Disclaimer: i personaggi come sempre sono copyright di
Mochizuki-sensei.
E in questo caso posso
davvero affermare che li uso perché ho una mente profondamente malata.
Note: io sono profondamente inquietata. Da molte cose: in
primis, se odio Vincent Nightray, per quale arcano motivo ci sto scrivendo una
shot?
Questa è la domanda che mi
sono posta, ebbene: è l'1.14, ho finito la shot in tempi record e non ho una
risposta.
Però devo ammetterlo:
questo pazzo psicotico è divertente da muovere <3
Tutto in questa shot è una
mia supposizione, perché sì, ho visto le scan fino al capitolo 36, ma erano in
cinese... coff. *non c'ha capito nulla*
La canzoncina indecente che
canticchia Vincent... ebbene sì. E' opera mia.
E so che sarà piena zeppa
di erroracci inglesi, ma comprendetemi: io non so scrivere in rima nemmeno in
italiano. E perché la scrivi per forza, direte voi.
Perché mi faceva figo. E in
italiano era brutto. E perché ci vedevo quel matto di Vincent: saranno tre
motivi sufficienti? *tiene pronto il coperchio della padella per coprirsi dal
lancio di ortaggi, uova marce ed eventualmente oggetti contundenti*
Ringraziamenti: a chi ha letto “Liar” e ovviamente a chi l’ha
commentata <3
Doremichan (a-arigatou ;///; *inchin* il tuo commento non può che
farmi piacere e risolleva la mia scarsa autostima :3 Spero di non deluderti con
questa, è il mio primo esperimento con un pg che non sia Oz o Raven/Gill
>.<”)
Naru 4 ever (felice di rivederti fra le recensioni ^O^ Sono
contenta che anche Liar ti sia piaciuta e penso che scriverò per un po’ su PH.
E’ pur sempre la mia fissazione più recente XP)
Snjeg (nya, ma sono io che dovrei ringraziare te X3 E tu
davvero sei stata troppo buona nei commenti ;//; Diffonderò PH nel mondo con le
fanfic, yay! XD)
«Padron
Vincent, cosa guardate?»
«Ho
incontrato una ragazza, sai Emma?»
«Era
bella?»
«Molto.Come
una bambola.»
E l’ho distrutta.
Non era strano, che il suo
giovane padroncino parlasse di una ragazza misteriosa che incontrava.
Ma come ogni adulto, e
soprattutto ogni servitore di un membro di una casata importante, Emma non lo
aveva mai contraddetto, immaginando la ragazza frutto della fantasia del
bambino.
Non era strano, dopotutto:
era sempre solo, anche quando giocava.
Restava chiuso nella sua
stanza e parlava solo con le sue bambole, dando loro vita e voci, inventando
storie per loro. Ogni tanto, la giovane cameriera socchiudeva la porta e
sbirciava all’interno della stanza.
Vincent era sempre solo, ma
sorrideva.
Allegro, come se fosse
circondato da bambini della sua età; spensierato come ogni suo coetaneo.
Invece c’erano l’oscurità
di una stanza in penombra, un letto sfatto, e bambole di pezza sparse ovunque.
Non si era mai accorto di
lei, e la giovane non aveva mai voluto mostrarsi mentre lo osservava.
Era una scena che si
ripeteva ogni giorno, una routine.
E padron Vincent non usciva
mai dalla sua stanza; lo sentiva ridere, ogni tanto, dunque passava oltre.
Se rideva, si divertiva,
allora doveva necessariamente essere tutto a posto, giusto?
La cameriera passava oltre
e avanzava nei corridoi, strade di pettegolezzi di una villa come quella dei
Nightray.
Vincent, pronunciava sempre
nomi diversi; a volte c'era la bambola Josephine, piccola aristocratica viziata
e piagnucolona a cui riservava sempre delle punizioni tipiche di un maestro,
perché la trovava antipatica.
Altre volte, l'orsetto Ted
era il protagonista di storie fantastiche con un mostro da sconfiggere - a
volte l'aveva visto abbassarsi a guardare sotto il letto, esclamando un: «Ted,
Ted, hai trovato il mostro!»
Le veniva da sorridere,
spesso, intenerita; aveva saputo dalla governante della mansione, che il
signorino Vincent aveva un fratello maggiore di lui di appena un anno ma che
nessuno era più stato in grado di trovarlo.
Probabilmente, aveva
pensato Emma, tutta quella fantasia era tipica di un bambino abituato a giocare
insieme a qualcuno e non da solo.
E forse alla solitudine
aveva attribuito quello che in realtà si sarebbe rivelato solo il primo di
tanti incidenti; entrata nella stanza del suo giovane signore, aveva trovato la
bambola che tante volte gli aveva sentito chiamare Josephine riversa a terra,
tagliata in più punti e con l'ovatta che la riempiva che fuoriusciva. Poco
distanti, sul pavimento, delle forbici.
Vincent era seduto sul
letto in silenzio, circondato da qualche altro pupazzo, la veste per dormire
che gli copriva le piccole gambe portate vicino al petto.
Guardava fuori.
«Padron Vincent, state
bene?» chiese avanzando verso il letto, chinandosi in avanti per raccogliere la
bambola.
«Non raccoglierla, lasciala
a terra!» esclamò il piccolo, il tono irritato da qualcosa che la cameriera non
seppe individuare. Lasciò perdere il recupero della bambola, avanzando verso il
letto e allungando allora cautamente una mano verso il bambino.
«State bene? Non vi siete
ferito con le forbici, vero?» domandò con tono pacato, cercando di non sembrare
allarmata per non spaventarlo inutilmente.
Vincent scosse la testa,
voltandosi verso di lei e rivolgendo lo sguardo indifferente alla bambola
distrutta sul pavimento.
«Non raccoglierla. Quella è
la sua punizione.» disse, il tono in qualche modo più pacato, e meno adatto ad
un bambino. Emma azzardò uno sguardo alla bambola; le "punizioni"
precedenti, erano sempre state qualcosa di innocuo, in un modo o nell'altro.
Ciò non l'aiutava a
comprendere quel cambiamento repentino.
«Cosa è accaduto?» azzardò
a chiedere, senza ricevere risposta e dunque rinunciando, senza forzarlo.
Forse... si sentiva semplicemente solo.
Quello parve essere un
episodio isolato.
Dopo quella volta, padron
Vincent era tornato il bambino allegro di sempre, per quanto potesse esserlo
qualcuno della sua età costantemente solo.
Ogni tanto, aveva preso a
chiederle di giocare insieme e la giovane aveva acconsentito più che volentieri.
Era stato tempo avanti che,
entrando nella stanza del bambino, le era parso quasi un dejà-vu; diverse
bambole erano a terra, tagliate nuovamente in più punti, in maniera che - per
quanto stonasse affiancata alla figura di un bambino - avrebbe quasi definito
più brutale.
Alcune teste delle bambole
erano state quasi completamente staccate dal corpo, lasciate lì a terra come un
assassino senza pietà abbandona alla loro triste morte le sue vittime.
Quella volta, Vincent era
di nuovo seduto sul letto, lo sguardo rivolto verso l'esterno, fuori dalla
finestra; le gambe erano state lasciate penzoloni, sfiorando appena il
pavimento con i piccoli piedi nudi.
L'espressione, era di nuovo
indifferente, quasi annoiata.
Eppure, alla giovane parve
quasi palpabile la possibilità di uno scatto d'ira se soltanto avesse
pronunciato le parole sbagliate.
«Padron Vincent?» tentò,
osservandolo preoccupata. Lo vide spostare lo sguardo su di lei come la prima
volta.
«Emma, oggi non possiamo
giocare con le bambole.» mormorò, il tono incolore, accennando con uno sguardo
ai giocattoli sul pavimento, inutilizzabili.
La cameriera azzardò
qualche passo in più verso il letto, sedendosi poi sul bordo del materasso,
poco distante da Vincent.
«Perché... le rompete in
questo modo? Non vi piacciono più?» domandò, osservandolo. Da quando era al
servizio della famiglia Nightray, dopotutto, Vincent non le era mai parso un
bambino eccessivamente violento, al contrario.
«Quando le cose diventano
inutili, non devo forse buttarle?» chiese di rimano, osservandola.
L'espressione della ragazza
si fece confusa: «Perdonatemi se ve lo faccio notare, signorino, ma se non le
rompeste, probabilmente sarebbero ancora utili.» gli fece notare, il tono che
manteneva quella gentilezza che per lei era sempre stato normale rivolgergli,
oltre che per la semplice forma di rispetto che un servo deve al suo padrone.
Ma Emma, aveva sempre fatto
inconsapevolmente la scelta giusta.
Perché il padrone non deve
essere contraddetto.
Per giorni non le era stato
permesso avere accesso alle stanze di Vincent e, insieme alle profonde scuse
del padrone, aveva ricevuto i medicamenti del dottore di famiglia.
Il taglio era stato
profondo ma ben curato, cosicché la cicatrice rimasta non era troppo visibile.
Ricordava a malapena come
fosse accaduto.
Lo sguardo di padron
Vincent che cambiava radicalmente, assumendo un'aria furibonda che stonava
terribilmente sul volto di bambino dai lineamenti ancora morbidi.
Il freddo metallo delle
forbici, improvvisamente in mano al suo giovane signore, che si abbattevano con
violenza contro il suo braccio, lacerando la stoffa e la pelle con solo colpo
secco.
Il calore fastidioso e
appiccicaticcio del sangue che colava macchiando la divisa da cameriera; poi lo
spavento, il dolore.
Ed infine, la perdita di
coscienza.
E il suo giovane signore
che con rabbia e disperazione urlava: «Mi stai accusando?! Non è colpa mia! NON
E' COLPA MIA!»
Si era ripresa nella sua
stanza, lo sguardo preoccupato e spaventato di alcune colleghe su di se.
Da allora, le sue mansioni
erano divenute occuparsi della casa, o delle cucine per lo più; non aveva
richiesto di tornare dal suo giovane padrone.
E lui, pareva non essere
più uscito dalla sua stanza.
«Emma?» si sentì chiamare,
riconoscendo la voce della governante e voltandosi.
La donna, austera e rigida
nel portamento ma dagli atteggiamenti cordiali verso la servitù, le rivolse un
sorriso incoraggiante.
«C'è qualcuno che vorrebbe
vederti e dirti qualcosa. Vero, padron Vincent?» chiese sul fine della frase,
voltandosi verso la propria sinistra.
Emma poté vedere il figlio
adottivo dei Nightray sporgersi intimidito e con lo sguardo mortificato rivolto
a lei, in silenzio.
Annuì meccanicamente,
benché nella sua testa qualcosa le dicesse di rifiutarsi. Quel qualcosa che era
all'erta come lo furono i suoi sensi quando lo vide correrle incontro,
sentendosi abbracciare all'altezza della vita quando l'ebbe raggiunta.
Notò che aveva i piedi
scalzi a contatto con il pavimento e portò lo sguardo sulla governante; quella
alzò le spalle con un sospiro paziente.
Probabilmente il bambino
doveva aver insistito fino ad obbligarla a portarlo subito lì.
Abbassò lo sguardo sulla
zazzera di capelli dorati, il viso affondato nella gonna della propria divisa e
le mani minute a stringerle una parte del grembiule intorno alla vita.
Si rese conto che, senza
ombra di dubbio, il suo giovane signore piangeva.
«Mi dispiace, Emma! Non
essere arrabbiata con me! Non volevo farti male, te lo giuro...» esclamò, il
tono di chi non sapeva nemmeno bene come spiegarsi.
Fu istintivo circondargli
le spalle in un abbraccio, come anche accarezzargli piano i capelli per
rassicurarlo.
Eppure non riusciva a
parlare. La cicatrice, quasi dovesse procurarle più dolore in presenza di chi
l'aveva causata, prudeva fastidiosamente.
«Non odiarmi, Emma, non
odiarmi per favore!» lo sentì esclamare, con un tono che aveva saputo definire
solo "disperato".
E allora, l'aveva
perdonato.
Non era stato comunque
immediato il suo ritorno alle stanze di Vincent.
Per un certo periodo, le
era stato affidato Elliot, l'unico figlio biologico dei padroni di casa. Solo
più avanti, quando dalla stanza di Vincent non erano arrivati più suoni,
l'avevano nuovamente mandata da lui.
La prima volta, si era
avvicinata quasi con circospezione, spiando nella stanza del suo giovane
signore come le prime volte che lo aveva osservato divertita e ammirata dalla
sua fantasia.
Le bambole distrutte erano
state sostituite da altre nuove, sparse sul pavimento ma intatte.
Vincent, quando l'aveva
vista, aveva sorriso sinceramente felice come solo un bambino avrebbe saputo
fare. La giovane si era sentita tranquillizzata da quel sorriso.
Si era dimostrata gentile e
disponibile a fargli compagnia come la prima volta, come se nulla fosse
accaduto.
Vincent le aveva presentato
le sue nuove bambole e avevano giocato insieme diverse volte, inventando storie
sempre diverse, lui con l'intento di impressionarla positivamente e forse
cancellare quello scatto d'ira di quasi due mesi prima.
Lei, con l'intenzione di
non far riproporre più uno stato d'animo che gli era costato quel profondo
taglio ormai cicatrizzatosi.
Poi, un giorno, quel che le
era apparso davanti agli occhi, era stato uno scenario diverso da tutti i precedenti;
fino a quel momento aveva sempre visto le bambole intatte o distrutte.
Ma mai padron Vincent
colpirle impugnando le forbici appuntite con tanta rabbia, conficcando la lama
nei pupazzi fino a tagliarli e lacerarli senza quasi riprendere fiato.
Lontana dalla lama,
osservarlo con lucidità era stato più semplice: la rabbia che aveva visto, non
era che una minima percentuale se confrontata alla paura negli occhi dissimili.
La tristezza, seppur vera
non era che la maschera di un'insana ed acerba follia.
E la voce rotta e furiosa,
non era stato che un mero riflesso del significato delle parole pronunciate.
«Io vi odio, vi odio tutti,
tutti! Perché?! Perché continuate a prendere il posto del mio amato fratello?!»
Emma non era entrata nella
stanza.
Affrontare la stessa lama
che l'aveva ferita e turbata tempo addietro non era facile.
E cosa avrebbe potuto
dirgli, dopotutto?
Non aveva parlato a nessuno
di quell'episodio, impegnandosi ad accompagnare padron Vincent a giocare fuori
più volte possibili.
Le bambole erano diminuite,
e con loro la quantità di quelle distrutte.
L'umore di padron Vincent,
sembrava essere positivamente cambiato, complice forse l'aria aperta a cui non
era mai stato troppo abituato e che era risultata quindi un'entusiasmante
scoperta per lui.
Poi, finalmente per i
corridoi di villa Nightray il pettegolezzo sulla bocca di tutti era stato
quello capace di far sorridere padron Vincent come lei mai gli aveva visto
fare.
Un altro figlio stava per
essere adottato: l'amato fratello di padron Vincent.
Si era diretta alla sua
stanza con un sollievo misto alla felicità per la buona notizia che aveva
risollevato il suo giovane signore; entrando, aveva trovato tutte le tende
tirate in modo da lasciar illuminare a giorno la stanza.
Sorrise: quello era il gran
giorno, per padron Vincent.
«Hi, Miss Alice. Where are you going? Hide-and-seek is our game. Miss
Alice, what are you... Emma!» lo sentì
interrompere quella canzoncina melodica che, tuttavia, ricordava di non avergli
mai sentito cantare.
Entrò del tutto nella
stanza, osservandolo con un sorriso allegro: «Padron Vincent, non siete ancora
pronto? Non vi hanno svegliato?» chiese, notandolo ancora in pigiama.
Lui rise, lasciando
l'orsetto di pezza sul letto: «Posso accogliere mio fratello anche così! Lui è
mio fratello, quindi di certo non gli importa come mi vesto.» le fece notare,
gli occhi che brillavano ogni volta che nominava il bambino che stava per
arrivare.
Si avvicinò alla toletta,
prendendo la spazzola e tornando da lui: «Posso almeno pettinarvi i capelli?»
chiese con un sorriso accondiscendente, aspettando il suo annuire per iniziare.
Lo vedeva dondolare le
gambe avanti e indietro, sfiorando il pavimento, impaziente.
«Stavate cantando una
canzone, prima?» domandò incuriosita.
Lo vide annuire appena:
«Sì, la cantavo prima, mentre dormivo! C'era anche una ragazza.» spiegò.
La cameriera continuò a
spazzolargli i capelli: «Avete sognato una ragazza?» incalzò con una nota
divertita nel tono. Lui assunse l'aria di chi è sorpreso di non essere stato
capito - che lei intravide dallo specchio di fronte a loro.
«No, l'ho proprio
incontrata!» esclamò, più chiaro. Lei annuì accondiscendente.
Non voleva insistere, se
padron Vincent voleva considerarlo un incontro non avvenuto in un sogno o nella
sua fantasia ma nella realtà.
Decise di assecondarlo: «E
ditemi, era bella?» domandò.
Lui sorrise, ricordandola -
o immaginandola: «Molto. Come una bambola.» rivelò.
Hi, Miss Alice. Where are you going?
Hide-and-seek is our game.
Miss Alice, what are you doing?
My dear lady, I know your fame.
Salve, signorina Alice. Dove sta andando?
Nascondino è il nostro gioco.
Signorina Alice, cosa sta facendo?
Mia cara signorina, conosco la tua fama.
«Come una bambola? Le avete
parlato?» chiese, distrattamente, continuando il proprio lavoro.
Lui la guardò dallo
specchio.
«Sì. E le ho fatto un
regalo.» rivelò.
You're a monster, my creepy lady.
You simply can't be free.
Like me, you're just an unwanted baby.
You're useless, don't you see?
Sei un mostro, mia inquietante signorina.
Semplicemente non puoi essere libera.
Come me, sei solo una bambina indesiderata.
Sei inutile, non vedi?
«Un regalo?» chiese
sorpresa, nel tono una sfumatura di elogio: «Siete un vero gentiluomo. Sono
certa che le sarà piaciuto.» rivelò, con il tono di chi la sa lunga, o ha
l'assoluta certezza di ciò che dice.
Vincent sorrise,
approfittando di non essere visto.
Un sorriso dalla sfumatura
diversa, mentre lei finiva di sistemarlo, alzandosi.
«Vi lascio, padron Vincent.
Vostro fratello arriverà a breve.» assicurò la cameriera.
Let my sword pierces you, princess.
Let you die and fall in darkness.
Forget your past, your pain.
That's the end of our game.
Lascia che la mia spada ti trafigga, principessa.
Lasciati morire e cadi nell'oscurità.
Dimentica il tuo passato, il tuo dolore.
Questa è la fine del nostro gioco.
Osservò il riflesso nello
specchio, un sorriso leggero ad increspargli le labbra.
Il terrore e le lacrime, la
propria risata ad echeggiare in quel luogo senza tempo.
Un gioco estremamente
noioso.
Personaggi secondari
indegni del loro ruolo.
Una perdita di tempo, un
intrattenimento effimero nella fervente attesa dell'arrivo dell'unica persona
davvero importante.
Suo fratello Gilbert.
Suo fratello.
Suo e soltanto suo.
Una persona. Una famiglia.
Un altro essere umano.
Miss Alice, I'm so sorry.
But I've someone else. So, don't worry.
Signorina Alice, sono davvero spiacente.
Ma ho qualcun altro. Perciò, non preoccuparti.
«Padron
Vincent, vi piacciono le bambole?»
«Molto,
perché sono un gioco interessante!»
Proprio come gli esseri umani.