SWIMMING TALE
CAPITOLO UNO
“Harry Potter e la
pietra della sfiga”
Io non so se qualcuno di voi
abbia mai sperimentato sulla sua pelle il vero significato di
“sfiga”.
Sì, la sfiga, quella che ci
vede benissimo e che colpisce nei momenti meno opportuni. Quella che
ti fa fare le esposizioni di francese come madrelingua a casa e che
poi davanti al professore ti fa sembrare un egiziano che ostenta
l'armeno antico. Quella che tua mamma dice che a cena ci sarà la
pizza e poi ti fa trovare una terrina megalitica di insalata. Quella
che ti fa scaricare il cellulare proprio quando ti schianti nel fosso
con la macchina e c'è talmente buio che non sai se avresti bisogno
di una torcia o di chiamare qualcuno, ma in ogni caso il telefono è
fuori gioco perciò il problema non sussiste nemmeno. Quella che,
quando non hai studiato un argomento, puoi stare certo che sarà
materia d'esame. Quella che guardi le previsioni del tempo e constati
felicemente che non avrai bisogno dell'ombrello e il giorno dopo
scende un diluvio che perfino Noè farebbe fatica a gestire con la
sua barca.
Ecco, io sto parlando di quella sfiga che mi
perseguita da quando ho ben quattordici anni, il che la rende la mia
compagna di vita da ben quattro lunghi anni ormai. Pappa e ciccia,
culo e camicia, chiamateci come volete. La sfiga mi ama.
La mia
sfiga, tuttavia, in molte occasione ha avuto un nome ben definito. Un
tatuaggio che non se n'è mai andato e che continua a perseguitarmi
da quando ne ho memoria. Anche adesso, la mia sfiga sta tornando a
salutarmi dopo un periodo fin troppo lungo di tranquillità.
La
mia prima sfiga è il mio nome, datomi da una madre filonipponica e
da un padre mangaka nonostante la loro nazionalità canadese. E' un
nome per il quale sono stato scambiato per una ragazza, deriso,
sbattuto contro gli armadietti da quelli che avevano sicuramente un
nome migliore, chiamato per quattro anni dai prof solo per il cognome
e costretto a cambiare nickname nelle chatroom per non essere preso
per i fondelli anche sul web - diventando qualcosa come
“boylovespizza” o “hifefe127”. Sì, sono nato il dodici
luglio. Perché “Hifefe”? Adesso lo capirete. Non ridete, vi
prego. E' già abbastanza imbarazzante quando prenoto il tavolo a
nome mio e il cameriere mi chiede se ne sono sicuro.
Himeragi è
il mio nome, è ovvio che ne sia sicuro, accidenti a voi camerieri
scortesi. Chi mai si chiamerebbe così di sua volontà, in Canada?
Che poi, più che di Canada dovrei parlare di America dato che ci
vivo praticamente da quando sono nato. Il mio cognome, Fenwick,
sebbene ancora abbastanza ridicolo è comunque più accettabile.
Himeragi Fenwick, bella accoppiata, no?
Non bastava che mi
avessero fatto simile a Riccioli d'Oro, dovevo anche avere un nome
giapponese. Se non fosse per i miei tratti mascolini del viso -
almeno quello, grazie a Dio - con i miei capelli biondi e gli occhi
verdi mi scambierebbero sicuramente per una principessa nipponica dei
manga. Ed è molto, molto triste per un ragazzo di diciotto anni come
me, credetemi.
La mia seconda sfiga, ora, ha un nome e un
cognome.
Quando c'è questa sfiga, tutto va storto. In sua
assenza, tutto va bene.
Ricordo quando un mese fa mi è stato
comunicato il suo ritorno. Eravamo tutti in piscina, come al solito,
e il rettore Muller è venuto a dirci che avremmo dovuto ospitare la
squadra di New York per qualche tempo in quanto la piscina più
vicina con possibilità di alloggio era la nostra.
Ora, perché
sto parlando di piscina? Sono un mezzo pesce?
No, certo che no,
grazie al cielo. Penso che sarebbe stato veramente il colmo e
qualsiasi essere umano si sarebbe messo a ridere, facendo di me un
film dal titolo “Riccioli d'Oro versione manga marino”.
Al
cinema prossimamente.
Tornando a noi, parlo di “piscina”
perché l'unica mia fortuna nella vita è il nuoto. Anzi, più
propriamente il nuoto è la mia vita. Lo pratico da quando ho
quattro anni e dopo aver fatto parte della squadra di nuoto per i
quattro anni di liceo ora ne sono istruttore insieme agli altri tre
membri del mio team. Abbiamo gareggiato sempre insieme e per questo
motivo, una volta diplomati, è stato offerto a tutti e quattro la
possibilità di prendere in mano le redini della nuova squadra. Le
mie vacanze post-maturità sono quindi durate poco meno di due mesi
dal momento che, prima di settembre, ho affrontato un corso per
istruttori che mi iniziasse al mio nuovo lavoro. Non mi lamento, qui
non ci sono sfighe in mezzo. O perlomeno, non c'erano finché non mi
è stato comunicato il suo ritorno.
Lui e quegli altri tre
assurdi energumeni della sua squadra titolare del cazzo.
Sapete
cos'ha lui che non va? La differenza sostanziale che ci divide è
sempre stata la voglia di farsi notare.
Lui: la mia sfiga, il mio
tatuaggio.
Kyle Adair.
In soli due anni mi ha sconvolto la
vita, dando inizio a tutta la serie di sfighe che mi hanno
accompagnato nella mia crescita. Se ve lo stavate chiedendo: sì,
quelle sopracitate sono state tutte esperienze personali. Compreso il
fosso.
E' per questo che mi sono sentito male quando ho saputo
del suo arrivo nella mia piscina, perché implica la nostra stretta
convivenza dopo tutti gli sforzi che ho fatto per cercare di
dimenticarmi di lui. Lui e quell'aria da strafottente che ha sempre
avuto, con i suoi capelli scuri e gli occhi più neri della pece.
La
nostra storia, se devo dirla tutta, è nata proprio da qui. Dai suoi
occhi che, dopo aver incrociato i miei per la prima volta, hanno
deciso che sarei stato un ottimo bersaglio per angherie varie.
Esatto, gente: Kyle Adair era il mio bullo personale, assunto e
patentato!
Ricordo come ieri il nostro primo incontro e ancora
sento la paura che scorreva nelle mie vene da Riccioli d'Oro.
L'inizio delle sfighe.
Stavo camminando per i
corridoi dell'infinito Andrew College, avevo come sempre gli occhiali
calati sul naso e una serie di libri sotto il mio braccio che, se
passavo davanti al mio zaino, questo mi guardava e mi chiedeva perché
l'avevo comprato. Erano passate appena tre settimane dall'inizio del
mio primo anno, il giorno prima erano state fatte le selezioni per la
squadra di nuoto e io ero passato, classificandomi col tempo migliore
in dorso. Al tempo non conoscevo nemmeno il suo nome, ma anche lui
era passato grazie ad un buon tempo in dorso, stracciato però dal
sottoscritto. Credete che questa cosa gli sia mai andata giù? Be',
se lo pensate vi sbagliate di grosso. Credo che ancora oggi, a
distanza di quattro anni e lui a capo della squadra più famosa di
New York, non gli sia andata giù. Ricordo che sul calendario appeso
in camera sua aveva segnato quel giorno come “Il giorno in cui
l'anguilla mi ha stracciato. Ps. Devo fargliela pagare”. Come so
che l'aveva scritto sul suo calendario? Perché mi aveva chiamato
“anguilla”?
Lo scoprirete presto, tranquilli. Questo è solo
l'incipit di tutto quanto.
Ad ogni modo, stavo camminando con i
miei bellissimi occhiali da vista neri che più che aiutarmi mi
impedivano di schivare ostacoli come bottigliette lasciate per terra
e fogli caduti da quanto erano sporchi di ditate quando una spallata
mi fece schiantare contro un armadietto, spalmandomici addosso come
se fosse stato pane e io Nutella. Peccato che nessuno mangerebbe
armadietto e Himeragi. Tra l'altro non mi passò nemmeno per la testa
di protestare dal momento che di spallate ne ricevevo talmente tante
da essere arrivato ad ordinarmi una corazza da football su Amazon, ma
la storia divenne un po' più brutta quando un ragazzo mi si parò
davanti bloccandomi ogni via di fuga. E lo faceva apposta, eccome se
lo faceva apposta! In quel momento non mi resi nemmeno conto che
quell'energumeno era il principio delle mie infinite sfighe, e
cominciò tutto con un suo sorrisetto e le sue prime parole.
–
Tu sei un'anguilla del cazzo.
Linguaggio forte per un tenero
quattordicenne, no?
– Prego? – chiesi quindi guardandolo dal
basso dei miei occhiali. Il giorno prima non l'avevo ben inquadrato
essendo comunque preso dalle selezioni, ma mi bastò solo quel
momento per capire con chi avevo a che fare. Non aveva l'aria di
essere amichevole e mi teneva attaccato all'armadietto come se avesse
l'intenzione non dichiarata di asfissiarmi, non si preoccupava
nemmeno di essere visto dagli altri perché sapeva di essere temuto e
se avesse potuto sono sicuro che mi avrebbe preso per il colletto
della maglietta.
– Come hai fatto, ieri? – mi domandò
guardandomi dritto negli occhi con una sorta di ironica cattiveria.
Sapete perché era ironica? Perché a quel tempo avevo talmente tanta
paura che a ripensarci mi viene da ridere. Giuro, stavo morendo di
paura quando quello lì era nei dintorni. Mi perseguitava peggio del
Babau con i bambini.
– A fare? – chiesi a mia volta con la
profondissima voce da non ancora quattordicenne, stridula e
simile al lamento di un qualche animaletto morente.
L'allora
sconosciuto digrignò i denti in segno di maschia spavalderia,
godendosi quel suo attimo di gloria su un piccolo freshman che non
sapeva nemmeno di stare al mondo: – A battermi. – confessò alla
fine, visibilmente irritato.
Io non seppi nemmeno cosa
dire dal momento che non mi ricordavo nemmeno il suo nome, il suo
tempo era stato comunque superato anche da altri quindi non mi
rendevo conto del perché ce l'avesse esclusivamente con lo
sfigatissimo sottoscritto: – Non sono stato l'unico. – fu la mia
intelligente risposta che mi costò un'ancora più asfissiante
riduzione di spazio tra me e il mio aggressore.
– Ma sei così... – Mi
squadrò schifato da capo a piedi, concludendo con un'odiosissima
ditata sulle mie lenti perfette. – …Piccolo.
– Credo di
avere la tua stessa età dal momento che abbiamo fatto le selezioni
insieme. – incalzai cercando di fare il duro quando in realtà
avrei voluto gridare come una femminuccia spaventata da un topo. –
E nel nuoto questo non conta. Nemmeno la statura.
Lo stalker mi
soffiò fastidiosamente sul naso, concludendo con un insulso
sorrisetto che sono sicuro non abbia mai cercato di migliorare: –
Ma la struttura dovrebbe contare qualcosa. Sei alto appena un metro e
sessantacinque e mi hai battuto.
– Anche altri lo hanno fatto.
– gli ricordai non proprio gentilmente, iniziando a guardare oltre
le sue spalle se riuscissi a scorgere un aiuto. Ovviamente, tutti
tranquilli per la propria strada e nessuno prestava attenzione ad un
piccolo insignificante ragazzo del primo anno che stava per essere
schiacciato fa un altro non proprio piccolo insignificante ragazzo
del primo anno.
– Ma gli altri erano come me. – ribatté
allora l'energumeno, sbuffando come se la colpa della sua irritazione
fossi io. Cosa stavo facendo di male, no? Oltre a respirare e
camminare non stavo facendo niente di ambiguo fino a quel momento. –
Tu no. Tu sei piccolo.
“E 'sti cazzi” avrei dovuto
rispondergli se a quell'epoca avessi usato brutte parole, ma ero una
sottospecie di santo e quindi non mi feci prendere dalle mie crisi di
“accipicchia” e “cavolaccio”. Che colpe avevo io se ero alto
un metro e sessantaquattro virgola due a tredici anni e tre quarti?
–
Non conta. – ribadii quindi, deglutendo così tanto rumorosamente
da provocare una sua risatina. Tra l'altro non mi staccava mai quei
dannati occhi neri da dosso, quelle pozze di pece continuavano a
saettare continuamente su di me creandomi una sorta di inverosimile
imbarazzo.
– Allora cosa conta? Cos'ho sbagliato per meritarmi
una simile umiliazione?
Cercai di sostenere il suo sguardo quasi
sconvolto per qualche secondo, ma l'impresa si rivelò vana e riuscii
solo a spiaccicare i miei occhi sulle sue Converse nere: –
L'esperienza. – dissi sottovoce. – E la tua natura. Dipende se
hai forza nelle gambe o nelle braccia.
– Faccio nuoto da otto
mesi. – bofonchiò lui allora, roteando teatralmente gli occhi al
cielo (cosa che sono sicuro faccia tutt'ora). – Da quanto mai
potresti farlo tu, per essere un'anguilla del genere?
Feci
spallucce, riprovando a guardarlo negli occhi. Questa volta ci
riuscii: – Quasi dieci anni.
– Tsk. – Si allontanò
finalmente da me, ridacchiando tra sé e sé. – Non mi batterai di
nuovo, Anguilla.
– Non ho fatto le selezioni per battere
qualcuno. – sbottai, irritato ma sempre intimorito come la capretta
di Heidi quando c'era il cane Nebbia di mezzo. – Volevo solo poter
nuotare anche a scuola.
– Non ti ho chiesto informazioni. –
mi interruppe, sorridendo malignamente. Se a quel tempo pensavo di
essere etero stavo probabilmente già cominciando a cambiare idea con
quei suoi sorrisetti dell'accidenti. – Ricordati di me, Anguilla.
Perché mangerai la mia polvere.
– Schiuma. – lo corressi,
sorprendendomi di me stesso per essere riuscito a dire la cretinata
più grande in un momento come quello. Se avessi potuto mi sarei
stretto la mano da solo anche a costo di sembrare ancora più scemo
di quanto già sembrassi.
Anche il mio aggressore fece un sorriso
tirato, squadrandomi poi dall'alto in basso: – Il tuo nome,
Anguilla?
– Lascia perdere. – alzai le mani all'aria,
sconfortato da quella stupida domanda.
– “Lascia perdere”? –
ripeté, fintamente sconvolto. – Sono io che dico a te cosa fare.
Dimmi il tuo nome.
Scossi la testa più forte che potevo,
stringendo forte i libri al petto. Per un po' non sentii più nulla,
ma poi un sibilo arrivò chiaro al mio orecchio: – Himeragi
Fenwick.
Così riaprii gli occhi di scatto, fissando il sorriso
compiaciuto del ragazzo mentre io, in tutta la mia stupidità, avevo
dimenticato di aver scritto il mio nome sulla copertina di ogni libro
solo come un perfetto nerd potrebbe fare. Stavo per dirgli di non
dirlo a nessuno quando lui tese improvvisamente la mano in avanti e
io, credendo che volesse colpirmi, girai il viso di lato come un
deficiente e serrai gli occhi. Sentendo che il colpo però non
arrivava lentamente rialzai le palpebre, trovando solo lo sguardo
divertito del moro e la sua mano tesa per stringere la mia. Dapprima
lo guardai timoroso, confuso da questa sua improvvisa mossa di
cortesia, ma lasciai perdere i pregiudizi per un secondo e portai la
mia mano a completare la stretta.
– Kyle Adair. – sorrise
lui, compiaciuto. – Credo che avremo tante occasioni per conoscerci
meglio, Anguilla. Stammi bene.
E così dicendo se ne andò,
lasciandomi in preda ai dubbi e alla fatidica domanda “che
cavolaccio è appena successo?”. Non avevo minimamente idea del
fatto che quell'incontro avrebbe cambiato la mia intera vita,
partendo dal fatto di avere inconsciamente assunto il mio bullo
personale e di aver firmato il mio contratto di morte. Perché sì,
da due mesi a quella parte di Kyle Adair se ne sarebbe sentito
parlare parecchio.
– Terra chiama Anguilla!
Sposto gli
occhi sul ragazzino che mi ha appena chiamato, rischiando di finire
gambe all'aria a causa dell'acqua dove invece dovrebbe essere
asciutto con un salto triplo carpiato. Dove sono i giudici quando
servono?
– Dimmi, Xavier. – borbotto cercando di ristabilire
l'equilibrio, tenendo stretto al petto la mia cartella dove annoto
sempre i tempi dei ragazzi.
Il rosso trova appiglio al bordo
della piscina, sfilandosi la cuffia con fare teatrale: – Percy ti
cercava, prima.
Gli lancio uno sguardo di rimprovero per essersi
tolto la cuffia prima di essere uscito, ma ormai anche lui sa che non
mi arrabbio quasi mai. Vedete? Nessuno mi prende mai sul serio,
nemmeno ora che sono istruttore e ho raggiunto la maggiore età. Una
triste storia è la mia vita, ecco cosa.
– Grazie per
l'informazione. – Gli faccio un cenno col capo, indicando le sue
tre compagne. – Fate una staffetta intanto. Iris terrà il tempo.
– Oh, andiamo! – Il rosso mi schizza facendo scivolare la
mano sulla superficie dell'acqua, sorridendo poi colpevole. – Non
avevamo finito per oggi?
Ecco, ora decidono pure i loro
allenamenti!
Capite perché non c'è più religione nella mia
vita? Kyle sta per tornare, i miei allievi decidono per conto loro
quando uscire dall'acqua, i miei compagni mi chiamano e io non sento
e tutto il resto a puttane!
– Avevate. – confermo
quindi con un sorrisetto scocciato. – Ma tu ti sei tolto la cuffia
prima di uscire, Sapphire sta messaggiando invece di nuotare, Marley
sta giocando con i tubi di spugna che dovrebbero usare i bambini e
Tammie è l'unica che sta lavorando. Per questo pagate tutti, così
imparate bene cos'è lo spirito di squadra.
– Ma... Loro sono
femmine!
– Questo lo vedo anch'io. – puntualizzo con una
smorfia ovvia. – Anche tu hai fatto una cosa che non dovevi, quindi
ora vai alla corsia tre e fai la staffetta con le tue compagne.
Forza.
Xavier mi guarda male, sa che non sono veramente
arrabbiato ma si infila alla rinfusa di nuovo la cuffia e passa i
galleggianti che dividono le corsie, raggiungendo la meta senza più
rivolgermi la parola. Sebbene siano solo due mesi che lavoro con
questa squadra titolare devo dire che mi trovo incredibilmente bene
nonostante siano solo in quattro dei quali c'è solo un maschio,
insieme lavorano bene e ognuno di loro si trova bene particolarmente
con uno di noi, come se fossimo stati accoppiati - nel senso buono
della parola - dal destino che ha deciso di piazzare noi come
istruttori e loro come allievi. E' bastato molto poco perché io e
Xavier ci trovassimo in sintonia, lo considero un buon amico oltre
che un ottimo allievo e un buon nuotatore. Se non altro, è stato
l'unico a evitare di dirmi “te l'avevo detto” quando io e Iris ci
lasciammo, mentre tutti gli altri non fecero altro che infierire.
So
cosa vi state chiedendo.
Ma questo qui è gay o no?
Ebbene, non
lo so nemmeno io. L'unico ragazzo per cui io abbia mai provato
veramente qualcosa - che fosse odio o amore devo ancora stabilirlo -
è stato sicuramente Kyle, ma dopo di lui ho comunque avuto una
relazione con una mia compagna di squadra, quindi la situazione è
abbastanza confusa. E questo è senza dubbio uno dei punti che mi
spaventano di più in merito al ritorno della mia grande sfiga, è
una questione talmente delicata che più cerco di non pensarci e più
essa mi ritorna in testa.
– Hime! – Una maglietta piegata mi
si spiaccica in faccia, salvandomi dalla cascata di ricci scuri della
mia migliore amica che puntualmente mi prendono in faccia. – Sei
sempre in ritardo! E tra le nuvole, tra l'altro!
Mi levo
riluttante la maglietta dal viso, riponendola poi sulla scrivania su
cui brilla la targhetta con su scritto “Persephone Cavendish”,
per gli amici Percy.
– Chiedo venia. – mormoro ironicamente,
sedendomi sulla sua cattedra. – Xavier mi ha detto che mi cercavi.
Percy mi lancia un'occhiataccia con i suoi occhi color smeraldo,
agitando quella chioma indefinita di ricci che si ritrova in testa: –
Ti ho chiamato per mezz'ora ma stavi fissando l'acqua come se avessi
trovato il segreto di Fatima.
Alzo le spalle, se le dicessi che
stavo pensando a Kyle finirebbe per tirarmi nuovamente addosso la
maglietta: – Può darsi. Ero assorto.
– Appunto. –
bofonchia lei gesticolando con le mani. – I ragazzi verranno giù
da New York stasera. Devi stare sul pezzo, intesi? Non ti possiamo
perdere. Xavier non ci ascolta se non ci sei tu.
– Percy. –
la chiamo, sorridendo. – Non preoccuparti, andrà tutto bene.
Abbiamo i provinciali alle porte, è ovvio che io sia concentrato. E
Xavier ascolta tutti, lo sai. Solo che magari poi non esegue.
Mi
rendo conto da solo di aver appena dato ragione a Percy che, fiera,
fa una smorfia da “e cos'ho appena detto io?”. In effetti, sto
sia uscendo di testa e sia ignorando bellamente le gare provinciali
con la questione che, stasera, il mio peggiore incubo farà ritorno
nella mia inutile vita.
Oggi è proprio una giornata
meravigliosa.
– Hick? – le chiedo, ripensando al fatto di non
averlo visto per tutta la giornata.
– Lui, è... – Percy
tentenna un attimo, guardando altrove con aria colpevole. Ecco, sta
per dirmi qualcosa che andrà a mio discapito, lo so già. – C'è
stato qualche problemino.
Voglio piangere.
– “Problemino”
su che scala? – le chiedo mugolando, spiccicandomi la mano sulla
fronte.
– E' tecnicamente colpa di Aydin quindi sta cercando
lui di sistemare, ma credo non ci sarà molto da fare...
Aydin
Hickey, uno degli umani peggiori sulla faccia della Terra ma uno dei
migliori quando si tratta dello stile rana. Ci conosciamo
praticamente dalla prima superiore ma nonostante ciò lui continua a
trovare ogni maniera possibile per farmi diventare precocemente
scemo, per quanto cerchi di aiutarmi finisce sempre per fare casini;
come in questo caso dove sono praticamente convinto del fatto che
c'entri qualcosa anche Kyle, giusto per aggravare un po' la già
disastrata situazione.
– Dimmelo e basta, Persephone. –
Quando la chiamo per nome intero sa che mi sto innervosendo e che è
meglio assecondarmi, quindi sospira e appoggia entrambe le mani sulla
scrivania, schiarendosi la voce per parlare.
Sento di poter
svenire da un momento all'altro per la cattiva notizia che so che
arriverà nei prossimi dieci secondi, ma veniamo interrotti dalla
voce della quarta componente della nostra squadra che, gridando
ancora prima di entrare, rivela tutta la sorpresa: – Percy! Hick mi
ha chiamata e mi ha detto che non è riuscito a fare niente, gli
alloggi non sono... – Iris spalanca così tranquillamente la porta,
sgranando gli occhi non appena mi vede. – …Sufficienti.
Percy
la guarda malissimo, concludendo con una scossa del capo: –
Esattamente questo.
– Di cosa state parlando? – domando
esasperato alle due ragazze, chiedendomi cosa mai sia andato storto
nella mia vita. Insomma, sono sempre stato un bravo ragazzo, perché
adesso mi si ritorce tutto contro? – E cosa c'entra Aydin in tutto
ciò?
Iris tossicchia leggermente, è in difficoltà ma sa che non
ha scelta: – Non ti devi arrabbiare, Hime.
– Lo sai già che
lo farò. – borbotto, sentendo i nervi a fior di pelle. – Ditemi
e basta quello che ha combinato quell'altro cretino.
– Ehi! –
Ed ecco che spunta dalla porta anche Aydin che, con i capelli castani
bagnati, gli occhi azzurri che implorano pietà e i vestiti fradici
si appresta a noi con la coda tra le gambe. – Uno, non sono un
cretino. O se lo sono, solo in piccola parte. Due, non l'ho fatto
apposta. Tre, sono appena caduto in acqua quindi sono abbastanza
sconvolto.
– Ma se ci passi la tua vita in acqua! – lo
rimprovero, dandogli un leggero schiaffo sulla nuca.
– Sì, ma
non ci cado dentro perché non vedo una dannata tavoletta e scivolo!
E' venuta Tammie a darmi una mano. Tammie! Che è la più piccola del
gruppo! – Hick afferra la maglietta che è stata precedentemente
usata come arma contro di me e si asciuga il viso, sputacchiando
acqua subito dopo. Che visione celestiale. – Comunque, ho provato a
chiamare il direttore, ma non risponde. Non c'è niente da fare.
I
tre dell'Ave Maria si scambiano uno sguardo sconsolato, scuotendo la
testa in contemporanea e sospirando come se fosse morto qualcuno. Chi
è l'unico a non sapere nulla? Ma sono io, ovviamente! Quale
onore!
Prendo così un respiro, mettendomi a urlare come un
disperato: – Qualcuno mi dica che cazzo sta succedendo!
Iris si
avvicina a me, posa la mano sulla mia spalla e mi comunica la
catastrofe senza giri di parole.
Iris Rooney: capelli biondi
tenuti da sempre all'altezza delle spalle, occhi castani e un sorriso
determinato. Lei è così: non ha mai amato i giri di parole. E' una
caratteristica che condivide con Kyle e probabilmente è per questo
motivo che, dopo la partenza del mio incubo, ho creduto di essere
innamorato di lei e abbiamo deciso di provare a stare insieme. La
cosa è riuscita a reggere per quasi un anno e mezzo, ma alla fine
era palese che non c'era molto altro al di fuori dell'amicizia che
c'era sempre stata e dello spirito da compagni di squadra. Certo,
all'inizio è stato parecchio imbarazzante ricominciare ad allenarci
insieme, ma col tempo si è sistemato tutto. Del resto, una squadra
funziona solo se tutti gli ingranaggi girano nel verso giusto. Per
questo motivo sono sicuro che non ci potesse essere persona migliore
per comunicarmi questa catastrofica notizia. Spero solo di avere
abbastanza rosari in casa per pregare.
– Ehi,
Anguilla!
Mi giro di scatto verso il ragazzino rosso che, con i
capelli ancora bagnati, esce dallo stabilimento e corre verso la mia
macchina. Mi sa che sto per diventare un servizio taxi.
– Mi dai
uno strappo a casa?
Appunto. Questa cosa sta diventando
decisamente troppo frequente.
Sblocco così le portiere della
macchina, facendogli cenno con la testa: – Salta su.
–
Grazie! – Con tutta la grazia del mondo scaraventa la sua borsa sui
sedili posteriori, sedendosi poi stendendo le gambe sopra il box
dell'airbag. Mi chiedo se voglia un caffè irlandese o un the inglese
con i biscotti, a questo punto.
– Fa' pure. – borbotto
ironicamente, scuotendo la testa mentre ingrano la prima e mi
allontano dal parcheggio riservato agli istruttori. – Quante volte
ti ho detto di asciugarti i capelli prima di uscire dalla piscina?
–
Dovremmo essere a ventisette, se non erro. – ribatte il ragazzino,
fiero della sua prontezza nelle risposte.
E' sempre così, riesce
a rispondere indietro con una facilità tale che se io l'avessi fatto
alla sua età probabilmente mia madre mi avrebbe fatto diventare
parte dell'arredo. Quasi sicuramente un divano-letto, ha sempre detto
che ne avrebbe voluto uno.
– Lo dico per te. – continuo,
rendendomi conto di sembrare una madre iperprotettiva quando si
tratta di Xavier. – I provinciali sono alle porte e senza di te la
squadra non può farcela.
– Ci sono comunque i ragazzi del primo
e del secondo anno che potrebbero sostituirmi. Chi sostituisce te,
invece?
Ecco, ora si mette a fare il filosofo. Giuro che non
sopporto quando le persone mi fanno notare cose che magari sto
cercando con tutto me stesso di ignorare - ovvero quasi tutto ciò
che è presente a questo mondo.
– Cosa vorresti dire? – gli
chiedo guardandolo velocemente negli occhi per non rischiare di fare
un incidente. Ciclista schivato a ore dodici. Imprecazione arrivatami
contro a ore dodici e cinque.
Xavier si mette seduto composto,
abbassando il volume della radio: – Ho sentito che parlavate,
stamattina. Kyle sta per tornare.
Annuisco, pentendomi di avergli
parlato di Kyle all'inizio del suo anno scolastico. Ci tengo però a
precisare che non l'avrei mai fatto se non fosse stato per i suoi
messaggi minatori che trovavo sul parabrezza della mia macchina ogni
sera, frasi del tipo “so cosa nascondi” e “ti ho sentito
parlare oggi con gli altri istruttori”. Una volta mi ha perfino
lasciato un messaggio con su scritto “capirò il tuo segreto” con
le lettere ritagliate da una rivista, capirete che gli ho dovuto
raccontare di Kyle perché non sapevo se ero più divertito o
impietosito dalla sua originalità.
– Non è comunque un affare
che ti riguarda. – concludo, portandomi la mano al cuore dopo aver
quasi investito il secondo ciclista. Devo andare assolutamente a
cambiare le lenti dei miei occhiali. – Non è stata una delle mie
giornate migliori e sembra che non migliorerà, quindi ti prego di
non infierire.
– Sai che non mi piace inferire. – borbotta il
rosso alzando le spalle, puntando lo sguardo fuori dal finestrino
tanto per rendere tutto un po' più drammatico. – Dico solo che
anche la tua squadra ha bisogno di te. Non andare via di testa.
Sorrido leggermente per il tono da imbronciato che Xavier ha
appena usato, so che tiene a me come io tengo a lui e so che è
consapevole del fatto che con la presenza di Kyle io potrei perdermi
di nuovo nell'abisso di “accipicchia” e “cavolaccio” che a
questo giro potrebbero diventare “santa merda” e “uccidetemi
ora”.
– Ti ringrazio. – Parcheggio la macchina fuori dal
cancello di casa sua, salutando sua madre che, alla finestra, agita
la mano verso di noi. – Farò del mio meglio. Tu impegnati ad
asciugarti i capelli prima di uscire, intesi?
Il rosso sorride
sornione, afferrando la borsa da dietro con la stessa grazia con cui
l'ha scaraventata e salutandomi portando l'indice e il medio alla
tempia, imitando il saluto militare.
Che ci posso fare? Questo
ragazzino è una forza della natura, non riuscirei a non andarci
d'accordo come invece fanno i miei colleghi senza problemi. Forse è
il fatto che comunque sapevo abbastanza bene chi fosse ancora prima
che diventassi il suo istruttore dal momento che faceva parte della
squadra di riserve durante gli ultimi miei due anni, anche se devo
ammettere che non provavo tutta questa grande simpatia per lui
durante gli allenamenti collettivi.
– Ci vediamo domani,
Anguilla! – grida dalla soglia, agitando la mano.
– A domani!
– ricambio sorridendogli, inserendo la marcia e allontanandomi
dalla casa.
Direzione: casa mia, poi piscina.
Cosa posso
fare io, piccolo abitante di Detroit, contro la corriera illuminata
che parcheggia davanti alla piscina?
Davanti a noi il rettore
Muller attende impaziente l'allenatore della NYC Swimming Team,
abbreviata in NYCST, per gli amici Nyst. Tra l'altro, James Harper è
un pluripremiato nuotatore che ha vinto diverse medaglie d'oro alle
provinciali e alle nazionali, perciò sono parecchio agitato all'idea
di dover condividere gli allenamenti miei e dei miei ragazzi con
questo grande mister della Nyst. Ovvio, l'ansia da allenatore-figo è
una bazzecola in confronto con l'ansia da
ritorno-del-mio-peggiore-incubo, ma non aiuta a sedare la mia
situazione già impanicata per conto suo.
– E' tutto pronto? –
mi chiede Aydin all'orecchio, avvicinandosi per non farsi sentire dal
rettore e da Iris e Percy.
Gli lancio l'occhiata più omicida
possibile, assomigliando per un attimo ad uno psicopatico in cerca di
piccole e dolci vittime: – Sì, per colpa tua.
– Ti ho già
chiesto scusa. – si difende lui, mortificato. – Sarà una bella
esperienza, vedrai.
– Ma vaffanculo. – sbotto, dandogli una
leggera spinta. Non capisco come il suo errore che alla fine si è
ritorto contro di me possa essere una bella esperienza considerando
che il deficiente che risponde al nome di Aydin ha sbagliato a
prenotare il numero di alloggi al dormitorio e che quindi è rimasto
fuori uno della Nyst - indovinate chi? Ma potrebbe essere solo lui,
signori e signore! E chi dovrà ospitarlo? Ovviamente lo sfigatissimo
sottoscritto!
– State buoni. – ci rimprovera il rettore,
guardandoci male. – Cerchiamo di non fare brutta impressione con
loro.
– Non per fare polemica – inizio, tossicchiando a bassa
voce. – Ma siamo un team di quattro allenatori diciottenni che
hanno appena finito i corsi perché nessuno si è preso la briga di
badare alla squadra di questa scuola, tra l'altro di appena quindici
membri. La brutta impressione la facciamo solo con la nostra
presentazione, signor Muller.
Il rettore annuisce, sconsolato: –
Lo so anch'io, Fenwick. Ma facciamo finta che non sia così, okay?
–
Facciamo finta di avere tanti iscritti? – chiede Iris, ironica.
–
Facciamo finta di avere un team professionale di allenatori? –
infierisce Percy, ridacchiando sotto i baffi.
– Facciamo finta
di avere una piscina attrezzata correttamente? – conclude Aydin,
dando il colpo di grazia al rettore.
Quest'ultimo, dopo aver
sospirato sonoramente e dopo aver trattenuto un sorriso - forse
dovuto alla disperazione, mentre si aprono le porte della corriera ci
guarda e scuote la testa: – Continuo a chiedermi chi me l'abbia
fatto fare di avervi assunti, razza di disgraziati.
Noi quattro
ci lanciamo uno sguardo d'intesa, ridendo leggermente per quanto la
situazione ce lo permetta. Nemmeno l'istante dopo i nuotatori della
Nyst cominciano a scendere placidamente dalla corriera, scherzando e
ridendo tra di loro. Col buio non riesco a distinguere Kyle, so che
c'è ma spero di non vederlo ancora per un po' per preservare la mia
sanità mentale. Hick cerca di sorridermi, parlando a bassa voce: –
Non preoccuparti, Hime. Andrà tutto bene.
Annuisco, intravedo
l'allenatore Harper scendere dalla corriera e sento la squadra -
composta ad occhio e croce da una trentina di ragazzi - farsi
silenziosa alle parole del loro istruttore che purtroppo non arrivano
a noi per la distanza.
– Merda. – riesco solo a mormorare
vedendo tutti loro marciare compatti verso di noi che, nella loro
attesa, cerchiamo di intravederli dalla cima alla gradinata che
divide la strada dall'entrata della piscina. Mi sento le gambe molli
e lo stomaco in fiamme, so che tra meno di dieci minuti sarò
rinchiuso nella stessa macchina e poi nella stessa casa con la mia
più grande sfiga, il mio peggiore incubo. Ripenso velocemente ai
miei ragazzi: Xavier, Tammie, Sapphire e Marley, loro che mi hanno
insegnato così tanto in così poco tempo e che mi hanno anche
aiutato a capire per cosa vale la pena essere davvero in pensiero.
Purtroppo, Kyle e i regionali rientrano completamente in questa lista
del cazzo.
– Signor Muller! – James Harper sale i gradini in
tutta la sua maestosità, la prima cosa di lui che risalta all'occhio
sono senza dubbio le spalle enormi e il viso ormai segnato dall'età.
Con un sorriso raggiante raggiunge tutti noi, stringendo
calorosamente la mano a Muller. – E' un piacere essere qui, non la
ringrazierò mai abbastanza!
– Si figuri! – è la diplomatica
risposta del nostro rettore che, a contrasto con Harper per la
pronunciata presenza di una pancia segnata dalle bevute di birre
fatte in gioventù, gli stringe a sua volta la mano con un sorriso
che credo di avergli visto fare solo alla cerimonia dei diplomi
quando si rendeva conto che non avrebbe più dovuto avere a che fare
con certi elementi. Si rivolge poi verso di noi, indicandoci con la
mano. – Mi permetta di presentarle i miei ragazzi.
– Oh! –
Harper ci guarda meravigliato. – Quando mi ha parlato di un team
esperto di allenatori pensavo si riferisse a professionisti. Quanti
bei giovanotti che abbiamo qui!
Non so se essere più irritato per
il fatto che Muller abbia mentito su di noi o per la frase da Galateo
elargita dall'allenatore della Nyst. In ogni caso ringrazio
mentalmente il fatto che parta da Iris a chiedere il nome, evitandomi
la figura di merda per primo.
– Iris Rooney. – mormora la
nostra nuotatrice a delfino, stringendo piano la mano di Harper col
fastidioso sottofondo di mormorii della squadra. Ecco, mi stanno già
sui coglioni.
Arriva poi il turno di Percy che, con un po' più
di enfasi, sorride scuotendo la folta chioma scura: – Persephone
Cavendish.
– Cavendish. – ripete Harper, pensieroso. –
Provieni dall'antica famiglia di duchi d'Inghilterra, giusto?
Io e
Hick ci guardiamo allarmati, se c'è una cosa che Percy odia è che
si facciano allusioni alla sua provenienza. Del resto, la sua
famiglia è decisamente benestante ma lei odia questa questione, è a
causa della sua discendenza che non riesce mai a vedere i suoi
genitori e che è quindi lasciata alle cure dai maggiordomi della sua
reggia.
Sorprendentemente però, lei si limita a sorridere e ad
annuire: – Già, proprio così.
Harper sorride di rimando,
passando a Hick che, indifferente, stringe la sua mano con
noncuranza: – Aydin Hickey. Piacere.
– Piacere mio, ragazzo. –
ricambia l'allenatore, arrivando spaventosamente a me. – E qui? Chi
abbiamo?
Deglutisco, indeciso se parlare o no. Non ho nemmeno il
coraggio di dire il mio nome da quanto è ridicolo, perciò mi limito
a stringere lentamente la sua mano sperando che riesca a sentire il
sibilo che sto per emettere.
– Hi...
– Himeragi Fenwick! –
una voce mi anticipa, gridando ai quattro venti il nome che tanto
odio. Mi sento rabbrividire, un silenzio spettrale scende su tutti
noi.
Non ci metto molto a capire a chi appartiene questa voce, i
miei compagni mi guardano allarmati mentre un ragazzo si fa spazio
tra la Nyst ed è così che, dopo due anni e mezzo, la mia più
grande sfiga riappare davanti ai miei occhi.
Santa merda,
uccidetemi ora.
GUESS WHO'S BACK AGAIN?
Casini ne abbiamo fatti, sì?
Spero con tutto il cuore che vi piaccia, io mi impegnerò il più possibile per aggiornare velocemente. Grazie per essere arrivati fin qui, un bacio!
Ale xx