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Autore: NinfeSullaTerra    30/10/2016    0 recensioni
Eravamo tutto ciò che pensavamo di essere, eravamo tutto ciò che il tempo ci avrebbe permesso di diventare.
Il nostro non fu mai amore, ma qualcosa che va oltre. Oltre l'amore si pensa che non ci sia nulla, ma noi eravamo quelli strani e non ce ne fregava niente di quello che la gente pensava.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Scolastico
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La prima volta che feci a me stessa la promessa di cambiare, fu la volta in cui andai al bar sotto casa mia a bere del wisky, come facevo ogni sera. Non ricordavo l'ultima volta in cui avevo passato una serata tranquilla, da normale adolescente. Ero sempre seduta lì, nel mio tavolo all'angolo, da sola. Tutti sapevano dove trovarmi, ma il punto è che non mi cercava mai nessuno.

Dopo qualche drink ero uscita dal locale andando sul retro, avevo acceso la mia finta sigaretta, e mel'ero fumata tutta quanta.

Tornai a casa barcollando, e stranamente, ci tornai sola. Di solito qualche ragazzo mi offriva un drink e poi voleva qualcosa in cambio, ed io non sapevo dire di no.

Casa mia faceva schifo, vivevo da sola e non riordinavo mai nulla, dovevo saltare da una piastrella all'altra per non schiacciare le cose in terra.

Anche a scuola facevo schifo, ero all'ultimo anno di liceo, forse il più importante, ma a me non fregava perché avevo altro a cui pensare. Pensavo ai miei pensieri vuoti, inutili, pensieri che non significavano nulla, che non erano nulla.

Avevo deciso che la mia vita non era quella, la mia vita la vivevo da sbronza, o da fatta.

Ma ci fu una mattina, che avrebbe cambiato la mia vita per sempre. Quella mattina mi aveva salvata, qualcuno mi aveva salvata.

Si dice: "un'anima in cambio di un'anima", giusto? Credo che lui abbia sacrificato la sua per me.

Quella mattina avevo un disperato bisogno di acqua, acqua frizzante, per dissetarmi. Ero a scuola e la fila alle macchinette era infinita, ero in coda da qualche minuto ormai, quando incrociai lo sguardo di Marco Fumagalli. Era vicino alle macchinette con i suoi amici, evitavo il suo sguardo perché io e lui sapevamo quello che era successo. Era un bel ragazzo, dovevo ammetterlo, ma era solo sesso, lui non era uno che si impegnava ed io neanche, quindi, eravamo d'accordo. Non sarebbe più successo.

L'acqua che avevo selezionato nella macchinetta puntualmente si bloccò. Come ogni volta, l'unica amica che avevo si chiamava sfortuna ed ero sicura che non mi avrebbe mai abbandonata. 
Ormai faceva parte di me e mi ero ormai del tutto rassegnata.

<< Queste macchinette del cavolo! Lascia, ti aiuto. >> Un ragazzo alle mie spalle si catapultò sulla macchinetta scuotendola e, dopo poche mosse, la bottiglia si era sbloccata. Lo guardai di sfuggita mentre lui prendeva la bottiglia. Lo avevo riconosciuto, era Davide lo strambo. Tutti lo chiamavano così, non sapevo perché. Più che strambo a me sembrava sfigato e basta. Era un anno più piccolo di me, anche se in realtà sembrava più grande.

Mentre mi porse la bottiglia notai le sue dita affusolate, i suoi polsi erano stretti quanto i miei se non di più, era inverno e fuori nevicava, ma lui era in maniche corte.

<< Grazie >>gli dissi io prendendomi la bottiglia.

Da quel giorno Davide lo strambo mi salutava sempre. Era forse uno dei pochi che quando incrociavi il suo sguardo per sbaglio, lui ti sorrideva. Io no, non gli sorridevo mai.

Io stavo sempre sola, ed anche lui. E quindi strambo com'era cercava sempre di attaccare bottone ogni volta che mi vedeva. Ma io ero una di poche parole.

Qualche settimana dopo persi il lavoro alla cartoleria. Facevo soltanto le fotocopie, ma lo stipendio mi bastava per non caricare tutto suoi miei genitori, anche se in fondo, se lo sarebbero meritati.

Men'ero andata di casa perché ne avevo abbastanza delle loro urla, dei loro litigi. E ricchi com'erano avrebbero potuto mantenermi senza problemi, anche se i loro soldi mi facevano schifo, più di quanto mi facessi schifo io.

Ma i soldi li avrei accettati comunque, almeno fino a quando non mi sarei trovata un altro lavoro non troppo impegnativo.

Quella sera andai a bere. Al solito locale, nel solito tavolo, col solito wisky, 'sta volta però, presi una bottiglia intera.

Stavo con gli occhi chiusi ad ascoltare quell'orrenda canzone che stavano suonando dal vivo, quando li riapii, mi trovai Davide lo strambo seduto davanti a me.

<< Ciao Joanne! Che coincidenza! Anche tu qui?>> Ero sicura che mi avesse seguito. Non credevo alle coincidenze.

Lo lasciai lì, non gli dissi di andarsene, avevo bevuto troppo. Sapevo che lui non cercava sesso, non credo l'avesse mai fatto.

Quella sera fu la sera in cui mi accorsi che i suoi occhi freddi e azzurri erano capaci di sciogliere anche un petto duro come il mio.

Col passare del tempo, Davide lo strambo diventò il mio unico amico. A scuola eravamo sempre insieme e la sera anche, sempre al solito bar. La sua presenza iniziava a non infastidirmi più, anzi, notavo la sua assenza quando non era con me.

Quando cercavo di tornare alle origini facendo la dura, lui mi abbracciava stringendomi al suo petto, lasciandomi un bacio sulla nuca. Era da secoli che qualcuno non era così con me. Mi usavano, si rivestivano, e se ne andavano, a volte neanche salutando.

Ma Davide lo strambo era strano davvero, perché non mi aveva mai mandata a quel paese o trattata male neanche per scherzo.

<< Dovrei farmi bionda. >> gli dissi un giorno.

<< Bionda? Perché mai dovresti farti bionda? >> mi chiese lui avvicinandosi.

<< Perché le bionde sono più belle, le guardano tutti. >> risposi ovvia, con un'alzata di spalle.

<< Allora non farti bionda. >> disse chinando la testa verso la mia. <> mi diede un bacio in fronte per poi stringermi. Tutta questa dolcezza mi stava cambiando. Ma era solo un mio amico, perché altrimenti avrei rovinato tutto.

Il 26 dicembre Davide lo strambo mi invitò a casa sua per le feste natalizie. C'era più sporco addosso a me, che non facevo una doccia da giorni, che in tutta la sua casa. Aveva preso da sua madre il tono sfacciato, ma nulla di tutto ciò mi disturbava, mi avevano accolta con molto calore, come se mi conoscessero da una vita. La camera dello strambo era ancora più stramba di lui. C'era un letto ma lui dormiva in terra, c'era un armadio, ma lui i vestiti li lasciava tutti sulla sedia. Anche io lo facevo, ma il suo armadio era vuoto, così gli chiesi il perchè.

<< É vuoto?>> domandai indicandolo.

<< si, lo uso come nascondiglio quando non voglio che nessuno mi parli. >> in effetti era un ottimo posto in cui rifugiarsi, per stare tranquilli, separarsi, distaccarsi dalla realtà .

Anche io avrei voluto nascondermi, e forse, lui sarebbe stata l'unica persona con cui avrei voluto farlo.

Quella sera disse di volermi portare in un posto, non chiesi nulla. Mi portò a vedere un luogo che sarebbe stato il mio incubo, ma questo ancora non lo sapevo.

Arrivammo vicino ad un bosco, poco più avanti gli alberi si aprirono e vidi un piccolo lago, l'acqua rifletteva la luna e le stelle. Sembrava di essere in qualche posto magico, era un paesaggio in cui di solito ci sarei stata solo da fatta o ubriaca, ma quei mondi non erano veri, questo io lo sapevo, come sapevo che questo invece, lo era.

<< Amo questo. >> disse lui guardandomi.

<< Si, è un posto bellissimo. >> lui non replicò nulla, continuò solo a fissarmi per la maggior parte del tempo, mentre io mi riflettevo nell'acqua, insieme alla luna ed alle stelle, accorgendomi che quel riflesso non era così male come pensavo.

Nei giorni seguenti quello era il nostro ritrovo, dopo scuola, visto che un lavoro ancora non lo avevo trovato. Perciò andavo lì. Quando arrivavo la sua macchina era sempre nello stesso posto, prima della mia.

Restavamo per ore sdraiati a parlare di qualsiasi cosa, a ridere dei ragazzi della scuola, proprio come loro facevano con noi. Eravamo "quelli diversi" eravamo quelli strani che nessuno capiva, che nessuno voleva. Ripensandoci ora però, credo che neanche noi ci eravamo mai capiti fino in fondo, ed era questo a tenerci uniti. Il fatto che entrambi sapessimo che non saremo mai appartenuti a nessuno, se non a noi stessi, e questo ci bastava, per iniziare ad amarci un po' di più.

Ero io a raccogliere i suoi pezzi, andando sempre nel suo posto speciale, al lago. Ed era lui a raccogliere i miei, la sera, nel bar.

Il nostro non fu mai amore, ma qualcosa che va oltre. Oltre l'amore si pensa che non ci sia nulla, ma noi eravamo quelli strani e non ce ne fregava niente di quello che la gente pensava.

A scuola iniziarono a darci nomignoli bizzarri come: " i gemelli " o "pappa e ciccia". Una volta sentii Chiara Maggio urlare " ecco il lupo e la volpe". Noi non eravamo questo. Noi non eravamo la drogata e il pazzo. Noi eravamo tutto ciò che sapevamo di essere.

Ci scappò un bacio, era una giornata d'autunno quando successe. Mentre le foglie cadevano come la neve, mentre gli alberi oscillavano a causa del vento, mentre tutto ciò che stava attorno si fermò per un secondo come per ammirare solo noi.

Nessuno dei due però, disse niente, e quindi la cosa finì lì. Non so cosa pensasse in quel momento, ma poco me ne importava. Mi importava di me piuttosto, perchè era stato un semplice bacio, eppure era riuscito a suscitare qualcosa in me, che ormai pensavo fosse morto da un po', e invece no, era ancora lì.

<< É questo che dovresti provare per tutta la vita >> disse sussurrando.

Il giorno dopo, fu il giorno peggiore di tutta la mia vita.

Andai nel nostro solito posto, al lago, e la sua macchina non c'era. Corsi da sua madre. Sapevo che era successo qualcosa, sapevo che c'era qualcosa di anormale in tutto questo, io lo sapevo.

Sua madre non mi seppe dire nulla, così tornai al lago, casa sua era distante più di mezz'ora, ma ci arrivai poco a poco.

Vidi la sua macchina parcheggiata, saltai giù, e corsi verso il lago.

Scrutai ogni angolo della riva in cerca del suo sguardo, cercavo di vederlo, pregavo che spuntasse fuori. Mi sedetti sulla riva, intravidi qualcosa in acqua, qualcosa che stava riaffiorando, qualcosa che non apparteneva al lago, apparteneva a me. Mi lanciai in acqua senza preoccuparmi dei vestiti, e fu così che raccolsi il suo corpo cianotico dall'acqua gelida del lago.

Davide lo strambo era affetto da schizofrenia, così dissero i suoi genitori ai poliziotti che vennero a raccogliere il suo corpo. Da qualche giorno fingeva di prendere le medicine. A quanto pare aveva avuto una crisi. "Davide lo strambo" era diventato "Davide il suicida".

Il giorno in cui fece quel che fece, nevicò.

Lo odio per avermi lasciata qui. Lo odio perché ora niente sembra avere più un senso. Lo odio per avermi ridato la forza di vivere, di incazzarmi, di reagire. Che senso ha tutto questo se lui non sarà nella mia, di vita? 


 

   
 
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