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Autore: Blablia87    28/10/2016    7 recensioni
La voce dall’altro capo della cornetta, flebile, giunge a John spezzata, piccoli frammenti di emozione trattenuta in bilico tra il telefono ed il suo orecchio.
Il medico fa un passo indietro, cercando istintivamente, goffamente, riparo tra le pelle scura della poltrona del suo studio. Stordito, finisce invece col cadere sulla scrivania dietro di lui con un tonfo doloroso, le mani tremanti serrate attorno all’apparecchio.
“John… Riesci a sentirmi?”
Sorride sconvolto a quel richiamo, cambiando espressione ad ogni battito di ciglia, gli occhi fissi davanti a sé, vuoti. 
“Mi chiedevo se… Se potessimo incontrarci. Per parlare di… Beh, di questo.”
[Song!fic - Hello, Adele][Post-Reichenbach]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Hello, it’s me
I was wondering if after all these years
you’d like to meet
To go over everything
They say that time’s supposed to heal ya,
but I ain’t done much healing
 
Hello, can you hear me?
I’m in California dreaming about who we used to be
When we were younger and free
I’ve forgotten how it felt
before the world fell at our feet
 
There’s such a difference between us
And a million miles
 
Hello from the other side
I must’ve called a thousand times
To tell you I’m sorry for everything that I’ve done
But when I call you never seem to be home
 
Hello from the outside
At least I can say that I’ve tried
To tell you I’m sorry for breaking your heart
But it don’t matter, it clearly doesn’t tear you apart
Anymore
 
Hello, how are you?
It’s so typical of me to talk about myself
I’m sorry, I hope that you’re well
Did you ever make it out of that town
where nothing ever happened?
 
It’s no secret that the both of us
Are running out of time
 
So hello from the other side
I must’ve called a thousand times
To tell you I’m sorry for everything that I’ve done
But when I call you never seem to be home
 
Hello from the outside
At least I can say that I’ve tried
To tell you I’m sorry for breaking your heart
But it don’t matter, it clearly doesn’t tear you apart
Anymore
 
Hello from the other side
I must’ve called a thousand times
To tell you I’m sorry for everything that I’ve done
But when I call you never seem to be home
 
Hello from the outside
At least I can say that I’ve tried
To tell you I’m sorry for breaking your heart
But it don’t matter, it clearly doesn’t tear you apart
Anymore

 
 
 
 

 




“Ciao.”
 
 
 
La voce dall’altro capo della cornetta, flebile, giunge a John spezzata, piccoli frammenti di emozione trattenuta in bilico tra il telefono ed il suo orecchio.
 
Il medico fa un passo indietro, cercando istintivamente, goffamente, riparo tra le pelle scura della poltrona del suo studio. Stordito, finisce invece col cadere sulla scrivania dietro di lui con un tonfo doloroso, le mani tremanti serrate attorno all’apparecchio.
 
“John… Riesci a sentirmi?”
 
Sorride sconvolto a quel richiamo, cambiando espressione ad ogni battito di ciglia, gli occhi fissi davanti a sé, vuoti.
 
“Mi chiedevo se… Se potessimo incontrarci. Per parlare di… Beh, di questo.”
 
Il medico trattiene una risata incredula.
 
Poi un singhiozzo.
 
La rabbia risale a fiotti nelle vene, alle volte spingendo una gioia strana - irreale - più in alto, alle volte soffocandola tra le onde di un’ira folle, accecante.
 
 
“Tre anni.” Riesce a sussurrare alla fine, le labbra a sfiorare la cornetta, bollenti.
 
 
“Dicono che il tempo guarisca le ferite.” Sembra allegro, l’uomo all’altra parte, ma John sa che sta tenendo gli occhi bassi, carichi di impacciato imbarazzo quanto la sua voce.
 
Lo conosce, anche dopo così tanto tempo.
 
Sa che sta facendo fatica - che sta arrancando tra i pensieri, nelle parole - tanto quanto ora sa che gli ha mentito. Per anni.
 
Che ha lasciato i suoi giorni - il suo cuore - tra gli artigli di una menzogna immensa, orribile, senza preoccuparsi del suo dolore.
 
Senza preoccuparsi di lui.
 
 
“Con me non è servito a molto.” ammette l’uomo al telefono, e si vergogna di non essere capace di sopportare come vorrebbe i respiri spezzati che sente farsi sempre più profondi - più faticosi - nel silenzio del medico.
 
“Dove… dove sei?” riesce a chiedere John dopo qualche secondo, le dita della mano destra serrate al punto da dolere, nocche bianche e falangi arrossate.
 
“A casa.”
 
“A casa…” ripete lui, il cuore che diventa sempre più piccolo, sempre più contratto, fino a sembrare sul punto di fermarsi.
 
“Ho provato a chiamarti. Mille volte.” Ha la voce bassa, il fantasma del passato che è tornato in vita in un banale pomeriggio di ottobre, un cielo plumbeo come mantello. “Ma, alla fine, ho sempre riattaccato prima che potesse squillare.”
 
“Perché?” Il tono di John è alterato, adesso. Febbricitante, come i suoi occhi lucidi che non riescono più a mettere a fuoco correttamente l’ambiente attorno. Caldo come le lacrime che trattiene, ingoiandole insieme all’ossigeno che brucia nei suoi polmoni.
 
“Per dirti che mi dispiace. Per tutto. Per quello che ho… che ti ho fatto.” Comincia l’altro, sapendo che il suo tentativo di giustificarsi verrà interrotto dall’ira ormai traboccante del medico.
 
È certo che accadrà. Lo conosce.
 
Anche dopo così tanto tempo.
 
“NO.” John batte un pugno sulla scrivania, rovesciando a terra penne e fogli.
 
“No.” Un altro colpo, ed il suo stetoscopio già in bilico al bordo del ripiano si adagia al suolo, scivolando lentamente.
 
“Non volevo ferirti, John. Io…”
 
“Tu non mi hai ferito.” Sibila il medico, ancora incapace di pronunciare il nome di chi è tornato, terrorizzato che farlo possa rendere concreto l’abbandono e vano ogni pensiero su chi credeva davvero fosse, quell’uomo che si era suicidato di fronte ai suoi occhi, la vita di entrambi stretta tra le mani.
 
“Non importa.” La voce dall’altro capo del telefono si abbassa, rauca. “Non importa più, chiaramente.” Ripete. Cerca di comprendere, di farsi coraggio, ma John sa che no, non ha capito.
 
Non può.
 
“Tu mi hai portato via tutto, Sherlock.”
 
Il suo nome cade tra loro, si strappa, apre uno squarcio che divora il dolore ma incide ferite profonde.
 
John sente il sangue scorrere attraverso il telefono, umido come il marciapiede sul quale – anni prima - lo aveva visto allargarsi fino a coprire ogni cosa. Fino a profanare i ricci scuri ed il volto chiaro dell’uomo al quale non era riuscito a salvare la vita.
 
Fino a macchiargli le dita, le ginocchia, il viso, mentre - raggomitolato in un angolo, curvo tra la folla, annientato - osservava una barella portare via l’uomo al quale non aveva avuto il coraggio di legare la vita.
 
“Non riesco più neanche a ricordare come fosse la mia vita, prima.” Ringhia il medico, e sente il detective trattenere il respiro.
 
“Prima…?” Domanda.
 
Non si rende conto, è evidente. Ed il silenzio impacciato che segue grida a sua volta - in modo assordante - questa verità, l’unica che John riesca a percepire come reale, sincera, dopo anni di bugie.
 
“Se può essere d’aiuto anche io ho-“ Cerca di continuare il detective, le parole ridotte a brevi rantoli irregolari.
 
“Non si parla sempre e solo di te, Sherlock. Non è così che funziona.” John si accorge di averlo chiamato di nuovo solo quando il suo nome gli è già scivolato oltre le labbra, una lacrima solitaria ad indicare la strada.
 
Non può evitare di farlo, non ci riesce. Pronunciare quel nome con la certezza di essere sentito è un miracolo sporco, tardivo, ma dal quale non riesce a staccarsi.
 
Lascia cadere il braccio che stringe la cornetta e - con un gesto misurato nonostante la nebbia che gli appanna gli occhi ed i pensieri - la poggia sul corpo del telefono, chiudendo la conversazione.
 

 

  
 
 



“Ciao.”
 
 
 
Sherlock schiude le labbra, sorpreso, spaventato, un respiro stretto al centro della gola.
 
“È vero, sai? Non riesco più neanche a ricordare come fosse la mia vita, prima.” La voce di John, attraverso il filtro del citofono, sembra meno umana ma molto più fragile, molto più labile.
 
“Come fosse vivere, prima che il mondo cadesse.”
 
“Il mondo non è caduto, John. Non ha mai smesso di girare.” Sherlock poggia la fronte contro il muro, di fianco alla mano che tiene a fatica vicino all’interfono.
 
“Il mio mondo sì.” Gracchia il microfono, sporcando la voce del medico, storpiandola in un modo che il detective trova insopportabile, violento.
 
“Sherlock? Sei ancora lì…?” Domanda John dopo qualche secondo, cercando di porre fine ad un silenzio che inizia a divorarlo dall’interno.
 
Ha cercato per anni di non perdere il ricordo di quella voce.
 
Di raccogliere le briciole e conservarle, strappandole al tempo, sicuro che non l’avrebbe più potuta sentire.
 
Ed ora che sa che può farlo di nuovo ha l’impressione di non riuscire a respirare correttamente, in sua assenza.
 
 
Il portone di Baker Street scatta solo un attimo più tardi, socchiudendosi.
 
Sherlock, le dita che si aggrappano al legno in cerca di protezione, rimane immobile dietro quello scudo lucido.
 
Nascosto.
Protetto.
Colpevole.
 
Aspetta. Ed adesso è il suo mondo ad iniziare a franare, mentre attende che la spinta di John contro la porta lo costringa contro al muro.
 
Trema.  Cerca nel silenzio un riparo che lo preservi da quell’emozione che – ne è consapevole – non è in grado di trattenere come vorrebbe e che sente inondargli il petto, tracimare dagli occhi.
 
John istintivamente fa un passo indietro, gli occhi fissi su i numeri dorati che così a lungo ha chiamato casa.
 
Apre e chiude le mani, cercando di stringere tra le dita un coraggio che non ha ed una rabbia che, labile, sta svanendo ad ogni respiro.
 
“Lo so che non è più tempo per noi…” Boccheggia Sherlock, arrendendosi, mentre le gambe cedono sotto il peso di una colpa che ha portato per troppo tempo come un fardello, tentando di ignorare le cicatrici che stava provocando. Lasciando, indifferente, che scavasse piaghe nella carne.
 
“Ma ho comunque bisogno del tuo perdono per poter tornare. Per poterlo fare davvero.”
 
“E se non ti perdonassi?” Domanda il medico abbassando testa, spalle e voce mentre posa il piede sul primo gradino dell’ingresso.
 
“Ho vissuto all’inferno per tre anni. Non mi spaventa essere condannato al limbo della tua assenza.” Risponde il detective scivolando a terra, le ginocchia strette al petto, mentre la porta si avvicina a lui sotto la spinta leggera verso l’interno dell’altro.
 
“Allora perché cerchi il mio perdono?” John è nell’ingresso, adesso, ma non riesce a girarsi.
 
Resta immobile, lo sguardo fisso sulle scale che conducono al piano di sopra, a quell’appartamento nel quale, colpevole, non ha più avuto il coraggio di entrare.
 
“Perché se mi perdonassi, riuscirei a farlo anche io.”
 
Sherlock, sconfitto, alza gli occhi sul viso dell’altro.
 
“Riuscirei a credere a tutto quello che ho ripetuto ogni notte, ogni giorno, in questi anni.”
 
“E sarebbe?” Insiste il medico, portando lo sguardo in basso, sul pavimento che li separa.
 
“Che lo stavo facendo per te. Per tenerti al sicuro.” Sussurra l’altro, ricordando con fatica ogni stanza sconosciuta nella quale aveva chiuso gli occhi immaginando di poterli riaprire sul salotto di Baker Street. Sul viso di John.
 
“Ed è la verità…?” Il tono del medico è più dolce, smussato dalla necessità di trovare un motivo a tutto quel dolore.
 
“Sì.” Sherlock chiude la risposta in una lacrima, lasciando che il suo respiro difficoltoso la posi ai piedi dell’altro. “Sì, lo è.”
 
John inspira profondamente e chiude gli occhi per un attimo, lasciando che il profumo del detective gli riempia la gola, i polmoni. Lo sente mischiarsi a quello opaco e polveroso dell’ingresso, così conosciuto, così familiare.
 
Lentamente, alza una mano e la posa sulla porta, chiudendola con una spinta leggera, senza guardarla.
 
L’ultima barriera è scomparsa.
 
Ora, a separarli, non restano che i pochi passi che il medico compie velocemente, con andatura sconnessa, tremante.  
 
Si appoggia al muro, sentendo il ruvido della parete aggrapparsi ai vestiti, ai capelli, mentre si lascia cadere al fianco dell’altro con un gemito carico di ogni cosa stia agitando il suo petto.
 
“Non posso perdonarti per avermi portato via l’uomo che amavo.” Butta fuori, con dolore, ferendosi con la verità. Si volta verso Sherlock solo dopo qualche secondo, trovandosi di fronte due occhi enormi, spalancati, pieni di mille paure diverse e di una sofferenza prolungata che li ha resi più scuri, più incavati, più sinceri.
 
“Ma devi ringraziarti per averlo riportato da me.” Termina, metà viso avvolto da un sorriso triste e metà racchiuso in nubi scure, cariche di pioggia che inizia a cadere, rendendo umido il colletto della camicia.
 
Sherlock sente la fronte di John contro la propria ancor prima di riuscire a capire davvero cosa sia successo. Prima di comprendere come il mondo intero, il suo mondo, abbia improvvisamente cambiato forma, rinascendo tra la cenere delle labbra dell’uomo che gli siede accanto.
 
“Penserai che sono impazzito.” Commenta il medico, il singulto di una risata tesa a far fremere il petto.
 
Sherlock fa cenno di no con la testa, velocemente, con disperazione, spaventato che John si riprenda quanto detto strappandolo alle sue mani, alla sua stessa anima.
 
Cerca il suo viso con dita tremanti, sentendolo caldo ed umido di lacrime sotto i polpastrelli.
 
Cerca la sua bocca, gli occhi chiusi ed il respiro corto, sbagliando, inciampando, incapace di dosare forza e attenzione.
 
Non ricorda di aver mai baciato prima, ma non importa, in quel momento.
Non gli interessa quanto goffo possa apparire.
Quanto possa sembrare inadeguato, forse persino ridicolo, nella sua inesperienza.
 
Ha solo bisogno che John capisca.
 
Che lo perdoni.
 
Che rimanga.
 
 
Quando - alla fine, esausti - separano labbra, lacrime ed anima, John torna a posare la sua fronte contro quella di Sherlock, osservandolo con occhi socchiusi.
 
Con fatica, con amore, lascia un’ultima parola sulla bocca del detective prima di permettere alle loro mani di continuare, mute, il racconto silenzioso del dolore passato, lo stesso che - con pazienza e dedizione - avranno il compito di lavare via.
 
 
“Ciao.”
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Mai studiare con la musica di sottofondo. Mai.
 
Sì, perché arriva sempre il pezzo che ti costringe con la testa da un’altra parte, impedendoti di continuare a dedicarti ai libri. XD
 
In questo caso galeotta fu “Hello” di Adele, come avrete intuito dal testo iniziale. 
Ora che è fuori dalla mia mente, dovrei riuscire ad avere sufficiente “spazio libero” per incamerare qualche nozione di francese.

Almeno spero!  XD
 
Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.
 
 
“Dolce, dolce è il saluto degli occhi,
e dolce è la voce nel tuo saluto,
quando l’addio s’è logorato
e gli arrivederci svaniscono
dove il tempo antico si è perduto.”
(John Keats)
 
 
 
 
P.S.: vi lascio il link di un video meraviglioso su John e Sherlock con “Hello” come accompagnamento musicale. Chiedo perdono già da ora per il dolore! ^_^’’
 
https://www.youtube.com/watch?v=4kKAzVcV904
 
   
 
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