Non
possiedo i personaggi di Starsky e Hutch. Questa fiction non è intesa come
infrangimento di nessun diritto di autore, ed è senza fine di lucro.
All'interno della storia una comparsa è presa dalla bellissima opera "Dogma" di Kazuya Minekura.
So che
non ci sono molti scrittori di fanficiton italiani che si dedicano alla
bellissima serie televisiva americana Starsky e Hutch (un dramma per chi come me
fa fatica con l'inglese). Un vero peccato a mio parere, perchè l'amicizia, il
rapporto tra i due protagonisti è tra i più forti che io abbia mai visto. Non
riesco nemmeno ad immaginare una reciproca comprensione così profonda e
vincolante, forse mi farebbe paura, sarà per questo che mi è venuta fuori una
storia così drammatica? Ok non mi dilungo, buona lettura ^^ (P.s.
non so usare l'html >.<)
Un grazie speciale a chi sta condividendo il suo cuore con me e che soprattutto sta dando a me l'opportunità di farlo. Ti voglio bene.
Solo Andata
“Starsk, non riuscirai
comunque a raggiungere la velocità della luce quindi perché non rallentare e
smettere di provarci?” chiese Hutch con una nota di evidente esasperazione nella
voce.
“E’ questo il tuo problema,
Hutch, non sei ambizioso, non insegui abbastanza i tuoi sogni”
“Il tuo sogno è raggiungere
la velocità della luce con un pomodoro a strisce o schiantarti nel modo più
catastrofico possibile addosso alla prima cosa che ci tagli la
strada?!”
“Smetti di buffoneggiare con
quel tuo faccino imbronciato, guarda come ci guardano le ragazze!”
“Starsk, a questa velocità
non riesco nemmeno a distinguere un maschio da una femmina ed è probabile che le
suddette ragazze stiano semplicemente notando una saetta rossa che finirà con
l’ammazzare qualcuno” la voce di Hutch cominciava a farsi seccata, Starsky lo
guardò affettuosamente.
“Le ragazze amano l’alta
velocità”
“Non quelle che frequento
io” borbottò Hutch in risposta
“Mio zio Bernie, quello del
chiosco, diceva che nessuna donna poteva resistergli quando sfrecciava col suo
bolide!”
“Ma tuo zio Bernie, quello
del chiosco, non è quello che è stato piantato dalla moglie per quell’Europeo?”
Starsky sembrò solo vagamente soppesare quella annotazione, ma decise di
ignorarla.
“E poi non farei salire
nessuna ragazza non amante della velocità sulla mia Torino, sarebbe un insulto!
E io non tollero che nessuno insulti la mia gattina, senti che fusa,
Hutch!”
All’incrocio dopo sfiorarono
pericolosamente un furgoncino color ruggine, in effetti, valutò Starsky
mentalmente, non valeva la pena ammazzarsi solo per vedere l’espressione
corrucciata di Hutch. In fondo poteva farlo imbronciare in mille altre maniere,
aveva solo l’imbarazzo della scelta.
In realtà Starsky cercava
più che altro di distrarre il partner, perché quella mattina gli occhi chiari di
Hutch si erano dipinti di quella caratteristica vena malinconica di quando il
loro proprietario cadeva in una delle sue mistiche spirali di paranoia. Il
sorriso di Starsky si fece un po’ triste e inclinò un po’ la testa per poggiarla
sul braccio di Hutch, allungato sullo schienale del partner. Hutch sbuffò ma gli
fece comunque qualche grattino affettuoso tra i riccioli.
“Non sono un cane!” protestò
Starsky affatto disturbato da quel contatto delizioso
“Infatti… i cani non
parlano” Starsky gli morse la manica del giubbotto
“Ma mordono!”
“Starsk… guarda la strada”
lo rimproverò debolmente. Starsky sbuffò, non gli riusciva di
distrarlo.
“Hutch?”
“Mmh?”
“Vuoi parlarne?”
“Di cosa?”
“Huuutch…” sbuffò Starsky,
lanciandogli rapide occhiate. Hutch sospirò.
“Scusa Starsky, hai ragione…
non ho voglia di parlarne, scusami, mi passerà” Starsky rimase in silenzio per
quasi due secondi.
“Ma è per quella cosa… no
perché quella tipa, sai la cosa di cui non…”
“No, non si tratta della
tipa e della cosa che non dobbiamo eccetera” Starsky lo guardò di
sottecchi
“Sei pallido… un burrito
sarebbe l’ideale! Ho letto che i burritos…”
“Starsk!” gemette Hutch
esasperato. Non voleva essere brusco, in particolare con Starsky che si stava
solo preoccupando per lui e non poteva nemmeno pretendere che stesse zitto e
immobile, la sola cosa che probabilmente desiderava.
“Zebra 3, Zebra 3
rispondete!” Hutch afferrò controvoglia il ricevitore
“Qui Zebra 3, siamo in
ascolto”
“Abbiamo un 415 al 119 della
dodicesima strada, nel quartiere a luci rosse”
“Ricevuto, ci dirigiamo li”
rispose Hutch sistemando la sirena sulla Torino. La sirena gli rimbombava nelle
orecchie, accentuando il mal di testa delle molti notti insonni, il sole batteva
sul metallo rosso della Torino e gli feriva gli occhi. Hutch non aveva voglia di
cominciare un altro turno, non aveva voglia di tornare a casa, non aveva voglia
e basta. Era una di quelle giornate in cui avrebbe voluto sedersi in un angolo
ed entrare in stand-bay e invece la testa gli si affollava di pensieri,
amplificando tutto il resto e lo rendeva insopportabile e stanco,
incredibilmente stanco.
Il cadavere venne
identificato come Danny Mayers, un giovane spacciatore da quattro soldi che
aveva la brutta abitudine di fare affari con gente più grossa di lui. Poco più
di vent’anni e una morte orribile nel retro di un locale fatiscente nel
quartiere del porno.
“Gli hanno scaricato addosso
l’intera pistola” disse loro un poliziotto li accanto che li osservava mentre
sollevavano il lenzuolo che copriva il corpo.
“Ci sono testimoni?” chiese
Starsky
“Una. La donna seduta al
bancone nel bar”
“Vado io” disse Hutch, prima
che qualcuno potesse dire o fare qualsiasi cosa.
Il locale puzzava di fumo e
di chiuso, aveva un colore scuro e opprimente, come la sua clientela fissa. Come
il poliziotto gli aveva detto, al bancone sedeva di spalle una donna controllata
a vista da alcuni colleghi. Aveva una folta chioma di capelli scuri, da come era
vestita e dall’aria che le aleggiava attorno, Hutch capì subito che si trattava
di una prostituta.
“Posso sedermi?” le chiese
gentilmente indicando il sedile al suo fianco. La donna si voltò a guardarlo, la
pelle rovinata e le profonde occhiaie non erano riuscite ad eliminare del tutto
il vago ricordo della bellezza che doveva essere stata. Se dal volto delle
persone si intuisce la loro storia, il volto della donna sapeva di miseria e
degrado e di ombre di sogni inespressi.
“Accomodati, bellezza” gli
rispose lei affascinata, il suo sorriso scoprì appena l’ombra nera dei denti
macchiati dalla droga. Hutch le mostrò il distintivo e si sedette.
“Vorrei farti qualche
domanda, posso offrirti qualcosa?”
“Al whisky preferisco il
brandy, ecco perché mi chiamano così, Brandy” disse lei, facendo segno al
barista. C’era un che osceno nel suo scoprire senza riserve i denti neri col suo
sorriso provocatorio, ma i suoi occhi scuri portavano con loro una strana
saggezza che conquistò Hutch.
“Allora, dolcezza, che posso
fare per te? Spero tu sia qui per arrestarmi” sembrò sperarlo
davvero.
“Conoscevi Danny?” Brandy
prese il bicchiere dal barista e se lo rigirò tra le dita
“Si, lo conoscevo, quand’era
ragazzino abitava nel mio stesso quartiere… poi ci siamo rivisti
qui”
“Hai visto anche cosa è
successo?” la donna lo guardò negli occhi, poi riprese a dedicarsi al liquido
tentatore
“Povero Danny, non ha mai
imparato con chi giocare” bevve un sorso “ha fatto troppo lo spiritoso con i
tirapiedi di Goldblum, la banda che gestisce lo spaccio in fondo alla strada. Ma
non riuscirete a prenderli, nessuno sarà disposto a collaborare e loro sono
furbi”
“La cosa a te non crea
problemi?” le chiese preoccupato, era raro che qualcuno denunciasse così
candidamente il crimine organizzato. Brandy sorrise.
“Stai attento biondino, non
c’è spazio per i buoni sentimenti qui e i tuoi occhi possono essere fraintesi
dalla gente di questo ambiente. Chi non è più abituato a simili sguardi, può
sentirsi ferito…” Hutch le sorrise, alzandosi dallo sgabello.
“Grazie, Brandy, ci hai dato
una grande mano. Questo è il nostro numero, se tu avessi bisogno di aiuto” Hutch
frugò nelle tasche dei suoi jeans chiari e le porse un paio di banconote, lei le
prese e lui fece per allontanarsi.
“Hai mai visto il paradiso e
l’inferno?” Hutch si voltò guardandola interrogativo “prima ti preoccupavi per
me, nessuno lo fa, nemmeno io. L’unico momento in cui capisco che sono viva è
quando il mio corpo è preda di dolori lancinanti e la mia fame si sveglia” Hutch
rabbrividì perché qualcosa nelle parole della donna risvegliarono in lui una
sensazione conosciuta. Sapeva di cosa lei stesse parlando. “Hai mai visto il
paradiso e l’inferno? A me occorrono tre biglietti andata e ritorno al giorno…”
Hutch rimase fermo a guardarla e provò a immaginare il tempo in cui anche lei si
era sentita amata. Incontrava spesso prostitute e tossiche e dopo ogni incontro
portava con se qualcosa di loro, la cadenza della voce, una battuta spiritosa,
le unghie smaltate. Di Brandy avrebbe conservato l’odore dolce del liquore e gli
occhi da viaggiatrice stanca. Forse c’era ancora una famiglia che l’aspettava o
forse poteva esserci un futuro al di fuori da quel quartiere.
“Posso fare qualcosa per
te?” Brandy sorrise ancora e Hutch si chiese se per qualcuno il destino fosse
già segnato o se per tutti ci fosse una scelta. Ma che scelta poteva essere
quella vita?
“Perché scegli tutto questo? Potrebbe esserci qualcosa di meglio fuori…”
“Potrei dire che il mondo ce l’ha con me, che mio padre mi picchiava e mia madre era una puttana. Ma non è vero, io sono marcia dentro. Al mondo c’è anche chi è così e io non ricordo più come ci sono entrata” le sue parole non sapevano affatto di verità “oggi mi buco per smettere di pensare, perché con la vita che faccio, credimi, pensare è l’unica cosa che non devi fare e nulla annienta le paranoie come la neve candida”
“Vuoi che lo faccia io il
rapporto?” chiese per la terza volta Starsky. Ancora una volta Hutch scosse la
testa. Era almeno un’ora che fissava il foglio bianco, consapevole che gli altri
non potevano sapere che non stava solo fissando il vuoto, stava fissando il
vuoto desiderando che un’invisibile manopola del volume venisse girata a zero.
Se non si teneva impegnato con qualcosa sentiva di impazzire, ma il mal di testa
non gli permetteva di fare nulla per bene ed aveva sonno e se non fosse stato
per Starsky che lo sopportava tutto il giorno, avrebbe finito con l’aggredire
qualcuno solo perché respirava troppo forte.
Starsky sapeva che Hutch
avrebbe preferito che lui non parlasse e stava davvero impegnandosi per tentare
di frenare la lingua, ma la sensazione di impotenza e lo sforzo di tenere chiusa
la bocca stavano creando uno strano effetto sul suo corpo, il risultato era che
non riusciva a stare fermo per più di qualche secondo. Probabilmente dava
l’impressione di avere le pulci e probabilmente il suo agitarsi infastidiva
Hutch alla stregua del suo solito fiume di parole.
Starsky incrociò le braccia
sullo schienale della sedia, posizionata a rovescio, poggiandoci poi il mento.
Gli piaceva trovare i modi più comodi per osservare Hutch indisturbato. Sapeva
che qualcosa nel partner non andava, delle leggere occhiaie si facevano via via
più evidenti col passare dei giorni e l’intolleranza di Hutch andava
raggiungendo livelli straordinari. Quando Hutch si sentiva così si chiudeva
dietro un mutismo potente perché sapeva di diventare intrattabile e non voleva
pesare su Starsky col suo malumore. Starsky conosceva i suoi attacchi di broncio
che venivano amplificati dalla naturale predisposizione di Hutch a
rimuginare.
Tuttavia in quei giorni Starsky aveva notato qualcosa di più rispetto al solito, le spalle di Hutch sembravano più stanche e i suoi occhi nascondevano qualcosa in più della tristezza.
Dobey entrò nella stanza e
scostò la sedia accanto a quella di Starsky, parlò con quel suo tono brusco e
sbrigativo, tipico di quando doveva dare brutte notizie e voleva far finta che
non gliene importasse, disse che era stato trovato un altro cadavere, una
prostituta sui trent’anni di nome Brandy. Hutch non ascoltò altro e seppe
all’istante che quella sera anche la doccia sarebbe stato un tormento e che non
poteva aver voglia di dormire e dimenticare tutto, perché a letto non avrebbe
dimenticato un bel niente. Ripensò agli occhi neri di Brandy e al suo modo di
parlare strano, come fosse dentro una poesia di Baudelaire. Chiuse gli occhi e
nella testa gli rimbombarono la sirena della Torino, le voci dei suoi colleghi,
gli squilli del telefono e il rumore del fax e desiderò un biglietto solo andata
per qualche posto. Ma non poteva partire da se
stesso.
“Di qua non è passato?”
chiese Starsky guardandolo negli occhi.
“No, amico, te l’ ho già
detto. Tua moglie ti ha dato buca?” rise Huggy pulendo un bicchiere con uno
straccio dubbio.
“Non avevamo fissato un vero
appuntamento” borbottò Starsky, sorvolando sui termini di Huggy “però di solito
veniamo qui, in più domani non lavoriamo”
“Sono commosso da tanta
fedeltà, siete perfino abitudinari come una vecchia coppia di sposi!” considerò
Huggy
“Oggi Hutch stava poco bene”
disse Starsky cercando di farlo sembrare un commento di poco conto. Huggy
sorrise.
“Povero Hutchie-boy, allora
questo cambia le cose!” Huggy vide che Starsky non rideva “dai, Starsky,
capitano a tutti brutte giornate. Non basta il tuo partner a fare il
catastrofico?”
“La sua macchina non era a
casa” Huggy sospirò.
“Va bene, dove credi possa
essere?”
“E’
evidente che non lo so! Pensavo di trovarlo qui…” in un frangente normale
Starsky stesso avrebbe pensato di stare esagerando, ma il modo in cui Hutch
aveva lasciato l’ufficio ore prima l’aveva turbato e sentiva una strana sensazione addosso, come una seconda pelle, la stessa sensazione che
sentiva quando qualcosa che non andava. Qualcosa che riguardava
Hutch.
“Hug, come hai visto Hutch
in questi giorni?” Huggy sembrò rifletterci un poco.
“Direi in fase
Hutch-paranoia… e a giudicare dal caffè che ha preso ieri, fase
Hutch-paranoia-insonnia” Starsky rimase in silenzio, Huggy gli diede un buffetto
sul braccio “ma non è una cosa nuova no? Ogni tanto ha questi piccoli
momenti…no?”
“Non so cosa fare…” confessò Starsky
“Non credo tu
debba fare niente, passerà da solo… e poi quando Hutch fa così non sopporta la
compagnia d nessuno, tranne che la tua. Quindi direi che qualsiasi cosa fai, va
bene…” Huggy rise “quando sei tu ad avere questi momenti invece, sei ancora più
insopportabile. Con Hutch almeno sai che devi tenerti lontano, tu invece ti
appiccichi a tutti e diventi irritante e capriccioso. Credo che Hutch coltivi
pazienza tutto l’anno per starti dietro…” Starsky
sorrise.
Hutch sapeva che Starsky lo
aspettava da Huggy, ma non aveva la forza di andarci. Si era fermato in
macchina, in una via sconosciuta, a pensare se andare o meno al The Pits.
Sarebbe rimasto tutta la sera in silenzio a far impazzire Starsky e lui avrebbe
sopportato sempre meno i suoi tentativi di distrarlo. Poteva fingere di stare
bene, ma il partner se ne sarebbe comunque accorto e la cosa l’avrebbe fatto
agitare ancora di più. Si chiese se passare la notte in macchina, parcheggiato
storto in quella stradina potesse valere come opzione. Forse se avesse avuto un
motivo per stare così si sarebbe sentito meno stupido. Forse se avesse portato
Brandy in centrale per qualche accertamento la donna sarebbe ancora viva. Forse
però sarebbe morta il giorno dopo di overdose. Hutch pensò a Brandy e alle
decine di ragazze come lei che incontrava, Starsky non riusciva ad essere molto
magnanimo con loro, diceva che il male che quelle ragazze causavano alle loro
famiglie sarebbe dovuto bastare per farle rinsavire. David era una persona
generosa, ma aveva un senso stretto della famiglia. Hutch sapeva che per quelle
ragazze la famiglia era l’ultimo dei loro pensieri e non perché fossero cattive
o perché dovessero avere obbligatoriamente genitori e parenti disastrati.
Semplicemente perché tirare avanti era il loro unico pensiero. La droga era il
loro unico pensiero. Per un drogato non serviva ne morale, ne dignità, perché
nessuno si aspetta qualcosa da un tossico, se non al massimo che tenti di
derubarti. Nessuno nutriva aspettative nei loro confronti.
Hutch pensò che se fosse
stato uno di loro a nessuno sarebbe importato di vederlo solo da qualche parte a
fingere di non esistere. In realtà se fosse stato uno di loro forse non ne
avrebbe nemmeno più sentito il bisogno. Provò ad immaginare di non doversi per
forza alzare ogni mattina, di non dover pensare a cosa dire e a cosa fare, non
dover curare il fisico, mantenere la calma con le persone, trattenersi contro i
delinquenti, indignarsi per le ingiustizie, preoccuparsi di dare una buona
impressione e pensare, pensare, pensare. Cosa c’era di sbagliato in lui? Se solo
avesse potuto dormire.
“oggi mi
buco per smettere di pensare, perché con la vita che faccio, credimi, pensare è
l’unica cosa che non devi fare e nulla annienta le paranoie come la neve
candida”
Voleva smettere di essere
Kenneth Hutchinson, solo per un po’ o per sempre, non gli importava delle
conseguenze perché farsene un problema era una cosa da Ken e lui non doveva
esserlo più. Mise in moto la macchina e non andò al The Pits, lui non era Ken,
si diresse dove era stato quella mattina stessa, dove aveva visto per l’ultima
volta Brandy la prostituta. Non ordinò una birra, ma nemmeno un liquore, pensò
solo di chiedere al barista dove poteva trovare il modo per smettere di essere
Kenneth Hutchinson. Cosa avrebbero detto i colleghi? Cosa avrebbe detto Dobey,
il suo corpulento capo dalle brusche movenza paterne? E il piccolo Kiko? Ma lui
avrebbe smesso di essere Ken, avrebbe smesso di tenere a certe cose. Non gli
importava, lui non era Ken. Ma non pensare alle cose non significava
dimenticarle e non nominandole le si rendeva solo più concrete e lui non volle
ammettere di star evitando di pensare a tutti i costi al sorriso di bambino e al
cespuglio di capelli scuri appartenenti al partner di Kenneth
Hutchinson.
Hutch stava in un vicolo,
nel retro del locale. Ci aveva messo ore per decidersi a parlare col barista.
Gli tremavano le mani e sentiva un profondo calore provenire dalla tasca dei
pantaloni, dove aveva riposto come scottassero tutti gli utensili che gli aveva
dato il losco proprietario del bar. Di solito chi sta per commettere una delle
sciocchezze più grandi della sua vita non dovrebbe sentirsi gasato e totalmente
libero? Perché invece la paura gli stava impedendo di respirare?
Sapeva cosa doveva fare, il
che era strano perché di solito aveva riserve a prendere anche delle aspirine
quindi presupponeva di non essere così informato di certe cose, ma in fin dei
conti lui con la droga ci conviveva tutti i giorni.
Hutch ricordava cosa voleva
dire. Non l’aveva mai detto a nessuno, perché Starsky si irrigidiva ogni volta
che qualcuno accennava ad un avvenimento anche solo vagamente simile alla storia
di Forest, ma lui ricordava esattamente la sensazione dolorosa dell’ago nella
pelle e del veleno che in pochi istanti gli ghiacciava le vene. Ma ricordava
anche la sensazione successiva.
Se avesse pensato alle
conseguenze, si sarebbe anche ricordato dei giorni dopo, del desiderio disperato
di averne ancora, del dolore accecante e folle. Faceva solo finta di non
ricordarselo, perché quello stesso dolore lo associava a qualcos’altro, alle
mani calde di Starsky che lo stringevano forte e alla sua voce calda che lo
supplicava di restare, ancorandolo alla realtà. Ma Starsky non l’avrebbe accolto
quella volta perché lui avrebbe smesso di essere Ken Hutchinson e David non
avrebbe più visto in lui il suo Hutch. E non l’avrebbe più guardato e non
l’avrebbe più preso in giro e non gli avrebbe più chiesto attenzioni e non
sarebbe più stato geloso di lui.
Si arrotolò sul gomito la manica della camicia, osservandosi il profilo del braccio nella penombra. Se fosse stato più forte avrebbe potuto andare avanti, avrebbe potuto sopportare in silenzio e continuare a sorridere. Si sedette a terra, nell’asfalto lurido e si infilò una mano in tasca. Cosa avrebbe potuto dire a Starsky? Che era stanco? Come poteva dirgli che a volte era così stufo di essere lui da non voler svegliarsi? Aveva le mani fredde e poco sensibili, le cose continuavano a cadergli. Come poteva dirgli che stava bene solo quando il suo sguardo orgoglioso si posava su di lui? Come poteva dirgli che quando si sentiva così amato il terrore di non meritarselo lo opprimeva? Come poteva lasciare che Starsky si legasse ad una persona così debole da decidere di uccidere il suo partner pur di non combattere? Prese la siringa e strinse gli occhi, mordendosi le labbra. E disse addio ai bisticci, alle risate, alle canzoni, agli appostamenti, al cibo messicano, al jogging, alla Torino e al suo sorriso.
“Si è qui, te lo passo?”
Huggy fece un cenno a Starsky “è per te, credo sia uno sbirro” Starsky si
allungò perplesso per prendere la cornetta. Huggy vide la sua fronte
corrugarsi.
“No, non credo. Anzi sono
certo di no” disse Starsky, sembrava vagamente allarmato “no, avverto io Dobey,
se ce ne sarà bisogno. Grazie” Starsky riagganciò e guardò Huggy “era un nostro
collega, dice di aver visto la macchina di Hutch nel quartiere del porno e
siccome deve pattugliare la zona voleva sapere se noi stessimo facendo indagini
per conto nostro”
“E le state
facendo?”
“Io no di sicuro, sono qui!”
esclamò Starsky
“Ok, chiami Dobey?” chiese
Huggy porgendogli il telefono. Starsky lo guardò dubbioso, Huggy poté quasi
scorgere la miriade di pensieri che si stavano affollando nella sua testa
riccia.
“Potrebbe essere nei guai”
disse piano Starsky
“O potrebbe star creando
guai, capito, niente Dobey” Huggy disse qualcosa alla sua cameriera in un
orecchio.
“Hug, cosa può esserci
andato a fare Hutch in quel quartiere?” Huggy avvertiva la paura di Starsky
quasi come fosse sua, probabilmente per questo si trattenne da una succulente
battuta.
“Dai, sbrighiamoci” disse
solo, prendendo la giacca. Starsky gli sorrise debolmente con riconoscenza.
Starsky e Huggy stavano
girando tutti i bar del quartiere, erano appena usciti dal quinto senza niente
in mano quando Starsky cominciò a mandare segnali di cedimento.
“Passi il malumore, passi
l’insonnia e la stanchezza, passi la giornata di merda, ma perché non ha
telefonato?!” Huggy rimase in silenzio, quello che non voleva dire è che un
brutto presentimento andava amplificandosi locale dopo locale.
“Abbiamo tutti diritto a
qualche stupidaggine” disse piano. Starsky lo incenerì con lo
sguardo
“Non fare il maestrino
adesso! Lo so perfettamente anche io, ma non serviva sparire dalla circolazione
per farmi venire un infarto”
“Forse non l’ha fatto
appositamente per far venire un infarto a te” rispose Huggy irritato dal tono di
Starsky e quest’ultimo stava per aggiungere rabbiosamente qualcosa quando
un’insegna attirò la sua attenzione.
“Huggy! E’ qui! E’ il locale
dove siamo stati oggi, per un omicidio. Sono certo che è qui!” Starsky entrò
frettolosamente, quasi inciampando nelle gambe di una sedia. Huggy lo seguì più
lentamente.
Il barista sembrava il
personaggio di un fumetto poco fantasioso, l’archetipo del personaggio losco,
grosso, con un’espressione malevola, sporco e perfino con qualche
cicatrice.
“Sto cercando un uomo sulla
trentina, biondo, alto. Credo avesse una giacca marrone…” l’uomo non fece
nemmeno finta di ascoltare. A Starsky cominciavano a saltare i nervi, era stanco
e preoccupato, il che lo portava a vedere la situazione peggiore di come in
realtà fosse. Voleva trovare Hutch e godersi le sue scuse per averlo fatto
preoccupare così.
“Ho fatto una domanda…”
disse Starsky con tono pericoloso, l’uomo non cambiò atteggiamento. Huggy
gemette. Starsky tirò fuori il distintivo e lo piazzò sotto il naso nel barista
“se non ricevo un’immediata risposta chiara e precisa, faccio chiudere questa
bettola all’istante” l’uomo lo valutò con sufficienza
“E’ stato qui, era seduto su
questo sgabello. Ma io non voglio guai”rispose di malavoglia. Starsky ignorò
l’ultima affermazione
“Se ne è andato via da
molto?” chiese con urgenza
“No e comunque non credo sia
andato molto lontano” Starsky lo fissò immobile, Huggy sembrò
gelare.
“Cosa vuol dire?” la falsa
calma di Starsky non imbrogliava nessuno
“Quello che ho detto”
rispose il barista. A Starsky prudevano le mani, l’uomo se ne accorse perché
sogghignò, uscendo dalla protezione del bancone. Era almeno il doppio di Starsky
e Huggy messi assieme.
“Lo ripeto ancora una
volta…” la voce di Starsky si faceva pericolosa, Huggy gli mise una mano sulla
spalla per cercare di calmarlo ma lui la scrollò via “lo ripeto, cosa vuol
dire?”
“Non voglio guai” ripeté
l’uomo scandendo le parole, come se Starsky fosse un bambino un po’ lento.
“Non
voglio niente da te, voglio solo trovare il mio partner!” gridò. L’uomo
sorrise.
“E se
te lo dico, cosa ci guadagno? Potrebbe sempre scapparmi una telefonata in
centrale e potrei lasciarmi sfuggire che uno dei loro agenti nasconde di essere
un drogato…” Starsky non si diede nemmeno il tempo di pensare
“Ripetilo” disse con rabbia trattenuta a stento. L’uomo
mascherò bene la preoccupazione. Starsky avanzò minacciosamente.
“Starsky…” Huggy lo afferrò per la spalla, con forza
sufficiente perché l’amico non potesse ignorarlo. Starsky lo guardò
rissoso.
“Hai
sentito cosa sta dicendo?” chiese sconvolto. L’espressione di Huggy lo
gelò.
“Non
gli starai credendo?” domandò incredulo, come se esplicitando la domanda potesse
risultare assurda anche alle orecchie di Huggy. Stiamo scherzando?!
“…
Starsky…” Huggy lo guardava negli occhi, ma Starsky sfuggiva a quelle gemme
scure. Stiamo
scherzando?! Huggy gli prese il braccio, Starsky si liberò con un
ghigno feroce. Stiamo
scherzando?!
Ci sono
cose della vita che vanno accettate, ci sono cose delle persone che vanno
accettate, anche quelle inaccettabili, anche quelle cose inaccettabili che
riguardano le persone più importanti della propria vita. Starsky lo guardò negli
occhi, non lo poteva accettare. Stiamo scherzando?! Le parole dell’uomo
continuavano ad echeggiare nelle sue orecchie all’infinito, a volume sempre più
forte, tanto che fu costretto ad urlare per sovrastarle.
“Come
osi fare insinuazioni simili?! Dov’è il mio partner?!” l’uomo sbuffò
infastidito, Starsky si slanciò contro di lui afferrandolo per il bavero della
camicia “te lo chiedo ancora una volta…” sentenziò con rabbia “dov’è il mio
partner?!” stiamo
scherzando?!
Huggy
si sentì costretto ad intervenire, pose le mani su quelle dell’amico,
intimandogli con uno sguardo severo di calmarsi.
“Ti ho
già detto cosa stava facendo qui il tuo partner, se non vuoi sentirlo non sono
affari miei” decretò l’uomo semplicemente. Huggy chiuse gli occhi, odiava
ammetterlo ma la pensava come quell’uomo odioso ed ebbe paura, paura per Starsky
che doveva accettare qualcosa più grande di lui per amore del suo amico e paura
per Hutch. Semplicemente paura per Hutch.
Nessuno
dei presenti vide il pugno partire, Huggy sentì solo il corpo del barista
scivolargli dalle mani e l’attimo dopo il rumore di un corpo che si sfracella
contro un tavolo.
Il
barista era un omone massiccio, si rialzò quasi subito pulendosi il sangue con
la manica, era arrabbiato e non nascose affatto il ghigno di cattiva
soddisfazione
“Se sei
fortunato lo troverai spalmato nel vicolo qua dietro, è roba buona…” Huggy per
un attimo pensò che Starsky avrebbe ucciso quell’uomo, lo pensò anche il barista
stesso, probabilmente lo pensò anche Starsky. Ma l’urgenza ebbe il
sopravvento.
Sembrò
che nel breve percorso dall’ingresso del pub al vicolo che lo costeggiava, i
piedi di Starsky non toccassero il terreno. L’urgenza gli fece dimenticare il
corretto processo di respirazione, tanto che per una ventina di metri quasi
rischiò di svenire boccheggiando. Ma quando raggiunse la buia stradina,
rappresentante di tutto tranne che di pulizia e decoro, rischiò di soffocare
davvero alla vista del suo partner abbandonato contro una parete, a terra.
Scorse appena un bagliore di capelli biondi, l’unica cosa distinguibile alla
luce di un lampione che illuminava malamente la via principale. Nessuno stava
scherzando.
Pensò a
tante cose, tutte insieme, tutte vivide e confuse allo stesso tempo mentre
correva a perdifiato verso il suo partner. Pensava a quanto avrebbe voluto
ammazzare quel barista, pensava ad Huggy che aveva capito prima di lui, pensò ad
Hutch e a tutte le enormità di cose che si agitavano attorno a lui.
Cosa
doveva fare? C’era qualcosa di sensato che potesse fare? Si, per prima cosa
accertarsi delle sue condizioni fisiche. Come poteva toccarlo senza ferirlo?
Come poteva toccarlo senza ferirsi più di quanto quella situazione lo feriva?
Era furioso, ma non riusciva ad avercela completamente con Hutch perché sapeva
che Hutch stesso non se lo sarebbe mai perdonato. Non si sarebbe mai perdonato
un simile crollo, una simile debolezza, non si sarebbe mai perdonato di essersi
fatto vedere in quelle condizioni da Starsky, non si sarebbe mai perdonato di
averlo deluso. E Starsky non si sarebbe mai perdonato di avergli permesso di
farsi tanto male. Come avrebbero potuto affrontare la cosa?
Hutch
sollevò il capo quando Starsky gli fu davanti, ansante. Quando i loro occhi si
toccarono Starsky gelò, erano gonfi, rossi e vuoti e pieni di dolore e Starsky
li amava comunque. Si inginocchiò a terra di scatto, sentiva vagamente le
sensazioni corporee aveva paura che il suo corpo si stesse sgretolando, con
ansia e urgenza afferrò il braccio chiaro di Hutch sollevandogli la manica della
camicia fino al gomito. Niente. Prese l’altro braccio, strattonandolo quasi con
violenza e ripetendo l’operazione. Niente. Il sollievo in Starsky si fece
sentire, nonostante tutto.
Gli
occhi di Starsky si mossero per cercare quelli di Hutch, era sempre stato bravo
a leggerli, ma forse in quel momento avrebbe voluto non fosse così. Avrebbe
voluto non essere in grado di vederci la vergogna per essersi fatto sorprendere
in questo stato, il senso di colpa per la preoccupazione che aveva causato, il
dolore e la paura e la consapevolezza di aver cercato di autodistruggersi ma di
non aver avuto il coraggio di fare nemmeno quello, la voglia di essere
abbracciato e il terrore di essere rifiutato.
Starsky
lo abbracciò con tutta la forza che riuscì a recuperare, gli occhi pieni di
lacrime e la bocca piena di maledizioni. Si lasciò andare seduto a terra con il
suo Hutch stretto al petto, le mani ovunque tra i suoi capelli biondi e la sua
schiena sudata. Se Hutch avesse avuto un minimo di controllo su di se, forse
avrebbe trattenuto il pianto disperato cui cedette, ma forse era esattamente
quello di cui aveva bisogno. Quello di cui aveva bisogno era Starsky e il calore
delle sue braccia che nonostante tutto l’accettavano ancora una
volta.
Se
Hutch non avesse avuto così bisogno di lui, forse Starsky sarebbe svenuto dal
sollievo di sapere che il suo compagno non aveva ceduto alla distruzione della
droga.
Il moro
avvertì vagamente il respiro affannato di Huggy, alle sue spalle.
“Vai a
prendere la macchina Hug, lo portiamo via da qui” disse piano, la voce roca. Lo
sguardo di Starsky bastò ad Huggy per capire che quello che temeva non si era
verificato.
Huggy
ci mise mezzo istante a tornare con la macchina, Starsky sperò non avesse
investito nessuno. Hutch sembrava caduto in una specie di trance dovuta allo
sfinimento, si lasciò issare in macchina come un peso morto.
“Dove
andiamo?” chiese Huggy
“A casa
mia” rispose piano Starsky, sistemandosi accanto ad Hutch. Sembrava che nessuno
osasse produrre suoni più alti di un sussurro.
Huggy e
Starsky riuscirono a trascinare Hutch sul divano dell’appartamento senza grossi
traumi, la porta d’ingresso era ancora spalancata ed entrava l’aria fredda della
notte.
“Dimmi cosa vuoi che faccia, se vuoi che resto, resterò. Se vuoi che vada, me ne andrò subito” disse Huggy rompendo il silenzio assordante. Il respiro di Starsky era affannoso, non sapeva cosa fare, ma sapeva che doveva essere una cosa tra lui e il partner. Voleva essere lui ad occuparsene.
“Non preoccuparti, vai pure. Ce la caviamo. Ti chiamo domani, eh?” Huggy lo guardò. Lui e Starsky avevano sempre condiviso un codice particolare che probabilmente nasceva da memorie passate condivise.
“Con tutto quello che vi
frulla nella testa ci potremmo riempire l’America. Ci sono cose che non vanno
capite, vanno prese e basta. Prendilo e basta perché tu puoi dargli quello che
lui non si concede” Huggy chiuse alle sue spalle la porta dell’appartamento di
Starsky, si accese una sigaretta ed entrò nella macchina. E
pianse.
Starsky
aveva sempre ammirato la capacità di Hutch di non giudicare le persone, era
sempre stato capace di accettare le sfumature, accettare quello che gli altri
offrivano nel bene e nel male. Hutch non vedeva una prostituta eroinomane,
vedeva una donna in difficoltà. Non giustificava i comportamenti altrui, ma
conosceva la natura umana e l’accettava.
Starsky
aveva sempre avuto difficoltà a farlo, per questo lasciava andare Hutch avanti.
A volte Starsky pensava che una ragazza che decideva di buttare via tutto per
l’eroina se le voleva certe cose, lui offriva il suo aiuto anche quando pensava
che non fosse meritato, ma non era in grado di essere magnanimo con chi più
volte lo rifiutava e continuava a trovarsi nei guai. Per Hutch tutti avevano
diritto ad un’opportunità in più, quelle che poteva offrire le dava senza
chiedere nulla. A tutti, ma non a se stesso. Aveva la straordinaria capacità di
non perdonarsi nulla. Starsky capiva l’intransigenza con se stessi, lui stesso
si incolpava di tante cose, ma a volte Hutch sembrava essere alla disperata
ricerca di qualcosa per potersi biasimare.
Starsky
era una persona istintiva, seguiva i suoi impulsi, i suoi desideri, spesso si
frenava sempre un attimo troppo tardi. Però era per questo suo istinto che
spiazzava gli altri, che capiva a pelle di cosa qualcuno aveva bisogno. Era per
il suo istinto che riusciva a toccare Hutch.
Ma
toccare Hutch non era facile e a volte il suo istinto si inibiva, per paura di
quella parola in più, di quel gesto in più che potesse rompere qualcosa nel suo
partner. Quello era il caso.
Hutch,
il suo Hutch rannicchiato sul suo divano, con la testa nascosta contro lo
schienale. Non era vero che il suo istinto con Hutch si inibiva. Si accucciò
davanti a lui e gli scostò i capelli sudati dal viso, con un gesto dolce della
mano. Hutch sussultò al contatto.
“Cosa
devo fare con te?” chiese ad Hutch e a se stesso, con una voce dolce e amara.
Hutch non disse nulla o anche se la disse, Starsky non poté sentirla perché il
viso il del partner era ancora schiacciato contro il suo divano.
Starsky
si sentiva arrabbiato e impotente, perché Hutch non aveva chiesto il suo aiuto e
perché ora lui non sapeva come darglielo. Avrebbe voluto accasciarsi a terra e
raggomitolarsi come lui. Ma non l’avrebbe fatto, si sarebbe preso cura di quello
stupido babbeo che amava tanto, racimolando tutta la forza che aveva, abbastanza
forza per entrambi.
“Hutch,
alzati. Hai bisogno di una doccia” aveva bisogno di essere duro per superare
quel momento iniziale, per non perdere la verve. Nonostante il suo tono quasi
perentorio, Hutch non si mosse. Starsky non si lasciò scoraggiare, lo afferrò
per un braccio ma il partner fece resistenza.
“Hutch,
rischi di ammalarti. Hai preso freddo e sei sudato e sporco. Ti aiuto io, tirati
su” lo afferrò per le spalle e tentò di scollarlo dal divano, Hutch non aveva
abbastanza forza per opporsi. Starsky tentò di ignorare lo sguardo dell’amico.
Se lo caricò sulle spalle, facendosi passare un suo braccio attorno al collo e
faticosamente raggiunse il bagno. Aprì il getto dell’acqua e fece scivolare
Hutch a terra, schiena contro la vasca. Cominciò a sbottonargli la camicia,
sotto lo sguardo del compagno. I suoi occhi gli chiedevano scusa, ancora scusa,
ancora scusa, all’infinito.
“Starai
meglio dopo un bagno, dici sempre che la doccia ti resuscita!” gli sfilò un
braccio e poi anche l’altro, mentre l’acqua scorreva perentoria nella vasca alle
loro spalle. Gli tolse le scarpe lanciandosele alle spalle e gli sfilò i
calzini. Lo guardò un momento negli occhi prima di svestirlo completamente. Se
avessero avuta un’intimità minore, quello avrebbe potuto rappresentare un
problema, ma se c’era una cosa che di certo non mancava al loro rapporto, quella
era l’intimità.
L’acqua
calda era confortante e, per qualche momento, Hutch smise di tremare. Starsky
aveva preso una spugna e la passava dolcemente sulle braccia del partner, sui
suoi capelli sottili, sul collo, sul viso. Hutch sembrava essersi ripreso,
Starsky se ne accorse perché fuggiva deliberatamente dal suo sguardo. Non seppe
cosa dirgli quindi rimase in silenzio e chiuse il rubinetto. Prese un grosso
asciugamano e glielo avvolse attorno alle spalle. Quando Starsky tentò di
tirarlo in piedi, per farlo uscire dalla vasca, sentì che il partner
collaborava, ma non sapeva quanto fosse debole e non si fidò a lasciarlo uscire
da solo dal bagno. Lasciò che Hutch si sedesse sul bordo del letto della sua
camera mentre lui spariva in un armadio alla ricerca di qualcosa che potesse
somigliare ad un pigiama. Ne trovò uno azzurro di pile e gli infilò dalla testa
la morbida maglia calda. Starsky si accorse che i capelli biondi di Hutch
grondavano acqua e si affrettò verso il bagno per prendere un asciugamano,
mormorando un ‘torno subito’.
Quando
ricomparve nella stanza, Hutch stava lentamente infilandosi i pantaloni dello
stesso morbido tessuto. Quando si avvicinò al compagno, Hutch tese le mani per
prendere l’asciugamano. Starsky fece un passo indietro.
“Lascia
che ti aiuti. Almeno ora, lascia che ti aiuti” sussurrò, riempiendo la stanza.
C’era una nota di accusa nella voce ferita di Starsky. Hutch lo guardò, era la
prima volta che lo guardava da quando si era un po’ ripreso. Nei suoi occhi non
c’erano più solo scuse, c’era anche la richiesta di essere lasciato in pace. Ma
Starsky non l’avrebbe lasciato in pace. Lo amava troppo.
Starsky
sentì il respiro di Hutch farsi tremulo, il viso contrarsi nello sforzo e gli
occhi diventare liquidi. Dalle labbra del biondino sfuggì un singhiozzo che
nascose subito tra le mani. Starsky avrebbe voluto lasciarlo riprendere in pace,
magari andando a preparare qualcosa di caldo da bere, ma qualcosa gli disse che
in quel frangente era lui a doversi imporre o Hutch non avrebbe accettato il suo
aiuto. Scelse come compromesso di iniziare ad asciugargli i capelli,
strofinandogli teneramente la testa mentre il compagno calmava i singhiozzi.
Starsky doveva aver fatto la scelta giusta perché sentì Hutch appoggiarsi a lui,
affondando il viso nel suo stomaco. Mentre Starsky stringeva a se il partner,
dopo aver lasciato cadere a terra l’asciugamano, si chiese se il suo abbraccio
risultasse caldo e protettivo come quello del compagno. Si chiese se era capace
di abbracciare come faceva Hutch.
Starsky
tremò, sentiva la pelle tesa di Hutch, le sue lacrime che gli bagnavano la
canottiera leggera, il calore delle sue labbra, la sua mascella contratta, ogni
suo piccolo singulto, ogni suo brivido. Poteva un semplice abbraccio essere così
intenso?
Starsky
chinò un poco la testa e gli baciò i capelli e la fronte, sentendola scottare un
po’. Allora mise un ginocchio sul materasso e issò anche l’altra gamba, scostò
le coperte del letto e si distese portando con sé il partner.
Starsky si mise alle spalle di Hutch, cingendogli il petto e
respirando nei suoi capelli. Hutch aveva le spalle forti, forse se fosse stato
più esile si sarebbe concesso di tremare. Lo sforzo di frenare il pianto gli
aveva fatto venire uno strano respiro mozzo.
“Perché
ti fai questo?” mormorò Starsky nel suo orecchio, massaggiandogli con una mano
il petto, che doveva dolergli.
“Scusami, Starsk…” Hutch sussurrò piano, con voce roca. Lo
sforzo era evidente.
“Non
scusarti, non scusarti sempre”
“Scusa…non so cosa volessi fare, volevo solo…non lo so,
volevo non pensare”
“A me
non importa, Blondie” ed era vero. Per la prima volta si accorse che era vero, a
lui non importava cosa fosse successo, ne il perché, gli interessava solo aver
trovato Hutch in tempo, gli importava solo di tenerlo tra le braccia e dormirgli
accanto. Non gli servivano giustificazioni.
“…
Starsk…” Starsky lo strinse ancora.
“Non mi
importa” ripeté con decisione.
“Scusami…” scusa per quello che
sono, scusa perché non sono quello che vorrei essere, scusa perché non riesco a
frenare le lacrime, scusa perché vorrei piangere più forte, scusa perché vorrei
che le tue braccia non mi lasciassero mai, scusa perché non avrei mai voluto che
tu mi vedessi così, scusa perché non ho pensato a te, scusami.
“Scusami tu, per non aver capito quanto stavi male” mormorò
Starsky
“Mi
dispiace, Starsk… mi dispiace, non avrei voluto che tu…” Starsky si preoccupò,
sentendo il respiro di Hutch ancora più difficoltoso. Si sollevò un poco,
poggiandosi sul braccio e lo fece voltare verso di sé per poterlo guardare.
Hutch si nascose il viso tra le mani.
Starsky non avrei voluto deluderti, sei l’unica persona che non
avrei mai voluto deludere, di tutte le persone volevo che almeno tu vedessi in
me qualcos’altro, volevo essere per te quello che avrei voluto
essere.
Starsky
gli scostò con dolce fermezza le mani e gli baciò una guancia umida
“Hutch,
non devi avere paura di deludermi. Comunque tu sia, mi piacerai” gli sussurrò, guardandolo
dritto negli occhi.
Sono
quelle situazioni che non ti permetti di sognare, quelle idee che si affacciano
solo nei momenti più disperati con la consapevolezza che non si avvereranno, che
nessuno ti capirà mai davvero, che nessuno riuscirà a dirti la cosa giusta, che
nessuno riuscirà ad accettarti in tutto e per tutto e senza difficoltà, che
nessuno ti darà diritto a quelle piccole cose di cui ti vergogni. Quelle
situazioni in cui non sai mai come reagire, Hutch scelse un pianto liberatorio,
scelse di accettare quella fortuna che gli era stata data e quelle braccia calde
che gli venivano offerte.
Nessuno
dei due seppe quanto tempo era passato, Starsky sentiva il respiro di Hutch più
calmo, non poteva vederlo in viso e non sapeva se stesse dormendo. Gli poggiò
una guancia sulla fronte, scottava ancora un po’.
“Starsk…?” chiamò Hutch, con un mormorio impastato dal sonno
“Mmh?”La risposta non fu immediata e Starsky pensò che Hutch stesse solo parlando nel sonno.
“Ti amo” sussurrò invece Hutch, al buio, al confine tra
veglia e sonno. Starsky fissò l’oscurità della sua camera da letto, sentì il
peso di Hutch contro il suo petto, il calore del suo respiro e della sua
pelle.
“Lo so, ti amo anche io” gli soffiò Starsky
nell’orecchio.
Quando
squillò il telefono, Starsky era già sveglio da un pezzo, ma il suono insistente
e fastidioso lo indispettì comunque, preoccupandolo che potesse svegliare Hutch
che gli dormiva tranquillamente contro. Quando sentì la voce dall’altro capo del
filo, l’irritazione sfumò immediatamente.
“Ciao,
Hug”
“
’Giorno, amico. Come ve la passate?”
“Huggy,
sai bene che in serate di baldoria come la nostra, non è buona usanza chiamare
al mattino presto…” ridacchiò Starsky
“Ai
miei tempi fare baldoria significava altro…andiamo, Starsky, devo infilarti uno
sturalavandini in bocca?! Come sta?” dalla voce di Huggy trapelava una certa
urgenza e Starsky capì che non era dell’umore per i giochetti. Guardò con
tenerezza il compagno prima di rispondere.
“Non lo
so” rispose sinceramente “ora dorme. Non preoccuparti, starà bene. Ce la
caveremo”
“Cos’
hai intenzione di fare?” la tranquillità di Starsky lo calmò, se Starsky
riusciva a tenere la situazione sotto controllo allora forse le cose si
sarebbero davvero sistemate.
“Non
sono in grado di fare programmi a lungo termine… ma oggi voglio passare tutta la
giornata a letto, non abbiamo dormito molto e credo che un dolce far nulla possa
fare bene ad Hutch”
“Non
sarà capace di stare dietro al tuo ritmo di ozio” commentò Huggy con
ironia
“Si, se
lo obbligherò a farlo” sorrise Starsky
“Avete
deciso che far finta di niente è la cosa migliore?” la domanda di Huggy
infastidì un po’ Starsky
“Non
abbiamo deciso niente e non voglio ignorare niente, ho solo parlato di una
giornata di relax!” rispose brusco. Huggy fischiò.
“A
quanto sento ne hai bisogno…”
“Scusa,
Hug… rimandare non è come fare finta di nulla, voglio solo, non lo so, non
voglio pensarci ora. Sono stanco e lo è anche Hutch di sicuro. Non voglio
ignorare la cosa…” aggiunse più conciliante. Huggy era stato bravissimo la sera
prima, al contrario di Starsky non aveva perso la testa ed era stato più che
disponibile. Starsky si accorse che senza Huggy probabilmente non avrebbe
trovato Hutch.
“Chiamavo così per sapere se dovevo mandare qualche
ambulanza a raccogliere i pezzi, ti lascio…”
“Grazie, Hug. Grazie di tutto, sei davvero un amico. Ti
tengo informato” Starsky ebbe l’immagine chiarissima del volto di Huggy in
risposta a quelle smancerie e non trattenne un sorriso.
“Salutami quel biondino balordo, quando si sveglia. E digli
che non perdonerò una seconda volta che uno dei miei clienti più fedeli mi
tradisca per un altro bar di così bassa lega”
Starsky
rimise a posto il telefono, movendosi il meno possibile. Si stava bene a letto.
Voleva davvero regalare a se stesso e ad Hutch una giornata senza pensieri,
avrebbe portato la televisione in camera così lui poteva distrarsi e Hutch
continuare a sonnecchiare, gli avrebbe portato colazione e pranzo a letto. Una
giornata senza pensieri e senza dover affrontare nulla. Voleva solo che
ricaricassero le pile. Si voltò verso Hutch carezzandogli pigramente i capelli,
quando vide che i suoi occhi chiari erano aperti e lo guardavano
assonnati.
“Ciao,
Blondie. E’ presto, non vuoi dormire ancora?” guardando Hutch negli occhi
Starsky si accorse che non era facile ignorare tutto, che per entrambi la cosa
era ancora troppo vivida. Hutch rimase fermo a guardarlo e Starsky si sentì
lusingato che il partner non si fosse allontanato da lui una volta sveglio.
Starsky gli lesse negli occhi la sua stessa paura. Come affrontare quel momento?
Quella notte tutto era stato confuso e travolgente, ma ora erano lucidi. Starsky
pensò di essere stato troppo ottimista nel pensare che Hutch, lottando tra
vergogna e senso di colpa, potesse fare come se nulla fosse.
Hutch
rotolò via da Starsky, finendo poco lontano da lui, a pancia in giù. Starsky ne
imitò la posizione, così poterono continuare a guardarsi. Si era creato un
contatto strano, come se ognuno stesse cercando di leggere le intenzioni
dell’altro.
Hutch
andava svegliandosi da una notte di lacrime e dolore, nel letto del suo migliore
amico. Starsky veniva da una profonda paura e dallo struggente desiderio di
protezione del suo partner.
Ci
misero un po’ a capire che semplicemente quel momento bastava a entrambi per
poter andare avanti, in fondo Hutch aveva trovato Starsky ancora lì al suo
risveglio e Starsky poteva ancora guardare gli occhi limpidi di Hutch. Non
dovevano fare nulla.
Starsky
aveva paura di muoversi. Da una parte temeva di infrangere quel momento, temeva
che se avesse respirato troppo forte avrebbe rischiato di scomporre il
meraviglioso disegno delle ciocche bionde scomposte sulla federa blu, temeva di
spingersi oltre. Avrebbe voluto restare così per sempre, disteso sul ventre in
quel letto disfatto, con la guancia spalmata contro il cuscino e gli occhi
puntati in quelli di Hutch. Hutch lo guardava con quel suo sguardo inquieto che
contrastava con il suo azzurro così limpido. Avrebbero voluto entrambi restare
così per sempre, intimoriti e rassicurati dal loro amore. Era un amore caldo che
si insinuava nelle fenditure senza essere invadente, Hutch non si era mai
sentito amare così, era di un terrore inebriante. Viveva per quello. Le ciglia
bionde fremettero sulle palpebre socchiuse e qualche lacrima scese lungo la
linea morbida della guancia. Starsky si sporse in avanti e le loro fronti quasi
si toccarono. Era intimo e malinconico e rassicurante e enorme.
“Hutch,
se io fossi una donna, mi sposeresti?”
“Se ci
sposassimo finiremmo col stancarci” riuscì a dire con una voce piuttosto
normale. Era la prima volta che parlava quella mattina.
“Io non
mi stancherò mai di te” Starsky era capace di dire le cose più grandi con la
stessa semplicità che usava per il resto, eppure questo suo modo di fare non
toglieva importanza alle sue affermazioni.
“Se io
fossi sposato con te dovrei sopportare un sacco di cose” considerò Starsky che
sembrava stesse riflettendoci sul serio.
“Tu
dovresti sopportare un sacco di cose?! E io allora?”
“Cosa?!
E sentiamo cosa dovresti sopportare di me?”
“I tuoi
schiamazzi continui ad esempio”
“Nulla
a che vedere coi tuoi musi lunghi”
“Io non
tengo il broncio come un bambino di cinque anni”
“Non ho
questa impressione, mister sofisticato! No, ci pensi? Dovrei sopportare le tue
diete assurde, per non parlare della bolletta dell’acqua visto le ore che passi
sotto la doccia e i litri che usi per le tue piante”
“E io
le schifezze che mangi”
“Le
mangio io mica tu”
“Ma il
puzzo dei tuoi hamburger mi rovina l’appetito, almeno quello che mangio io non
puzza”
“Dovrei
tenere la mia Torino nello stesso garage del tuo catorcio?”
“Dovrei
sopportare quell’orribile pomodoro inquinante!”
“Ecco,
vedi? Dovrei sopportare tutto il giorno i tuoi rimbrotti, i tuoi malumori, le
tue manie, la tua chitarra…”
“Credevo ti piacesse la mia chitarra!” rimasero in silenzio
per un po’. Hutch rotolò su se stesso stendendosi sulla schiena, Starsky rimase
fermo a guardarlo, ancora a pancia in giù. Ovviamente non erano arrabbiati, ne
seccati, era il loro modo di giocare, di comunicarsi che tutto era a posto, il
loro modo di sdrammatizzare. Hutch aveva ancora gli occhi leggermente umidi, ma
sorrideva. Anche Starsky stava meglio, perché il compagno aveva accettato di
prestarsi ai suoi giochi.
Se ne
stavano li, ritagliando un momento tutto loro escludendo il resto del mondo. Era
un’atmosfera un po’ irreale, erano due uomini distesi in un letto a bisticciare,
ma non stavano facendo finta di niente. Quello che era successo continuava ad
aleggiare su di loro.
“Mi piace la tua
chitarra” mormorò dopo un po’ Starsky.
Hutch
voltò appena il capo verso di lui. Sorrise agli occhi scuri di Starsky e alla
sua guancia schiacciata contro il cuscino e ai suoi capelli che erano un po’
ovunque, un grosso cespuglio ingombrante.
“Ma a
me non piace comunque la tua colazione con pizza fredda e coca”
“Quindi
pensi che saresti un marito migliore di me?!” Starsky frenò la lingua un attimo
troppo tardi. Non avrebbe dovuto dire quella frase infelice. Hutch non disse
nulla. Starsky dopo un po’ proseguì, Hutch rifiutò di pensare che durante quei
silenzi Starsky pensasse seriamente alla loro impossibile vita matrimoniale
“dovremmo comprare due frigoriferi per lo meno, e due librerie, di televisione
ne basta una… mi sa che dovremo avere due bagni, sennò io non mi farei mai la
doccia, a meno che non ne mettiamo una in cortile, ma così saresti geloso degli
sguardi delle vicine” ammiccò Starsky
“Senza
contare che staremmo spesso in commissariato per atti di esibizionismo” commentò
Hutch con ironia
“Il
nostro cane dovrebbe avere un nome grintoso, di quelli che non ti vergogni a
urlare nei parchi”
“Nietzsche?”
“Ho
detto un nome grintoso, non un nome impronunciabile. Perché vuoi far sapere a
tutti che sei matto?”
“E’ un
bel nome e poi andrebbe d’accordo con Socrate, il gatto”
“Ok, è
deciso. Non sarai TU a dare il nome ai nostri animali”
“Questo
è stupido”
“Se la
metti così tutto questo discorso è stupido, noi non siamo sposati”
“Senza
contare che sopporto comunque queste cose di te” e sono
le cose che preferisco. Starsky lo guardò con affetto e si accostò più a
lui
“Chi
sarebbe il migliore a letto?” sussurrò poi Starsky con un tono di complicità
maliziosa.
“Non
c’è bisogno di sposarsi per rispondere a questa domanda, ovvia per
altro”
“Ooh
giochiamo a fare i macho. In questo caso le tue sono solo parole!”
“Non do
dimostrazioni fino alla prima notte di nozze” Starsky scoppiò a ridere per
l’assurdità di quell’affermazione, uscita dalle labbra del peggior donnaiolo di
Bay City. No, forse il peggiore era lui “e non solo sarei il migliore a letto,
sarei ottimo in tutto. Preparerei ottime ed equilibrate cene, terrei la casa in
maniera decorosa, sono un ottimo partito. Non avresti motivo di
tradirmi”aggiunse Hutch. Starsky cercò il suo sguardo, Hutch non lo evitò ma
restò in silenzio, come comunicando che spettava a lui la prossima battuta.
Anche Starsky rimase in silenzio.
“Hutch, se noi fossimo sposati, tu mi tradiresti?” ad Hutch piaceva quel modo di Starsky di passare da una cosa
all’altra, di passare dal
gioco alle cose serie. Ad Hutch piaceva quel modo in cui Starsky si approcciava
agli argomenti seri, il modo in cui giocava sulle situazioni, le situazioni che
creava per lui, per farlo sentire a suo agio “io non ti tradirei mai, Hutch”
aggiunse prima che il compagno potesse rispondere.
Starsky rimase a guardare gli occhi di Hutch riempirsi di lacrime e non disse più nulla. Con semplicità lo baciò sulle labbra chiuse e continuò a guardarlo mentre con la mano gli carezzava i capelli biondi.
Starsky
stava armeggiando con tazze e bicchieri, aveva già rischiato di rovesciare
abbondante succo d’arancia, quindi nel versare il caffè usò molta più cautela.
Avrebbe voluto andare fuori per comprare qualche dolcetto dal fornaio, ma non
aveva la minima voglia di lasciare la casa e Hutch.
Prese
un grosso vassoio e lo poggiò sul ripiano della cucina, ma nel girarsi lo urtò
col gomito, facendolo cadere a terra in un forte rumore metallico. Fortuna che Hutch è già sveglio.
Starsky
prese il vassoio pieno sollevandolo con attenzione e si diresse in camera,
scavalcando il cavo della televisione che aveva spostato poco prima. Posò con la
stessa attenzione la colazione su un tavolino ai piedi del letto e sollevò lo
sguardo. Un brivido gelato percorse tutto il suo corpo e lo bloccò sul posto,
facendolo tremare. Il letto era vuoto, le lenzuola scomposte disegnavano ancora
il profilo dei loro corpi, ma era vuoto.
La
razionalità gli imponeva la calma, gli ricordava quanto il suo comportamento
fosse stupido e infantile, ma quell’immagine gli aveva risvegliato una paura che
non aveva mai scacciato. Starsky si rese conto solo in quel momento di quanta
paura avesse avuto la notte prima e di come avesse scacciato quella sensazione
per prendersi cura del suo partner. Evidentemente passare la notte abbracciato a
lui ad ascoltarlo dormire non era bastato a tranquillizzarlo e l’immagine del
letto vuoto lo aveva ricatapultato in uno stato di angoscia. Si rivide nel
vicolo a correre, rivide lo sguardo osceno del barista, gli occhi preoccupati di
Huggy, rivide Hutch a terra in un stradina non più grande di quella dove l’aveva
trovato tempo addietro. Il suo Hutch che criticava sempre la Torino ma ogni
giorno vi prendeva posto, il suo Hutch e il suo sguardo ironico, il suo Hutch e
i suoi tormenti. Perché quando Starsky stava male il primo a cui pensava era
Hutch ma non succedeva il contrario? Hutch se n’era andato ancora, furtivo e
senza dire niente. Perché?! Cosa doveva fare perché non si allontanasse da
lui?
“Starsk…?” Starsky si voltò di scatto, trovandosi Hutch di
fronte che lo guardava perplesso. Se Starsky avesse ascoltato la sua razionalità
avrebbe capito che con tutto il casino che aveva fatto in cucina, era probabile
che non avesse sentito Hutch che si alzava per andare in bagno. Ma Starsky era
stanco e improvvisamente sentì la rabbia montare, la frustrazione e la paura gli
salirono agli occhi e gli si intrappolarono in gola.
“Non
allontanarti mai più senza dirmi niente!” gridò furioso. Hutch arretrò
spaventato, fissandolo stupito, aveva i capelli un po’ spettinati e indossava
ancora il pigiamone azzurro.
Rimasero a fissarsi un po’. Starsky era consapevole di come
la sua reazione appariva senza senso, ma non riusciva a controllarla e i suoi
occhi si fecero umidi, deglutì con forza e si maledì sottovoce ma con rabbia. Fu
Hutch a rompere quel silenzio pesante, con la sua voce calda.
“Hai
ragione, scusami” disse tristemente “non so cosa mi sia preso, non so cosa
volessi fare, non ho programmato nulla. Volevo solo…” Hutch cercò le parole
giuste. Era chiaro che non parlava della sua visita al bagno, così come era
chiaro che nemmeno Starsky si riferiva a quello.
Starsky
si morse le labbra, non avrebbe voluto affrontare quello ora. Non sentiva così
forte il bisogno di chiarirsi, ma forse aveva semplicemente paura di affrontare
la questione. Non voleva affrontare la paura, non voleva affrontare il fatto che
il suo partner aveva quasi… non voleva, aveva paura delle
conseguenze.
“Ero
stanco” riprese Hutch sforzandosi di guardarlo negli occhi “ero stanco di tante
cose, prima fra tutte di me stesso. Avrei voluto smettere di essere me solo per
un po’, avrei voluto non essere nella mia testa per qualche momento. Volevo
smettere di pensare e… ho pensato che quella roba mi avrebbe aiutato, che
potesse essere come dicono tutti. Insomma, perché tanta gente ci rimane
intrappolata? Pensavo… cioè ovviamente non pensavo, ero solo stufo di
tutto…”
“Eri
stufo anche di me?” la rabbia sembrava evaporata dalla voce di Starsky, flebile
e fragile.
“Certo
che no…” rispose Hutch seriamente. Starsky lo guardò, i suoi occhi erano ancora
risentiti.
“Però
non sei venuto da me” disse Starsky. Hutch lo guardò ferito.
“No,
non sono venuto da te” constatò scioccamente. Erano ad un punto morto. Starsky
non avrebbe voluto ammettere quanto la situazione l’avesse ferito perché in
qualche modo voleva dare la possibilità ad Hutch di prendersi quel che gli
spettava. Avrebbe voluto dedicargli completamente la sua attenzione perché lui
non la chiedeva mai, conosceva questo problema di Hutch, sapeva che il partner
non era in grado di chiedere e voleva aiutarlo. Fino a quel momento ce la stava
facendo, ma qualcosa aveva rotto i suoi intenti. Sapeva che da parte del partner
non era mancanza d’affetto nei suoi confronti, ma era triste pensare che il suo
amore non bastasse, lui si appoggiava completamente ad Hutch e lo mortificava il
fatto che il compagno non facesse altrettanto.
“Starsk, scusami. Lo so che sono un idiota… non è colpa
tua, non hai fatto niente, sono io, davvero” tentò di giustificarsi Hutch, la
sua voce andava pian piano incrinandosi. Starsky sospirò forte, passandosi una
mano tra i ricci
scuri, l’ultima cosa che voleva era aumentare i sensi di colpa del
biondo.
“Hutch,
non devi scusarti se stai male. E’ normale, tutti stiamo male e nessuno è in
grado di affrontare tutto da solo. Ma noi siamo una squadra, tu dovresti poterti
fidare di me”
“Mi
fido di te, sei l’unica persona di cui mi fido”
“Però
non sei venuto da me, non mi hai cercato, non mi hai chiesto niente e se non ti
avessi trovato o se tu… Dio, Hutch! Hai idea di cosa abbia significato per me?!
Se non c’era Huggy…Non devo sempre essere io a venirti a cercare! Vorrei poterti
aiutare come tu aiuti me continuamente…” Starsky non tremava più per la rabbia e
qualche lacrima scese lungo le sue guance. Hutch avrebbe voluto abbracciarlo, ma
sentì che in quel momento il suo compagno non glielo avrebbe permesso. Starsk… Hutch fremette pensando alla naturalezza con
cui il partner lo aveva accolto al suo risveglio, trattenendo i suoi sentimenti
per lui. Hutch lo guardò piangere, se lui gli avesse parlato prima avrebbero
evitato tutto quello, se lui si fosse deciso ad aprire quella stupida bocca che
aveva e invece no… quella mattina stessa, al suo risveglio, era stato così
sollevato dal sorriso di Starsky che aveva ceduto alla vigliaccheria e aveva
fatto finta di niente. Starsky gli dava sempre quello di cui aveva bisogno e
nonostante tutto lo accoglieva sempre, accettandolo. Se
potessi essere quello che meriti di avere a fianco, allora forse anche io
meriterei la tua compagnia.
“Ho
sempre paura di sbagliare con te e continuo a sbagliare, non volevo coinvolgerti
e guarda cosa ho fatto. E’ difficile per me, non volevo che tu… non lo so, ho
avuto paura che tu potessi pensare… non volevo che tu ti stufassi di me quanto
io sono stufo di me. Volevo smettere di essere me, per cui non sono andato da
Huggy, ho cercato un locale a caso e in mezzo a quella confusione mi sono
tornate in mente le parole di quella donna, quella con il nome di un liquore. In
quel momento pensavo davvero non mi importasse di perdere tutto, ma poi… in quel
vicolo, ho avuto paura. Ho avuto paura di perderti. Mi sono ricordato di quella
volta, di Jeanie e di come ti sei preso cura di me, ma era diverso, non lo avevo
scelto io. Mi sono ricordato del tuo sguardo e non volevo farti rivivere tutto,
non era giusto. Ho pensato a te e ho avuto paura. Paura che tu mi odiassi per
averti tradito e deluso, non volevo farti male, tu avresti difeso il mio onore
con i colleghi poi ti saresti arreso all’evidenza e mi avresti odiato perché non
avresti potuto sopportarlo…io non l’avrei sopportato perché tu mi fai sentire
bene e importante e volevo essere all’altezza di questo.”
“Stupido. Avresti dovuto pensare a te, non a me” disse
piano Starsky. Hutch sollevò lo sguardo, che si era tenuto fisso sui suoi
piedi.
“Ma ho
pensato a te” rispose. Starsky non avrebbe dovuto sentirsi così a
quell’affermazione, non avrebbe dovuto alimentare nemmeno inconsciamente la
passione di Hutch di mettersi dopo il resto. Nel silenzio la voce di Hutch si
fece sentire ancora, colorata con qualcosa d’indefinibile.
“Poi ti
ho visto davanti a me, in quel vicolo e ho pensato che fosse finita, ma tu mi
hai permesso di stare con te e di passare una notte pensando solo al tuo calore
e alla tua mano tra i miei capelli”
Starsky conosceva
ogni sfumatura dello sguardo di Hutch, ma poteva solo immaginare cosa circolasse
in quella testa bionda, non ci sarebbe mai entrato. Starsky non nascondeva il
dolce orgoglio che provava quando sentiva di essere il solo a poter capire un
pochino il suo compagno, quando lo guardava parlare con i colleghi e coglieva le
sfumature delle sue emozioni ed era orgoglioso quando Hutch faceva altrettanto,
quando capiva i suoi desideri e lo consolava o lo faceva ridere senza che lui
avesse bisogno di chiedere. Gli altri colleghi lo sapevano che tra loro c’era
qualcosa di speciale, che Hutch era suo e solo lui aveva il permesso di
avvicinarsi a lui in quel modo. Hutch proseguì ancora, sembrava aver dato via ad
una lunga scia di pensieri che gli confessava in piedi, un po’ barcollante, con
la voce che di tanto in tanto si fermava per recuperare forza.
“Infine, non è vero che tu non mi aiuti, David. Non fai
altro. Tu sei il mio buongiorno e la mia buonanotte, sei la mia risata, sei la
mia esasperazione, sei la mia parte bambina, sei la mia speranza e la mia paura,
sei il mio coraggio e la mia tenerezza. Sei tutto per me e non hai idea di come
io sia vuoto in realtà senza te al mio fianco. E non è che questo non mi basti,
questo è enorme, sono solo io che incasino tutto… se non ci fossi tu…se non ci
fossi stato tu io…”
“Io
sono arrivato dopo”lo interruppe Starsky. Hutch alzò lo sguardo confuso, non
cogliendo il significato di quell’affermazione. Starsky si spiegò meglio “quando
sono arrivato io, tu avevi già deciso di non fare sciocchezze, qualsiasi cosa tu
abbia pensato, hai deciso da solo cosa fare. Certo che ti stimo enormemente,
Blondie, ma la mia stima è ben riposta. Perché non sono le tue debolezze che
fanno di te una cattiva persona, sono le tue qualità che ti rendono splendido.
Io lo penserò sempre, non sei in grado di fare nulla che mi possa spingere a
cambiare idea su di te, se sbaglierai, sbaglieremo in due e cercheremo un
rimedio. Perché siamo una squadra. E se non mi chiamerai tu, verrò io a
cercarti, perché quando pensi di mostrare le tue debolezze e ti allontani, nello
stesso momento io ti sto cercando disperatamente perché ho bisogno di te” Hutch
si sentì debole, ma era certo che non fosse colpa della febbre. Guardando
Starsky negli occhi non gli vide nulla di nuovo e il calore familiare, che lo
invadeva a quello sguardo, tornò ad avvolgerlo.
Starsky
tese il braccio, porgendo la mano ad Hutch che la strinse piano. Starsky lo tirò
a sé lentamente e quando gli fu di fronte gli bastò sporgersi appena per
sfiorargli le labbra, ma non si accontentò di sfiorarle. Prese possesso del
labbro inferiore di Hutch con ardore trattenuto da quella parte ancora cosciente
di lui, che gli diceva che Hutch avrebbe potuto ritrarsi dalla sua impetuosità.
Le mani di Starsky scivolarono veloci lungo la schiena nuda del compagno, che
gemette al contatto della sua mano fresca sulla sua pelle calda, con la stessa
ansia febbrile con la quale si impadroniva della labbra del biondo. Quando Hutch
arretrò contro lo stipite della camera da letto, inclinò appena la testa,
schiudendo la gustosa barriera dei denti a quel visitatore sconosciuto e
conosciuto allo stesso tempo. Non si erano mai spinti in un vero bacio, a volte
giocando si erano regalati qualche contatto in più del normale, ma Hutch non
aveva mai sentito la mano di Starsky stringergli i capelli in quel modo
nell’assurda paura che lui si allontanasse e Starsky non aveva mai
pensato che la timidezza di Hutch potesse inebriarlo in quel modo con piccoli
giochi di lingua. Hutch gemette arcuandosi mentre la mano di Starsky si
aggrappava alle sue scapole senza fargli male, mentre la sua lingua dimenticava
di chiedere il permesso per esplorare tutto ciò che gli veniva offerto. Quando
ebbero bisogno di respirare, Starsky gli liberò la bocca scendendo lungo il
mento e risalendo per la guancia tenera, soffermandosi appena sotto l’orecchio e
scivolando verso la pelle morbida della gola. Hutch ansimò, sentendo mani,
labbra, respiri ovunque ed ebbe paura che le sue gambe potessero cedere. Forse
Starsky ebbe la stessa paura perché lo spinse appena, invitandolo ad entrare
nella stanza e riprendo a baciarlo una volta che furono seduti sul bordo del
letto. Unendo le labbra scacciavano angosce e paure, chiarendosi meglio che con
le parole, in una lotta che non richiedeva ne vinti ne vincitori ma solo la
completa fiducia dell’altro. Così Starsky non ebbe bisogno di dirgli che in
qualunque momento gli avrebbe fatto dimenticare le sue paure come solo lui
sapeva fare e Hutch gli confermò che era la sola a cui teneva.
Quando
Hutch sentì le labbra ansanti di Starsky lasciarlo e il peso della sua testa
sulla sua spalla, il battito del suo cuore e la pienezza di quanto successo gli
impedirono di preoccuparsi, non pensò a nulla, a nessun problema o conseguenza,
ascoltò solo i loro respiri galoppanti. Sospirò con un suono simile alla
felicità e con il sapore di Starsky ancora sulle labbra.
Rimasero stremati per qualche momento, mentre Hutch
stringeva Starsky tra le braccia sentì uno strano suono, accompagnato da una
certa agitazione da parte del compagno. Chinò un poco la testa per raggiungere
il suo orecchio.
“Non
fare finta di nulla, lo so che hai fame, sento il tuo stomaco indiscreto”
mormorò Hutch sorridendo.
“Non
volevo rovinare il momento…” balbettò Starsky arrossendo un po’ . Hutch rise.
Era un po’ che Starsky non sentiva la sua risata e gli fece bene.
“Vediamo cosa possiamo combinare con quello che hai in
frigo, non sono disposto ad ordinare una pizza” Starsky sorrise, poi però sembrò
pensarci un attimo ed afferrò Hutch per la mano, posandogli l’altra sulla
fronte.
“Hutch,
scotti ancora. Rimani a letto, ci penso io”
“Grazie, preferisco vivere” Starsky ci mise qualche secondo
a capire l’implicazione di quella affermazione.
“Cosa?! E io anche che mi comportavo in modo gentile! Ordinerò una pizza così succulenta che le tue papille gustative si ammutineranno pur di poterla assaggiare!” esclamò rianimandosi improvvisamente, uscendo dal limbo felice in cui era caduto.
“Non sei un grande
infermiere se mi offri della pizza, non è molto digeribile…” rise
Hutch.
“Sono grande in ogni cosa e sarò il miglior infermiere del globo, vedrai e dopo non potrai fare altro che scusarti!” Hutch sorrise e accettò le attenzioni animate del compagno che lo fece stendere e sparì in cucina.
era in
grado di prestargli attenzione. Hutch sonnecchiava sotto le coperte, il viso un
po’ arrossato, ma la febbre non era molto alta. Senza che Starsky chiedesse o
facesse nulla, Hutch gli si era accoccolato accanto, nascondendo il viso contro
il suo fianco. Starsky si sentiva come ammortizzato, aveva la vaga
consapevolezza dell’importante passo avanti che avevano fatto. Si sentiva
avvolto da un bel tepore, non sapeva se veniva dalle parole di Hutch che ancora
risuonavano nella sua testa o dal suo corpo, reso ancora più caldo dalla febbre.
Si sentiva felice.
Starsky
si chinò di lato verso Hutch e gli baciò i capelli e la fronte, avrebbe
continuato ma dalla sua posizione non riusciva ad andare più giù.
“Hutch?”
“mmh?”
Hutch mugugnò qualcosa con la voce ovattata dal sonno e dal corpo di
Starsky
“Perché
non resti qui?” Hutch si mosse un poco, lentamente perché gli girava un po’ la
testa. Alla domanda di Starsky sorrise.
“Dove
vuoi che vada?” rispose debolmente, passandogli il braccio attorno alla
vita.
“No.
Non intendo in questo momento” cercò di spiegarsi Starsky,
imbarazzato.
“Starsk…di cosa stai parlando?”
“Di
restare qui. In questa casa… a casa mia” seguì un momento di silenzio. Starsky
sentì Hutch muoversi e tentare di sollevarsi per poterlo guardare in faccia.
“Starsky, mi stai chiedendo di venire a vivere con te?” Hutch formulò la domanda con una strana sensazione di déjà-
vu sulle labbra, ma la
risposta che seguì non era presente nei suoi ricordi.
“…Si” Hutch lo guardò sorpreso e Starsky sentì
l’imbarazzo annegarlo accompagnato da un rossore decisamente evidente “cioè, è
solo un’idea, stavo solo pensando… così, per dire e poi non è che ci sia tanta
differenza comunque, stiamo già insieme quasi tutto il tempo quindi pensavo…”
Hutch lo guardò con tenerezza mentre lui continuava a gesticolare confusamente
giustificazioni sempre più strane e assurde. Forse era un’idea avventata o forse
no, forse era da stupidi e ingenui pensarci e forse lo erano, ma ad Hutch l’idea
di svegliarsi sempre accanto a Starsky, come era successo quella mattina, di
ascoltarlo dormire, di sentire il suo profumo, di subire le sue chiacchiere, di
assaporare il suo buongiorno, bastava per fargli credere che non fosse un’idea
poi così stupida.
Hutch lo zittì baciandolo e il loro secondo bacio fu un po’
diverso dal primo, non c’era la paura che fosse l’ultimo, c’era la dolce
aspettativa del prossimo, sapeva di promesse, di lacrime condivise, di un
presente da gustare e di un futuro da vivere, sapeva di strane paranoie e risate
gutturali, sapeva di sesso e di antibiotico. Si guardarono ansimando e si
accorsero che non era la prima volta che si guardavano da così vicino, Starsky
gli baciò ancora le labbra e poi disse
“Non credere che questo basti a farti scegliere il nome del nostro cane, Biondino”
Starsky era una persona spontanea e solare, amava
l’aria aperta, la birra molto fredda, le salse messicane, la voce della mamma,
gli sguardi indecenti delle ragazze, le coccole e le promesse mantenute. Starsky
amava Hutch. Hutch era dolce e introverso, amava le mura appena
ridipinte, amava prendersi cura di una pianta, amava la sensazione delle corde
della chitarra tra le dita, amava le cose fatte bene, i flaconcini con le
targhette chiare, amava farsi la doccia dopo l’attività fisica. Hutch amava
Starsky.
Starsky amava il
modo in cui Hutch si pettinava i capelli, amava il modo in cui lisciava le
pagine del giornale prima di leggerlo, amava la sua voce soprattutto quando
cantava, amava il suo sguardo scontroso, amava la pazienza che mostrava solo con
lui, amava mangiare pizza fredda e guacamole davanti ai suoi occhi, amava il suo
modo di rimproverarlo, amava non avere mai paura di stancarlo, amava il suo
mondo interiore di cui era tanto geloso, amava la sua insicurezza e le sue folli
manie, amava il fatto che solo lui lo conosceva come lo conosceva.
Hutch amava lo
sguardo irriverente di Starsky, amava il modo in cui alzava le sopracciglia,
amava il modo in cui gli prendeva il braccio, amava lo sguardo paterno con cui
guardava la Torino, amava il suo cercare la sua approvazione con sguardi che
dicevano “te l’avevo detto, eh? Sei fiero? Sei fiero?”, amava la sua risata
fresca, amava le sue mani appiccicose, amava la sua iperattività, amava il suo
divano a righe, amava la sua apparenza ingenua e infantile, amava il modo in cui
si faceva consolare solo da lui, amava sentirsi importante per lui.
E la cosa grandiosa era che non avevano bisogno di dirselo.
Fine