Solo questo
Capitolo 1
Ho distolto i miei sguardi dal mondo,
solo per vederti, solo
per guardare te.
E adesso che te ne vai,
fisserò il vuoto per cercarti
in sogno.
Ero un bambino di otto anni, e non sapevo il nome
di tante cose. Non dico di quelle che capitano sotto mano, o che stanno davanti
agli occhi. Non sapevo il nome di quello che portavo dentro.
Ogni sera si apriva un cassetto, e vi scovavo
qualcosa, e non ne conoscevo il nome, non sapevo che dire. Non nominavo neanche
più mia madre. Non la chiamavo mai davvero ad alta voce, non l’avevo mai fatto.
Neppure davanti ai nonni. Nemmeno davanti a mio padre.
Di mia madre il nome, lo guardavo silenziosamente,
inciso sulla lapide tombale. Il mio tutore mi accompagnava in quel luogo
deserto, la spianata del cimitero. La stele funeraria recava data di nascita e
di morte di Ikari Yui. E’ il primo nome nei miei pensieri. Non vorrei
scriverlo, non vorrei mai ricordare.
Quando ebbi raggiunto l’età per capire la vita, mio
padre mi spiegò la morte: mi disse che sotto quella pietra levigata non
riposavano i resti di mia madre. Nessuna spoglia: solo il ricordo. Mio padre
diceva che quello era l’unica cosa importante: ciò che lei gli aveva insegnato.
Il cuore di mia madre non era lì. Mi
domando dove fosse l’amore, in tutto quello.Non era neppure dentro di me. Che
non sapevo il nome delle cose.
Non sapevo neppure balbettare i miei sentimenti di
rancore, incomprensione; non sapevo gridare la mia paura, quando incontrai mio
padre per l’ultima volta durante la mia infanzia: non ci saremmo rivisti fino
al giorno in cui avrebbe di nuovo avuto bisogno del ragazzino che odiava.
Ero così tonto da non capirlo? Con lui non ho mai
avuto speranze. Certo non potevo sapere che mi riteneva la causa del suo
tormento.
Certo non sapevo che mia madre si era separata dal
mondo in cui lui viveva solo al fine di proteggermi da dentro il trono
dell’anima.
Certo non sapevo che, in ogni caso, la colpa era
mia ai suoi occhi: forse provava persino un pizzico di gelosia verso il figlio
che lo aveva scalzato nell’amore della donna che aveva sposato. Lui sapeva bene
che sarei stato il primo a rincontrare la mamma, quando il suo cuore si sarebbe
incontrato col mio, a difesa del mio corpo e della mia anima, dentro l’ Evangelion
01, il mostro voluto da mio padre che l’aveva fagocitata.
Io l’avrei risentita prima di lui. Avrei rivissuto
l’emozione del grembo.
“Ti senti nel ventre della mamma, Shinji?”, mi
canzonò Soryuu. In fondo era proprio così.
Ma quanto avevo sofferto per il distacco da mia
madre, prima di allora. Distacco da tutto, da ogni singola cosa. Senso di
silenzioso abbandono. Non so se sapete cosa voglia dire…
La questione dei nomi funzionava così.
Non mi chiamavano neppure per cena i nonni, quando
mi attardavo a giocare fuori, nel cortile; mi ero fatto costruire una casetta
di assicelle in legno, una di quelle per potercisi rifugiare dal sole, dalla
vita, dai minuti dei giorni.
Già lo sentivo, nel modo in cui lo sente un
bambino, lo scorrere del tempo: come qualcosa di crudelmente uguale a sé
stesso. Le cose monotone spaventano i bambini. Forse per questo sono sempre in
cerca di luci, suoni, visi particolari. Qualcosa che attiri la loro attenzione,
insomma.
Io avevo paura delle giornate, tic-tac, passate in
casa sotto il battito cupo dell’orologio a muro. Così imbrogliavo i pomeriggi
in quella casetta di legno, giocando a far finta che la quercia del giardino
fosse un bosco, e ci fosse tutto il tempo del mondo, così tanto da poterlo
confondere, e rimanerne confuso.
Così vincevo la monotonia, sentendomi ogni giorno
un bambino qualunque: capace di andare fino alla discarica comunale, e lì
avvistare una bici a tre ruote, e montarci su. E chi se ne importava di tutto
il tempo passato. Finchè non mi fermò una guardia notturna: i militari facevano
la ronda per le strade in cerca di sopravvissuti da spaventare, negli anni dopo
il Second Impact. Era un mondo ancora più duro di quello sottoposto alla
minaccia degli Angeli. Non c’era pietà neppure per i bambini. La vita scarseggiava,
eppure pensava di potersi perpetrare nella maniera più stupida: prendendo tutto
per sé, e rendendo la vita difficile alle altre esistenze. Tempi duri per gli
indifesi: ed io di difese non ne avevo, o almeno così credevo, fino a quando
imparai a sentirmi al sicuro all’interno della entry-plug.
In quei momenti il mondo era diventato mio. Quando
giocavo da bambino, speravo persino che la mamma un giorno sarebbe tornata.
Quando scompare l’ansia, c’è tanto spazio per la speranza…
E’ una cosa semplice, sperare. Una delle cose più
belle del mondo, non può che essere semplice.
Poi mi insegnarono la musica, un giorno. Quella era
bella, ma tanto difficile da fare. Ero un bambino di otto anni, che dall’età di
tre anni non aveva più la propria
madre.
Otto anni è l’età giusta per il violoncello. E il
violoncello era la cosa giusta da fare per tenermi impegnato: mente, mano,
occhi, dita.
Lo sapeva bene il mio precettore. Forse in quel
modo avrei rimosso più a fondo dentro di me, il fatto che mia madre fosse stata
inghiottita da un mostro. Far sparire una voragine dentro un abisso.
Mia madre era salita a bordo di un gigante
metallico, e non aveva più fatto ritorno da me e da mio padre. Quando ancora
non potevo capire il significato di “non fare mai più ritorno”, accadde che i
fatti scavalcassero la possibilità di comprenderli.
Nessuno mi dovette insegnare cosa vuol dire
“morire”. Dentro di me ci ero già passato: per questo non l’avrei mai saputo
dire cosa significa morire. Mia madre era morta per preservarmi dallo stesso
destino. Lo capii durante le battaglie.
Era il primo passo: portarmi la morte dentro,
guardarla in faccia dentro il riflesso del mio io, il fluttuante mare di LCL
compreso tra due pareti protettive. Ma la vera protezione era quel liquido
amniotico, il grembo più fragile e forte del mondo: lì niente avrebbe potuto
tenermi lontano dalla madre.
Portarmi la morte dentro, però, per tanti anni mi
impedì di saper vivere. Lo stesso male di mio padre, dopo la morte della sua
Yui. Quella che le aveva dato un cognome e uno scopo.
La prima cosa che il maestro di musica mi insegnò
fu come tirare le corde a vuoto.
“Non stare rigido col braccio che regge
l’archetto!!”
Me lo ripetè centinaia di volte il maestro di
musica. Chiudevo gli occhi e cercavo di convincermi che non avrei perso il
controllo dell’arco allentando la presa.
Spesso, mentre stavo ad occhi chiusi, mi sentivo
triste.
Sentivo la mancanza d’affetto. Non l’avevo più sentito addosso, dalla scomparsa di mia
mamma. Io non ero mai riuscito a farlo nascere dentro di me. Credo che
l’affetto umano sia l’unico vero miracolo di questo mondo. Il suo calore
gentile, può realizzare la felicità.
Essere se stessi, a volte significa essere delle persone crudeli. Non mi piace.
Se essere se stessi significa disarmarsi, presentarsi senza difese, mi sta
bene. Ma se l’animo di uno si allontana dall’affetto, allora è meglio alzare il
muro del cuore: mantanerlo, per preservare chi ci sta vicino.
Voglio sperare che questo sia il senso della mia
solitudine, e della timidezza. Vorrei poterle donare questo senso. Perché anche
nel mio essere schivo, ci sia un segno di attenzione verso gli altri. Non so se
oggi io sia così: so che il calore delle persone che ho conosciuto dopo essere
arrivato alla Nerv, mi ha cambiato.
Ho ascoltato tante parole,
e di ognuna ho gustato il sapore.
Ma nessuna ne riesco a trovare
Che mi faccia parlare di te…