Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: ThreeK    10/11/2016    2 recensioni
Juliet è insoddisfatta della sua vita. Sin da bambina ha vissuto solo traumi. Il padre è scomparso dopo la sua nascita e lei non sa niente di lui. La madre è morta quando lei aveva solo sei anni e da allora è costretta a vivere in un orfanotrofio. Juliet pensa che la sua esistenza sia semplicemente senza speranza. Ma la vita offre sempre delle possibilità, basta saperle sfruttare. E con la sua fuga verso il Campo Mezzosangue, Juliet ha l’opportunità di cambiare di nuovo… Questa volta in meglio.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Stoll, Leo Valdez, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo I
La fuga
 
Una goccia. Due. Quattro. Dieci. In breve quella pioggerella si trasformò in un vero e proprio acquazzone. Il sole era offuscato da grossi nuvoloni neri e un vento gelido soffiava da nord, piegando le chiome degli alberi. Sospirando, mi buttai sul letto. E dire che la mattina sembrava così splendida…Chiusi gli occhi, cercando di immaginare come sarebbe stato bello poter uscire, sguazzare tra le pozzanghere…Peccato che tutto questo non si sarebbe potuto avverare.
Mi rizzai a sedere, guardandomi intorno. La mia stanza non era certo più ordinata rispetto agli altri giorni. Dopotutto, non credevo che potesse entrare molta roba in due metri quadrati e mezzo di spazio. Comunque, devo dire che la mia camera, oltre ad essere piccola era anche triste. Pareti grigio scuro e, come arredamento, un letto dal materasso bucato, due mensole sbilenche e una sedia. Di oggetti personali non avevo quasi nulla. Qualche vestito di ricambio buttato alla rinfusa sulla sedia, cinque libri sulla mitologia greca ed egiziana ed uno zaino nero. Tutto qui. Dopotutto non è che potevo possedere molto, dato che ero un’orfana. Istintivamente, provai un moto di rabbia verso il mondo. Avevo perso entrambi i miei genitori, i miei parenti mi avevano rifiutato e dovevo anche passare le giornate in un orfanotrofio dove lavoravo dodici ore al giorno. Insomma, la mia vita faceva davvero schifo. In più, c’era il mio problema. Perché tutto questo non bastava, dovevo essere anche una ragazzina problematica. Che problema avevo? Quando mi arrabbiavo molto (e credetemi, succedeva spesso) era come se l’acqua rispondesse ai miei comandi. I tubi scoppiavano e l’acqua si riversava sul pavimento. I lavandini si aprivano come per magia e cominciava a fuoriuscire una quantità di liquido impressionante. Sapevo che non potevo essere io a dare ordini all’acqua, questo non poteva essere possibile, ma non mi davo altre spiegazioni.
Insomma, ero la ragazza più sfortunata del mondo.
 
Quel giorno continuai per molto tempo a fissare la pioggia che cadeva, creando piccole pozzanghere sul terreno. Sarebbe stato bello, poter essere liberi come la pioggia. O come il vento che soffiava scompigliando i capelli ai passanti. Sarebbe stato bello solo poter essere liberi. Non uscivo all’aria aperta da quando avevo sei anni, ovvero da quando ero entrata nell’orfanotrofio, dopo la morte di mia madre. Invidiavo anche i bambini che l’orfanotrofio mandava a lavorare nei campi. Almeno loro potevano assaporare il gusto del mondo esterno. Invece a me era toccato fare la cuoca per duecento bambini e undici “insegnanti” e non avevo un minuto libero. Quel giorno non lavoravo, però. Era il mio giorno libero. Avevo un giorno al mese libero. Libero nel senso che stavo chiusa in camera a rimuginare sul perché ero così sfortunata.
 
Ad un certo punto, notai qualcosa di strano. C’era qualcuno in strada che cercava di infilarsi un paio di pantaloni. O meglio, qualcosa. Sembrava essere un ragazzo…almeno dalla vita in su. Perché le gambe sembravano troppo marroni e pelose per essere di un umano. E al posto dei piedi aveva…zoccoli? Quindi quel…coso… era mezzoragazzo e mezzo…capra? Asino? No, non era possibile. Doveva essere la scarsa visuale che avevo dalla mia finestra. Anche perché la mia stanza si trovava al secondo piano dell’orfanotrofio, quindi la strada non si vedeva in modo nitido. Però… una parte di me era sicura di aver visto giusto. E poi dovevo aver già visto una cosa del genere, da qualche parte. Dopo qualche secondo, ricordai. Agguantai un libro sulla mitologia greca e lo sfogliai cercando un’illustrazione che assomigliasse a un uomo-capra o a un uomo-asino. Chimere no, dragoni no, Medusa no, satiri…Mi bloccai alla voce “satiro”. Sempre con il libro in mano, raggiunsi la finestra. La figura del libro e quello strano ragazzo corrispondevano esattamente. Lessi cosa il libro dicesse a proposito della voce “satiro”. “Il satiro, altrimenti noto come fauno, è una creatura mitologica, appartenente alle culture greca e romana. I satiri hanno la parte superiore del corpo di un umano e quella inferiore di una capra”. Mi bloccai, guardando esterrefatta il ragazzo che tentava di infilarsi i pantaloni. Non era possibile. Stavo impazzendo. Dopo il problema che avevo con l’acqua, adesso soffrivo anche di allucinazioni. Eppure quel ragazzo sembrava così reale…No, non poteva essere. Punto e basta.
 
Rimasi comunque a guardalo inebetita finché non si riuscì ad infilare i pantaloni e un paio di scarpe e si cominciò a dirigere verso la porta dell’orfanotrofio. Aspetta, come verso la porta? Quel satiro voleva entrare nell’orfanotrofio? “Scappa” mi sussurrò una vocina nella testa. Ma scappare da cosa, da un’allucinazione? In lontananza sentì la porta sbattere e un chiacchiericcio si diffuse nell’aria. Accostai l’orecchio al pavimento per sentire meglio cosa succedeva al piano di sotto. Ormai le possibilità erano due: o quel coso era reale e stava davvero parlando con un’insegnante dell’orfanotrofio o io ero matta da legare. Diciamo che la seconda opzione era quasi sicuramente azzeccata. Mentre pensavo in quale ospedale psichiatrico sarei dovuta andare, un urlo agghiacciante mi riportò alla realtà.
-Sia chiaro, non le permetterò mai e poi mai di portar via un soggetto dal nostro orfanotrofio, specialmente una ragazza problematica come la signorina Juliet Carter!
Questa era la voce di un’insegnante dell’orfanotrofio, la signorina Smith. Cercai di dare un significato diverso a ciò che avevo appena sentito, ma non lo trovai. Non si poteva più trattare di un’allucinazione. Quel ragazzo-capra era reale. E voleva prendere una ragazza dall’orfanotrofio. E quella ragazza ero io! Fui assalita dal panico. Dovevo scappare. La signorina Smith non avrebbe potuto resistere ancora a lungo contro una creatura mitologica. Radunai i pochi vestiti che avevo e li infilai alla rinfusa nel mio zaino. Afferrai la mia collana portafortuna, dono di mia madre, e poi aprii la porta per andare a prendere un’altra cosa che mi apparteneva di diritto.
Avevo imparato a sette anni a forzare la serratura della mia stanza in modo da poter andare in cucina e prendere un po’di cibo per uno spuntino serale. Ma quella volta mi avviai verso il magazzino, che si trovava vicino alla mia camera, dove si trovavano tutti gli oggetti requisiti ai vari ragazzi dell’orfanotrofio. Entrai nel magazzino. Fortunatamente, vicino ai miei piedi si trovava una scatola con il mio nome. L’aprii. Era piena di vecchi giocattoli e altre cianfrusaglie riguardanti il mio passato, ma a me interessava una cosa sola. La trovai sotto una pila di vecchie foto di mia madre. La agguantai e rimasi un attimo a guardarla. Un dono di mia madre, l’ultimo. Nell’osservarlo quasi mi salirono le lacrime agli occhi. Mia madre…Quanto avrei voluto rivederla.
Un grido mi riportò alla realtà. La signorina Smith aveva appena gridato. Forse il satiro si era tolto i pantaloni…Mi avviai in fretta verso la mia camera, aprii la porta e mi catapultai nella stanza. Sprangai la porta come meglio potei, infilai nello zaino l’oggetto preso dal magazzino e aprii la finestra. OK, probabilmente era l’idea peggiore che avessi mai avuto. Ma che possibilità avevo? Sentivo i passi di qualcuno (probabilmente quel satiro) che saliva le scale. Guardai di sotto e fui colta da un senso di vertigine. Non potevo farlo…Sotto di me vi era una vasca piena d’acqua, di cui ignoravo l’utilizzo. Mi misi seduta sul bordo della finestra, con i piedi che penzolavano nel vuoto. “Che sto facendo? Devo essere impazzita per davvero…Buttarsi dal secondo piano in una vasca piena d’acqua.  E poi la gente dice che, se uno si tuffa da grandi altezze, l’acqua diventa come piombo…”. Mentre rimuginavo su come prendere al meglio il mio suicidio, qualcosa mi fece tornare alla realtà. Un rumore. Qualcosa che sbatteva. La mia porta che si rompeva e il ragazzo-capra che faceva irruzione nella mia camera. Ci fissammo sbigottiti per un secondo. Lui, con i pantaloni strappati che lasciavano intravedere le gambe caprine. Io, in bilico sul bordo di una finestra prossima al suicidio. Poi tutto accadde di fretta. Mi girai, dando le spalle al satiro e fissando per un secondo il vuoto sotto di me. Nel momento in cui lui urlò “No!”, io raccolsi tutto il mio coraggio, mi diedi una bella spinta, chiusi gli occhi e un attimo dopo cadevo nel vuoto.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: ThreeK