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Autore: calamity julianne    03/11/2016    0 recensioni
Cinque ragazzi stanno per intraprendere un viaggio che li cambierà per sempre. Gli anni del liceo sono ormai un ricordo, davanti a loro vi è la tortuosa strada verso la vita reale.
Cinque ragazzi, legati da un'amicizia fraterna. Il viaggio che li attende li porterà a scoprire loro stessi, le loro paure, li farà crescere, li farà cambiare.
Saranno costretti a fronteggiare le loro paure, le loro insicurezze, dovranno fare i conti con i demoni del passato.
Può davvero un'amicizia durare per sempre? Può davvero superare litigi, bugie, incomprensioni, segreti...amori?
Una cosa è certa: alla fine di questo viaggio, nessuno di loro sarà più lo stesso.
Genere: Romantico, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Inizi.

 
Grace
 
Trovare casa si era rivelato un compito più difficile del previsto. Avevamo girato agenzie, cercato annunci sul giornale, scritto noi stessi annunci ma niente.
Solo dopo quasi due settimane eravamo riusciti a trovare una casa che ospitasse cinque neo universitari, e in quel momento capimmo che stavamo veramente crescendo. Stavamo per affrontare anni di responsabilità, di libertà, anni che nessuno di noi sapeva bene come gestire.
Non avevamo nessuna certezza, nessuna tranne la nostra amicizia. Era davvero l’unica certezza, era davvero l’unico appiglio, il punto di riferimento.
Sapevamo che comunque sarebbero andate le cose, avremmo potuto contare gli uni sugli altri, sapevamo che avremmo trovato una spalla su cui piangere, sapevamo che saremmo riusciti a ritrovare il sorriso, sapevamo che avremmo condiviso gioie e dolori.
Ed eravamo sicuri, sicuri che mai niente e nessuno ci avrebbe mai divisi.
 
13 ottobre
Londra era cupa e fredda come sempre. Camminavo immersa nel mio giubbotto in pelle nera, con il viso nascosto sotto la sciarpa verde e le mani rigorosamente nascoste in tasca. Ero ansiosa per il mio primo giorno di università, ero ansiosa come lo si è per qualsiasi inizio.
 
Studiare legge era sempre stato il mio sogno, sin da bambina. Ora lo stavo per realizzare. Provenivo da una famiglia costituita per lo più da uomini di legge: mio padre avvocato, mio nonno magistrato, il mio bisnonno ancora avvocato e chissà quanti altri. La mia scelta appariva piuttosto scontata agli occhi di molti.
Entrai nell’edificio e scoprii le guance fredde e arrossate, mi guardai un attimo intorno e mi accorsi che non c’era poi tanta gente. Avevo seguito il consiglio di mia sorella Monique che “Fatti trovare lì almeno venti minuti prima l’inizio dei corsi, o troverai una marea di gente pronta a passarti sopra”.
Aveva ragione.
Tra gli altri consigli che mi aveva intimato di seguire vi erano anche: “Fai amicizia, non fare l’asociale” e “Chiedi indicazioni, fregatene di sembrare una matricola”, ma io, timida come pochi sulla faccia della terra – almeno al primo approccio – non avrei seguito né l’uno né l’altro consiglio.
Frugai dentro la mia borsa a tracolla e tirai fuori l’orario delle lezioni. Mentre cercavo di studiarlo attentamente, cercando mi memorizzarlo ora che non c’era quasi nessuno a vedermi così che non avrei dovuto tirarlo fuori e sembrare davvero  una matricola, sentii il mio nome pronunciato da una voce che aveva qualcosa di familiare.
Sollevai lo sguardo e la figura di un ragazzo alto, con i capelli lunghi e due occhioni scuri si parò davanti a me. Non è possibile.
 
“Grace? Grace Cohen?”, disse lui, sfoggiando un sorriso perfetto.
Matthew Pennington era stato la mia seconda, colossale cotta da ragazzina. Una sorta di amore platonico. Era il mio vicino di casa, ed io pregavo sognante alla mia finestra di vederlo, pregavo si accorgesse di me. O meglio, pregavo smettesse di considerarmi come una specie di sorellina più piccola con cui giocare il pomeriggio.
Quando uscivo a correre, o portavo a spasso il cane immaginavo di incontrarlo, immaginavo conversazioni che probabilmente non si sarebbero mai realizzate per il semplice fatto che io ero timida e un po’ insicura.
A dividerci tre case, tre anni di differenza e la sua fidanzata storica. Ormai, quei sogni erano solo un ricordo, ma vederlo faceva sempre un certo effetto.
Non riuscii a nascondere un sorriso quando lui mi riconobbe. “In persona”.
Le guance si tinsero di un rosso acceso e mi pentii di aver tolto la sciarpa, poco prima. “Quanto tempo”, disse lui e per un attimo mi sembrò stesse rievocando ricordi passati. “Primo giorno?”, chiese poi, lanciando uno sguardo veloce al foglietto che tenevo in mano.
Annuii e cacciai subito quel foglio dentro la mia borsa, con totale non chalance. “Nervosa?”, ringraziando il cielo almeno lui sapeva tenere in piedi una conversazione.
“Non troppo, sto cercando di orientarmi”, ammisi. “Ma tu che fai qui? Pensavo studiassi medicina e chirurgia”.
Lui annuì e s’infilò le mani adornate di anelli in tasca. “Infatti è così, sono solo venuto ad accompagnare un amico ma ora tolgo il disturbo”. La sua bocca si allargò ancora in un sorriso, mostrò i denti perfetti ed io capii perché da ragazzina gli sbavassi dietro. 

 “Mi ha fatto davvero piacere vederti”,  dissi e sorrisi anch’io.
“Anche a me, l’ultima volta che ti ho vista ti mancava un incisivo”, disse e si morse le labbra per apparire serio.
Schiusi le labbra, imbarazzata. “Ma non è vero!”, sbottai attirando l’attenzione di due ragazzi poco distanti da noi. Matthew rise, voleva mettermi in imbarazzo e palesemente c’era riuscito.
“Devo proprio andare, Grace. Ci sentiamo”, aggiunse e mi schioccò un bacio sulla guancia prima di salutarmi e andare via.
Come inizio non era affatto male.
Non vedevo l’ora di raccontare quell’incontro ai ragazzi, una volta arrivata a casa.

Christopher, Travis, Rebecca e Alison.

Chissà come sta andando la loro giornata.
 
Christopher

Sapere che avrei frequentato gli stessi corsi di Rebecca, che non sarei stato solo e che avrei avuto qualcuno che conoscevo con me mi era stato di grande aiuto, come lo era stato anche per Rebecca d’altra parte. Continuavo a chiedermi se avessi fatto bene a scegliere medicina e chirurgia, avrei voluto avere la sicurezza di Rebecca e Grace che sembravano avere le idee chiare riguardo il loro futuro.
Tornati a casa, gettai la tracolla sul divano mentre Rebecca andava dritta in bagno a fare una doccia.

Chissà come sta andando a Grace.

Controllai l’orologio che segnava le cinque del pomeriggio.
Tra me e Grace non c’era mai stata solo un’amicizia, il nostro rapporto non riuscivamo proprio a definirlo. Non eravamo solo amici, perché gli amici non si baciano, non si guardano come ci guardavamo noi, non sono gelosi tanto quanto lo eravamo noi. Ma non eravamo neanche una coppia, non riuscivamo a stare insieme, non riuscivamo a vivere una relazione tranquilla sebbene ci avessimo provato più volte. Il nostro era quel genere di rapporto che non si può definire, talmente incomprensibile che alla fine avevamo rinunciato anche noi e ci eravamo detti che non era poi tanto importante etichettarlo.
Non ne esci. Da certi rapporti, non ne esci. Rimangono intrappolati alla bocca dello stomaco, si accumulano parole non dette, baci rubati, abbracci strappati. Certi rapporti ti rimangono dentro e ti logorano l’anima.
E anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso, quel nostro rapporto così indefinito, ci aveva lasciato l’amaro in bocca.
Avevamo provato ad andare avanti, avevamo tentato di riscostruire le nostre vite, di incontrare gente nuova ma alla fine, bastava uno sguardo. Un solo fottutissimo sguardo e tornavamo l’uno dall’altra.

Io avevo iniziato una relazione  con un’altra ragazza ed ero sinceramente stato bene. Ero stato bene però, perchè Grace era lontana da me, perché la mia mente rifiutava categoricamente ogni pensiero, qualsiasi piccolo dettaglio che potesse riportarmi a lei. Quando una sera però, i nostri occhi si erano incrociati per strada, allora capii di non averla mai dimenticata.

Lei, dal canto suo, si era tenuta impegnata con lo studio. Aveva lavorato su sé stessa, diceva di voler cambiare, diceva di voler diventare più fredda, più menefreghista ma alla fine rimaneva la bimba di sempre, rimaneva sempre lei.

La mia Grace.
 
E proprio la mia Grace, entrò in casa in quel momento, borbottando contro la porta che non riusciva mai ad aprire.
I capelli umidi a causa della pioggia, la borsa a tracolla e l’aria stanca. Gettò anche lei la borsa accanto alla mia e mi sorrise un momento dopo. Lo stesso sorriso di dieci anni fa.
“Ciao, Chris”, mi salutò mentre si sfilava la sciarpa e il giubbotto, appendendoli entrambi all’appendiabiti. “Becca?”
“Sta facendo la doccia” risposi, allungando le gambe e poggiandole sul tavolino davanti al divano. Osservai la sua figura slanciata, i capelli marroni che ricadevano lungo la sua schiena in onde morbide, le labbra sottili e il nasino rossi, gli occhi grandi.
Oh, quegli occhi.
“Com’è andata oggi?”, chiese mentre si accomodava accanto a me, incrociando le gambe sul divano.
Feci per rispondere ma Rebecca fu più veloce.
“Benissimo, è stato assurdo” con l’aria tutta contenta percorreva il corridoio a piedi nudi mentre goccioline d’acqua sgorgavano dai suoi capelli bagnati, l’accappatoio addosso e un asciugamano a circondare i capelli. Rebecca iniziò a raccontare a Grace dettagli di quella giornata, entusiasta, un fiume in piena. Aveva studiato tutto l’edificio, si era innamorata di tutto, persino dell’aria che si respirava.
A quel punto, Grace si portò una mano alla bocca, come se avesse appena ricordato una cosa importantissima che poco prima non aveva detto. “Ecco cosa dovevo dirvi! Indovinate chi ho incontrato oggi?”.
Non feci in tempo a rispondere con una battuta che lei, tutta contenta, esclamò: “Matthew!”.
Rebecca sgranò gli occhi, io non avevo ancora capito. Matthew chi?
“Matthew Pennington? Il tuo vicino?” chiese ancora Rebecca, un sorriso curioso le si dipinse sul volto.
Ah già. Feci una smorfia ma feci finta di niente.
“Esattamente!” affermò Grace.
Presi il telecomando e accesi la televisione, deciso a distrarmi in qualsiasi modo. E ci riuscii, stranamente. Mi estraniai da gran parte della conversazione, riuscii a evitare i commenti su Matthew e su quanto fosse bello e affascinante. Rebecca e Grace erano migliori amiche da sempre, non era la prima volta che si lasciavano andare ad apprezzamenti o confessioni del genere davanti a me, ma il fatto che si trattasse proprio di Matthew Pennington mi dava un tale fastidio…
In una cosa sapevo di averlo superato: lui era stato la seconda persona di cui Grace si era infatuata, io ero la prima.
“E che fa lui qui scusa?” chiese Rebecca.
“Studia medicina e chirurgia, ora che ci penso credo che lo vedrete spesso”, affermò Grace a sua volta.
 
Ma che piacere.
 
Travis

I miei amici quella mattina si erano svegliati eccitati e ansiosi per il loro primo giorno di università, io invece non ero né eccitato e tanto meno ansioso. Avevo scelto di abbandonare gli studi, mi ero trovato un lavoro in un bar e mi andava bene così. A differenza dei miei amici poi, io non avevo una famiglia alle spalle che potesse pagarmi gli studi o l’affitto. Mia madre, da sola, faticava a mandare avanti la baracca e se c’era una cosa che avevo sempre odiato, era dipendere da qualcuno, pesare a mia madre.
Sapevo che se solo le avessi manifestato il desiderio di andare all’università, lei mi avrebbe subito accontentato e avrebbe fatto i salti mortali, accumulato debiti su debiti pur di realizzare il sogno del suo primogenito. Ma io non avrei mai sopportato un senso di colpa del genere sulle spalle.
Così, fissavo costantemente l’orologio del bar, aspettando che segnasse le nove per poter tornare a casa. 
Avevo pulito i bagni, il pavimento dell’ intero bar, i tavoli, avevo messo a posto le sedie e tolto quello strato di polvere di un centimetro che ricopriva le mensole sulle quali vi erano i bicchieri. Mi chiesi da quanti anni qualcuno non pulisse quel posto.

A conti fatti però, non mi era andata affatto male. Avevo trovato un lavoro che pagava piuttosto bene, un principale affabile e mi andava bene così.
“Tornatene a casa, ragazzo”, disse Paul, uscendo dal suo ufficio. Era un uomo piuttosto basso e panciuto, talmente tanto che temevo che uno dei bottoni della sua camicia mi sarebbe arrivato in un occhio, tra un respiro e un altro. 
Non mi opposi affatto alla sua proposta. Mi sfilai il grembiule e lo appesi ad un piccolo appendiabiti accanto al bancone. “Grazie, Paul”.
“A domani, ragazzo” e sparì di nuovo dietro la porta del suo ufficio.
Indossai il giubbotto e uscii velocemente dal bar. Mi passai una mano sui corti, cortissimi capelli biondi e camminai verso la macchina. Misi in moto, diretto verso casa.

Casa.

Inizialmente ero scettico in merito a quell’idea della convivenza. Non che non mi facesse piacere andare a vivere con i miei amici, ma la convivenza era una cosa piuttosto impegnativa e noi, pur essendo amici da una vita, avevamo tutti dei caratteri diversi, spesso in contrasto. Temevo cosa sarebbe potuto succedere, ecco.
Temevo tensioni tra Grace e Christopher, il cui rapporto era un’ incognità per tutti, loro due compresi, per esempio. E sapevo anche di non essere l’unico a temere quei due.
Aveva iniziato a piovere e sbuffai appena, rimanendo imbottigliato nel traffico. Perfetto, ci mancava solo questa.
Presi il cellulare e digitai velocemente un messaggio a Rebecca, dicendole che probabilmente avrei fatto tardi.

Tamburellando le dita sul volante – e cercando di reprimere l’istinto di suonare al tizio davanti a me che non accennava a muoversi di un millimetro – notai una ragazza passeggiare sul marciapiede, tentando di ripararsi – invano  - dalla pioggia con la tracolla che teneva sulla testa.
Ridussi gli occhi in fessure. Indossava un cappotto nero piuttosto malandato, i ricci crespi biondi che bagnati le incorniciavano il viso.

La riconobbi dalle Vans blu rovinate.
 
Alison

Odiavo gli autobus, ormai ne ero sicura.
Quello che avrebbe dovuto portarmi a casa in tempo e soprattutto asciutta, mi era passato davanti come se non esistessi. Dio solo sa quante malezioni gli ho lanciato.
E ora mi ritrovavo sotto la pioggia, facendo zig zag fra le macchine e tenendo gli occhi fissi sulle mie Vans rovinate, terrorizzata dall’idea di bagnarmi mettendo i piedi  in una pozzanghera. Tenevo la mia borsa sulla testa per ripararmi dalla pioggia ma non servì a molto, dato che i miei capelli – già crespi naturalmente – si stavano pericolosamente arricciando ancor di più.
A quel punto sentii un clacson suonare. Non poteva di certo suonare a me, pensai.
Però più camminavo più quel maledetto clacson mi perforava i timpani e allora mi voltai di scatto. Cercai di capire chi avesse fatto tutto quel baccano ma la pioggia e il fatto che mi ostinassi a non indossare gli occhiali, non mi permisero di riconoscere subito colui che stava cercando di attirare la mia attenzione.
Poi lo vidi ed ebbi un tuffo al cuore, che volontariamente ignorai.

Travis.

Accennai una corsetta veloce e terribilmente goffa e raggiunsi l’auto di Travis – che poi era un po’ di tutti noi cinque. Entrai e bagnai il sedile ma sospirai di sollievo.
“Certo che sei proprio un pericolo tu”, disse Travis scherzosamente. Che poi c’era un fondo di verità nelle sue parole e lo sapevano tutti.
Sospirai, accesi il riscaldamento e mi rilassai contro il sedile, mezzo bagnato a causa mia. “Non dire niente, te ne prego”.
Travis accennò una risata ed io mi voltai appena per guardarlo. Era bello, con l’aria stanca, i vestiti sgualciti dal lavoro e gli occhi grigi. “Com’è andata oggi?”, chiesi.
Sollevò appena le spalle mentre ci muovevamo nel traffico a passo d’uomo. Ogni volta che si fermava picchiettava nervosamente il volante con l’indice, cosa che faceva ogni volta che era nervoso o impaziente. Avevo imparato a capire Travis anche solo da uno sguardo, e non poche volte mi ero trattenuta dal pensare a quanto fosse affascinante.
Avevo sempre avuto una cotta per lui, sin dai tempi delle elementari, ma lui non mi aveva mai guardata con quegli occhi. Alle elementari, ero solo la bimba cicciottella e con un paio di spessi occhiali che nessuno guardava, presa in giro da tutti e senza amici. Almeno i primi tempi.

Fu in quel periodo che incontrai Travis, Rebecca, Christopher e Grace. Gli unici che non mi prendessero in giro, gli unici a giocare con me, gli unici a dimostrarsi leali e affettuosi. Unici.
Ma per Travis, io non ero che una sorella e crescendo, quando capii che forse quella cotta non era solo una semplice cotta, allora cercai di convincere me stessa che i miei non fossero che semplici sentimenti che qualsiasi sorella prova per un fratello. Insomma, mi ero riempita di bugie per anni. Alla fine mi arresi ai miei sentimenti, mi arresi alla consapevolezza che non sarebbe stato mentendo a me stessa che avrei definitivamente dimenticato Travis.

Aspettavo. Aspettavo che passasse.

Speravo in una svolta, in un lieto fine. Cosa ci si può aspettare, d’altronde, da una studentessa di letteratura, amante dei libri, amante del lieto fine?
Tuttavia, mentre io aspettavo, ponendo la mia vita in stand by, Travis continuava la sua tra amori, sesso, donne e sbagli.
Sbagli che la sua sorellina lo avrebbe aiutato a ricucire.

Io.
 
Rebecca

Una parte di me invidiava Christopher e Grace. Sebbene il loro rapporto non fosse affatto semplice e anzi, fosse pieno di incognite, almeno sapevano di occupare un posto speciale l’uno nel cuore dell’altro.
A me l’amore era sempre mancato. Non ero mai stata particolarmente bella, particolarmente intelligente, particolarmente sicura di me. Il mio fisico non era perfetto, il mio carattere definito da molti “strano”. Per questo, a diciotto anni compiuti, non avevo mai avuto un vero fidanzato e non avevo mai baciato nessuno.
E per questo, invidiavo ciò che legava Christopher e Grace.  La mia non era di certo un’invidia maligna, era solo l’incredibile desiderio di avere anch’io qualcuno che mi guardasse come Christopher guardava Grace.

Ricordavo ancora quando a 15 anni, li vidi prendersi la mano sotto il tavolo, di nascosto. Nessuno si accorse di niente ma d’altra parte loro non li avrebbero notati, presi com’erano a vivere dentro una bolla dove tutto esisteva in funzione dell’altro.

Sì, mi sarebbe tanto piaciuto un amore così.

In quel momento, mentre io, Chris e Grace stavamo comodamente seduti sul divano a ingurgitare patatine, pop corn e schifezze assortite, tutti e tre imbambolati davanti ad un programma demenziale, entrarono in casa Alison, fradicia, tremante per il freddo e con le mani a sfregare contro le braccia per creare calore, e Travis che ci salutò con un sorriso sulle labbra.
“Ho raccattato questa barbona per strada”, esordì ironico Travis, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Alison che rispose con la voce tremante per il freddo. “Stronzo”, mormorò semplicemente.
“Alison ma che hai fatto?” se ne uscì Christopher, abbassando il volume della televisione perché quella scena era assai più interessante.
“Sono andata a fare un giro all’acqua park” il tono sarcastico. “Ma secondo te cos’ho fatto? Hai visto che fuori diluvia?” sbottò.

La solita Alison.

Era davvero un personaggio. Grace quasi si strozzò con un pop corn, per via delle risate che tentava di soffocare. Alison ci incenerì con lo sguardo ma durò poco quella sua aria intimidatoria. Sfociò infatti in una risata sbuffata e come una bambina, si gettò su di noi, pur essendo ancora bagnata.
Quella era casa.
Quella era la definizione di famiglia.
L’aria spavalda di Travis.
I pasticci di Alison.
Gli occhi grandi di Grace.
Gli abbracci rassicuranti di Christopher.

Quella era casa.
  
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