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Autore: Nemesi003    30/10/2016    0 recensioni
Una storia da scoprire, da vivere, e da commentare :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Aveva lo smalto consumato, tipico di chi decide di metterlo, ma poi, presa dall’ansia della vita, lo divora. Doveva essere un rosso acceso, ma quello che ne rimaneva erano pezzi sparsi qua e là sull’unghia. Aspettava. Le mani incrociate come in preghiera. Così attendeva in quella corsia d’ospedale.
Chloe non aveva mai amato gli ospedali, come tutti del resto. Castana, timida, alta, spesso troppo assorta nei suoi pensieri, nel suo mondo. Era da tutti considerata l’amica sempre presente. Quella su cui contare. Brava nello studio così come nella vita. Aveva sempre portato sulle spalle, un grande zaino, che si riempiva con i pensieri altrui. Paure, dolori, preoccupazioni. Mai nessuno, però, si era preso i suoi pesi, le sue ansie. Ma soprattutto il suo dolore.
Assorta nei suoi pensieri non sentiva i rumori che la circondavano. Appeso alla parete nuda un vecchio orologio nero, segnava le 14:22. Quell’ospedale non aveva nulla di vivo. Le pareti riprendevano, nei due strati, che le formavano le diverse tinte di bianco.  Sopra una sfumatura lucida, sotto una colorazione più scura. La luce luminosa, ma aggressiva, permetteva quasi di specchiarsi in quel pavimento marmoreo. Si guardò intorno. Finché vide una barella trasportata lungo tutto quell’interminabile corridoio. Una donna disperata la seguiva. Fu per un tratto breve, perché un infermiere, con un lungo camice azzurro petrolio, si frappose tra lei e una grande porta verde, con una grossa scritta al neon, rossa, emergenza.
“Signora, non può”
“Non posso” si ripeté, tra sé e sé la ragazza. Ed improvvisamente uscì da quel rumoroso silenzio. Si tolse piano il cappotto rosso, lo poggiò sulla sedia a fianco. Dalla borsa tirò fuori una bottiglietta d’acqua. L’aprì, e tremando ne bevve un paio di sorsi.
Come la prima volta. Aveva conosciuto Eleonora ad un corso di chitarra. Forte, capelli lunghi, biondi. Estroversa, chiacchierona, ma tremendamente insicura. Era stata proprio lei la prima a rivolgerle la parola. “Hai sete?” le disse sorridendole. Si era sempre chiesta come facesse a capirla così, nel profondo. Le leggeva la mente, ancor prima che lei stessa potesse ponderare un pensiero. Chloe, in quell’occasione, le sorrise “Grazie, ma non ti conosco…” aveva accennato timidamente. “Piacere Eleonora, adesso che mi conosci, hai sete?”.
Il corso di chitarra, per la bionda, non durò molto; troppo presa a discutere con quel barbuto professore, che ad imparare lo strumento. Ma cosa poteva farci? Discutere con parrucchino, così si divertiva a chiamare quello strano insegnante, creava ilarità, e la risata della mora era ciò che di più bello potesse vedere.
Passarono diversi anni, senza più sentirsi, parlarsi e neanche vedersi. Sebbene provenienti dalla stessa piccola città, all’ombra di Milano, non si erano più incontrate. Finché, una sera d’inverno si ritrovarono. Pioveva, Chloe indossava un paio di jeans blu scuro. I capelli sciolti le cadevano sulle spalle strette, coperte da una giacca in pelle nera. Amiche comune avevano scelto di andare al bowling, e chi dice di no al bowling? Eleonora, Ele per le amiche, era in piena crisi esistenziale; il suo corpo era cambiato, troppo. Piena fase indumenti extra large. Pantaloni di un sottile strato di cotone, con il cavallo basso, che solo a vederli mettevano freddo. Una felpa enorme, verde scuro, quasi militare. Quella spavalda insicurezza rendeva la ragazza una mina vagante, imprevedibilmente vulnerabile.
Non sapevano spiegarsi, e non se lo spiegheranno mai, cosa le abbia connesse. La competizione, il capirsi, o forse il non pretendere niente; semplicemente il lasciarsi stupire, l’una dall’altra.
14:45. Il tempo sembrava come rallentato nel suo essere. “Due ore” si disse. Due ore erano passate da quella discussione. Una lite all’ordine del giorno. “Non posso amarti; non lo capisci? Non lo accettano, non posso continuare a mentire”, Chloe era irremovibile. I suoi genitori avevano scoperto tutto da un diario, lasciato incustodito. O forse ricercato da quella madre sempre troppo intenta a proteggerla, rinchiudendola in una campana di vetro, per accorgersi che forse quella bambina castana era ormai una giovane donna. Una bella coppia. Il padre, alto, brizzolato, simpatico e molto sportivo. La madre, complicata, insicura, ma una bellissima donna. Era stata proprio lei a ritrovare nell’armadio sotto i vestiti della figlia il frutto del peccato. In quelle pagine bianche era scritto tutto; il sentimento, la voglia di conoscere, la paura. Una biro nera e della carta, avevano causato una rivoluzione. “Non puoi più vederla”, “Falla sparire dalla tua vita o l’ammazzo”. Le avevano urlato. Ma per Chloe, non era così facile. Aveva iniziato a mentire, ma quel rapporto vissuto di nascosto, fatto di attimi fuggenti, era troppo stretto per entrambe.
Eleonora chiedeva stabilità. Chloe d’esser capita. La bionda chiedeva di viversi, la mora non era certa di desiderarlo, ma tra quelle braccia si sentiva a casa.
Ancora poteva ricordare l’odore della piadina lievemente bruciacchiata che aveva cucinato. L’atmosfera armoniosa che si era respirata. L’amore nell’aria. Quell’amore complicato, certo, diverso, forse, ma forte, tremendamente forte.
Eppure tutto era così strano. Quello, ancora, uno degli attimi rubati. Quella casa, al secondo piano, non era la loro, anzi, era il covo di chi un loro non lo voleva. Chloe ci abitava con i suoi genitori e sua sorella più piccola, Sabrina. Eleonora approfittava di quei momenti di vita normale insieme, come se per lei fossero oro colato. Allora le capitava di alzarsi al mattino, di buona lena. E passeggiare per le vie della città. Con la pioggia o con il sole, lei andava diritto verso quella casa. Ormai era affezionata ad un piccolo bar, sotto i portici, che ogni mattina alle sei e mezza apriva le porte. Vi entrava, salutava, e mentre il suo sguardo correva assorto lungo tutto l’interminabile bancone, lei già sapeva cosa chiedere “Due brioches grazie, una integrale ed una al cioccolato”. “Integrale” la faceva ridere, ma assecondava le manie dietiste di Chloe, senza poi batter ciglio.
Uscita, attraversava la strada, ed entrava nell’ultima via ciottolata del paese. Si assicurava che entrambe le macchine dei genitori della sua migliore amica non ci fossero, e poi citofonava “Sono io, apri che fa freddo”. E poco importava se fuori ci fossero trenta gradi, la battuta era sempre la stessa. Appena vedeva il cancellone davanti a lei aprirsi, iniziava a canticchiare l’Hallelujah di Cohen. La faceva sorridere l’idea che ha la gente di questa canzone, spirituale e così passionale allo stesso tempo. Con la mano attraversava le sbarre del cancelletto. Questo poteva essere aperto solo dall’interno, a meno che non si avessero le chiavi, ma lei, ovviamente non le aveva. Chiamava l’ascensore, quello con la moquette per terra ed un gigantesco vetro che ricopriva la parete davanti alla porta. Secondo piano.
Quella cucina era di un colore chiaro, piccola, con un grande tavolo in legno. Eleonora la visitava spesso, eppure non riusciva a trattenervi alcun particolare. La piadina era il loro piatto, ma i soliti discorsi non le avevano più abbandonate.
“Basta. Se non ti piaccio, mi annullo!” le aveva urlato la bionda “Come puoi dirmi di amarmi e poi star ferma mentre mi massacrano? Come puoi accettare che ti chiedano di scegliere? Sono i tuoi genitori, Chloe, dovrebbero capirti, non giudicarti. Quindi se non sono giusta cambiami. Permettimi di esserlo. Fammi parlare con loro”.
La mora fece cadere il coltello che teneva in mano. Si divertiva a cucinare, ma in quell’occasione non era divertita. Affatto. “Non vogliono, non capisci? Per loro sei solo una manipolatrice, non capirebbero. Non posso. Sto cercando di ritrovare un equilibrio, non posso rovinare tutto per noi.”.
Quel coltello raccolto da terra e riposto sul piano di lavoro, si era scagliato nel cuore di Eleonora. Si alzò, nel più assordante dei silenzi, raccolse il suo cappotto. Si mise il cappello felpato nero, raccolse il ciuffo e si diresse alla porta. “Non puoi, o non vuoi? Forse il problema non sono i tuoi, il problema sono io.”. Non sbatté la porta, al contrario, con estrema tranquillità l’accompagnò fino a chiuderla delicatamente.
Poco dopo Chloe era stata chiamata dall’ospedale. Le avevano detto di correre, perché la sua migliore amica era stata coinvolta in un incidente. Pur essendo il 26 giugno, pioveva. Le gocce trafiggevano ogni cosa, persino i pensieri. Così, lasciò tutto com’era; scrisse un biglietto per i suoi genitori, e lo appese sulla porta d’ingresso.
“È in ospedale, non potete fermarmi, stavolta”
Così corse, più veloce del temporale, prese l’autobus.
Vide ovunque amore. Quello di un nipote, che aiuta la nonna con le borse della spesa. Di un papà, che si prende cura del suo piccolo bambino, ricoprendo il passeggino con quella sorta di mantellina, perché non si bagni. Vide l’amore nelle forme più diverse. Quello per la vita, per le proprie passioni e persino per la cultura, con un ragazzo intento a proteggere quei libri appena comprati.
Entrata nell’ospedale ha smesso di sentirsi la pioggia addosso. Il freddo, però, lo ha dentro. Mangiucchia quello smalto, cerca di capire, ancora ed ancora, come mettere d’accordo tutti. Come trovare una via di mezzo tra l’amore e la famiglia. E poi si chiede quello che vuole lei. Si domanda se voglia realmente quell’amore complicato, o se il prezzo da pagare sia troppo alto. Nel mentre cerca di capire, di fermare un medico o un infermiere, giusto per sapere.
Ma nessuno la guarda. Forse la giudicano, o forse è lei la prima a sentirsi giudicata, la prima a credere di vivere nell’errore. La prima che, ancora, sa di sbagliare.
La verità è un’altra. La verità è che in quella corsia d’ospedale, nessuno ha il coraggio di dirle che un cuore ha smesso di battere. La realtà è che nessuno sa come spiegarle, che l’ultimo desiderio di quel cuore fosse rivederla e saperla felice. Perché, in quell’ospedale, tutti hanno capito che l’amore è l’amore, anche se per tutti è solo una stupida manipolazione.
Non ho più messo quello smalto rosso. Neanche per sbaglio. Sono passati anni, e quella giovane ragazza è diventata donna. Una donna realizzata, nella vita e nel lavoro, ma con una profonda cicatrice. Nessuno riesce a vederla, in fondo non c'è da stupirsi; si può mascherare in mille modi lo stato d'animo, ancor meglio di fard e fondotinta. Ma io lo so, anche se lo nascondo anche a me stessa, so che quella cicatrice è lì. Si chiama rimpianto. Quando, fino in fondo non ti impegni abbastanza, quando pensi di non perseguire la tua felicità e ti fermi, d'improvviso. Ho lottato, posso dirlo, ho lottato per quell'amore, ma mi sono arresa. Ho sofferto, ho pianto, ma mi sono fermata. Per tanti anni mi sono illusa che a fermarmi fosse bastato il pianto di mia madre o la delusione negli occhi di mio padre, ma in realtà mi ha fermata uno specchio. In quello specchio c'ero io, c'era riflessa la persona che ero diventata, e questo mi spaventava. I miei castelli crollati in un istante, il mio mondo stravolto, per quel sentimento. Ed è inutile. Quello mi ha spaventata, e mi sono arresa. Adesso, ho il rimpianto di non aver vissuto accettando quel turbinio di emozioni, perché quello, a distanza di tempo, posso solo chiamarlo Amore. Alla fine, nel profondo, quella cicatrice ogni tanto si riapre, ne esce un flebile "ma se...", finché non riesco a ricucirla.
Io non posso più tornare indietro. Tu?


NOTE dell'AUTRICE: Ogni commento sarà ovviamente ben accetto. Correzioni, indicazioni, apprezzamenti o dislike saranno altrettanto graditi. Sono davvero alla ricerca di un riscontro, quindi non tiratevi indietro :)
   
 
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