Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: Blablia87    06/11/2016    8 recensioni
"La realtà è quella cosa che, anche se si smette di credervi, non scompare."
[Sci-Fi!AU][Ispirata alla 1x03 della serie "Black Mirror"][Post-Reichenbach]
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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2010. “Il Governo rende obbligatorio l’Impianto e l’uso delle Capsule a poliziotti, medici ed insegnanti, allargando una misura di controllo e garanzia che – originariamente - era stata pensata per il solo uso in ambito politico.”
 
2011. “Gli ultimi dati confermano che - dall’introduzione delle Capsule - il numero di violenze, casi di malasanità ed abusi di potere sia drasticamente diminuito.
Il Parlamento sta discutendo in questi giorni la possibilità di allargare l’obbligo di Impianto all’intera popolazione sopra i 18 anni.”
 
2014. “Entra oggi in vigore l’obbligo di Impianto per ogni cittadino al di sopra della maggiore età. Si stima che solo il 30% della popolazione non abbia provveduto volontariamente all’Impianto nell’arco dell’ultimo anno e mezzo.”
 
2015. Ad oggi, “il “Modello Inglese” è stato esportato con successo in Italia, Francia, Germania e Spagna. La NCOP prevede una copertura mondiale entro il 2022.”
 
 
 
 
 
 
 
 
- Under the skin -
 
 
 
 
 
«John…?»
 
L’ispettore Gregory Lestrade - una pesante busta della spesa stretta tra le mani - si fermò qualche passo oltre la porta del salotto, qualche candido fiocco di neve ancora visibile sul pesante cappotto nero.
 
Teso, lasciò vagare lo sguardo lungo il perimetro della stanza - immersa nella penombra - fin dove possibile, riuscendo a distinguere a malapena il profilo di due poltrone nell’angolo opposto a quello dove si trovava.
 
«Dio, John… Dovresti smetterla.» Sospirò, rivolto alla sagoma scura che giaceva rannicchiata su quella più vicina al camino spento, di fronte ad una delle due finestre sprangate.
 
«Perché?» Si sentì chiedere, dopo qualche secondo, da una voce rauca.
 
«Perché ti stai solo facendo del male. Sherlock è morto, devi riuscir—»
 
Un ringhio gutturale spense le parole sulle labbra del poliziotto.
 
«Io non faccio niente finché non mi mostrate la sua Capsula.» Soffiò l’ombra, scivolando giù dalla seduta della poltrona ed iniziando a muoversi in direzione dell’altro.
 
«Ti ho già detto che è rimasta danneggiata nell’impatto.» Rispose lui, appoggiando il sacchetto a terra. «Non è stato possibile recuperare alcun dato. E, anche lo avessimo fatto, da amico ti avrei impedito di vederlo.»
 
«Come vuoi impedirmi di tenere i miei files su di lui?!»
 
Un uomo dai capelli biondi ed i lineamenti segnati prese forma nella poca luce proveniente dal pianerottolo, il viso pallido e smagrito appesantito da una folta barba incolta.
 
«Io non voglio farti cancellare i files, John, per l’amor di Dio!» Lestrade allargò le braccia, scuotendo la testa in un gesto di frustrazione. «Voglio solo che tu smetta di vivere qui dentro come un recluso, rievocando costantemente una qualche giornata in sua compagnia in un loop infinito.»
 
«Tu non sai quello che faccio.» Sibilò l’altro, il viso contratto dall’ira.
 
«I tuoi occhi sono opachi, John. Ti stai accecando! I collegamenti oftalmici delle Capsule non sono stati creati per essere utilizzati per ore ed ore consecutivamente. Almeno usa lo Schermo di Proiezione!»
 
«Non è la STESSA COSA!» Esplose l’altro, un passo più vicino all’ispettore.
 
«Certo che non lo è.» Ammise lui, addolcendo lo sguardo e la voce. «Non puoi illuderti che sia ancora vivo, se la sua immagine è su di un televisore, invece che dentro le tue pupille.»
 
Per qualche attimo nella stanza - tra loro - non ci fu che un silenzio saturo, assordate.
 
Poi, occhi bassi e respiro spezzato, John allungò una mano verso la busta, portandosela al petto.
 
«Grazie per il pranzo.» Disse a fatica dirigendosi verso la cucina con andatura zoppicante, segno che la conversazione fosse finita ed invito palese all’altro ad andar via.
 
«La prossima volta potresti venire tu da me, che ne pensi?» Tentò l’ispettore, certo che non avrebbe ottenuto risposta.
 
Attese qualche secondo prima di sparire – sconfitto – oltre la porta d’ingresso, richiudendola con un sospiro sconsolato alle proprie spalle.
 
L’eco dei suoi passi sui gradini scomparve poco dopo, lasciando nuovamente l’appartamento avvolto da una quiete irreale.
 
 
Posato il sacchetto sul tavolo al centro della cucina, John si abbandonò con un tonfo al suo fianco, gli occhi vitrei e lattiginosi.
 
Oltre il muro bianco di pupille ed iridi un fantasma riemerse dai suoi ricordi, prendendo posto accanto a lui in una stanza improvvisamente satura di colori e luce.
 
 
 
«Non startene lì impalato, John! Ho bisogno di spazio sul tavolo per poter fare i miei esperimenti, lo sai!»
 
 
 
«Sì, Sherlock… lo so.» Boccheggiò in risposta l’uomo, rimanendo immobile tra semioscurità e polvere.
 
 
Solo.
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
«È stato… incredibile.»
 
«Davvero lo pensi?»
 
«Certo! È stato straordinario. Davvero straordinario.»
 
«Non è quello che la gente dice solitamente.»
 
«Cosa dice, solitamente?»
 
«”Fuori dai piedi!”»
 
 
 
 
 
«Sherlock.»
 
La pressione sulla sua spalla aumentò, fino a provocare un leggero dolore.
 
Il detective chiuse gli occhi, senza riuscire a trattenere una smorfia di fastidio.
 
Il tempo di scollegarsi dal ricordo che stava visionando e li spalancò nuovamente, puntandoli con rabbia verso l’uomo seduto di fianco a lui.
 
«Non dovresti abusare delle IP1) lo sai. Danneggerai la retina.» Si limitò a commentare questi, cappotto scuro e lungo a coprire un costoso abito sartoriale.
 
«So come funziona, Mycroft. Grazie.» Rispose Sherlock, tagliente, sbattendo un paio di volte le palpebre prima di rivolgere lo sguardo oltre il piccolo finestrino dell’aereo privato sul quale stavano viaggiando.
 
«A giudicare dal colore delle tue iridi, devi averlo fatto spesso.» Proseguì l’altro, atono, alzando un sopracciglio.
 
«Mi hai chiesto informazioni dettagliate con cadenza regolare, ho dovut—»
 
«Prelevavamo i files direttamente dal chip, lo sai. Non era necessaria nessuna scrematura preliminare. Sii gentile, fratello caro: non offendere la mia intelligenza e la tua con simili bugie.»
 
Sherlock arricciò il naso, gli occhi ostinatamente oltre l’oblò. In lontananza, Londra apparve in una fitta ragnatela di luci galleggianti su di un mare di terra scura.
 
«Cosa pensi di fare, una volta atterrati?» Domandò Mycroft, muovendo le dita sul manico dell’ombrello che stringeva tra le mani, la punta affondata nella moquette panna del velivolo.
 
«Oh, fratello caro, sii gentile: non offendere la mia intelligenza e la tua con domande simili.» Lo imitò l’altro, con un forzato tono nasale.
 
Il maggiore sospirò, scuotendo appena la testa.
 
«Potrei consigliarti di aspettare qualche giorno?  Non credo sia una buona idea, farlo stanotte.» Suggerì, irrigidendo le spalle ed alzando il mento, un’espressione di distaccata superiorità sul viso.
 
«Non vedo perché dovrei aspettare ancora. L’ho fatto per tre anni.» Rispose l’altro, gelido, girandosi verso il fratello con sguardo cupo.
 
«Tre anni, Sherlock, esatto. Credi che un lasso di tempo così ampio non abbia provocato dei cambiamenti, in lui?» Mycroft assottigliò gli occhi, cercando di studiare la reazione ottenuta con le ultime parole. «Non ritroverai l’uomo che hai lasciato chino su un marciapiede umido, ad attenderti.»
 
«Non è importante.» Tagliò corto Sherlock, tornando con la testa al finestrino. «È John. Lo conosco. Andrà bene.»
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
Sherlock scorse con il cursore tutti i file, fino a trovare l’ultima immagine registrata riguardante il portone di Baker Street.
 
Una leggera pressione sul pulsante centrale del Comando Manuale e l’aprì, leggendo in basso a destra la data riportata: 3 aprile 2012.
 
Un battito di ciglia e il ricordo scomparve, lasciando il posto alla porta che realmente si stagliava di fronte a lui.
 
Deglutendo a fatica alzò gli occhi verso il primo piano, trovando le finestre completamente oscurate dalle pesanti tende.
 
Nessuna luce sembrava provenire dall’interno, così come nessun rumore.
 
Incerto, si passò le chiavi da una mano all’altra, aspettando che il proprio cuore tornasse a battere normalmente.
 
Aveva visto il viso di John ogni sera – cercando la sua compagnia durante le lunghe notti lontano da casa - ma non era sicuro di essere pronto per farlo di nuovo nella realtà.
 
L’idea gli riempiva il petto di un’agitazione morbida che non aveva mai provato prima, delicata ed allo stesso tempo tenace, stretta attorno a lui come una catena.
 
Alla fine, prendendo un respiro profondo, inserì la chiave e attese di sentire la serratura cedere, docile.
 
L’odore dell’ingresso lo avvolse immediatamente, consueto, familiare.
 
L’impatto sensoriale lo costrinse a fermarsi, quasi stordito, la sensazione che qualcosa lo avesse appena colpito al centro dello sterno.
 
 
Profumo.
 
 
L’unica cosa che le Capsule non fossero in grado di registrare e riprodurre.
 
I “ricordi” - incredibilmente vividi, concreti - esistevano solo come immagini e suoni, privi di qualsiasi profondità olfattiva o gustativa.
 
Evidentemente, gli sviluppatori avevano ritenuto superfluo ricreare anche quegli aspetti, preferendo concentrarsi sul grado di accuratezza visivo dei dettagli.
 
Immobile a pochi passi dalle scale, Sherlock chiuse gli occhi e si riempì i polmoni di quella commistione di polvere, inchiostro e the che, per anni, aveva orgogliosamente identificato come “casa”.
 
Nel silenzio, provò a captare qualsiasi rumore proveniente dal piano di sopra, senza riuscire a sentire altro che l’eco del proprio cuore ed i suoi respiri corti e veloci.
 
Recuperò nuovamente il Comando Manuale nella tasca del cappotto, accendendolo non appena stretto tra le dita.
 
Aprì gli occhi nello stesso istante nel quale il chip veniva collegato ai proiettori posti davanti alla retina, rendendo le sue pupille e le sue iridi di un bianco lattiginoso, opaco.
 
Con movimenti febbrili analizzò i vari frame delle ultime ore in cerca del suo ultimo tentativo di discorso, compiuto davanti allo specchio del bagno dell’aereo poco prima dell’atterraggio.
 
«John, ehi, ciao.» Si sentì iniziare, la voce più roca di quanto ricordasse.
 
«Forse ti starai chiedendo come abbia fatto a sopravvivere. Beh… No. Così non va
 
Mise in pausa il ricordo, zoomando sui propri occhi. Mycroft aveva ragione: erano diventati molto più chiari ed arrossati, colpa del surriscaldamento dei circuiti durante le visioni prolungate in modalità IP. Non se n’era mai veramente reso conto, prima di quel momento.
 
«John, ciao di nuovo. Mi rendo contro che possa sembrare strano, ma…» Riprese, riportando lo zoom a livello neutro.
 
«John. Ciao. Forse non vorrai sentirlo, ma… mi sei mancato.»
 
 
«Al diavolo…» Sibilò dopo qualche secondo, spengendo il comando con un gesto rabbioso.
 
Nessuno di quei tentativi sembrava più dotato di un qualche senso.
 
«Signora Hudson?» La voce di John, quasi irriconoscibile, si riversò lungo la tromba delle scale.
 
Istintivamente Sherlock si portò sul primo gradino, sporto in avanti, la mano destra stretta attorno al corrimano.
 
«Se è lei non si preoccupi per la cena. Non ho molta fame.» Continuò l’altro, con tono più udibile.
 
«Non… sono la signora Hudson.» Annaspò Sherlock, mordendosi con forza il labbro inferiore non appena resosi conto di aver realmente parlato.
 
«Sherlock…?» Domandò dopo qualche secondo John, confuso.
 
Il suo nome - adagiato nella voce incerta del medico - riprese ad avere, improvvisamente, un senso compiuto ai sensi di Sherlock.
 
Si sentì attirato verso l’appartamento, spinto da un richiamo al quale non riusciva a rimanere indifferente.
 
«Sì.» Rispose, schiarendosi la gola un paio di volte. «Sì, John, sono io.»
«È strano…» Sussurrò l’altro, iniziando a scendere i gradini. «È la prima volta che rivivo un ricordo del genere.» Ammise, i suoi passi note scricchiolanti sul legno vivo delle scale.
«Forse non ero mai andato tanto indietro con i files…»
 
Dopo qualche secondo, un silenzio perfetto avvolse il vano e l’ingresso, così denso che Sherlock ebbe la sensazione di esserne stato inglobato.
 
«John…?» Tentò, iniziando a salire, il frastuono del proprio cuore nelle orecchie.
 
«John…»  Lo chiamò di nuovo, la voce poco più di un sospiro, quando intravide nella penombra la sua figura, immobile su uno dei gradini centrali.
 
Lui - gli occhi bianchi - rimase immobile, perso nel suo archivio personale di registrazioni.
 
«John.» Sherlock allungò una mano verso l’altro, cercando di controllare il tremore che sentiva agitargli muscoli e tendini.
 
Con attenzione - quasi timore - posò prima i polpastrelli e poi l’intera mano sulla spalla del medico. «Mi senti?»
 
«No, non ho nessun file con questo accadimento, in archivio…» Bisbigliò lui, sbattendo le palpebre ed assumendo nuovamente uno sguardo presente.
 
«Perché non è un ricordo, John…» Sherlock schiuse le labbra, mentre il dolore della verità prendeva forma compiuta negli occhi quasi del tutto grigi dell’altro, adesso spalancati su di lui.
 
«Dio… cosa hai fatto…?» Riuscì a rantolare il detective, la gola serrata in una morsa incandescente.
 
«Tu…» John aggrottò la fronte, un’espressione di orrida sorpresa a deformargli i lineamenti. «Tu… Sei davvero qui…?» Gemette, portandosi il Comando Manuale davanti al viso per assicurarsi che fosse spento.
 
«Per quanto tempo hai usato le IP?!» La voce di Sherlock si alzò di tono mentre, con le mani, afferrava l’altro per le spalle. «Che cosa hai fatto?!»
 
«Sei davvero qui…?» Ripeté John ancora una volta, confuso, ignorando la domande dell’altro.
 
Poi, la realtà esplose in tutta la sua violenza, improvvisa, una deflagrazione che portò il medico a divincolarsi con forza dalla stretta dell’altro.
 
«Tu… TU SEI VIVO?!» Gridò, accecato dall’ira, risalendo di un gradino.
 
«John…» Provò Sherlock, le mani ancora tese davanti a sé, ormai vuote.
 
«Tu sei vivo!» Lo accusò l’altro - la voce e gli occhi stravolti dalla furia - portandosi istintivamente le dita dietro all’orecchio sinistro, sul calore pulsante della Capsula sottocutanea.
 
«Come… come….» Cercò di dire, soffocando nel calore delle parole, inciampando nel dolore opprimente che sentiva premere sul petto, nella rabbia che stava divorando ogni cosa.
 
 «Tre anni.» Riuscì ad annaspare, le unghie conficcate nel sottile strato di pelle a protezione dell’impianto. «TRE ANNI!»
 
«Forse non vorrai sentirlo, ma-» Cominciò Sherlock, aggrappandosi agli ultimi momenti di lucidità prima del loro incontro, ai ricordi che stava visionando.
 
«NO. NO! STA’ ZITTO!» Gli intimò John, alzando una mano fremente tra loro come una barriera.
 
«Sta’ zitto, Sherlock! Tre anni di… di… di NULLA!» Urlò, il grigio degli occhi annegato nel nero delle pupille.
 
«Tre anni a rivedere files su files, a cacciare via chiunque mi consigliasse di cancellarti! TRE ANNI!» Con violenza serrò la mano, scagliandola un pugno contro il muro alla sua destra.
 
«Hai ragione. Hai ragione, John, ma non avrei potuto fare altro. Ti prego, lascia che ti spieghi, sono sicuro che…» Sherlock fece un passo verso di lui, i palmi rivolti verso l’altro in un gesto disperato di contenimento.
 
«Sai di cosa puoi essere sicuro? L’unica cosa della quale puoi essere assolutamente certo?» Improvvisamente le spalle del medico si abbassarono, ed il suo viso tornò disteso, quasi assente.
 
«Che non ricorderò questo momento a lungo. No. Io non… non ricorderò che il mio migliore amico… l’uomo che…. Non ricorderò questo. Non voglio. Adesso vattene.» Concluse, la voce atona e distante.
 
«Cancellare questo ricordo non servirà. Non ho intenzione di arrendermi senza prima averti raccontato perché l’ho fatto. Tornerò ogni giorno, finché non vorrai ascoltarmi.» Sibilò il detective, minaccioso, la rabbia come una maschera per nascondere la paura che sentiva farsi liquida ai lati degli occhi.
 
«Vattene, Sherlock.» Ripeté John, girandosi a fatica in direzione dell’appartamento. Con passi pesanti - aggrappato alla ringhiera quasi con disperazione - iniziò a salire, muto.
 
Nella penombra, Sherlock riuscì a vedere i led della Capsula dell’altro farsi di un rosso brillante, surriscaldati.
 
Dopo qualche secondo la porta dell’appartamento si richiuse con violenza, un lamento di legno e cardini che fece vibrare l’aria.
 
Immobile al centro delle scale, saturo di frustrazione, Sherlock accese il Comando cercando tutti i files visionati poco prima, nell’ingresso.
 
Le labbra tirate, li selezionò tutti, cliccando poi sull’icona del cestino posta a sinistra del suo campo visivo.
 
In un suono acuto le anteprime si accartocciarono e scomparvero, lasciando dei segmenti neri nella linea temporale dei ricordi.
 
 
 
 
«John. Ciao. Forse non vorrai sentirlo, ma… mi sei mancato.»
 
«John. Ciao. Forse non vorrai sentirlo, ma…»
 
«John. Ciao.»
 
«John.»
 
- Audio non disponibile. File cancellato o danneggiato. -
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«Afghanistan o Iraq?»
 
«Scusi?»
 
«Quale dei due? Afghanistan o Iraq?»
 
 
 
 
 
John - mani aggrappate al bordo del lavandino e respiro strozzato - osservò il piccolo cestino che, in trasparenza, campeggiava sulla pila di files risultato della sua ultima ricerca.
 
Lo sguardo divertito di Sherlock lo osservava dal primo frame, i capelli ribelli a ricadere su un viso molto più giovane e disteso di quello incontrato pochi minuti prima sulle scale, gli occhi ancora di un verde brillante, vivo.
 
 
«Afghanistan. Scusi, come ha fatto…»
 
 
L’immagine tremò appena mentre una lacrima - la prima dal giorno dei funerali - si faceva largo tra le ciglia, iniziando in silenzio una dolorosa discesa sul suo viso.
 
- Vuoi davvero cancellare questi ricordi? –
 
La domanda, di un rosso acceso, gli riempì gli occhi.
 
Con un sospiro pesante staccò le mani dalla ceramica, cercando a tentoni il Comando Manuale lanciato a terra con rabbia non appena varcata la soglia del bagno.
 
Dopo qualche tentativo lo trovò ai piedi della vasca, una grossa crepa ad intaccare il candore del vetro satinato della scocca.
 
Deglutendo a fatica, spostò il cursore del Comando verso il “Sì” porpora che lampeggiava davanti a lui, accecante. Di fianco, un “No” di un verde pallido, distensivo, gli ricordava di essere la scelta consigliata dagli sviluppatori.
 
- Vuoi davvero cancellare questi ricordi? –
 
Il puntatore tremò, corrispettivo digitale del forte tremore della mano del medico sul pulsante analogico.
 
 
«Ha un tremore intermittente alla mano sinistra. La sua terapista pensa che sia disturbo da stress post-traumatico. Pensa che lei sia perseguitato dai ricordi della guerra. La lasci. Sbaglia.»
«Ben tornato.»
 
 
Con un tonfo si lasciò cadere sul pavimento, le spalle premute contro la vasca, fino a percepire il freddo della ceramica entrare sotto pelle.
 
Si rese conto di non riuscire a cancellare Sherlock, il suo ricordo, nemmeno sotto la spinta della rabbia che sentiva risalirgli le vene come un veleno bollente.
 
Il suo viso era ancora lì, davanti ai suoi occhi, un anonimo laboratorio del Barts come sfondo.
I suoi occhi, erano lì.
 
Disperato - i conati a risalirgli la gola - si scollegò dalla Capsula, lasciandosi cadere sul pavimento.
 
Aveva bisogno che quel dolore finisse, che il senso di smarrimento ed abbandono svanisse, lasciandolo libero di respirare.
 
Ma - nonostante sentisse il cuore sul punto di scoppiare per la disperazione - il pensiero di un fischio prolungato e di caselle vuote al posto del sorriso del detective era ancor meno sopportabile dell’idea che gli avesse mentito per anni, lasciandolo solo nella disperazione.
 
Dopo qualche minuto, tremante, si portò su un fianco, aiutandosi con le braccia a tornare in posizione eretta.
 
Con passo incerto, zoppicante, si diresse verso la cucina, una mano a sfiorare le pareti in un sostegno più emotivo che reale.
 
Recuperò dal primo cassetto del tavolo ciò che gli occorreva e, lentamente, si diresse di nuovo verso il bagno.
 
Accese la luce sopra lo specchio, riuscendo a vedere realmente il proprio riflesso dopo mesi.
Gli ci volle qualche secondo, per riconoscere se stesso in quell’uomo emaciato dalla barba incolta e gli occhi vitrei.
 
«Chiama Greg.» Ordinò con voce facilmente intellegibile al telefono abbandonato ai suoi piedi, sotto il lavandino.
 
«Sto chiamando: Gregory Lestrade.» Rispose una voce metallica, prima di azionare il vivavoce.
 
«John…?» Rispose l’ispettore dopo un paio di squilli, sorpreso.
 
«Ciao Greg. Scusa, non so neanche che ora siano. Ti ho disturbato?» Domandò il medico, chiudendo gli occhi e sospirando.
 
«No…  no. Certo che no! Dimmi.» Balbettò l’altro, preoccupato che una risposta sbagliata potesse interrompere quell’improvvisa ricerca di contatto da parte dell’amico.
 
«Potremmo… Potremmo vederci alla tomba di Sherlock tra… non lo so, un’ora?» John sentì la propria voce arrancare, aprirsi in fiocchi di rabbia mista a dolore.
 
«Vuoi andare al cimitero a quest’ora? È quasi mezzanotte…» Provò l’altro, dubbioso.
 
«Dici sempre che dovrei uscire…» Rispose John, tornando a guardarsi allo specchio. «Voglio ricominciare a farlo adesso. Da lì. Devo lasciare una cosa sulla sua lapide.» Cercò di dire in modo da risultare convincente.
 
«Beh… ok. Va bene. Direi che è un buon inizio.» Ribatté Greg, una finta allegria a colorare le parole.
 
«Perfetto. Ci vediamo lì. Fine telefonata.» Scandì, aspettando di sentire il click della comunicazione che veniva interrotta.
 
Voltò la testa verso destra, cercando di individuare nel suo riflesso i led colorati della Capsula.
Un bagliore azzurro si spandeva da dietro l’orecchio, appena visibile.
 
«Ok…» Bisbigliò, deglutendo un paio di volte. «Ci vorrà solo un attimo.» Cercò di rassicurarsi, afferrando con la mano sinistra il piccolo coltello dalla punta affilata preso in cucina.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«Non ricordo perché sono venuto qui…»
 
Seduto a terra - la schiena contro il marmo scuro e la voce ridotta ad un flebile sussurro - John socchiuse gli occhi, cercando di mettere a fuoco il profilo dell’uomo sconosciuto chino su di lui.
 
«John! Che cosa è successo?!» Lestrade lasciò che le ginocchia affondassero nella terra umida mentre - le mani sulle spalle dell’amico - faceva vagare lo sguardo attorno, terrorizzato, cercando di capire cosa stesse accadendo.
 
«Stai sanguinando!» Rantolò poco dopo, scorgendo nella poca luce disponibile un riflesso scuro e denso impregnare quasi del tutto il lato sinistro del collo del medico.
 
«Che cosa hai fatto?!» Tentò nuovamente, risalendo con le dita lungo la scia in cerca di una ferita.
 
«Cristo.» Rantolò, quando i polpastrelli affondarono in piccolo buco dietro l’orecchio.
 
«Ti sei tolto la Capsula?! Perché! Perché così?! JOHN!» Cercò di chiamarlo, mentre l’altro socchiudeva gli occhi, quasi del tutto assente.
 
«Non mi ricordo… dovevo portarla qui… Credo. Non credo di… Non mi ricordo di te, ci conosciamo…?» Sussurrò il medico,  abbassando le palpebre.
 
«CHIAMA MYCROFT!» Gridò Lestrade, sentendo il cellulare azionarsi nella tasca del cappotto.
 
Con delicatezza accompagnò il corpo di John a terra, aprendogli la giacca in modo da permettergli di respirare più facilmente.
 
«Mycroft, manda un’ambulanza al Kensal Green, siamo davanti alla lapide di Sherlock!» Urlò, concitato, non appena sentito il suono della connessione che veniva agganciata.
 
«Siete? Cosa sta succedendo?» Domandò l’altro, la preoccupazione che traspariva tra le pieghe di una voce apparentemente calma.
 
«Chiama un’ambulanza, ho detto! John si è tolto da solo la Capsula, sta perdendo sangue, non è quasi più cosciente!» Tentò di spiegare il poliziotto, guardandosi disperatamente attorno.
«Fa’ qualcosa, ti prego! Non so da quanto tempo sia qui!»
 
“Arriviamo.” Rispose Mycroft, veloce, interrompendo la comunicazione subito dopo.
 
Una mano premuta contro il collo di John, Lestrade continuò a muovere gli occhi in tutte le direzioni nel tentativo di trovare aiuto immediato.
 
Fu allora che la vide.
 
 
La Capsula.
 
 
Lucente, pulita, risplendeva di un bianco irreale, adagiata con cura sul marmo nero.
 
«Perché lo hai fatto?» Chiese ancora una volta, il battito caldo della carotide sinistra di John contro il palmo della sua mano.
 
 
«Non mi ricordo…» Bisbigliò l’altro, accennando un sorriso prima di perdere i sensi.
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
John si lasciò andare contro lo schienale della sedia, allungando le braccia all’indietro.
 
La cicatrice dietro l’orecchio si tese, rigida, mentre spostava da un lato la testa in cerca di una posizione che gli permettesse di rilassare i muscoli.
 
Il suono acuto dell’interfono lo colse di sorpresa, facendolo sobbalzare.
 
Cercando di ignorare il battito frenetico del proprio cuore nello sterno si spinse in avanti, aprendo la comunicazione.
 
«Dottor Watson, so che le avevo detto che gli appuntamenti di oggi fossero finiti ma… c’è un uomo qui fuori che insiste per entrare.» Gracchiò una voce femminile, metallica.
 
«Va bene, Mary. Fallo entrare.» Rispose lui, tornando a sedersi in modo composto.
 
La prospettiva di allungare ancora di qualche minuto la permanenza in ambulatorio non lo infastidiva.
 
 
Come ogni sera, l’idea di tornare nel suo appartamento nei pressi di Soho Square lo metteva di cattivo umore.
 
Non riusciva in alcun modo a riconoscere quell’abitazione come propria, nonostante in ospedale gli fosse stato ripetuto più volte che negli ultimi cinque anni aveva sempre vissuto lì.
 
 “Colpa dell’amnesia da trauma.” Si ripeteva cullando la speranza che, con il tempo, le sinapsi sarebbero tornate a rieleborare ciò che la prima Capsula aveva registrato fino al momento dell’incidente.
 
Non ricordava cosa fosse successo.
 
Era arrivato in ospedale in stato di incoscienza, il chip sottocutaneo assente.
 
Tramite scansione oculare i medici erano risaliti al suo nome, il suo stato civile, la sua residenza ed al suo indirizzo di lavoro.
 
Vista la sua professione - gli era stato detto - era presumibile che l’inserimento della Capsula fosse avvenuto nei primi mesi del 2010 e che - data la natura violenta dell’espianto - i circuiti biologici collegati al chip fossero stati gravemente danneggiati insieme ai relativi ricordi, rendendo temporaneamente – se non definitivamente - impossibile qualsiasi forma di backup basato sul naturale processo sinaptico.
 
Il pensiero a tratti insopportabile di aver perso parte di sé, del proprio vissuto, si stemperava nella certezza di non aver dimenticato niente di vitale: non risultava essersi sposato nell’arco di quei cinque anni e nessuno, negli ultimi mesi, era mai andato a trovarlo presentandosi come un amore, presente o passato.
 
 
Il rumore della porta che si schiudeva verso l’interno lo scosse dai pensieri.
 
Dopo qualche secondo un uomo alto e magro comparve sulla soglia, la pelle chiara del viso resa ancor più pallida dalle ciocche di ricci neri che la incorniciavano.
 
Le mani affondate nelle tasche di un pesante cappotto, rimase immobile tra la sala d’attesa e lo studio, lo sguardo fisso su quello del medico, un’espressione indecifrabile ad agitargli i lineamenti.
 
«Prego, si accomodi.» Lo incoraggiò John, indicandogli con un cenno di mano una delle due sedie di fronte a sé, al di là della scrivania. «In cosa possa aiutarla, signor…»
 
«William.» Lo interruppe l’altro, muovendo i primi passi all’interno della stanza, un’ombra scura ad adombrargli gli occhi chiari. «Solo… William.»
 
«William.» Ripeté John, con un sorriso caldo. «Posso fare qualcosa, per lei?»
 
«Io…» La voce profonda dell’uomo vibrò appena, e al medico sembrò che si muovesse all’interno del suo stesso petto. «Devo essermi sbagliato. Pensavo che qui lavorasse un vecchio amico.» Terminò, deglutendo a fatica, gli occhi a percorrere le pareti, improvvisamente lucidi.
 
«Oh. Capisco.» John si portò istintivamente una mano dietro l’orecchio, sfiorando con la punta delle dita il nuovo impianto. «Ad ogni modo, se ha bisogno di un parere medico…»
 
«No, grazie.»  Rispose lui, spostando un’ultima volta – velocemente, quasi con vergogna - lo sguardo sul viso dell’altro prima di girarsi ed avviarsi, passi pesanti e strascicati, verso la porta.
 
La voce del medico lo costrinse a fermarsi quasi subito.
«Mi dispiace.»  Sussurrò, con un sincero tono afflitto.
 
«Per cosa?» Domandò l’uomo, senza voltarsi.
 
«Che sia venuto fin qui senza trovare la persona che stava cercando.» Rispose John, morbido.
 
«Non importa.» Bisbigliò l’altro, alzandosi il bavero del cappotto con un rapido gesto delle mani.
«Non ha più importanza.» Ripeté una seconda volta, la voce più alta.
 
 
Senza aggiungere altro sparì oltre la soglia, lasciando John con una sensazione inspiegabile ed opprimente di vuoto.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«C’era davvero bisogno di venire?»
 
Domandò una voce piatta proveniente dall’interno di una berlina nera - vetri oscurati ed motore acceso - ferma davanti alla porta principale della clinica.
 
«Sparisci, Mycroft.» Sibilò Sherlock, cercando con gesti frenetici qualcosa all’interno delle tasche del cappotto, i capelli agitati dal forte vento che sferzava la strada.
 
«Sei convinto, adesso?» Domandò l’altro, affacciandosi dal finestrino aperto.
 
«Sta’. Zitto.» Ringhiò il detective, tirando fuori un pacchetto di sigarette e tentando, con mani tremanti, di estrarne una.
 
«Gli hanno impiantato una nuova Capsula, ma i danni che ha riportato…»
 
«STA’ ZITTO!» Gridò Sherlock, il chip di un rosso accesso sotto la cute. «Sta’ zitto, maledizione! Te lo avevo affidato! Ti avevo chiesto di vegliarlo, di farmi sapere se qualcosa non stesse andando secondo i piani!» Scagliò con rabbia l’accendino a terra, guardandolo finire sotto la macchina del fratello.
 
«Sai che non avremmo potuto…» Provò l’altro serrando la mascella, unico segno di tensione su un viso apparentemente distaccato.
 
«Sei solo stato capace di creargli una nuova vita mentre lo stavano portando in ospedale.» Soffiò Sherlock, scuotendo la testa, il viso arrossato e gli occhi lucidi. «Di inserire un indirizzo falso nei terminali e di mandarlo on line.»
 
«Lo stavo proteggendo, Sherlock.» Rispose Mycroft.
 
«Oh, no. Stavi proteggendo te stesso. Le tue stupide bugie!»
 
«E le tue? Anche tu hai mentito, come tutti noi. E lo sai perché?» Chiese il maggiore, gli occhi seri, immobili. «Lo sai?»
 
«Io stavo solo cercando di salvargli la vita…» Sussurrò il detective, improvvisamente esausto.
 
«Bene. Lo hai fatto, Sherlock. È vivo. Ha un lavoro, una casa, qualche amico di vecchia data. Hai svolto il tuo lavoro in modo egregio.»
 
Il detective scosse nuovamente la testa, un sorriso amaro in bilico sulle labbra.
 
«Tu non capisci.» Si limitò a dire, prima di avviarsi lungo in marciapiede, la testa china a sfidare le raffiche.
 
«E tu?» Gli chiese il maggiore, alzando la voce in modo da rendersi udibile. «Hai finalmente capito perché i sentimenti siano uno svantaggio?»
 
Sherlock lo ignorò, stringendosi con più forza nel cappotto, le braccia serrate al petto ed il respiro improvvisamente affannoso.
 
Attorno a lui, i primi fiocchi di neve.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
Quando Sherlock arrivò davanti al portone del 221B, Baker Street era quasi del tutto coperta da un leggero mantello di neve fresca.
 
Seduto su i gradini - un pesante cappuccio calato sulla testa ed il viso arrossato dal freddo - Lestrade lo stava aspettando, un’espressione di muta colpa ben visibile in fondo agli occhi.
 
«Come sta…?» Chiese, non appena il detective si fermò di fronte a lui.
 
«Spostati. Devo entrare.» Fu l’unica risposta che ottenne.
 
«Ho davvero bisogno di sapere che sta bene.» Tentò di nuovo l’Ispettore, cercando di combattere il nodo alla gola che sentiva farsi sempre più grande, sempre più forte.
 
«Perché non vai a chiederglielo direttamente? Prova anche tu la sensazione di essere un completo estraneo, ai suoi occhi.» Sibilò Sherlock, approfittando del fatto che Lestrade si fosse alzato per superarlo ed arrivare alla serratura.
 
«Almeno è vivo.» Sospirò l’uomo, vedendo le spalle del detective vibrare alle sue parole.
 
«Forse è un bene, che non ricordi.» Continuò il poliziotto, piccole nuvole di vapore condensato a prendere forma davanti alle labbra pallide.
 
«Forse.» Ammise il detective, spingendo la porta verso l’interno.
 
«Forse avrà una vita migliore, senza tutti noi.» Terminò, cupo, attraversando l’ingresso e dirigendosi con passi veloci al piano di sopra.
 
Lestrade lo seguì con gli occhi fin dove reso possibile dall’oscurità che occupava il pianerottolo e il vano delle scale.
 
Poi - con un sospiro pesante - richiuse il portone, avviandosi verso la macchina con sguardo basso.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«Cos’hanno le persone, nella loro “vita reale”, quindi?»
 
«Amici? Persone che conoscono, persone che amano, persone che odiano... Fidanzate, fidanzati...»
 
«Sì, beh, come dicevo, noioso.»
 
«Non ha una ragazza, quindi?»
 
«Ragazza? No, non è proprio il mio campo.»
 
«Mm. Oh, giusto. Ha un fidanzato? Andrebbe bene comunque.»
 
«So che va bene.»
 
«Quindi ha un fidanzato?»
 
«No.»
 
«Bene. Ok. Non ha legami. Come me. Bene. Ottimo.»
 
 
 
Sherlock sbatté le palpebre un paio di volte.
 
Il salotto di Baker Street prese nuovamente il posto del ristorante di Angelo, mentre John scompariva tra le pieghe di stoffa della sua poltrona.
 
Spaesato, il detective mosse gli occhi verso il camino acceso, sentendoli bruciare.
 
«Non dovresti passare così tanto tempo a visionare i files con la IP, Sherlock. Finirai con l’accecarti
 
La voce di John esplose nella sua testa mentre, in silenzio, una lacrima solitaria iniziava la sua discesa verso le labbra socchiuse.
 
«Non visiono i files. Uso una tecnica mnemonica.» Si sentì rispondere, con tono oltraggiato.
 
«Non vorrai davvero farmi credere che non usi la Proiezione Interna, quando sei nel tuo “Mind Palace.”» La risata divertita di John gli sconquassò il petto, torcendogli lo stomaco.
 
«Ogni tanto. Forse.» Ammise il suo ricordo, sorridendo appena.
 
«È normale. Lo facciamo tutti.» L’immagine del medico si sedette sulla poltrona con uno sbuffo, negli occhi una un sorriso.
 
«Non è vero. Tu non lo fai.» Lo rimbeccò Sherlock, doppiando con le labbra se stesso.
 
«Non ne ho ancora avuto bisogno. Se mai varrà la pena di giocarmi la vista per ricordare qualcosa, allora, lo farò
 
 
Il detective strinse le dita attorno ai braccioli della seduta, le unghie affondate nella pelle scura.
 
 
«Niente ne è mai valsa la pena, fino ad oggi?»
 
 
«No, per fortuna. Quando accadrà, vorrà dire che sarò completamente schiavo dei ricordi. E, chiaramente, di chi li abita.»
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
John si passò una mano tra i capelli, osservando con attenzione il proprio riflesso nello specchio dell’armadietto dello spogliatoio.
 
La nuova Capsula emanava un tenue bagliore verdastro che, in alcuni punti, tingeva il biondo dei capelli.
 
Le iridi si stavano scurendo, nonostante i danni più profondi si fossero rivelati così gravi da risultare incurabili.
 
Ancora qualche settimana, e avrebbe potuto togliere le lenti a contatto correttive che era costretto ad applicare giorno e notte.
 
 
 
«Perché ho riportato danni così severi alla vista?» Aveva chiesto, in una delle tante visite di controllo.
 
«Probabilmente i sensori si sono surriscaldati quando sono stati strappati dalla Capsula.»  Aveva risposto il medico di turno, appuntando distrattamente i suoi progressi sul tablet che teneva tra le mani.
 
«Non potrebbe essere dovuto ad un uso scorretto di IP?» Aveva insistito lui, passandosi una mano sulle palpebre arrossate.
 
«Improbabile. Per provocare danni simili dovrebbe aver visionato files per ore intere ogni giorno. Per anni. Perché mai avrebbe dovuto farlo?»
 
 
 
John corrugò la fronte, inclinando la testa da un lato.
 
“Manca qualcosa.” Pensò, assottigliando gli occhi. “Manca qualcosa di importante.”
 
«John!» La voce di Mary, alle sue spalle, lo fece sobbalzare.
Con uno scatto si voltò verso di lei, richiudendo l’anta di metallo.
 
«Ehi! Non ti ho sentito entrare!» Rise, improvvisamente teso.
 
«Scusa, non pensavo fossi ancora qui.» Sorrise la donna, alzando le mani con fare scherzoso. «Il tuo turno è finito un’ora fa!»
 
«Hai ragione. Stavo… stavo aspettando che smettesse di nevicare.» Mentì lui, raccogliendo il cappotto dalla panca di legno di fianco a sé.
 
«La bufera sembra essersi calmata…» Mary si strinse la pesante sciarpa rossa attorno al collo, muovendo la testa da una parte e dall’altra per riuscire a far riemergere il mento. «Già che sei qui… Stavo pensando… Ti andrebbe di bere qualcosa?»
 
John arricciò l’angolo delle labbra in un sorriso, gli occhi morbidi.
 
«Sarebbe magnifico. Solo… Non stasera.» Rispose, cercando di apparire il più onesto possibile.
 
Qualcosa, nell’idea di accettare quell’invito, lo faceva sentire a disagio, colpevole.
 
Era come riuscire a scorgere un pensiero opaco, nascosto, inaccessibile. La sagoma fumosa di qualcuno che, per quell’appuntamento, avrebbe sofferto.
 
Come non essere del tutto sinceri.
 
«Va bene.» Mary alzò le spalle, annuendo. «Sarà per un’altra volta.»
 
«Ti ho mai parlato di qualcuno, durante questi ultimi anni? Una persona importante.» Domandò John, pentendosi subito dopo.
 
La donna socchiuse le labbra e, per qualche secondo, sembrò indecisa su come e cosa rispondere.
 
Alla fine, con un profondo respiro, fece cenno di no.
 
«Ok…» John si portò il cappotto dietro le spalle, iniziando ad indossarlo.
 
«Mi dispiace.» Sussurrò lei, gli occhi bassi.
 
«E perché mai?» Il medico si chiuse i bottoni velocemente, raggiungendola vicino alla porta. «Meglio così. Non voglio correre il rischio di non ricordare una persona importante.»
 
Le poggiò una mano su di una spalla, stringendo appena. «Ci vediamo domani, ok?»
 
«Ok.» Gli fece eco lei, aspettando di vederlo raggiungere la fine del corridoio prima di estrarre il telefono dalla tasca della giacca.
 
«Chiama il signor Holmes.» Sillabò, gli occhi tristi.
 
«Mary.» La voce dell’uomo rispose dopo un paio di squilli, atona e controllata. «È successo qualcosa?»
 
«Credo… Credo che inizi a ricordare qualcosa.» Bisbigliò lei.
 
«Non mi piace mentirgli.»
 
«Non devi farlo. Sei lì per aiutarlo, non per proteggerlo dalla verità.» Ribatté Mycroft, dopo qualche secondo di silenzio.
 
«Mi ha messo qui affinché gli facessi credere di aver lavorato con lui ogni giorno negli ultimi cinque anni. Non è mentire, questo?»
 
«Ti ho messo lì per non aggiungere ulteriore stress a quello già vissuto. Appena dimesso aveva bisogno di sicurezze. Adesso, forse, è giunta l’ora che affronti i dubbi.»
 
«E cosa accadrà, se dovesse ricordare ogni cosa?» Domandò lei, mordendosi il labbro inferiore.
 
«Non accadrà nulla che il Dottor Watson non voglia.» Fu la lapidaria risposta.
 
Qualche secondo dopo, la comunicazione venne interrotta.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«Dottor Watson.»
 
John si fermò qualche passo oltre la porta a vetri dell’ingresso, le scarpe affondate nella neve fresca e qualche fiocco in bilico tra i capelli.
 
Con aria sorpresa si guardò attorno, in cerca della fonte del richiamo.
 
«Sono qui.» Lo indirizzò la voce, facendolo girare verso l’ingresso.
 
Con andatura sicura, un uomo uscì dalla penombra della sera londinese che avvolgeva la strada, portandosi davanti alla luce proveniente dalla vetrata della clinica.
 
Per qualche secondo il medico non riuscì a distinguere altro che i suoi occhi, di un azzurro ghiaccio.
 
«William…! Giusto?» Riuscì a dire dopo un paio di tentativi, le parole improvvisamente bloccate in gola, riconoscendo la persona entrata nel suo studio quasi una settimana prima.
 
L’uomo annuì e, per un attimo, sembrò triste.
 
«Sta aspettando il suo amico?» John si portò le mani vicino al petto, sfregandole tra loro in cerca di calore.
 
«In realtà sì, ma… Non credo che verrà.» Rispose l’altro, avvicinandosi.
 
Solo quando furono praticamente affiancati, il medico si accorse di aver trattenuto il fiato.
 
Imbarazzato, si lasciò andare ad un respiro profondo che gli svuotò i polmoni, arrossandogli il viso.
 
«Mi dispiace.» Sussurrò, senza trovare parole adatte ad aiutare l’altro come avrebbe voluto.
 
«Non fa che ripeterlo. Non credo che dovrebbe dispiacersi per chi non conosce.» Sherlock abbassò gli occhi, osservando la neve continuare a depositarsi ai suoi piedi.
 
«Al momento è praticamente l’unica cosa che possa fare, non riconoscendo quasi nessuno.» Sorrise John, scuotendo la testa divertito.
 
«Ha intenzione di rimanere qui fin quando non lo vedrà?» Domandò poi, soffiando contro il palmo delle mani.
 
«No. Penso che andrò a casa.» Il detective ancorò i propri occhi a quelli dell’altro per qualche secondo.
 
Poi, a fatica, li riportò a terra.
 
«Sono le dieci passate.» Asserì John, osservando l’orologio posto nella parte alta del suo campo visivo. «Ha già cenato?» Chiese, gentilmente.
 
«N…no.» Sherlock aggrottò la fronte, confuso.
 
«Pensa che il suo amico potrebbe arrabbiarsi, se cerchiamo riparo dal freddo e mangiamo qualcosa in attesa che si palesi?»
 
«Io…» Il detective alzò le sopracciglia, sorpreso. Poi, lentamente, fece cenno di no col capo.
 
«Bene. Sto morendo di fame e casa mia è decisamente troppo distante.» Allegro, il medico fece per muoversi in direzione della strada principale. «Conosce qualche posto senza troppe pretese dove potremmo cenare senza spendere una fortuna?»
 
Sherlock sentì il cuore stringersi.
 
«In realtà, sì.» Rispose dopo qualche secondo. «Devo solo fare una telefonata per avvertire del nostro arrivo.»
 
«Perfetto!»
 
Il detective estrasse il cellulare, portandoselo vicino alle labbra.
 
«Chiama Angelo’s.» Sussurrò.
 
Improvvisamente, John ebbe la forte sensazione che l’uomo che gli camminava vicino, la sua voce, persino il luogo dev’erano diretti fossero familiari.
 
Alzò gli occhi su di lui, seguendo con lo sguardo il profilo del suo viso.
 
«Tutto bene?» Gli domandò il detective, senza voltarsi, portandosi il telefono all’orecchio.
 
«Sì. Tutto bene.» Sorrise John, annuendo appena, un’emozione agrodolce ad agitargli il petto.
 
«Mi perdoni, ma… Ci siamo mai visti prima di oggi?» Chiese, un paio di minuti dopo, mentre l’altro chiudeva con un rapido gesto della mano la chiamata verso il ristorante.
 
Sherlock lasciò cadere il cellulare nella tasca del cappotto, affondando la mano al suo interno per nasconderne l’improvviso tremore. «Certo.» Rispose, i muscoli della mascella contratti.
 
«Davvero?» Il medico si fermò, il respiro mozzato. «Quando? Dove?» Domandò, l’agitazione a risalirgli le vene.
 
«Nel suo studio, mercoledì. Non ricorda?» Si affrettò a dire il detective, combattendo il fiotto di nausea che sentiva bruciare in gola.
 
«Ah, giusto.» John rilassò le spalle e tornò a camminare. «Deve scusarmi. Ho avuto qualche problema con la mia Capsula, la mia memoria è un po’ traballante.» Cercò di scherzare.
 
Sherlock si strinse con più forza nel soprabito, i respiri pesanti e roventi come metallo fuso.
 
«E, a proposito di Capsule… Non dovrebbe passare così tanto tempo a visionare i files con la IP. Finirà con l’accecarsi.»
 
Il detective si voltò verso di lui, la bocca socchiusa, negli occhi un misto di sorpresa, paura e sofferenza.
 
«Scusi, forse non…» Balbettò John, preso alla sprovvista. «È solo che ho visto le sue iridi e… Lasci perdere. Non avrei dovuto dirlo. È stato indelicato, da parte mia.»
 
«Non importa.» Sherlock lasciò che l’altro muovesse lo sguardo sul suo viso, che lo analizzasse attentamente, sperando che - in qualche modo - capisse.
 
«Il suo amico non verrà mai, vero?» Domandò il medico dopo qualche secondo, la voce arrochita.
 
«No.» Confermò lui, esausto.
 
 
In silenzio – vicini – tornarono a camminare, la neve sempre più fitta a ballare attorno a loro.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«Ecco qui.» Angelo - un sorriso radioso ad illuminare il viso paffuto – posò con attenzione due piatti di pasta fumante di fronte a loro.
 
«Grazie.» Gli rispose Sherlock, facendogli cenno con gli occhi di andare.
 
«Qualsiasi cosa, William, sono a vostra disposizione, lo sai.»
Il cuoco ammiccò velocemente, allontanandosi con passo spedito verso la cucina.
 
«Viene qui spesso, eh?» Chiese John con aria divertita, affondando la forchetta nei suoi spaghetti.
 
«Anni fa ero uno di quelli che si è soliti definire “clienti fissi”.» Annuì l’altro, lo sguardo oltre la vetrata alle spalle del medico.
 
«Poi ha smesso di andare a cena fuori?»
 
«Poi ho smesso di vivere.» Rispose Sherlock, atono.
 
John appoggiò la posata al bordo del piatto, ingoiando rapidamente il boccone che stava masticando.
 
«È successo qualcosa del quale le andrebbe di parlare…?» Provò, gentile, l’attenzione completamente sul viso dell’altro.
 
«Non c’è molto da dire. Sono stato lontano da Londra per tre anni. Quando sono tornato, niente era come l’avevo lasciato.» Il detective staccò gli occhi dalla finestra, portandoli al proprio piatto.
 
«Lavoro?»
 
«Più o meno.»
 
«Capisco.» Il medico riprese la forchetta, usandola per muovere i fili di pasta da una parte all’altra del piatto.
 
«Per tre anni, ogni notte, ho chiuso gli occhi pensando di star facendo la cosa giusta. Che, una volta tornato, sarebbe bastato suonare un campanello per riavere indietro la mia vita…»
Sherlock si strinse i denti, scuotendo la testa.
 
«Accecato dalla convinzione che chi avevo lasciato indietro sarebbe rimasto in attesa, sempre. Sicuro che non fosse un problema, aver mentito per un bene “superiore”.»
 
John aggrottò la fronte, cercando di capire.
 
«Ma chi aveva lasciato non l’ha aspettata.» Provò, dopo qualche secondo.
 
«No, non lo ha fatto.» Sherlock poso gli occhi in quelli del medico.
 
«Ma è stata colpa mia.»
 
«Non vedo come possa essere stata colpa sua. Stava solo provando a fare la cosa giusta.» Commentò John, scuotendo la testa.
 
«Non ho capito che le mie bugie avrebbero procurato tanto dolore. Io…» Il detective si morse le labbra, provando a fermare il tremore che agitava la sua voce. «Io non credevo di poter essere importante, per qualcuno. Non al punto di…» Balbettò, gli occhi liquidi.
 
«Scusi. Non dovrei raccontarle queste cose.» Si ricompose, nel petto un dimenarsi di emozioni contrastanti.
 
«La verità è che dovrei lasciarlo andare, ma non ci riesco. Non sono coraggioso abbastanza. Non quanto lui. Mai, quanto lui.»
 
Sherlock deglutì un paio di volte, assumendo un’espressione di sorda rabbia. «Vorrei solo che sapesse che mi dispiace. Che mi dispiace profondamente di averlo ferito. E abbandonato. Che ho cercato di proteggerlo, senza rendermi conto che il pericolo più grande, per lui, ero io.»
Terminò, serrando le mani, i polsi appoggiati al bordo del tavolo e la testa china.
 
John allungò una mano, tentando di sfiorargli un braccio. Istintivamente, l’altro si ritrasse.
 
«Non sempre ci si rende conto delle conseguenze delle proprie azioni. Si pensa di agire per il meglio e si scopre solo troppo tardi quanto “il meglio” risiedesse tutto da un’altra parte.» Il medico si portò le dita dietro l’orecchio sinistro, distrattamente.
 
«Ma sono sicuro che la persona della quale mi sta parlando, se ha reagito davvero così male, tenesse moltissimo a lei.» Sussurrò, con un sorriso.
 
«Le grandi scelte, anche le più drastiche o apparentemente aberranti, sono mosse da grandi sentimenti. Non credo che possa essere una consolazione valida, ma… quanto meno sa di aver agito per amore e di essere stato ricambiato.»
 
Sherlock socchiuse le labbra, gli occhi spalancati.
 
Per un attimo ogni cosa scomparve, avvolta dalla voce di John. Persino il suo cuore, ed il dolore che sentiva ad ogni battito da mesi.
 
«È piuttosto evidente, no?» Si sorprese della reazione dell’altro il medico, sbattendo un paio di volte le palpebre. «Sbaglio?»
 
«Da quello che la gente racconta, l’amore dovrebbe vincere ogni cosa. Non credo che qualcuno possa mai avermi amato, né penso di esserne capace a mia volta.» A fatica, Sherlock spinse le parole oltre la barriera delle labbra.
 
«Io dico di sì. Lo vedo nei suoi occhi.» John inclinò la testa da un lato, serio. «Sono sicuro che se andasse da lui e gli chiedesse perdono con gli stessi occhi con i quali sta guardando me adesso, lui la ascolterebbe. Perché è evidente che lo ami più di quanto riesca ad ammettere.»
 
Sherlock aggrottò le sopracciglia, gli occhi liquidi ed arrossati, cercando di trattenere le lacrime.
 
«E se la sua assenza ha procurato così tanto dolore, è chiaro che anche lui la amasse molto. Chi ama non smette di farlo da un momento all’altro. Non è possibile. È solo che, alle volte, rabbia e tristezza sono più forti.» Tossì il medico, una fitta a trafiggergli lo sterno. Senza rendersene conto, si portò una mano al petto.
 
«Ho mentito per troppo tempo.» Sussurrò il detective, scuotendo la testa.
 
«Allora gli regali la verità. Se la merita.» Ribatté John, scostando il piatto con un gesto della mano, la Capsula surriscaldata ad irritargli la cute. «La meritate entrambi.» Terminò, alzandosi, un dolore sordo ad annebbiargli la vista e fiaccargli la voce. «Chiedo scusa, ho bisogno di prendere una boccata d’aria.»
 
Con passo zoppicante raggiunse la porta, seguito dagli occhi si Sherlock.
 
Dopo qualche secondo, il detective prese il cappotto e si alzò a sua volta, seguendolo all’eterno del locale.
 
 
 
«Ha lasciato la giacca dentro. Così rischia di raffreddarsi.» Sherlock, voce bassa e passo lento, si portò al fianco del medico.
 
Appoggiato al muro del ristorante - le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e lo sguardo al cielo scuro sopra di loro – John alzò le spalle, con noncuranza. «Non è importante.» Rispose, negli occhi il riflesso dei fiocchi che continuavano a cadere.
 
«Oggi una mia collega mi ha chiesto di uscire.» Continuò, dopo qualche secondo. «Le ho detto di no.» Il medico si voltò verso Sherlock. «Però ho chiesto a lei di unirsi a me per la cena.»
 
«Non si può certo dire che brilli nella scelta della compagnia.» Scherzò lui, estraendo un pacchetto di sigarette dalla tasca del cappotto.
 
«È stato… strano. Naturale.» Riprese John, sfiorandosi nuovamente il chip con le dita.
 
«Tutti pensano che questi cosi aiutino a vivere, a prendere decisioni giuste, a non dimenticare le cose importanti. Ma invitarla a cena non è partito da qui…» Tamburellò con i polpastrelli sulla Capsula. «È partito da qui.» Concluse, portandosi la mano al petto.
 
«Pensa che voglia dire qualcosa?» Domandò Sherlock, nella voce una speranza che non riuscì a trattenere ma che l’altro non sembrò notare.
 
«Forse che ero già troppo vecchio, quando sono diventati obbligatori.» Rise il medico, prima di starnutire.
 
«Lo avevo detto, che si sarebbe raffreddato.» Disse Sherlock, sfilandosi il cappotto e gettandolo sulle spalle dell’altro.
 
«I raffreddori non funzionano così…» Iniziò lui, sorridendo, prima di bloccarsi, la bocca socchiusa e gli occhi fissi.
 
«Dottor Watson?» Cercò di chiamarlo il detective, prima che John si voltasse lentamente verso di lui - gli occhi enormi, carichi di lacrime -  facendogli morire la voce tra le labbra.
 
Il led della Capsula di John, in trasparenza, divenne di un rosso acceso mentre le sinapsi lavoravano per ricostruire una serie di ricordi olfattivi.
 
«Il tuo odore…» Rantolò il medico, nella testa un’esplosione di frammenti sconnessi tra loro.
 
«Io ti conosco…» Ripeté, portandosi una mano al chip.
 
 
«Sherlock…»
 
 
Il detective sentì la voce del medico tremare al centro del petto, una nota tesa in una cassa di risonanza incrinata.
 
Con uno sforza enorme annuì, deglutendo aria e lacrime.
 
«C’era un cecchino…» Cominicò il detective - dopo qualche secondo, balbettando - cercando di combattere l’istinto di avvicinarsi all’altro che, sconvolto, si era lasciato andare contro la parete di fianco alla vetrata del locale, i respiri corti ed affannosi.
 
«Il gioco era: la mia vita, o la tua.»
 
John non sembrò ascoltare, gli occhi fissi davanti a sé, vacui.
 
«Ho scelto la tua.»
 
A quelle parole il medico sembrò scuotersi.
 
Lentamente, si voltò verso di lui, un’espressione sofferente immobile sul viso.
 
«Per tre anni ho cercato ogni persona che facesse parte dell’organizzazione di Moriarty, della sua “rete”, assicurandomi che nessuno, mai più, potesse tenerti al centro di un mirino…»
 
«Tre anni.» Ripeté John, la testa stretta in una morsa rovente. «Perché non me lo hai detto? Sarei venuto con te, lo sai. LO SAI.» Sibilò, un calore insopportabile ad irradiarsi dietro l’orecchio sinistro.
 
«Io ero morto. Tu no. Non avrei permesso che ti potesse accadere qualcosa. Ho pensato: se morirò in missione, non lo saprà. Continuerà la sua vita, e sarà al sicuro. E se mai dovessi riuscire a sopravvivere allora… allora saremo di nuovo al sicuro entrambi. Insieme.»
Sherlock buttò a terra la sigaretta, una lacrima solitaria in bilico tra le ciglia scure.
 
«Vita.» Rise l’altro, la voce vuota. «Quale vita?»
 
«John…»
 
«Quale vita, Sherlock! Eri tu la mia vita! Come può l’uomo più intelligente del mondo, il più arrogante, il più egocentrico non aver capito che l’esistenza di qualcun altro girasse attorno alla s—»
 
«Mi dispiace.» Il detective lasciò cadere tra loro le parole, sature di dolore, poco più che un sussurro.
 
«Mi dispiace. Non volevo farti male. Non pensavo che… Non…» Con frustrazione, mosse qualche passo in direzione della strada.
 
«Avevo chiesto a Mycroft di informarmi! Gli avevo chiesto di farmi avere tue notizie, io… Avrei dovuto semplicemente lasciarti andare.» Singhiozzò, gola chiusa e voce bassa.
 
«La verità è che sono un uomo ridicolo, così pieno di sé da trovare insopportabile l’idea di non essere ricordato.» Si arrese chinando la testa - in silenzio - la neve impigliata tra i capelli, fra le ciglia, sulla pelle.
 
«La verità è che non ricordo come fosse la mia vita, prima di incontrarti. E che non sono ancora pronto a lasciarla andare… Non sarò mai pronto, a lasciarti andare.» Sussurrò dopo qualche secondo, alzando uno sguardo carico di vergogna sul viso dell’altro. «Questa è la verità. L’unica che possa regalarti.»
 
John abbassò gli occhi, il calore del cappotto dell’altro a fare da eco a quello che sentiva allargarsi al centro del petto.
 
In piccoli flash, schegge di ricordi si unirono in frammenti più grandi.
 
Il suo riflesso allo specchio assunse forma concreta, così come la lama che vedeva brillare tra le sue dita.
 
«Non ho avuto un incidente.» Riuscì a dire - increspando le labbra in un sorriso stanco, triste - mentre la sua verità si ricomponeva, lenta.
 
«Non riuscivo a cancellarti.» Ammise, le dita ancora contro la Capsula.
 
Sherlock, a pochi passi da lui, tornò a rivolgere gli occhi a terra.
 
«Non riesco a ricordare tutto…»  Il medico scosse la testa, cercando di concentrarsi. «Non…»
 
«Posso mostrarti io quello che non ricordi…» Provò Sherlock, deglutendo a fatica. «Con uno Schermo di Proiezione.»
 
«Baker Street ne ha uno, giusto?» Rispose John, mentre il pezzo di una discussione avuta tra quelle mura gli attraversava la mente.
 
«Sì!» Si rianimò il detective, mentre una lacrima si abbandonava nel vuoto oltre i suoi occhi. «Sì…» Ripeté, con voce tremante.
 
«Va bene…» John si tolse con un gesto delicato il cappotto di dosso, muovendo qualche passo in direzione dell’altro. «Vado a prendere il mio.» Spiegò, lasciando cadere il soprabito tra le braccia tese in avanti di Sherlock.
 
Lui annuì, un’altra lacrima silenziosa a ricadergli lungo il viso.
 
Con un movimento fluido si infilò il cappotto, aspettando che John tornasse con il proprio.
 
 
 
 
 * * *
 
 
 
 
«Non sappiamo nulla l’uno dell’altro. Non so dove dovremmo incontrarci, non so nemmeno il suo nome.»
 
«Io so che lei è un medico militare e che è stato congedato dopo una missione in Afghanistan. So che ha un fratello che è preoccupato per lei, ma che non andrà da lui per cercare aiuto in quanto disapprova la sua condotta di vita, forse per i suoi problemi con l’alcool o, più probabilmente, perché ha recentemente divorziato da sua moglie. E so che la sua terapeuta pensa che la sua zoppia sia psicosomatica. Giustamente, temo.»
 
 
 
«C’è qualcosa che non va.» John assottigliò le palpebre, confuso.
 
 
«Sai che non è possibile manomettere i ricordi.» Gli rispose Sherlock, voltandosi verso di lui. «È andata davvero così.»
 
«Sì, lo so…» Annuì il medico, inclinando la testa da un lato. «Solo… che non sembro io.»
 
Il detective aggrottò le sopracciglia. «Ma sei tu.»
 
«Certo. Ne sono consapevole. Però… sembro più… bello.» Arrossì John, scuotendo la testa come a voler allontanare quanto appena detto.
 
«Questi sono i miei ricordi. E quello è il mio modo di vederti. È normale che non corrisponda al tuo.» Sussurrò il detective, staccando gli occhi dal viso dell’altro per tornare a guardare l’immagine proiettata.
 
Per qualche secondo, nella stanza non ci fu che silenzio.
 
«Vogliamo contin—» Provò Sherlock.
 
«Sono sempre stato così bello, ai tuoi occhi…?» Lo interruppe il medico, il cuore ad agitarsi nello sterno.
 
«Sì.» Il detective si mosse sulla poltrona, a disagio.
 
«Sempre.» Soffiò fuori con un respiro profondo.
 
«Ma ci eravamo appena conosciuti...» Continuò John, girandosi in direzione dell’uomo seduto accanto a lui.
 
Sherlock annuì, stringendo la mascella un paio di volte.
 
 
«Da… da quanto lo sai...? Cioè… Quando lo hai capito…?» Chiese il medico, la voce incerta, morbida.
 
Il detective si chinò in avanti, recuperando il Comando Manuale dal tavolino da caffè di fronte a loro.
 
Sullo schermo comparvero un’enorme quantità di file, tutti ordinati per data e persone presenti nel ricordo.
 
Dopo qualche secondo, il puntatore si fermò su un fermo immagine con il viso di James Moriarty.
 
Sherlock inspirò, poi premette “play”.
 
Il ricordo si allargò fino a coprire l’intera grandezza dello schermo.
 
 
 
«Va bene, permettimi di darti un incentivo in più. I tuoi amici moriranno, se non lo fai.»
 
«John»
 
«Non solo John. Tutti.»
 
 
 
Il ricordo si interruppe, mentre il viso di Moriarty diveniva sfocato ai bordi del campo visivo.
 
«Sherlock…» John sentì qualcosa colpirlo in pieno petto.
 
«Non ho mai avuto tanta paura in tutta la vita.» Gli rispose lui, le labbra serrate. «Mai.»
 
«Perché non me lo hai detto? Al telefono… prima… prima di...»  Il medico scosse la testa, fiotti di nausea a risalirgli in gola.
 
«Perché non avrebbe funzionato. Il cecchino doveva essere certo che stessi per buttarmi. Assolutamente certo. O ti avrebbe sparato ancora prima che potessi terminare la frase.»
 
Il silenzio tornò ad avvolgere la stanza, il crepitio del fuoco come unico intercalare ai loro respiri.
 
 
«Io non posso proiettare niente degli anni passati insieme.» Riprese il medico, qualche minuto dopo, tono dolce e occhi bassi.
 
«La nuova Capsula non contiene alcun file del tempo trascorso a Baker Street. Ma questo…» si batté un paio di volte un dito sulla tempia destra. «Questo ricorda quasi tutto, adesso. Mi dispiace.»
 
Sherlock si girò verso di lui, confuso.
 
«Mi dispiace non poterti far vedere quando l’ho capito io.» Sorrise John, portando gli occhi in quelli dell’altro.
 
«Puoi raccontarlo.» Rispose il detective, quasi una preghiera.
 
«C’era la Donna che ti sussurrava qualcosa all’orecchio… ed io ho pensato che, se si fosse avvicinata anche solo di un altro centimetro, l’avrei staccata da te con la forza.» Scosse la testa l’altro, trattenendo una risata. «Irene Adler. L’unica che avesse davvero capito
 
Sherlock socchiuse le labbra, sul viso un’espressione sorpresa che smussava gli anni e le sofferenze, facendolo somigliare ad un bambino.
 
«Non sarei mai riuscito a cancellarti.» Ammise il medico, lanciando un’occhiata veloce al tavolo della cucina.
 
«Scusami.» Il detective abbassò gli occhi, portandoli verso il caminetto. «Davvero. Perdonami per quello che ti ho fatto.» Soffiò, mentre un piccolo lapillo cadeva a terra, divenendo cenere ai suoi piedi.
 
Non si accorse che l’altro si fosse alzato dalla poltrona di fianco alla propria fin quando non sentì le mani del medico stringersi attorno al suo viso, costringendolo a voltarsi verso di lui.
 
«Perdonami tu, per non aver voluto ascoltare.» John appoggiò la fronte contro quella dell’altro, i loro nasi a sfiorarsi.
 
«Ero così arrabbiato, così… incredulo, che mi avessi lasciato indietro…» Sussurrò, il suo respiro contro la pelle di Sherlock.
 
«Non ti ho lasciato indietro…» Rispose lui, chiudendo gli occhi arrossati.
 
«Eri avanti a tutto. Sempre.» Le mani aggrappate con disperazione ai braccioli della seduta, il detective si sporse in avanti, sfiorando con le labbra quelle dell’altro.
 
«Non c’è cosa che non sia stata fatta per te.» Gli poggiò sulla bocca, il dolore di anni a trovar pace tra le dita tremanti dell’altro. «E che non rifarei, per te.»
 
John si sporse ancor più in avanti, schiudendo il respiro in quello del detective.
 
«Devi solo rimanere qui.» Vibrò, le parole sulla lingua dell’altro. «Solo questo. Promettilo.»
 
 
«Lo prometto. Te lo prometto, John.»
 
 
Il medico si abbandonò ad un sospiro caldo, liberatorio, le gambe improvvisamente deboli.
 
Lentamente si lasciò andare a terra, le mani ancora strette attorno al viso del detective.
 
Il cuore in fiamme, Sherlock lo seguì sul pavimento, gli occhi serrati e le labbra unite a quelle dell’altro.
 
Con disperazione, con urgenza, il medico lo fece sdraiare portandosi sopra di lui, le dita adesso strette in quelle dell’altro, ancorate al terreno con la paura che potesse scomparire.
 
Lo liberò solo dopo qualche minuto, quando i baci non furono più sufficienti ad esprimere il sentimento che sentiva dilatargli i sensi e agitargli le vene, muovendosi sotto pelle come un’onda.
 
«John…» Rantolò Sherlock, spalancando gli occhi mentre le dita dell’altro si muovevano su di lui, aiutandolo a liberarsi dei vestiti.
 
«Sono qui.» Rispose il medico, fermandosi, un sorriso dolce in bilico tra occhi e labbra.
 
«Vuoi che mi fermi…?» Domandò, improvvisamente insicuro.
 
«No…» Il detective fece cenno di no con la testa, alzando il collo per poter tornare a posare la bocca su quella di John. «Volevo solo essere sicuro che fosse reale…»
 
«Hai ricordi simili, nella tua Capsula…?» Chiese lui, confuso.
 
«Ho dei sogni.» Ammise Sherlock, balbettando, il respiro affannoso.
 
«I sogni ed i ricordi non hanno profumi.» Gli ricordò John, lasciando che affondasse il viso nell’incavo del suo collo. «Lo senti…?»
 
«Sì…» Sussurrò l’altro, inspirando l’odore dell’altro, così familiare.
 
«Sì.» Ripeté, più convinto, le mani frementi improvvisamente occupate ad aiutare il medico a liberarsi da vestiti.
 
«Sherlock…» Gli rantolò sulle labbra John, ormai quasi del tutto svestito. «Se vuoi che mi fermi, devi dirlo adesso. Perché…»
 
«Non voglio che ti fermi.» Rispose lui, portando una mano dietro la nuca dell’altro per spingere con più forza le labbra contro le sue.
 
Si staccò solo quando, pochi secondi dopo, sentì John farsi largo nei suoi brividi con i propri, il mare in tempesta dei loro corpi arginato dalla dura roccia degli scogli sui quali erano adagiati.
 
«John…» Lo cercò, le mani sulla sua schiena e i loro cuori vicini, sdraiati l’uno sull’altro.
 
«Sono qui…»  Gli rispose lui, continuando a muoversi, le labbra contro la spalla del detective e gli occhi lucidi di una commistione di sentimenti che non era certo di riuscire a controllare.
 
Continuarono così, chiamandosi, il freddo del pavimento a sciogliersi contro il calore dei loro movimenti, le lacrime a mischiarsi al sudore, ai gemiti ed ai sorrisi.
 
Alla fine - con in un ultimo richiamo - John aprì gli occhi, specchiandosi in quelli dell’altro che, a sua volta, pronunciava il suo nome come una preghiera, come una promessa.
 
 
Quando - con fatica - si staccarono, il medico si lasciò cadere a fianco di Sherlock, gli occhi morbidi sul viso arrossato del detective.
 
«Perché mi guardi così…?» Domandò lui, gli occhi lucidi ed una felicità mai provata prima a fargli tremare la voce.
 
In silenzio - il respiro ancora affannato - John cercò il Comando Manuale, caduto a terra vicino a loro.
 
Con un leggero suono metallico, il viso di Sherlock comparve sullo schermo del televisore, un’immagine in tempo reale di quanto il medico stesse guardando.
 
Il detective si osservò per qualche secondo, gli occhi grandi e le labbra rosse socchiuse in un’espressione di meraviglia.
 
 
«Sono sempre stato così bello, ai tuoi occhi…?» Sussurrò, rapito.
 
«Sì.» Rispose John, allungando una mano per sfiorargli il viso.
 
 
 
«Sempre.»
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
  1. IP sta, nella mia idea, per “Internal Projections”, ovvero “Proiezioni Interne”, un metodo per rivedere i ricordi che non prevede l’uso di apparecchiature esterne ma l’utilizzo della retina del soggetto.
 
 

Angolo dell’autrice:
 
Ci siamo.
 
Domani mattina un aereo ci porterà a Marsiglia, dando inizio a questa nuova, grande avventura.
 
Ho avuto davvero poco tempo libero in questi ultimi giorni, ma volevo lasciare qualcosa che potesse fare da “ponte” tra qui e la Francia, coprendo il lasso di tempo senza internet che il trasferimento – necessariamente - comporterà.
 
Non riuscendo a dedicarmi come voluto a “180 days” (che richiede una completa lucidità mentale da parte mia), ho optato per questa OS che – inizialmente - non avrebbe dovuto superare le dieci pagine, finendo con l’approdare a più di 30. XD
 
L’idea è nata dalla visione della puntata 1x03 di “Black Mirror” (serie molto cruda ma altrettanto bella della Endemol UK che vi consiglio caldamente!), intitolata “The entire history of you”. L'episodio racconta di una realtà alternativa dove la maggior parte delle persone ha un chip impiantato dietro l'orecchio che registra tutto quello che fanno, vedono o sentono. Questa “capsula” (chiamata “grain”) permette di riprodurre i ricordi sia davanti agli occhi della persona che li ha vissuti, sia su di uno schermo, in un processo chiamato "re-do".

 Dalla serie, quindi, ho preso il concetto di “Capsula”, la sua collocazione ed il fatto che sia possibile visionare i ricordi che contiene sia “internamente” che proiettandoli su schermi appositi, rendendoli fruibili ad altre persone.
 
Il resto è tutto frutto della mia follia pre-partenza. XD
 
 
Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui, imbarcandosi in questo viaggio senza molto senso. ^_^
 
Spero di tornare a pubblicare quanto prima, anche se da luoghi diversi.
 
Un abbraccio forte.
Mi mancherete!
 
B.
 
 
 
Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo.
(Isabel Allende)
 
 
 
P.S.: Vi lascio con due immagini prese da “Black Mirror” che credo possano aiutare a focalizzare meglio alcuni passaggi della storia!
 
P.P.S.:Se vi va, incrociate le dita per noi. Sarebbe meraviglioso prendere il volo potendo contare anche sul vostro sostegno e appoggio! ^_^
 
 
 
 

 
   
 
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