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Autore: Mariposa    15/05/2009    3 recensioni
Chiuse gli occhi e nella testa gli rimbombarono la sirena della Torino, le voci dei suoi colleghi, gli squilli del telefono e il rumore del fax e desiderò un biglietto di solo andata per qualche posto. Ma non poteva partire da se stesso
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Wecome To PageBreeze

Non possiedo i personaggi di Starsky e Hutch. Questa fiction non è intesa come infrangimento di nessun diritto di autore, ed è senza fine di lucro.

All'interno della storia una comparsa è presa dalla bellissima opera "Dogma" di Kazuya Minekura.

 

So che non ci sono molti scrittori di fanficiton italiani che si dedicano alla bellissima serie televisiva americana Starsky e Hutch (un dramma per chi come me fa fatica con l'inglese). Un vero peccato a mio parere, perchè l'amicizia, il rapporto tra i due protagonisti è tra i più forti che io abbia mai visto. Non riesco nemmeno ad immaginare una reciproca comprensione così profonda e vincolante, forse mi farebbe paura, sarà per questo che mi è venuta fuori una storia così drammatica? Ok non mi dilungo, buona lettura ^^  (P.s. non so usare l'html >.<) 

Un grazie speciale a chi sta condividendo il suo cuore con me e che soprattutto sta dando a me l'opportunità di farlo. Ti voglio bene.

Solo Andata

“Starsk, non riuscirai comunque a raggiungere la velocità della luce quindi perché non rallentare e smettere di provarci?” chiese Hutch con una nota di evidente esasperazione nella voce.

“E’ questo il tuo problema, Hutch, non sei ambizioso, non insegui abbastanza i tuoi sogni”

“Il tuo sogno è raggiungere la velocità della luce con un pomodoro a strisce o schiantarti nel modo più catastrofico possibile addosso alla prima cosa che ci tagli la strada?!”

“Smetti di buffoneggiare con quel tuo faccino imbronciato, guarda come ci guardano le ragazze!”

“Starsk, a questa velocità non riesco nemmeno a distinguere un maschio da una femmina ed è probabile che le suddette ragazze stiano semplicemente notando una saetta rossa che finirà con l’ammazzare qualcuno” la voce di Hutch cominciava a farsi seccata, Starsky lo guardò affettuosamente.

“Le ragazze amano l’alta velocità”

“Non quelle che frequento io” borbottò Hutch in risposta

“Mio zio Bernie, quello del chiosco, diceva che nessuna donna poteva resistergli quando sfrecciava col suo bolide!”

“Ma tuo zio Bernie, quello del chiosco, non è quello che è stato piantato dalla moglie per quell’Europeo?” Starsky sembrò solo vagamente soppesare quella annotazione, ma decise di ignorarla.

“E poi non farei salire nessuna ragazza non amante della velocità sulla mia Torino, sarebbe un insulto! E io non tollero che nessuno insulti la mia gattina, senti che fusa, Hutch!”

All’incrocio dopo sfiorarono pericolosamente un furgoncino color ruggine, in effetti, valutò Starsky mentalmente, non valeva la pena ammazzarsi solo per vedere l’espressione corrucciata di Hutch. In fondo poteva farlo imbronciare in mille altre maniere, aveva solo l’imbarazzo della scelta.

In realtà Starsky cercava più che altro di distrarre il partner, perché quella mattina gli occhi chiari di Hutch si erano dipinti di quella caratteristica vena malinconica di quando il loro proprietario cadeva in una delle sue mistiche spirali di paranoia. Il sorriso di Starsky si fece un po’ triste e inclinò un po’ la testa per poggiarla sul braccio di Hutch, allungato sullo schienale del partner. Hutch sbuffò ma gli fece comunque qualche grattino affettuoso tra i riccioli.

“Non sono un cane!” protestò Starsky affatto disturbato da quel contatto delizioso

“Infatti… i cani non parlano” Starsky gli morse la manica del giubbotto

“Ma mordono!”

“Starsk… guarda la strada” lo rimproverò debolmente. Starsky sbuffò, non gli riusciva di distrarlo.

“Hutch?”

“Mmh?”

“Vuoi parlarne?”

“Di cosa?”

“Huuutch…” sbuffò Starsky, lanciandogli rapide occhiate. Hutch sospirò.

“Scusa Starsky, hai ragione… non ho voglia di parlarne, scusami, mi passerà” Starsky rimase in silenzio per quasi due secondi.

“Ma è per quella cosa… no perché quella tipa, sai la cosa di cui non…”

“No, non si tratta della tipa e della cosa che non dobbiamo eccetera” Starsky lo guardò di sottecchi

“Sei pallido… un burrito sarebbe l’ideale! Ho letto che i burritos…”

“Starsk!” gemette Hutch esasperato. Non voleva essere brusco, in particolare con Starsky che si stava solo preoccupando per lui e non poteva nemmeno pretendere che stesse zitto e immobile, la sola cosa che probabilmente desiderava.

“Zebra 3, Zebra 3 rispondete!” Hutch afferrò controvoglia il ricevitore

“Qui Zebra 3, siamo in ascolto”

“Abbiamo un 415 al 119 della dodicesima strada, nel quartiere a luci rosse”

“Ricevuto, ci dirigiamo li” rispose Hutch sistemando la sirena sulla Torino. La sirena gli rimbombava nelle orecchie, accentuando il mal di testa delle molti notti insonni, il sole batteva sul metallo rosso della Torino e gli feriva gli occhi. Hutch non aveva voglia di cominciare un altro turno, non aveva voglia di tornare a casa, non aveva voglia e basta. Era una di quelle giornate in cui avrebbe voluto sedersi in un angolo ed entrare in stand-bay e invece la testa gli si affollava di pensieri, amplificando tutto il resto e lo rendeva insopportabile e stanco, incredibilmente stanco.

Il cadavere venne identificato come Danny Mayers, un giovane spacciatore da quattro soldi che aveva la brutta abitudine di fare affari con gente più grossa di lui. Poco più di vent’anni e una morte orribile nel retro di un locale fatiscente nel quartiere del porno.

“Gli hanno scaricato addosso l’intera pistola” disse loro un poliziotto li accanto che li osservava mentre sollevavano il lenzuolo che copriva il corpo.

“Ci sono testimoni?” chiese Starsky

“Una. La donna seduta al bancone nel bar”

“Vado io” disse Hutch, prima che qualcuno potesse dire o fare qualsiasi cosa.

Il locale puzzava di fumo e di chiuso, aveva un colore scuro e opprimente, come la sua clientela fissa. Come il poliziotto gli aveva detto, al bancone sedeva di spalle una donna controllata a vista da alcuni colleghi. Aveva una folta chioma di capelli scuri, da come era vestita e dall’aria che le aleggiava attorno, Hutch capì subito che si trattava di una prostituta.

“Posso sedermi?” le chiese gentilmente indicando il sedile al suo fianco. La donna si voltò a guardarlo, la pelle rovinata e le profonde occhiaie non erano riuscite ad eliminare del tutto il vago ricordo della bellezza che doveva essere stata. Se dal volto delle persone si intuisce la loro storia, il volto della donna sapeva di miseria e degrado e di ombre di sogni inespressi.

“Accomodati, bellezza” gli rispose lei affascinata, il suo sorriso scoprì appena l’ombra nera dei denti macchiati dalla droga. Hutch le mostrò il distintivo e si sedette.

“Vorrei farti qualche domanda, posso offrirti qualcosa?”

“Al whisky preferisco il brandy, ecco perché mi chiamano così, Brandy” disse lei, facendo segno al barista. C’era un che osceno nel suo scoprire senza riserve i denti neri col suo sorriso provocatorio, ma i suoi occhi scuri portavano con loro una strana saggezza che conquistò Hutch.

“Allora, dolcezza, che posso fare per te? Spero tu sia qui per arrestarmi” sembrò sperarlo davvero.

“Conoscevi Danny?” Brandy prese il bicchiere dal barista e se lo rigirò tra le dita

“Si, lo conoscevo, quand’era ragazzino abitava nel mio stesso quartiere… poi ci siamo rivisti qui”

“Hai visto anche cosa è successo?” la donna lo guardò negli occhi, poi riprese a dedicarsi al liquido tentatore

“Povero Danny, non ha mai imparato con chi giocare” bevve un sorso “ha fatto troppo lo spiritoso con i tirapiedi di Goldblum, la banda che gestisce lo spaccio in fondo alla strada. Ma non riuscirete a prenderli, nessuno sarà disposto a collaborare e loro sono furbi”

“La cosa a te non crea problemi?” le chiese preoccupato, era raro che qualcuno denunciasse così candidamente il crimine organizzato. Brandy sorrise.

“Stai attento biondino, non c’è spazio per i buoni sentimenti qui e i tuoi occhi possono essere fraintesi dalla gente di questo ambiente. Chi non è più abituato a simili sguardi, può sentirsi ferito…” Hutch le sorrise, alzandosi dallo sgabello.

“Grazie, Brandy, ci hai dato una grande mano. Questo è il nostro numero, se tu avessi bisogno di aiuto” Hutch frugò nelle tasche dei suoi jeans chiari e le porse un paio di banconote, lei le prese e lui fece per allontanarsi.

“Hai mai visto il paradiso e l’inferno?” Hutch si voltò guardandola interrogativo “prima ti preoccupavi per me, nessuno lo fa, nemmeno io. L’unico momento in cui capisco che sono viva è quando il mio corpo è preda di dolori lancinanti e la mia fame si sveglia” Hutch rabbrividì perché qualcosa nelle parole della donna risvegliarono in lui una sensazione conosciuta. Sapeva di cosa lei stesse parlando. “Hai mai visto il paradiso e l’inferno? A me occorrono tre biglietti andata e ritorno al giorno…” Hutch rimase fermo a guardarla e provò a immaginare il tempo in cui anche lei si era sentita amata. Incontrava spesso prostitute e tossiche e dopo ogni incontro portava con se qualcosa di loro, la cadenza della voce, una battuta spiritosa, le unghie smaltate. Di Brandy avrebbe conservato l’odore dolce del liquore e gli occhi da viaggiatrice stanca. Forse c’era ancora una famiglia che l’aspettava o forse poteva esserci un futuro al di fuori da quel quartiere.

“Posso fare qualcosa per te?” Brandy sorrise ancora e Hutch si chiese se per qualcuno il destino fosse già segnato o se per tutti ci fosse una scelta. Ma che scelta poteva essere quella vita?

“Perché scegli tutto questo? Potrebbe esserci qualcosa di meglio fuori…”

“Potrei dire che il mondo ce l’ha con me, che mio padre mi picchiava e mia madre era una puttana. Ma non è vero, io sono marcia dentro. Al mondo c’è anche chi è così e io non ricordo più come ci sono entrata” le sue parole non sapevano affatto di verità “oggi mi buco per smettere di pensare, perché con la vita che faccio, credimi, pensare è l’unica cosa che non devi fare e nulla annienta le paranoie come la neve candida”

 

“Vuoi che lo faccia io il rapporto?” chiese per la terza volta Starsky. Ancora una volta Hutch scosse la testa. Era almeno un’ora che fissava il foglio bianco, consapevole che gli altri non potevano sapere che non stava solo fissando il vuoto, stava fissando il vuoto desiderando che un’invisibile manopola del volume venisse girata a zero. Se non si teneva impegnato con qualcosa sentiva di impazzire, ma il mal di testa non gli permetteva di fare nulla per bene ed aveva sonno e se non fosse stato per Starsky che lo sopportava tutto il giorno, avrebbe finito con l’aggredire qualcuno solo perché respirava troppo forte.

Starsky sapeva che Hutch avrebbe preferito che lui non parlasse e stava davvero impegnandosi per tentare di frenare la lingua, ma la sensazione di impotenza e lo sforzo di tenere chiusa la bocca stavano creando uno strano effetto sul suo corpo, il risultato era che non riusciva a stare fermo per più di qualche secondo. Probabilmente dava l’impressione di avere le pulci e probabilmente il suo agitarsi infastidiva Hutch alla stregua del suo solito fiume di parole.

Starsky incrociò le braccia sullo schienale della sedia, posizionata a rovescio, poggiandoci poi il mento. Gli piaceva trovare i modi più comodi per osservare Hutch indisturbato. Sapeva che qualcosa nel partner non andava, delle leggere occhiaie si facevano via via più evidenti col passare dei giorni e l’intolleranza di Hutch andava raggiungendo livelli straordinari. Quando Hutch si sentiva così si chiudeva dietro un mutismo potente perché sapeva di diventare intrattabile e non voleva pesare su Starsky col suo malumore. Starsky conosceva i suoi attacchi di broncio che venivano amplificati dalla naturale predisposizione di Hutch a rimuginare.

Tuttavia in quei giorni Starsky aveva notato qualcosa di più rispetto al solito, le spalle di Hutch sembravano più stanche e i suoi occhi nascondevano qualcosa in più della tristezza.

Dobey entrò nella stanza e scostò la sedia accanto a quella di Starsky, parlò con quel suo tono brusco e sbrigativo, tipico di quando doveva dare brutte notizie e voleva far finta che non gliene importasse, disse che era stato trovato un altro cadavere, una prostituta sui trent’anni di nome Brandy. Hutch non ascoltò altro e seppe all’istante che quella sera anche la doccia sarebbe stato un tormento e che non poteva aver voglia di dormire e dimenticare tutto, perché a letto non avrebbe dimenticato un bel niente. Ripensò agli occhi neri di Brandy e al suo modo di parlare strano, come fosse dentro una poesia di Baudelaire. Chiuse gli occhi e nella testa gli rimbombarono la sirena della Torino, le voci dei suoi colleghi, gli squilli del telefono e il rumore del fax e desiderò un biglietto solo andata per qualche posto. Ma non poteva partire da se stesso.

 

“Di qua non è passato?” chiese Starsky guardandolo negli occhi.

“No, amico, te l’ ho già detto. Tua moglie ti ha dato buca?” rise Huggy pulendo un bicchiere con uno straccio dubbio.

“Non avevamo fissato un vero appuntamento” borbottò Starsky, sorvolando sui termini di Huggy “però di solito veniamo qui, in più domani non lavoriamo”

“Sono commosso da tanta fedeltà, siete perfino abitudinari come una vecchia coppia di sposi!” considerò Huggy

“Oggi Hutch stava poco bene” disse Starsky cercando di farlo sembrare un commento di poco conto. Huggy sorrise.

“Povero Hutchie-boy, allora questo cambia le cose!” Huggy vide che Starsky non rideva “dai, Starsky, capitano a tutti brutte giornate. Non basta il tuo partner a fare il catastrofico?”

“La sua macchina non era a casa” Huggy sospirò.

“Va bene, dove credi possa essere?”

“E’ evidente che non lo so! Pensavo di trovarlo qui…” in un frangente normale Starsky stesso avrebbe pensato di stare esagerando, ma il modo in cui Hutch aveva lasciato l’ufficio ore prima l’aveva turbato e sentiva una strana sensazione addosso, come una seconda pelle, la stessa sensazione che sentiva quando qualcosa che non andava. Qualcosa che riguardava Hutch.

“Hug, come hai visto Hutch in questi giorni?” Huggy sembrò rifletterci un poco.

“Direi in fase Hutch-paranoia… e a giudicare dal caffè che ha preso ieri, fase Hutch-paranoia-insonnia” Starsky rimase in silenzio, Huggy gli diede un buffetto sul braccio “ma non è una cosa nuova no? Ogni tanto ha questi piccoli momenti…no?”

“Non so cosa fare…” confessò Starsky

“Non credo tu debba fare niente, passerà da solo… e poi quando Hutch fa così non sopporta la compagnia d nessuno, tranne che la tua. Quindi direi che qualsiasi cosa fai, va bene…” Huggy rise “quando sei tu ad avere questi momenti invece, sei ancora più insopportabile. Con Hutch almeno sai che devi tenerti lontano, tu invece ti appiccichi a tutti e diventi irritante e capriccioso. Credo che Hutch coltivi pazienza tutto l’anno per starti dietro…” Starsky sorrise.

 

Hutch sapeva che Starsky lo aspettava da Huggy, ma non aveva la forza di andarci. Si era fermato in macchina, in una via sconosciuta, a pensare se andare o meno al The Pits. Sarebbe rimasto tutta la sera in silenzio a far impazzire Starsky e lui avrebbe sopportato sempre meno i suoi tentativi di distrarlo. Poteva fingere di stare bene, ma il partner se ne sarebbe comunque accorto e la cosa l’avrebbe fatto agitare ancora di più. Si chiese se passare la notte in macchina, parcheggiato storto in quella stradina potesse valere come opzione. Forse se avesse avuto un motivo per stare così si sarebbe sentito meno stupido. Forse se avesse portato Brandy in centrale per qualche accertamento la donna sarebbe ancora viva. Forse però sarebbe morta il giorno dopo di overdose. Hutch pensò a Brandy e alle decine di ragazze come lei che incontrava, Starsky non riusciva ad essere molto magnanimo con loro, diceva che il male che quelle ragazze causavano alle loro famiglie sarebbe dovuto bastare per farle rinsavire. David era una persona generosa, ma aveva un senso stretto della famiglia. Hutch sapeva che per quelle ragazze la famiglia era l’ultimo dei loro pensieri e non perché fossero cattive o perché dovessero avere obbligatoriamente genitori e parenti disastrati. Semplicemente perché tirare avanti era il loro unico pensiero. La droga era il loro unico pensiero. Per un drogato non serviva ne morale, ne dignità, perché nessuno si aspetta qualcosa da un tossico, se non al massimo che tenti di derubarti. Nessuno nutriva aspettative nei loro confronti.

Hutch pensò che se fosse stato uno di loro a nessuno sarebbe importato di vederlo solo da qualche parte a fingere di non esistere. In realtà se fosse stato uno di loro forse non ne avrebbe nemmeno più sentito il bisogno. Provò ad immaginare di non doversi per forza alzare ogni mattina, di non dover pensare a cosa dire e a cosa fare, non dover curare il fisico, mantenere la calma con le persone, trattenersi contro i delinquenti, indignarsi per le ingiustizie, preoccuparsi di dare una buona impressione e pensare, pensare, pensare. Cosa c’era di sbagliato in lui? Se solo avesse potuto dormire.

“oggi mi buco per smettere di pensare, perché con la vita che faccio, credimi, pensare è l’unica cosa che non devi fare e nulla annienta le paranoie come la neve candida”

Voleva smettere di essere Kenneth Hutchinson, solo per un po’ o per sempre, non gli importava delle conseguenze perché farsene un problema era una cosa da Ken e lui non doveva esserlo più. Mise in moto la macchina e non andò al The Pits, lui non era Ken, si diresse dove era stato quella mattina stessa, dove aveva visto per l’ultima volta Brandy la prostituta. Non ordinò una birra, ma nemmeno un liquore, pensò solo di chiedere al barista dove poteva trovare il modo per smettere di essere Kenneth Hutchinson. Cosa avrebbero detto i colleghi? Cosa avrebbe detto Dobey, il suo corpulento capo dalle brusche movenza paterne? E il piccolo Kiko? Ma lui avrebbe smesso di essere Ken, avrebbe smesso di tenere a certe cose. Non gli importava, lui non era Ken. Ma non pensare alle cose non significava dimenticarle e non nominandole le si rendeva solo più concrete e lui non volle ammettere di star evitando di pensare a tutti i costi al sorriso di bambino e al cespuglio di capelli scuri appartenenti al partner di Kenneth Hutchinson.

Hutch stava in un vicolo, nel retro del locale. Ci aveva messo ore per decidersi a parlare col barista. Gli tremavano le mani e sentiva un profondo calore provenire dalla tasca dei pantaloni, dove aveva riposto come scottassero tutti gli utensili che gli aveva dato il losco proprietario del bar. Di solito chi sta per commettere una delle sciocchezze più grandi della sua vita non dovrebbe sentirsi gasato e totalmente libero? Perché invece la paura gli stava impedendo di respirare?

Sapeva cosa doveva fare, il che era strano perché di solito aveva riserve a prendere anche delle aspirine quindi presupponeva di non essere così informato di certe cose, ma in fin dei conti lui con la droga ci conviveva tutti i giorni.

Hutch ricordava cosa voleva dire. Non l’aveva mai detto a nessuno, perché Starsky si irrigidiva ogni volta che qualcuno accennava ad un avvenimento anche solo vagamente simile alla storia di Forest, ma lui ricordava esattamente la sensazione dolorosa dell’ago nella pelle e del veleno che in pochi istanti gli ghiacciava le vene. Ma ricordava anche la sensazione successiva.

Se avesse pensato alle conseguenze, si sarebbe anche ricordato dei giorni dopo, del desiderio disperato di averne ancora, del dolore accecante e folle. Faceva solo finta di non ricordarselo, perché quello stesso dolore lo associava a qualcos’altro, alle mani calde di Starsky che lo stringevano forte e alla sua voce calda che lo supplicava di restare, ancorandolo alla realtà. Ma Starsky non l’avrebbe accolto quella volta perché lui avrebbe smesso di essere Ken Hutchinson e David non avrebbe più visto in lui il suo Hutch. E non l’avrebbe più guardato e non l’avrebbe più preso in giro e non gli avrebbe più chiesto attenzioni e non sarebbe più stato geloso di lui.

Si arrotolò sul gomito la manica della camicia, osservandosi il profilo del braccio nella penombra. Se fosse stato più forte avrebbe potuto andare avanti, avrebbe potuto sopportare in silenzio e continuare a sorridere. Si sedette a terra, nell’asfalto lurido e si infilò una mano in tasca. Cosa avrebbe potuto dire a Starsky? Che era stanco? Come poteva dirgli che a volte era così stufo di essere lui da non voler svegliarsi? Aveva le mani fredde e poco sensibili, le cose continuavano a cadergli. Come poteva dirgli che stava bene solo quando il suo sguardo orgoglioso si posava su di lui? Come poteva dirgli che quando si sentiva così amato il terrore di non meritarselo lo opprimeva? Come poteva lasciare che Starsky si legasse ad una persona così debole da decidere di uccidere il suo partner pur di non combattere? Prese la siringa e strinse gli occhi, mordendosi le labbra. E disse addio ai bisticci, alle risate, alle canzoni, agli appostamenti, al cibo messicano, al jogging, alla Torino e al suo sorriso.

 

“Si è qui, te lo passo?” Huggy fece un cenno a Starsky “è per te, credo sia uno sbirro” Starsky si allungò perplesso per prendere la cornetta. Huggy vide la sua fronte corrugarsi.

“No, non credo. Anzi sono certo di no” disse Starsky, sembrava vagamente allarmato “no, avverto io Dobey, se ce ne sarà bisogno. Grazie” Starsky riagganciò e guardò Huggy “era un nostro collega, dice di aver visto la macchina di Hutch nel quartiere del porno e siccome deve pattugliare la zona voleva sapere se noi stessimo facendo indagini per conto nostro”

“E le state facendo?”

“Io no di sicuro, sono qui!” esclamò Starsky

“Ok, chiami Dobey?” chiese Huggy porgendogli il telefono. Starsky lo guardò dubbioso, Huggy poté quasi scorgere la miriade di pensieri che si stavano affollando nella sua testa riccia.

“Potrebbe essere nei guai” disse piano Starsky

“O potrebbe star creando guai, capito, niente Dobey” Huggy disse qualcosa alla sua cameriera in un orecchio.

“Hug, cosa può esserci andato a fare Hutch in quel quartiere?” Huggy avvertiva la paura di Starsky quasi come fosse sua, probabilmente per questo si trattenne da una succulente battuta.

“Dai, sbrighiamoci” disse solo, prendendo la giacca. Starsky gli sorrise debolmente con riconoscenza.

Starsky e Huggy stavano girando tutti i bar del quartiere, erano appena usciti dal quinto senza niente in mano quando Starsky cominciò a mandare segnali di cedimento.

“Passi il malumore, passi l’insonnia e la stanchezza, passi la giornata di merda, ma perché non ha telefonato?!” Huggy rimase in silenzio, quello che non voleva dire è che un brutto presentimento andava amplificandosi locale dopo locale.

“Abbiamo tutti diritto a qualche stupidaggine” disse piano. Starsky lo incenerì con lo sguardo

“Non fare il maestrino adesso! Lo so perfettamente anche io, ma non serviva sparire dalla circolazione per farmi venire un infarto”

“Forse non l’ha fatto appositamente per far venire un infarto a te” rispose Huggy irritato dal tono di Starsky e quest’ultimo stava per aggiungere rabbiosamente qualcosa quando un’insegna attirò la sua attenzione.

“Huggy! E’ qui! E’ il locale dove siamo stati oggi, per un omicidio. Sono certo che è qui!” Starsky entrò frettolosamente, quasi inciampando nelle gambe di una sedia. Huggy lo seguì più lentamente.

Il barista sembrava il personaggio di un fumetto poco fantasioso, l’archetipo del personaggio losco, grosso, con un’espressione malevola, sporco e perfino con qualche cicatrice.

“Sto cercando un uomo sulla trentina, biondo, alto. Credo avesse una giacca marrone…” l’uomo non fece nemmeno finta di ascoltare. A Starsky cominciavano a saltare i nervi, era stanco e preoccupato, il che lo portava a vedere la situazione peggiore di come in realtà fosse. Voleva trovare Hutch e godersi le sue scuse per averlo fatto preoccupare così.

“Ho fatto una domanda…” disse Starsky con tono pericoloso, l’uomo non cambiò atteggiamento. Huggy gemette. Starsky tirò fuori il distintivo e lo piazzò sotto il naso nel barista “se non ricevo un’immediata risposta chiara e precisa, faccio chiudere questa bettola all’istante” l’uomo lo valutò con sufficienza

“E’ stato qui, era seduto su questo sgabello. Ma io non voglio guai”rispose di malavoglia. Starsky ignorò l’ultima affermazione

“Se ne è andato via da molto?” chiese con urgenza

“No e comunque non credo sia andato molto lontano” Starsky lo fissò immobile, Huggy sembrò gelare.

“Cosa vuol dire?” la falsa calma di Starsky non imbrogliava nessuno

“Quello che ho detto” rispose il barista. A Starsky prudevano le mani, l’uomo se ne accorse perché sogghignò, uscendo dalla protezione del bancone. Era almeno il doppio di Starsky e Huggy messi assieme.

“Lo ripeto ancora una volta…” la voce di Starsky si faceva pericolosa, Huggy gli mise una mano sulla spalla per cercare di calmarlo ma lui la scrollò via “lo ripeto, cosa vuol dire?”

“Non voglio guai” ripeté l’uomo scandendo le parole, come se Starsky fosse un bambino un po’ lento.

“Non voglio niente da te, voglio solo trovare il mio partner!” gridò. L’uomo sorrise.

“E se te lo dico, cosa ci guadagno? Potrebbe sempre scapparmi una telefonata in centrale e potrei lasciarmi sfuggire che uno dei loro agenti nasconde di essere un drogato…” Starsky non si diede nemmeno il tempo di pensare

“Ripetilo” disse con rabbia trattenuta a stento. L’uomo mascherò bene la preoccupazione. Starsky avanzò minacciosamente.

“Starsky…” Huggy lo afferrò per la spalla, con forza sufficiente perché l’amico non potesse ignorarlo. Starsky lo guardò rissoso.

“Hai sentito cosa sta dicendo?” chiese sconvolto. L’espressione di Huggy lo gelò.

“Non gli starai credendo?” domandò incredulo, come se esplicitando la domanda potesse risultare assurda anche alle orecchie di Huggy. Stiamo scherzando?!

“… Starsky…” Huggy lo guardava negli occhi, ma Starsky sfuggiva a quelle gemme scure. Stiamo scherzando?! Huggy gli prese il braccio, Starsky si liberò con un ghigno feroce. Stiamo scherzando?!

Ci sono cose della vita che vanno accettate, ci sono cose delle persone che vanno accettate, anche quelle inaccettabili, anche quelle cose inaccettabili che riguardano le persone più importanti della propria vita. Starsky lo guardò negli occhi, non lo poteva accettare. Stiamo scherzando?! Le parole dell’uomo continuavano ad echeggiare nelle sue orecchie all’infinito, a volume sempre più forte, tanto che fu costretto ad urlare per sovrastarle.

“Come osi fare insinuazioni simili?! Dov’è il mio partner?!” l’uomo sbuffò infastidito, Starsky si slanciò contro di lui afferrandolo per il bavero della camicia “te lo chiedo ancora una volta…” sentenziò con rabbia “dov’è il mio partner?!” stiamo scherzando?!

Huggy si sentì costretto ad intervenire, pose le mani su quelle dell’amico, intimandogli con uno sguardo severo di calmarsi.

“Ti ho già detto cosa stava facendo qui il tuo partner, se non vuoi sentirlo non sono affari miei” decretò l’uomo semplicemente. Huggy chiuse gli occhi, odiava ammetterlo ma la pensava come quell’uomo odioso ed ebbe paura, paura per Starsky che doveva accettare qualcosa più grande di lui per amore del suo amico e paura per Hutch. Semplicemente paura per Hutch.

Nessuno dei presenti vide il pugno partire, Huggy sentì solo il corpo del barista scivolargli dalle mani e l’attimo dopo il rumore di un corpo che si sfracella contro un tavolo.

Il barista era un omone massiccio, si rialzò quasi subito pulendosi il sangue con la manica, era arrabbiato e non nascose affatto il ghigno di cattiva soddisfazione

“Se sei fortunato lo troverai spalmato nel vicolo qua dietro, è roba buona…” Huggy per un attimo pensò che Starsky avrebbe ucciso quell’uomo, lo pensò anche il barista stesso, probabilmente lo pensò anche Starsky. Ma l’urgenza ebbe il sopravvento.

Sembrò che nel breve percorso dall’ingresso del pub al vicolo che lo costeggiava, i piedi di Starsky non toccassero il terreno. L’urgenza gli fece dimenticare il corretto processo di respirazione, tanto che per una ventina di metri quasi rischiò di svenire boccheggiando. Ma quando raggiunse la buia stradina, rappresentante di tutto tranne che di pulizia e decoro, rischiò di soffocare davvero alla vista del suo partner abbandonato contro una parete, a terra. Scorse appena un bagliore di capelli biondi, l’unica cosa distinguibile alla luce di un lampione che illuminava malamente la via principale. Nessuno stava scherzando.

Pensò a tante cose, tutte insieme, tutte vivide e confuse allo stesso tempo mentre correva a perdifiato verso il suo partner. Pensava a quanto avrebbe voluto ammazzare quel barista, pensava ad Huggy che aveva capito prima di lui, pensò ad Hutch e a tutte le enormità di cose che si agitavano attorno a lui.

Cosa doveva fare? C’era qualcosa di sensato che potesse fare? Si, per prima cosa accertarsi delle sue condizioni fisiche. Come poteva toccarlo senza ferirlo? Come poteva toccarlo senza ferirsi più di quanto quella situazione lo feriva? Era furioso, ma non riusciva ad avercela completamente con Hutch perché sapeva che Hutch stesso non se lo sarebbe mai perdonato. Non si sarebbe mai perdonato un simile crollo, una simile debolezza, non si sarebbe mai perdonato di essersi fatto vedere in quelle condizioni da Starsky, non si sarebbe mai perdonato di averlo deluso. E Starsky non si sarebbe mai perdonato di avergli permesso di farsi tanto male. Come avrebbero potuto affrontare la cosa?

Hutch sollevò il capo quando Starsky gli fu davanti, ansante. Quando i loro occhi si toccarono Starsky gelò, erano gonfi, rossi e vuoti e pieni di dolore e Starsky li amava comunque. Si inginocchiò a terra di scatto, sentiva vagamente le sensazioni corporee aveva paura che il suo corpo si stesse sgretolando, con ansia e urgenza afferrò il braccio chiaro di Hutch sollevandogli la manica della camicia fino al gomito. Niente. Prese l’altro braccio, strattonandolo quasi con violenza e ripetendo l’operazione. Niente. Il sollievo in Starsky si fece sentire, nonostante tutto.

Gli occhi di Starsky si mossero per cercare quelli di Hutch, era sempre stato bravo a leggerli, ma forse in quel momento avrebbe voluto non fosse così. Avrebbe voluto non essere in grado di vederci la vergogna per essersi fatto sorprendere in questo stato, il senso di colpa per la preoccupazione che aveva causato, il dolore e la paura e la consapevolezza di aver cercato di autodistruggersi ma di non aver avuto il coraggio di fare nemmeno quello, la voglia di essere abbracciato e il terrore di essere rifiutato.

Starsky lo abbracciò con tutta la forza che riuscì a recuperare, gli occhi pieni di lacrime e la bocca piena di maledizioni. Si lasciò andare seduto a terra con il suo Hutch stretto al petto, le mani ovunque tra i suoi capelli biondi e la sua schiena sudata. Se Hutch avesse avuto un minimo di controllo su di se, forse avrebbe trattenuto il pianto disperato cui cedette, ma forse era esattamente quello di cui aveva bisogno. Quello di cui aveva bisogno era Starsky e il calore delle sue braccia che nonostante tutto l’accettavano ancora una volta.

Se Hutch non avesse avuto così bisogno di lui, forse Starsky sarebbe svenuto dal sollievo di sapere che il suo compagno non aveva ceduto alla distruzione della droga.

Il moro avvertì vagamente il respiro affannato di Huggy, alle sue spalle.

“Vai a prendere la macchina Hug, lo portiamo via da qui” disse piano, la voce roca. Lo sguardo di Starsky bastò ad Huggy per capire che quello che temeva non si era verificato.

Huggy ci mise mezzo istante a tornare con la macchina, Starsky sperò non avesse investito nessuno. Hutch sembrava caduto in una specie di trance dovuta allo sfinimento, si lasciò issare in macchina come un peso morto.

“Dove andiamo?” chiese Huggy

“A casa mia” rispose piano Starsky, sistemandosi accanto ad Hutch. Sembrava che nessuno osasse produrre suoni più alti di un sussurro.

Huggy e Starsky riuscirono a trascinare Hutch sul divano dell’appartamento senza grossi traumi, la porta d’ingresso era ancora spalancata ed entrava l’aria fredda della notte.

“Dimmi cosa vuoi che faccia, se vuoi che resto, resterò. Se vuoi che vada, me ne andrò subito” disse Huggy rompendo il silenzio assordante. Il respiro di Starsky era affannoso, non sapeva cosa fare, ma sapeva che doveva essere una cosa tra lui e il partner. Voleva essere lui ad occuparsene.

“Non preoccuparti, vai pure. Ce la caviamo. Ti chiamo domani, eh?” Huggy lo guardò. Lui e Starsky avevano sempre condiviso un codice particolare che probabilmente nasceva da memorie passate condivise.

“Con tutto quello che vi frulla nella testa ci potremmo riempire l’America. Ci sono cose che non vanno capite, vanno prese e basta. Prendilo e basta perché tu puoi dargli quello che lui non si concede” Huggy chiuse alle sue spalle la porta dell’appartamento di Starsky, si accese una sigaretta ed entrò nella macchina. E pianse.

 

 

Starsky aveva sempre ammirato la capacità di Hutch di non giudicare le persone, era sempre stato capace di accettare le sfumature, accettare quello che gli altri offrivano nel bene e nel male. Hutch non vedeva una prostituta eroinomane, vedeva una donna in difficoltà. Non giustificava i comportamenti altrui, ma conosceva la natura umana e l’accettava.

Starsky aveva sempre avuto difficoltà a farlo, per questo lasciava andare Hutch avanti. A volte Starsky pensava che una ragazza che decideva di buttare via tutto per l’eroina se le voleva certe cose, lui offriva il suo aiuto anche quando pensava che non fosse meritato, ma non era in grado di essere magnanimo con chi più volte lo rifiutava e continuava a trovarsi nei guai. Per Hutch tutti avevano diritto ad un’opportunità in più, quelle che poteva offrire le dava senza chiedere nulla. A tutti, ma non a se stesso. Aveva la straordinaria capacità di non perdonarsi nulla. Starsky capiva l’intransigenza con se stessi, lui stesso si incolpava di tante cose, ma a volte Hutch sembrava essere alla disperata ricerca di qualcosa per potersi biasimare.

Starsky era una persona istintiva, seguiva i suoi impulsi, i suoi desideri, spesso si frenava sempre un attimo troppo tardi. Però era per questo suo istinto che spiazzava gli altri, che capiva a pelle di cosa qualcuno aveva bisogno. Era per il suo istinto che riusciva a toccare Hutch.

Ma toccare Hutch non era facile e a volte il suo istinto si inibiva, per paura di quella parola in più, di quel gesto in più che potesse rompere qualcosa nel suo partner. Quello era il caso.

Hutch, il suo Hutch rannicchiato sul suo divano, con la testa nascosta contro lo schienale. Non era vero che il suo istinto con Hutch si inibiva. Si accucciò davanti a lui e gli scostò i capelli sudati dal viso, con un gesto dolce della mano. Hutch sussultò al contatto.

“Cosa devo fare con te?” chiese ad Hutch e a se stesso, con una voce dolce e amara. Hutch non disse nulla o anche se la disse, Starsky non poté sentirla perché il viso il del partner era ancora schiacciato contro il suo divano.

Starsky si sentiva arrabbiato e impotente, perché Hutch non aveva chiesto il suo aiuto e perché ora lui non sapeva come darglielo. Avrebbe voluto accasciarsi a terra e raggomitolarsi come lui. Ma non l’avrebbe fatto, si sarebbe preso cura di quello stupido babbeo che amava tanto, racimolando tutta la forza che aveva, abbastanza forza per entrambi.

“Hutch, alzati. Hai bisogno di una doccia” aveva bisogno di essere duro per superare quel momento iniziale, per non perdere la verve. Nonostante il suo tono quasi perentorio, Hutch non si mosse. Starsky non si lasciò scoraggiare, lo afferrò per un braccio ma il partner fece resistenza.

“Hutch, rischi di ammalarti. Hai preso freddo e sei sudato e sporco. Ti aiuto io, tirati su” lo afferrò per le spalle e tentò di scollarlo dal divano, Hutch non aveva abbastanza forza per opporsi. Starsky tentò di ignorare lo sguardo dell’amico. Se lo caricò sulle spalle, facendosi passare un suo braccio attorno al collo e faticosamente raggiunse il bagno. Aprì il getto dell’acqua e fece scivolare Hutch a terra, schiena contro la vasca. Cominciò a sbottonargli la camicia, sotto lo sguardo del compagno. I suoi occhi gli chiedevano scusa, ancora scusa, ancora scusa, all’infinito.

“Starai meglio dopo un bagno, dici sempre che la doccia ti resuscita!” gli sfilò un braccio e poi anche l’altro, mentre l’acqua scorreva perentoria nella vasca alle loro spalle. Gli tolse le scarpe lanciandosele alle spalle e gli sfilò i calzini. Lo guardò un momento negli occhi prima di svestirlo completamente. Se avessero avuta un’intimità minore, quello avrebbe potuto rappresentare un problema, ma se c’era una cosa che di certo non mancava al loro rapporto, quella era l’intimità.

L’acqua calda era confortante e, per qualche momento, Hutch smise di tremare. Starsky aveva preso una spugna e la passava dolcemente sulle braccia del partner, sui suoi capelli sottili, sul collo, sul viso. Hutch sembrava essersi ripreso, Starsky se ne accorse perché fuggiva deliberatamente dal suo sguardo. Non seppe cosa dirgli quindi rimase in silenzio e chiuse il rubinetto. Prese un grosso asciugamano e glielo avvolse attorno alle spalle. Quando Starsky tentò di tirarlo in piedi, per farlo uscire dalla vasca, sentì che il partner collaborava, ma non sapeva quanto fosse debole e non si fidò a lasciarlo uscire da solo dal bagno. Lasciò che Hutch si sedesse sul bordo del letto della sua camera mentre lui spariva in un armadio alla ricerca di qualcosa che potesse somigliare ad un pigiama. Ne trovò uno azzurro di pile e gli infilò dalla testa la morbida maglia calda. Starsky si accorse che i capelli biondi di Hutch grondavano acqua e si affrettò verso il bagno per prendere un asciugamano, mormorando un ‘torno subito’.

Quando ricomparve nella stanza, Hutch stava lentamente infilandosi i pantaloni dello stesso morbido tessuto. Quando si avvicinò al compagno, Hutch tese le mani per prendere l’asciugamano. Starsky fece un passo indietro.

“Lascia che ti aiuti. Almeno ora, lascia che ti aiuti” sussurrò, riempiendo la stanza. C’era una nota di accusa nella voce ferita di Starsky. Hutch lo guardò, era la prima volta che lo guardava da quando si era un po’ ripreso. Nei suoi occhi non c’erano più solo scuse, c’era anche la richiesta di essere lasciato in pace. Ma Starsky non l’avrebbe lasciato in pace. Lo amava troppo.

Starsky sentì il respiro di Hutch farsi tremulo, il viso contrarsi nello sforzo e gli occhi diventare liquidi. Dalle labbra del biondino sfuggì un singhiozzo che nascose subito tra le mani. Starsky avrebbe voluto lasciarlo riprendere in pace, magari andando a preparare qualcosa di caldo da bere, ma qualcosa gli disse che in quel frangente era lui a doversi imporre o Hutch non avrebbe accettato il suo aiuto. Scelse come compromesso di iniziare ad asciugargli i capelli, strofinandogli teneramente la testa mentre il compagno calmava i singhiozzi. Starsky doveva aver fatto la scelta giusta perché sentì Hutch appoggiarsi a lui, affondando il viso nel suo stomaco. Mentre Starsky stringeva a se il partner, dopo aver lasciato cadere a terra l’asciugamano, si chiese se il suo abbraccio risultasse caldo e protettivo come quello del compagno. Si chiese se era capace di abbracciare come faceva Hutch.

Starsky tremò, sentiva la pelle tesa di Hutch, le sue lacrime che gli bagnavano la canottiera leggera, il calore delle sue labbra, la sua mascella contratta, ogni suo piccolo singulto, ogni suo brivido. Poteva un semplice abbraccio essere così intenso?

Starsky chinò un poco la testa e gli baciò i capelli e la fronte, sentendola scottare un po’. Allora mise un ginocchio sul materasso e issò anche l’altra gamba, scostò le coperte del letto e si distese portando con sé il partner.

Starsky si mise alle spalle di Hutch, cingendogli il petto e respirando nei suoi capelli. Hutch aveva le spalle forti, forse se fosse stato più esile si sarebbe concesso di tremare. Lo sforzo di frenare il pianto gli aveva fatto venire uno strano respiro mozzo.

“Perché ti fai questo?” mormorò Starsky nel suo orecchio, massaggiandogli con una mano il petto, che doveva dolergli.

“Scusami, Starsk…” Hutch sussurrò piano, con voce roca. Lo sforzo era evidente.

“Non scusarti, non scusarti sempre”

“Scusa…non so cosa volessi fare, volevo solo…non lo so, volevo non pensare”

“A me non importa, Blondie” ed era vero. Per la prima volta si accorse che era vero, a lui non importava cosa fosse successo, ne il perché, gli interessava solo aver trovato Hutch in tempo, gli importava solo di tenerlo tra le braccia e dormirgli accanto. Non gli servivano giustificazioni.

“… Starsk…” Starsky lo strinse ancora.

“Non mi importa” ripeté con decisione.

“Scusami…” scusa per quello che sono, scusa perché non sono quello che vorrei essere, scusa perché non riesco a frenare le lacrime, scusa perché vorrei piangere più forte, scusa perché vorrei che le tue braccia non mi lasciassero mai, scusa perché non avrei mai voluto che tu mi vedessi così, scusa perché non ho pensato a te, scusami.

“Scusami tu, per non aver capito quanto stavi male” mormorò Starsky

“Mi dispiace, Starsk… mi dispiace, non avrei voluto che tu…” Starsky si preoccupò, sentendo il respiro di Hutch ancora più difficoltoso. Si sollevò un poco, poggiandosi sul braccio e lo fece voltare verso di sé per poterlo guardare. Hutch si nascose il viso tra le mani.

Starsky non avrei voluto deluderti, sei l’unica persona che non avrei mai voluto deludere, di tutte le persone volevo che almeno tu vedessi in me qualcos’altro, volevo essere per te quello che avrei voluto essere.

Starsky gli scostò con dolce fermezza le mani e gli baciò una guancia umida

“Hutch, non devi avere paura di deludermi. Comunque tu sia, mi piacerai” gli sussurrò, guardandolo dritto negli occhi.

Sono quelle situazioni che non ti permetti di sognare, quelle idee che si affacciano solo nei momenti più disperati con la consapevolezza che non si avvereranno, che nessuno ti capirà mai davvero, che nessuno riuscirà a dirti la cosa giusta, che nessuno riuscirà ad accettarti in tutto e per tutto e senza difficoltà, che nessuno ti darà diritto a quelle piccole cose di cui ti vergogni. Quelle situazioni in cui non sai mai come reagire, Hutch scelse un pianto liberatorio, scelse di accettare quella fortuna che gli era stata data e quelle braccia calde che gli venivano offerte.

Nessuno dei due seppe quanto tempo era passato, Starsky sentiva il respiro di Hutch più calmo, non poteva vederlo in viso e non sapeva se stesse dormendo. Gli poggiò una guancia sulla fronte, scottava ancora un po’.

“Starsk…?” chiamò Hutch, con un mormorio impastato dal sonno

“Mmh?”La risposta non fu immediata e Starsky pensò che Hutch stesse solo parlando nel sonno.

“Ti amo” sussurrò invece Hutch, al buio, al confine tra veglia e sonno. Starsky fissò l’oscurità della sua camera da letto, sentì il peso di Hutch contro il suo petto, il calore del suo respiro e della sua pelle.

“Lo so, ti amo anche io” gli soffiò Starsky nell’orecchio.

 

Quando squillò il telefono, Starsky era già sveglio da un pezzo, ma il suono insistente e fastidioso lo indispettì comunque, preoccupandolo che potesse svegliare Hutch che gli dormiva tranquillamente contro. Quando sentì la voce dall’altro capo del filo, l’irritazione sfumò immediatamente.

“Ciao, Hug”

“ ’Giorno, amico. Come ve la passate?”

“Huggy, sai bene che in serate di baldoria come la nostra, non è buona usanza chiamare al mattino presto…” ridacchiò Starsky

“Ai miei tempi fare baldoria significava altro…andiamo, Starsky, devo infilarti uno sturalavandini in bocca?! Come sta?” dalla voce di Huggy trapelava una certa urgenza e Starsky capì che non era dell’umore per i giochetti. Guardò con tenerezza il compagno prima di rispondere.

“Non lo so” rispose sinceramente “ora dorme. Non preoccuparti, starà bene. Ce la caveremo”

“Cos’ hai intenzione di fare?” la tranquillità di Starsky lo calmò, se Starsky riusciva a tenere la situazione sotto controllo allora forse le cose si sarebbero davvero sistemate.

“Non sono in grado di fare programmi a lungo termine… ma oggi voglio passare tutta la giornata a letto, non abbiamo dormito molto e credo che un dolce far nulla possa fare bene ad Hutch”

“Non sarà capace di stare dietro al tuo ritmo di ozio” commentò Huggy con ironia

“Si, se lo obbligherò a farlo” sorrise Starsky

“Avete deciso che far finta di niente è la cosa migliore?” la domanda di Huggy infastidì un po’ Starsky

“Non abbiamo deciso niente e non voglio ignorare niente, ho solo parlato di una giornata di relax!” rispose brusco. Huggy fischiò.

“A quanto sento ne hai bisogno…”

“Scusa, Hug… rimandare non è come fare finta di nulla, voglio solo, non lo so, non voglio pensarci ora. Sono stanco e lo è anche Hutch di sicuro. Non voglio ignorare la cosa…” aggiunse più conciliante. Huggy era stato bravissimo la sera prima, al contrario di Starsky non aveva perso la testa ed era stato più che disponibile. Starsky si accorse che senza Huggy probabilmente non avrebbe trovato Hutch.

“Chiamavo così per sapere se dovevo mandare qualche ambulanza a raccogliere i pezzi, ti lascio…”

“Grazie, Hug. Grazie di tutto, sei davvero un amico. Ti tengo informato” Starsky ebbe l’immagine chiarissima del volto di Huggy in risposta a quelle smancerie e non trattenne un sorriso.

“Salutami quel biondino balordo, quando si sveglia. E digli che non perdonerò una seconda volta che uno dei miei clienti più fedeli mi tradisca per un altro bar di così bassa lega”

Starsky rimise a posto il telefono, movendosi il meno possibile. Si stava bene a letto. Voleva davvero regalare a se stesso e ad Hutch una giornata senza pensieri, avrebbe portato la televisione in camera così lui poteva distrarsi e Hutch continuare a sonnecchiare, gli avrebbe portato colazione e pranzo a letto. Una giornata senza pensieri e senza dover affrontare nulla. Voleva solo che ricaricassero le pile. Si voltò verso Hutch carezzandogli pigramente i capelli, quando vide che i suoi occhi chiari erano aperti e lo guardavano assonnati.

“Ciao, Blondie. E’ presto, non vuoi dormire ancora?” guardando Hutch negli occhi Starsky si accorse che non era facile ignorare tutto, che per entrambi la cosa era ancora troppo vivida. Hutch rimase fermo a guardarlo e Starsky si sentì lusingato che il partner non si fosse allontanato da lui una volta sveglio. Starsky gli lesse negli occhi la sua stessa paura. Come affrontare quel momento? Quella notte tutto era stato confuso e travolgente, ma ora erano lucidi. Starsky pensò di essere stato troppo ottimista nel pensare che Hutch, lottando tra vergogna e senso di colpa, potesse fare come se nulla fosse.

Hutch rotolò via da Starsky, finendo poco lontano da lui, a pancia in giù. Starsky ne imitò la posizione, così poterono continuare a guardarsi. Si era creato un contatto strano, come se ognuno stesse cercando di leggere le intenzioni dell’altro.

Hutch andava svegliandosi da una notte di lacrime e dolore, nel letto del suo migliore amico. Starsky veniva da una profonda paura e dallo struggente desiderio di protezione del suo partner.

Ci misero un po’ a capire che semplicemente quel momento bastava a entrambi per poter andare avanti, in fondo Hutch aveva trovato Starsky ancora lì al suo risveglio e Starsky poteva ancora guardare gli occhi limpidi di Hutch. Non dovevano fare nulla.

Starsky aveva paura di muoversi. Da una parte temeva di infrangere quel momento, temeva che se avesse respirato troppo forte avrebbe rischiato di scomporre il meraviglioso disegno delle ciocche bionde scomposte sulla federa blu, temeva di spingersi oltre. Avrebbe voluto restare così per sempre, disteso sul ventre in quel letto disfatto, con la guancia spalmata contro il cuscino e gli occhi puntati in quelli di Hutch. Hutch lo guardava con quel suo sguardo inquieto che contrastava con il suo azzurro così limpido. Avrebbero voluto entrambi restare così per sempre, intimoriti e rassicurati dal loro amore. Era un amore caldo che si insinuava nelle fenditure senza essere invadente, Hutch non si era mai sentito amare così, era di un terrore inebriante. Viveva per quello. Le ciglia bionde fremettero sulle palpebre socchiuse e qualche lacrima scese lungo la linea morbida della guancia. Starsky si sporse in avanti e le loro fronti quasi si toccarono. Era intimo e malinconico e rassicurante e enorme.

“Hutch, se io fossi una donna, mi sposeresti?”

“Se ci sposassimo finiremmo col stancarci” riuscì a dire con una voce piuttosto normale. Era la prima volta che parlava quella mattina.

“Io non mi stancherò mai di te” Starsky era capace di dire le cose più grandi con la stessa semplicità che usava per il resto, eppure questo suo modo di fare non toglieva importanza alle sue affermazioni.

“Se io fossi sposato con te dovrei sopportare un sacco di cose” considerò Starsky che sembrava stesse riflettendoci sul serio.

“Tu dovresti sopportare un sacco di cose?! E io allora?”

“Cosa?! E sentiamo cosa dovresti sopportare di me?”

“I tuoi schiamazzi continui ad esempio”

“Nulla a che vedere coi tuoi musi lunghi”

“Io non tengo il broncio come un bambino di cinque anni”

“Non ho questa impressione, mister sofisticato! No, ci pensi? Dovrei sopportare le tue diete assurde, per non parlare della bolletta dell’acqua visto le ore che passi sotto la doccia e i litri che usi per le tue piante”

“E io le schifezze che mangi”

“Le mangio io mica tu”

“Ma il puzzo dei tuoi hamburger mi rovina l’appetito, almeno quello che mangio io non puzza”

“Dovrei tenere la mia Torino nello stesso garage del tuo catorcio?”

“Dovrei sopportare quell’orribile pomodoro inquinante!”

“Ecco, vedi? Dovrei sopportare tutto il giorno i tuoi rimbrotti, i tuoi malumori, le tue manie, la tua chitarra…”

“Credevo ti piacesse la mia chitarra!” rimasero in silenzio per un po’. Hutch rotolò su se stesso stendendosi sulla schiena, Starsky rimase fermo a guardarlo, ancora a pancia in giù. Ovviamente non erano arrabbiati, ne seccati, era il loro modo di giocare, di comunicarsi che tutto era a posto, il loro modo di sdrammatizzare. Hutch aveva ancora gli occhi leggermente umidi, ma sorrideva. Anche Starsky stava meglio, perché il compagno aveva accettato di prestarsi ai suoi giochi.

Se ne stavano li, ritagliando un momento tutto loro escludendo il resto del mondo. Era un’atmosfera un po’ irreale, erano due uomini distesi in un letto a bisticciare, ma non stavano facendo finta di niente. Quello che era successo continuava ad aleggiare su di loro.

 “Mi piace la tua chitarra” mormorò dopo un po’ Starsky.

Hutch voltò appena il capo verso di lui. Sorrise agli occhi scuri di Starsky e alla sua guancia schiacciata contro il cuscino e ai suoi capelli che erano un po’ ovunque, un grosso cespuglio ingombrante.

“Ma a me non piace comunque la tua colazione con pizza fredda e coca”

“Quindi pensi che saresti un marito migliore di me?!” Starsky frenò la lingua un attimo troppo tardi. Non avrebbe dovuto dire quella frase infelice. Hutch non disse nulla. Starsky dopo un po’ proseguì, Hutch rifiutò di pensare che durante quei silenzi Starsky pensasse seriamente alla loro impossibile vita matrimoniale “dovremmo comprare due frigoriferi per lo meno, e due librerie, di televisione ne basta una… mi sa che dovremo avere due bagni, sennò io non mi farei mai la doccia, a meno che non ne mettiamo una in cortile, ma così saresti geloso degli sguardi delle vicine” ammiccò Starsky

“Senza contare che staremmo spesso in commissariato per atti di esibizionismo” commentò Hutch con ironia

“Il nostro cane dovrebbe avere un nome grintoso, di quelli che non ti vergogni a urlare nei parchi”

“Nietzsche?”

“Ho detto un nome grintoso, non un nome impronunciabile. Perché vuoi far sapere a tutti che sei matto?”

“E’ un bel nome e poi andrebbe d’accordo con Socrate, il gatto”

“Ok, è deciso. Non sarai TU a dare il nome ai nostri animali”

“Questo è stupido”

“Se la metti così tutto questo discorso è stupido, noi non siamo sposati”

“Senza contare che sopporto comunque queste cose di te” e sono le cose che preferisco. Starsky lo guardò con affetto e si accostò più a lui

“Chi sarebbe il migliore a letto?” sussurrò poi Starsky con un tono di complicità maliziosa.

“Non c’è bisogno di sposarsi per rispondere a questa domanda, ovvia per altro”

“Ooh giochiamo a fare i macho. In questo caso le tue sono solo parole!”

“Non do dimostrazioni fino alla prima notte di nozze” Starsky scoppiò a ridere per l’assurdità di quell’affermazione, uscita dalle labbra del peggior donnaiolo di Bay City. No, forse il peggiore era lui “e non solo sarei il migliore a letto, sarei ottimo in tutto. Preparerei ottime ed equilibrate cene, terrei la casa in maniera decorosa, sono un ottimo partito. Non avresti motivo di tradirmi”aggiunse Hutch. Starsky cercò il suo sguardo, Hutch non lo evitò ma restò in silenzio, come comunicando che spettava a lui la prossima battuta. Anche Starsky rimase in silenzio.

“Hutch, se noi fossimo sposati, tu mi tradiresti?” ad Hutch piaceva quel modo di Starsky di passare da una cosa

all’altra, di passare dal gioco alle cose serie. Ad Hutch piaceva quel modo in cui Starsky si approcciava agli argomenti seri, il modo in cui giocava sulle situazioni, le situazioni che creava per lui, per farlo sentire a suo agio “io non ti tradirei mai, Hutch” aggiunse prima che il compagno potesse rispondere.

Starsky rimase a guardare gli occhi di Hutch riempirsi di lacrime e non disse più nulla. Con semplicità lo baciò sulle labbra chiuse e continuò a guardarlo mentre con la mano gli carezzava i capelli biondi.

 

Starsky stava armeggiando con tazze e bicchieri, aveva già rischiato di rovesciare abbondante succo d’arancia, quindi nel versare il caffè usò molta più cautela. Avrebbe voluto andare fuori per comprare qualche dolcetto dal fornaio, ma non aveva la minima voglia di lasciare la casa e Hutch.

Prese un grosso vassoio e lo poggiò sul ripiano della cucina, ma nel girarsi lo urtò col gomito, facendolo cadere a terra in un forte rumore metallico. Fortuna che Hutch è già sveglio.

Starsky prese il vassoio pieno sollevandolo con attenzione e si diresse in camera, scavalcando il cavo della televisione che aveva spostato poco prima. Posò con la stessa attenzione la colazione su un tavolino ai piedi del letto e sollevò lo sguardo. Un brivido gelato percorse tutto il suo corpo e lo bloccò sul posto, facendolo tremare. Il letto era vuoto, le lenzuola scomposte disegnavano ancora il profilo dei loro corpi, ma era vuoto.

La razionalità gli imponeva la calma, gli ricordava quanto il suo comportamento fosse stupido e infantile, ma quell’immagine gli aveva risvegliato una paura che non aveva mai scacciato. Starsky si rese conto solo in quel momento di quanta paura avesse avuto la notte prima e di come avesse scacciato quella sensazione per prendersi cura del suo partner. Evidentemente passare la notte abbracciato a lui ad ascoltarlo dormire non era bastato a tranquillizzarlo e l’immagine del letto vuoto lo aveva ricatapultato in uno stato di angoscia. Si rivide nel vicolo a correre, rivide lo sguardo osceno del barista, gli occhi preoccupati di Huggy, rivide Hutch a terra in un stradina non più grande di quella dove l’aveva trovato tempo addietro. Il suo Hutch che criticava sempre la Torino ma ogni giorno vi prendeva posto, il suo Hutch e il suo sguardo ironico, il suo Hutch e i suoi tormenti. Perché quando Starsky stava male il primo a cui pensava era Hutch ma non succedeva il contrario? Hutch se n’era andato ancora, furtivo e senza dire niente. Perché?! Cosa doveva fare perché non si allontanasse da lui? 

“Starsk…?” Starsky si voltò di scatto, trovandosi Hutch di fronte che lo guardava perplesso. Se Starsky avesse ascoltato la sua razionalità avrebbe capito che con tutto il casino che aveva fatto in cucina, era probabile che non avesse sentito Hutch che si alzava per andare in bagno. Ma Starsky era stanco e improvvisamente sentì la rabbia montare, la frustrazione e la paura gli salirono agli occhi e gli si intrappolarono in gola.

“Non allontanarti mai più senza dirmi niente!” gridò furioso. Hutch arretrò spaventato, fissandolo stupito, aveva i capelli un po’ spettinati e indossava ancora il pigiamone azzurro.

Rimasero a fissarsi un po’. Starsky era consapevole di come la sua reazione appariva senza senso, ma non riusciva a controllarla e i suoi occhi si fecero umidi, deglutì con forza e si maledì sottovoce ma con rabbia. Fu Hutch a rompere quel silenzio pesante, con la sua voce calda.

“Hai ragione, scusami” disse tristemente “non so cosa mi sia preso, non so cosa volessi fare, non ho programmato nulla. Volevo solo…” Hutch cercò le parole giuste. Era chiaro che non parlava della sua visita al bagno, così come era chiaro che nemmeno Starsky si riferiva a quello.

Starsky si morse le labbra, non avrebbe voluto affrontare quello ora. Non sentiva così forte il bisogno di chiarirsi, ma forse aveva semplicemente paura di affrontare la questione. Non voleva affrontare la paura, non voleva affrontare il fatto che il suo partner aveva quasi… non voleva, aveva paura delle conseguenze.

“Ero stanco” riprese Hutch sforzandosi di guardarlo negli occhi “ero stanco di tante cose, prima fra tutte di me stesso. Avrei voluto smettere di essere me solo per un po’, avrei voluto non essere nella mia testa per qualche momento. Volevo smettere di pensare e… ho pensato che quella roba mi avrebbe aiutato, che potesse essere come dicono tutti. Insomma, perché tanta gente ci rimane intrappolata? Pensavo… cioè ovviamente non pensavo, ero solo stufo di tutto…”

“Eri stufo anche di me?” la rabbia sembrava evaporata dalla voce di Starsky, flebile e fragile.

“Certo che no…” rispose Hutch seriamente. Starsky lo guardò, i suoi occhi erano ancora risentiti.

“Però non sei venuto da me” disse Starsky. Hutch lo guardò ferito.

“No, non sono venuto da te” constatò scioccamente. Erano ad un punto morto. Starsky non avrebbe voluto ammettere quanto la situazione l’avesse ferito perché in qualche modo voleva dare la possibilità ad Hutch di prendersi quel che gli spettava. Avrebbe voluto dedicargli completamente la sua attenzione perché lui non la chiedeva mai, conosceva questo problema di Hutch, sapeva che il partner non era in grado di chiedere e voleva aiutarlo. Fino a quel momento ce la stava facendo, ma qualcosa aveva rotto i suoi intenti. Sapeva che da parte del partner non era mancanza d’affetto nei suoi confronti, ma era triste pensare che il suo amore non bastasse, lui si appoggiava completamente ad Hutch e lo mortificava il fatto che il compagno non facesse altrettanto.

“Starsk, scusami. Lo so che sono un idiota… non è colpa tua, non hai fatto niente, sono io, davvero” tentò di giustificarsi Hutch, la sua voce andava pian piano incrinandosi. Starsky sospirò forte, passandosi una mano tra i ricci  scuri, l’ultima cosa che voleva era aumentare i sensi di colpa del biondo.

“Hutch, non devi scusarti se stai male. E’ normale, tutti stiamo male e nessuno è in grado di affrontare tutto da solo. Ma noi siamo una squadra, tu dovresti poterti fidare di me”

“Mi fido di te, sei l’unica persona di cui mi fido”

“Però non sei venuto da me, non mi hai cercato, non mi hai chiesto niente e se non ti avessi trovato o se tu… Dio, Hutch! Hai idea di cosa abbia significato per me?! Se non c’era Huggy…Non devo sempre essere io a venirti a cercare! Vorrei poterti aiutare come tu aiuti me continuamente…” Starsky non tremava più per la rabbia e qualche lacrima scese lungo le sue guance. Hutch avrebbe voluto abbracciarlo, ma sentì che in quel momento il suo compagno non glielo avrebbe permesso. Starsk… Hutch fremette pensando alla naturalezza con cui il partner lo aveva accolto al suo risveglio, trattenendo i suoi sentimenti per lui. Hutch lo guardò piangere, se lui gli avesse parlato prima avrebbero evitato tutto quello, se lui si fosse deciso ad aprire quella stupida bocca che aveva e invece no… quella mattina stessa, al suo risveglio, era stato così sollevato dal sorriso di Starsky che aveva ceduto alla vigliaccheria e aveva fatto finta di niente. Starsky gli dava sempre quello di cui aveva bisogno e nonostante tutto lo accoglieva sempre, accettandolo. Se potessi essere quello che meriti di avere a fianco, allora forse anche io meriterei la tua compagnia.

“Ho sempre paura di sbagliare con te e continuo a sbagliare, non volevo coinvolgerti e guarda cosa ho fatto. E’ difficile per me, non volevo che tu… non lo so, ho avuto paura che tu potessi pensare… non volevo che tu ti stufassi di me quanto io sono stufo di me. Volevo smettere di essere me, per cui non sono andato da Huggy, ho cercato un locale a caso e in mezzo a quella confusione mi sono tornate in mente le parole di quella donna, quella con il nome di un liquore. In quel momento pensavo davvero non mi importasse di perdere tutto, ma poi… in quel vicolo, ho avuto paura. Ho avuto paura di perderti. Mi sono ricordato di quella volta, di Jeanie e di come ti sei preso cura di me, ma era diverso, non lo avevo scelto io. Mi sono ricordato del tuo sguardo e non volevo farti rivivere tutto, non era giusto. Ho pensato a te e ho avuto paura. Paura che tu mi odiassi per averti tradito e deluso, non volevo farti male, tu avresti difeso il mio onore con i colleghi poi ti saresti arreso all’evidenza e mi avresti odiato perché non avresti potuto sopportarlo…io non l’avrei sopportato perché tu mi fai sentire bene e importante e volevo essere all’altezza di questo.”

“Stupido. Avresti dovuto pensare a te, non a me” disse piano Starsky. Hutch sollevò lo sguardo, che si era tenuto fisso sui suoi piedi.

“Ma ho pensato a te” rispose. Starsky non avrebbe dovuto sentirsi così a quell’affermazione, non avrebbe dovuto alimentare nemmeno inconsciamente la passione di Hutch di mettersi dopo il resto. Nel silenzio la voce di Hutch si fece sentire ancora, colorata con qualcosa d’indefinibile.

“Poi ti ho visto davanti a me, in quel vicolo e ho pensato che fosse finita, ma tu mi hai permesso di stare con te e di passare una notte pensando solo al tuo calore e alla tua mano tra i miei capelli”

 Starsky conosceva ogni sfumatura dello sguardo di Hutch, ma poteva solo immaginare cosa circolasse in quella testa bionda, non ci sarebbe mai entrato. Starsky non nascondeva il dolce orgoglio che provava quando sentiva di essere il solo a poter capire un pochino il suo compagno, quando lo guardava parlare con i colleghi e coglieva le sfumature delle sue emozioni ed era orgoglioso quando Hutch faceva altrettanto, quando capiva i suoi desideri e lo consolava o lo faceva ridere senza che lui avesse bisogno di chiedere. Gli altri colleghi lo sapevano che tra loro c’era qualcosa di speciale, che Hutch era suo e solo lui aveva il permesso di avvicinarsi a lui in quel modo. Hutch proseguì ancora, sembrava aver dato via ad una lunga scia di pensieri che gli confessava in piedi, un po’ barcollante, con la voce che di tanto in tanto si fermava per recuperare forza.

“Infine, non è vero che tu non mi aiuti, David. Non fai altro. Tu sei il mio buongiorno e la mia buonanotte, sei la mia risata, sei la mia esasperazione, sei la mia parte bambina, sei la mia speranza e la mia paura, sei il mio coraggio e la mia tenerezza. Sei tutto per me e non hai idea di come io sia vuoto in realtà senza te al mio fianco. E non è che questo non mi basti, questo è enorme, sono solo io che incasino tutto… se non ci fossi tu…se non ci fossi stato tu io…”

“Io sono arrivato dopo”lo interruppe Starsky. Hutch alzò lo sguardo confuso, non cogliendo il significato di quell’affermazione. Starsky si spiegò meglio “quando sono arrivato io, tu avevi già deciso di non fare sciocchezze, qualsiasi cosa tu abbia pensato, hai deciso da solo cosa fare. Certo che ti stimo enormemente, Blondie, ma la mia stima è ben riposta. Perché non sono le tue debolezze che fanno di te una cattiva persona, sono le tue qualità che ti rendono splendido. Io lo penserò sempre, non sei in grado di fare nulla che mi possa spingere a cambiare idea su di te, se sbaglierai, sbaglieremo in due e cercheremo un rimedio. Perché siamo una squadra. E se non mi chiamerai tu, verrò io a cercarti, perché quando pensi di mostrare le tue debolezze e ti allontani, nello stesso momento io ti sto cercando disperatamente perché ho bisogno di te” Hutch si sentì debole, ma era certo che non fosse colpa della febbre. Guardando Starsky negli occhi non gli vide nulla di nuovo e il calore familiare, che lo invadeva a quello sguardo, tornò ad avvolgerlo.

Starsky tese il braccio, porgendo la mano ad Hutch che la strinse piano. Starsky lo tirò a sé lentamente e quando gli fu di fronte gli bastò sporgersi appena per sfiorargli le labbra, ma non si accontentò di sfiorarle. Prese possesso del labbro inferiore di Hutch con ardore trattenuto da quella parte ancora cosciente di lui, che gli diceva che Hutch avrebbe potuto ritrarsi dalla sua impetuosità. Le mani di Starsky scivolarono veloci lungo la schiena nuda del compagno, che gemette al contatto della sua mano fresca sulla sua pelle calda, con la stessa ansia febbrile con la quale si impadroniva della labbra del biondo. Quando Hutch arretrò contro lo stipite della camera da letto, inclinò appena la testa, schiudendo la gustosa barriera dei denti a quel visitatore sconosciuto e conosciuto allo stesso tempo. Non si erano mai spinti in un vero bacio, a volte giocando si erano regalati qualche contatto in più del normale, ma Hutch non aveva mai sentito la mano di Starsky stringergli i capelli in quel modo nell’assurda paura che lui si allontanasse e Starsky  non aveva mai pensato che la timidezza di Hutch potesse inebriarlo in quel modo con piccoli giochi di lingua. Hutch gemette arcuandosi mentre la mano di Starsky si aggrappava alle sue scapole senza fargli male, mentre la sua lingua dimenticava di chiedere il permesso per esplorare tutto ciò che gli veniva offerto. Quando ebbero bisogno di respirare, Starsky gli liberò la bocca scendendo lungo il mento e risalendo per la guancia tenera, soffermandosi appena sotto l’orecchio e scivolando verso la pelle morbida della gola. Hutch ansimò, sentendo mani, labbra, respiri ovunque ed ebbe paura che le sue gambe potessero cedere. Forse Starsky ebbe la stessa paura perché lo spinse appena, invitandolo ad entrare nella stanza e riprendo a baciarlo una volta che furono seduti sul bordo del letto. Unendo le labbra scacciavano angosce e paure, chiarendosi meglio che con le parole, in una lotta che non richiedeva ne vinti ne vincitori ma solo la completa fiducia dell’altro. Così Starsky non ebbe bisogno di dirgli che in qualunque momento gli avrebbe fatto dimenticare le sue paure come solo lui sapeva fare e Hutch gli confermò che era la sola a cui teneva.

Quando Hutch sentì le labbra ansanti di Starsky lasciarlo e il peso della sua testa sulla sua spalla, il battito del suo cuore e la pienezza di quanto successo gli impedirono di preoccuparsi, non pensò a nulla, a nessun problema o conseguenza, ascoltò solo i loro respiri galoppanti. Sospirò con un suono simile alla felicità e con il sapore di Starsky ancora sulle labbra.

Rimasero stremati per qualche momento, mentre Hutch stringeva Starsky tra le braccia sentì uno strano suono, accompagnato da una certa agitazione da parte del compagno. Chinò un poco la testa per raggiungere il suo orecchio.

“Non fare finta di nulla, lo so che hai fame, sento il tuo stomaco indiscreto” mormorò Hutch sorridendo.

“Non volevo rovinare il momento…” balbettò Starsky arrossendo un po’ . Hutch rise. Era un po’ che Starsky non sentiva la sua risata e gli fece bene.

“Vediamo cosa possiamo combinare con quello che hai in frigo, non sono disposto ad ordinare una pizza” Starsky sorrise, poi però sembrò pensarci un attimo ed afferrò Hutch per la mano, posandogli l’altra sulla fronte.

“Hutch, scotti ancora. Rimani a letto, ci penso io”

“Grazie, preferisco vivere” Starsky ci mise qualche secondo a capire l’implicazione di quella affermazione.

“Cosa?! E io anche che mi comportavo in modo gentile! Ordinerò una pizza così succulenta che le tue papille gustative si ammutineranno pur di poterla assaggiare!” esclamò rianimandosi improvvisamente, uscendo dal limbo felice in cui era caduto.

“Non sei un grande infermiere se mi offri della pizza, non è molto digeribile…” rise Hutch.

“Sono grande in ogni cosa e sarò il miglior infermiere del globo, vedrai e dopo non potrai fare altro che scusarti!” Hutch sorrise e accettò le attenzioni animate del compagno che lo fece stendere e sparì in cucina.

 

Starsky guardava senza attenzione lo schermo acceso ai piedi del letto, non che il western non gli piacesse, ma non

era in grado di prestargli attenzione. Hutch sonnecchiava sotto le coperte, il viso un po’ arrossato, ma la febbre non era molto alta. Senza che Starsky chiedesse o facesse nulla, Hutch gli si era accoccolato accanto, nascondendo il viso contro il suo fianco. Starsky si sentiva come ammortizzato, aveva la vaga consapevolezza dell’importante passo avanti che avevano fatto. Si sentiva avvolto da un bel tepore, non sapeva se veniva dalle parole di Hutch che ancora risuonavano nella sua testa o dal suo corpo, reso ancora più caldo dalla febbre. Si sentiva felice.

Starsky si chinò di lato verso Hutch e gli baciò i capelli e la fronte, avrebbe continuato ma dalla sua posizione non riusciva ad andare più giù.

“Hutch?”

“mmh?” Hutch mugugnò qualcosa con la voce ovattata dal sonno e dal corpo di Starsky

“Perché non resti qui?” Hutch si mosse un poco, lentamente perché gli girava un po’ la testa. Alla domanda di Starsky sorrise.

“Dove vuoi che vada?” rispose debolmente, passandogli il braccio attorno alla vita.

“No. Non intendo in questo momento” cercò di spiegarsi Starsky, imbarazzato.

“Starsk…di cosa stai parlando?”

“Di restare qui. In questa casa… a casa mia” seguì un momento di silenzio. Starsky sentì Hutch muoversi e tentare di sollevarsi  per poterlo guardare in faccia.

“Starsky, mi stai chiedendo di venire a vivere con te?” Hutch formulò la domanda con una strana sensazione di déjà-

vu sulle labbra, ma la risposta che seguì non era presente nei suoi ricordi.

“…Si” Hutch lo guardò sorpreso e Starsky sentì l’imbarazzo annegarlo accompagnato da un rossore decisamente evidente “cioè, è solo un’idea, stavo solo pensando… così, per dire e poi non è che ci sia tanta differenza comunque, stiamo già insieme quasi tutto il tempo quindi pensavo…” Hutch lo guardò con tenerezza mentre lui continuava a gesticolare confusamente giustificazioni sempre più strane e assurde. Forse era un’idea avventata o forse no, forse era da stupidi e ingenui pensarci e forse lo erano, ma ad Hutch l’idea di svegliarsi sempre accanto a Starsky, come era successo quella mattina, di ascoltarlo dormire, di sentire il suo profumo, di subire le sue chiacchiere, di assaporare il suo buongiorno, bastava per fargli credere che non fosse un’idea poi così stupida.

Hutch lo zittì baciandolo e il loro secondo bacio fu un po’ diverso dal primo, non c’era la paura che fosse l’ultimo, c’era la dolce aspettativa del prossimo, sapeva di promesse, di lacrime condivise, di un presente da gustare e di un futuro da vivere, sapeva di strane paranoie e risate gutturali, sapeva di sesso e di antibiotico. Si guardarono ansimando e si accorsero che non era la prima volta che si guardavano da così vicino, Starsky gli baciò ancora le labbra e poi disse

“Non credere che questo basti a farti scegliere il nome del nostro cane, Biondino”  

 

 

Starsky era una persona spontanea e solare, amava l’aria aperta, la birra molto fredda, le salse messicane, la voce della mamma, gli sguardi indecenti delle ragazze, le coccole e le promesse mantenute. Starsky amava Hutch. Hutch era dolce e introverso, amava le mura appena ridipinte, amava prendersi cura di una pianta, amava la sensazione delle corde della chitarra tra le dita, amava le cose fatte bene, i flaconcini con le targhette chiare, amava farsi la doccia dopo l’attività fisica. Hutch amava Starsky.

Starsky amava il modo in cui Hutch si pettinava i capelli, amava il modo in cui lisciava le pagine del giornale prima di leggerlo, amava la sua voce soprattutto quando cantava, amava il suo sguardo scontroso, amava la pazienza che mostrava solo con lui, amava mangiare pizza fredda e guacamole davanti ai suoi occhi, amava il suo modo di rimproverarlo, amava non avere mai paura di stancarlo, amava il suo mondo interiore di cui era tanto geloso, amava la sua insicurezza e le sue folli manie, amava il fatto che solo lui lo conosceva come lo conosceva.

Hutch amava lo sguardo irriverente di Starsky, amava il modo in cui alzava le sopracciglia, amava il modo in cui gli prendeva il braccio, amava lo sguardo paterno con cui guardava la Torino, amava il suo cercare la sua approvazione con sguardi che dicevano “te l’avevo detto, eh? Sei fiero? Sei fiero?”, amava la sua risata fresca, amava le sue mani appiccicose, amava la sua iperattività, amava il suo divano a righe, amava la sua apparenza ingenua e infantile, amava il modo in cui si faceva consolare solo da lui, amava sentirsi importante per lui.

E la cosa grandiosa era che non avevano bisogno di dirselo.

 

Fine

  
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