avrebbe mai detto che quello scorbutico play sarebbe diventato un
attore e regista famoso! >> mi dice il rosso stritolandomi la mano.
<< Ciao. >> le laconiche parole di Mr Iceberg! Non è cambiato molto in
questi anni…
<< Siamo in Italia per una partita dall’allenamento e abbiamo visto la
promozione della tua mostra. >> continua Akira.
<< Avremmo voluto avvicinarti prima, ma c’erano così tanti giornalisti che
abbiamo lasciato perdere. Allora siamo venuti qua, ma quell’uomo non voleva
farci passare. >> gli fa eco Sakuragi.
<< Il signor Murata è il mio addetto stampa. Ha il compito di tenere lontani
i giornalisti. >> e vorrei continuare ancora ma due tocchi leggeri
anticipano l’entrata di Johnson, il mio manager.
Con il suo giapponese stentato, m’informa dell’inizio dell’incontro con i
giornalisti e i fan, così saluto i miei amici e li invito al party della
sera.
Giornalisti… fan… curiosi… centinaia di volti
estasiati, flash di macchine fotografiche, gridolini imbarazzati ed ecco che
lo show ricomincia. Sempre diverso, sempre identico a se stesso. Domande su
domande, richieste su richieste. Centinaia di volti che non ricorderò mai.
Milioni di parole disperse in aria. Miliardi di attimi persi nella catarsi
del tempo.
Un’ora di conferenza stampa, un’ora d’incontri con i fan e alla fine torno
in albergo stanco, spossato eppur felice. Dalle finestre della mia camera,
si riescono a vedere, non potendo comunque distinguerli, tante ragazzine
urlanti con le loro penne per gli autografi e doni per me. Sospiro annoiato
e appoggio la fronte sul vetro.
Accendo lo stereo e una musica dolce e triste si diffonde nell’aria, mentre
mi appoggio sul divano cercando una posizione comoda.
Nel
cielo di cenere affonda
il giorno dentro l'onda
sull'orlo della sera
temo sparirmi anch'io nell'ombra
Mi sembra di sentire lontane le onde del mare. I flutti che
s’infrangono contro le scogliere grigie. Il mare in tempesta che scuote le
imbarcazioni al molo e al largo. Apro gli occhi un attimo, solo per notare
un cielo grigio fare capolino dalla finestra, nascosto in parte da una
tenda. Cielo grigio come l’asfalto della strada che ho percorso, tutto solo.
Il suono delicato di un pianoforte che preannuncia il ticchettio della
pioggia sui vetri delle finestre. E così mi addormento. Cullato da una
silenziosa pioggia sfuggita alle catene dei miei ricordi. Di quelle giornate
in palestra, mentre fuori si scatenava il finimondo e Taoka urlava e le sue
urla riuscivano a coprire i rombi dei tuoni. Le notti trascorse a guardare
la tv in salotto, sotto una coperta calda, separati solo da una ciotola con
i popcorn… un film dopo l’altro, sognando quel che poi sarebbe diventato
realtà. Quello era il mio mondo, tutto quello che non avrei voluto perdere.
La mia realtà impossibile da cancellare, come le foto sbiadite racchiuse in
soffitta. Quei sorrisi felici immortalati nell’attimo d’eternità. Quel che
resterà per sempre è solo il ricordo di qualcosa che non c’è più.
la notte che viene è
un'orchestra
di lucciole e ginestra
tra echi di brindisi e fuochi
E lo show ricomincia. Sorrisi smaglianti, abbracci veloci, strette di mano amichevoli…. Mi sento come una bambola da esposizione. Una di quelle bambole di porcellana, quelle che mia nonna collezionava e che teneva nella vetrinetta di legno di noce nel salotto. Quelle bambole che provenivano da ogni parte del mondo e che io mi fermavo ad osservare attraverso il vetro, come moderne “Gioconde” dietro i vetri anti-proiettili del Louvre. Bambole dall’eterno sorriso triste e gli occhi grandi e freddi, fissi nel vuoto. Bambole dai lunghi vestiti di velluto e i capelli arricciati.
vedovo di te
sempre solo sempre a parte abbandonato
quanto più mi allontano lui ritorna
nella pena di una morna
Nascosto dal frusciare delle vesti e dalla
musica alta, mi nascondo nell’ombra ed esco ad assaporare la notte fresca,
nella sera italiana della terra delle Meraviglie.
Vinicio Capossela intona una lunga nenia infelice. La sua voce è profonda e
mi ricorda l’oceano. Le sue parole sono delle lame affilate che danzano con
la musica del pianoforte.
Questa canzone… questa canzone sembra parlare di me e mentre mi fascia e mi
affascina, socchiudo gli occhi appoggiandomi al piccolo gazebo soverchiato
dal profumo di gelsomino.
e sull'amore che sento
soffia caldo un lamento
e viene dal buio e dal mar
e quant'è grande la notte e il pensiero tuo dentro
nascosto nel buio e nel mar
Questa è la notte dei ricordi… dei lamenti soffocati… del
dolore dell’amore. L’amore dei miei 17 anni. Inspiro piano l’odore intenso
dei gelsomini. Lontane, mi giungono sfocate le voci concitate dei miei
ospiti e la lenta agonia delle parole.
<< Posso sedermi? >>
E’ strano. Nonostante siano trascorsi tanti anni, i suoi immancabili capelli
a punta sono sempre lì, orgogliosi di riuscire a sfidare la forza di
gravità.
Mi sposto e gli faccio segno di accomodarsi accanto a me, nel piccolo sedile
bianco. Ha con sé due calici dal liquido chiaro.
<< Brindiamo? >>
<< Sono astemio. >> gli sorrido.
<< Certe cose non cambiano mai vero? >> mi sorride incerto.
<< Altre invece ci sfuggono dalle mani, come sabbia nella clessidra del
tempo. >>
<< Oggi mi sento malinconico. Sarà questa canzone eppure… >> appoggia le
spalle larghe alla spalliera di legno bianco. << Eppure mi sembra di essere
tornato indietro nel tempo. Mi sembra di essere ancora un liceale, solo che
il mio sogno sono riuscito a realizzarlo… e anche tu. >>
grido non più
immaginare ancor
tanto qui c'è soltanto vento
e parole di allora
<< Questa è la notte dei ricordi. >> dice ad
alta voce e io non posso fare a meno di assentire in silenzio. Le note
malinconiche ricoprono le nostre parole non dette.
<< Ci pensi mai? A come eravamo un tempo, ai nostri sogni, ai nostri
“problemi irrisolvibili”…. Ci pensi mai a come eravamo noi due, tanto tempo
fa? >>
Lui sorride e torna a sorseggiare il liquido nel calice: << Sempre. Sei il
buco nero al centro del mio sogno, che attiri tutta la luce della mia
felicità. >>
<< Mi sei mancato. >>
<< Anche tu. >> mi sorride passandomi una mano fra i capelli, come faceva in
quelle notti d’inverno, con quella dolcezza che solo io conoscevo: << Questa
canzone sembra parlare di me. >>
<< Di noi. >> lo correggo stancamente.
<< Non mi hai più chiamato. >>
<< Neanche tu. >>
<< Forse era la cosa più semplice da fare. >> si alza e si toglie la giacca,
appoggiandola accanto a sé. Sullo sfondo della notte sembra alto e imponente
come il colosso di Rodi.
<< E tu? Cosa fai, oltre a giocare a basket, signor Campione dell’NBA? >>
gli sorrido. Lui si siede accanto a me. Si volta leggermente verso di me e
mi guarda con il volto appoggiato al palmo della mano sinistra, sorretta
dalla spalliera del sedile e inizia a parlare e le parole di confondono
nella mia mente col suono del mare….
il
vento della sera sarà
che bagna e poi s'asciuga
e labbra che ricordano e voce
e carne che si scuote sarà
Le sue labbra si muovono regalandomi attimi d’eternità. Tutto
attorno a noi sfuma fino a scomparire. Solo lui e io. Solo io e lui. Come
sempre è stato. Come doveva essere. Come non sarà. E nel film della vita che
doveva essere, vedo immagini chiare di qualcuno che non mi appartiene.
Perché non si può tornare indietro? Perché non posso avere ciò che desidero,
ciò che ho perso per uno stupido e maledetto no?
Il vento soffia leggero sollevando le amarezze dei ricordi… e ancora
ricordi…. Il passato si ricongiunge al presente e assaporo ciò che non c’è.
La delizia di un amore che non doveva nascere, di un amore sbagliato nato
tra le maglie della mia giovinezza.
sarà
l'assenza che m'innamora
come m'innamorò
tristezza che non viene da sola
e non viene da ora
Nulla è cambiato, almeno nel mio amore. È lui ciò che ho
sempre cercato, quel vuoto dentro, quella voragine silenziosa e affamata che
divorava ogni momento di gloria, con la stessa fame e la stessa arsura di un
condannato a morte. È il suo ricordo ciò che sognavo prima dell’arrivo
dell’alba.
Il mio amore è lo stesso del ragazzo di sedici anni che sono stato. Amore…
che soffre e fa soffrire. Che piega la vita dei pensatori, che ti fa vivere
sotto il lume di una candela, falsandotela come lo splendore di una stella.
L’amore dei poeti, dei cavalieri… l’amore puro che non teme la morte, perché
intriso di vita. L’amore totale e totalizzate. L’amore vero. Quello che ti
tiene sveglio la notte e ti nutre solo di se stesso. Quella madre calda che
ti accoglie e ti riscalda. Quell’amore che si cerca e si brama. Quell’amore
che ha mosso Paesi, che ha corrotto cuori, ha logorato menti, ha distrutto
animi. Quell’onda d’immane potenza che ti travolge e ti lascia ansante sulla
spiaggia, vicino agli scogli, ad un passo dalla morte. Quell’amore che dà
coraggio e senza il quale tutta la vita non sembra che una lunga strada
grigia e deserta. Vuota come il nulla.
ma si nutre e si copre
dei giorni
passati in malaora
quando è sprecata la vita
una volta
è sprecata in ogni dove
Ho sprecato la mia vita? Forse sì. Nonostante i successi sentivo l’eco di una voce lontana chiamarmi ogni volta che chiudevo gli occhi. Era la mia voce. La voce della mia adolescenza, che voleva farmi ricordare. Cosa dovevo ricordare adesso lo so. Una vita sprecata…. E mentre tu parli, mi accorgo dell’assurdità dei miei pensieri e mi allontano da te e da me.
e
sull'amore che sento soffia caldo un lamento
e viene dal buio e dal mar
e quant'è grande la notte e il pensiero tuo dentro
nascosto nel buio e nel mar
Vado via dalla festa inventando una scusa ridicola. Esco fuori
nella notte.
Mi piace la notte, perché per quegli attimi infiniti mi sembra di
dimenticare tutto. Mi perdo fra le vie piene di piccole luci, come piccole
fiammelle d’anime. Mi sembra di impazzire, mentre vago in questa città che
non conosco. Mi manca il respiro, ma non posso far altro che camminare e poi
camminare e camminare ancora, fino a che la stanchezza mi soffocherà e mi
permetterà di perdermi nelle ombre che fuggono via.
I piccoli vicoli illuminati dalle fiaccole dorate. Le case dai muri rovinati
dal tempo. Il passato ancora vivo e bruciante. Adoro questa terra, piena di
storia, piena di se stessa.
Nelle mie orecchie ancora la musica di Morna, in una lenta e incessante
melanconia.
Visi attorno a me si aprono come il mar Rosso. Gli occhi si sgranano e mi richiudo nel mio cappotto scuro, come potesse difendermi da tutti quegli occhi che mi scrutano, che cercano di capire, di carpire e tenere segregato.
grido non più
immaginare ancor
quel che tanto è soltanto
vento e rimpianto di allora
Come vorrei gridare! Come vorrei urlare! In
questa notte silenziosa i pensieri che volavo liberi, le parole che restano
soffocate, mentre alcuni cani si riuniscono vicino al cassonetto
dell’immondizia, cercando la loro via di sopravvivenza.
Le ultime anime perdute rientrano nella loro casa buia, mentre il cielo
diventa sempre più chiaro, fino a che le stelle scompaiono… ed è già
mattino.
il vento della sera
sarà
che bagna e poi s'asciuga
e ancora musica e sorriso sarà
e cuore che non tace
La città silenziosa si sveglia, cullata dall’ultimo vento
fresco della sera, che bagna le strade con le lacrime che ha raccolto e le
asciuga, prima del nuovo giorno.
<< Cosa ci fai qui? >> mi chiede una voce che riconosco subito.
<< Fuggo dai ricordi. >> gli rispondo senza voltarmi.
Lui mi sorpassa e si sistema davanti a me. Il suo sorriso migliore, i
capelli ancora dritti, il cappotto scuro… mi viene quasi da ridere, ma lui
anticipa i miei pensieri, come sempre.
<< E’ diventata un’abitudine fuggire, vero Hiro? >>
<< A volte non si ha altra scelta. >> rispondo distogliendo lo sguardo e
rimettendomi a camminare.
<< Le scelte ci sono sempre. È la paura che ci frena e ci oscura la mente.
>> mi dice affiancandomi: << E si può sempre tornare indietro… se lo si
vuole veramente. >>
<< Non è vero! Il passato non ritorna. Non resta che viverlo nei ricordi. >>
<< E’ vero: il passato non ritorna, ma possiamo noi cambiarlo comunque. >>
<< Dici una marea di sciocchezze Akira! >>
Come si può cambiare il passato se non si può tornare indietro? Lui sospira
stanco e mi sorride:
<< Ti basterà cambiare una risposta. Vuoi restare con me, Hiro? >>
la schiuma dei miei
giorni sarà
che si gonfia e poi si spuma
sarà l'anima che torna
nella festa di una morna
Il passato che ritorna e che muta. Forse si
può davvero cambiare e tornare indietro. Questa terra delle Meraviglie si
trasforma nella casa dei miei ricordi. Il divano bianco, il profumo del the
ancora caldo nella teiera, la pioggia che colpisce i battenti delle porte
delle finestre… la luce dei riflettori di un futuro tutto da costruire… il
calore delle sue mani che racchiudono le mie… quella semplice domanda….
Perché ho deciso di perdere tutto? Perché non sono riuscito a tenere stretto
ciò che volevo? Perché ho lasciato che i silenzi sostituissero le mie
parole, quelle stesse parole che premevano per predente vita…
Mentre il vento soffia fra i nostri capelli, sollevando in mille svolazzi i
nostri cappotti, il miagolio di un gatto copre il mormorio del mio sì. Quel
sì che avrei dovuto dire dieci anni prima, in una sera d’inverno, in una
terra diversa.
Il tepore del suo corpo mi avvolge come una
calda culla. Non sento più freddo. Non sento più quell’incessante vuoto
dentro di me. Adesso ho smesso di cercare.
E pensare che la felicità è sempre stata così vicina, ma la paura di
soffrire di più, di vedere nei suoi occhi il rancore mi aveva sempre
fermato.
Sì. Tornare indietro si può. C’è sempre tempo per essere felici.