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eth aveva
l’odore del caffè addosso.
Girava per il locale con un sorriso
di circostanza sul volto, il vassoio tra le mani e un grembiule verde a
fare da
muro invalicabile contro il resto del mondo.
Eppure non riusciva a staccare gli
occhi da quel cliente, che ordinava caffè americano tutte le
mattine e sedeva
al tavolo più lontano dalla gente.
«Cosa prendi?» chiese lei, come ogni
giorno.
Lui non rispondeva mai, la guardava
negli occhi e indicava con il dito la sua scelta.
Il menù accanto ai tovagliolini di
carta era la sua voce, e a Beth piaceva ascoltarla.
«Te lo
porto subito.»
Non
c’erano sorrisi tra loro, anche
se lei avrebbe voluto. Qualche volta si era ritrovata a desiderare un
semplice “grazie”,
o un cenno del capo o della
mano.
Invece, quando posò il caffè
americano sul tavolo – a un soffio di distanza dalle sue dita
– lui si limitò a
guardarla.
Non erano occhi a cui restare
indifferenti. Avevano il colore del ghiaccio, e riuscivano a bruciarla
dentro,
anche se fuori nevicava.
Ogni giorno, sentendosi scottare fino
al viso, Beth distoglieva lo sguardo e andava via, ignorando la
banconota abbandonata
sul tavolo, silenziosa come lui.
Ma non quella
mattina.
Indugiò
un istante di troppo sulla
camicia lisa che indossava – testimone di una vita che Beth
non avrebbe mai
conosciuto – e non si accorse della mano di lui stesa verso
la tazzina, che
incontrò la sua.
Per la prima volta, Beth sentì il
contatto con la sua pelle, eco silente di un desiderio inespresso. Non
sapeva
nulla di lui – nemmeno il suo nome – nulla della
sua vita; eppure, per un
istante, sognò di farne parte.
Parlarono con
gli occhi per tutto il
tempo in cui rimasero vicini: Beth con tacita voce zeppa di domande,
lui con
una sola risposta. Ed era sempre la stessa.
A ogni richiesta, lui reagiva
muovendo le dita, percorrendole il palmo e il pollice, tracciando segni
roventi
che solo lei riusciva a vedere.
Li sentiva, come se fossero marchi
sulla pelle, come se non si
trovassero più nella caffetteria, circondati dalla gente, ma
in un luogo
privato, dove ogni gesto, ogni tocco, acquistava significato.
«Beth,
per favore, mi porteresti
altro caffè?»
Era un cliente, uno qualunque. Non
come lui. Era solo un
ragazzo che si presentava spesso, chiedendole caffè e
sorrisi.
E Beth era disposta a darglieli.
«Arrivo.»
Interrompere
quel contatto le sembrò
più faticoso che studiare per l’ultimo esame,
più doloroso che scoprire di non
averlo passato.
Sentì di arrossire, mentre chinava il
capo e sbatteva le ciglia, infilando il vassoio sotto il braccio.
Scusami,
disse in un ultimo sguardo, pronta a lasciarlo.
Ma lui le afferrò il polso, facendola
voltare ancora. E arrossire ancora.
«Sono
Daryl.»
Era la prima volta che coglieva la
sua voce, bassa e roca come un fiore d’inverno nascosto sotto
la neve.
«Beth.»
Daryl percorse l’interno del polso
con il pollice, prima di lasciarla andare. Ultima, trepidante carezza,
che
svelava ciò che gli occhi avevano sempre celato.
«Lo
so.»
Quelle due
parole furono la cosa più
emozionante che Beth sentiva da tempo.
D’improvviso capì perché Daryl veniva
ogni giorno in quella caffetteria, rubandole uno sguardo e qualche
minuto della
sua vita.
Sentì un brivido correrle lungo la
schiena, trasformarsi in una carezza ardente – quella che
avrebbe voluto da lui
– e risalirle la spina dorsale, fino alle orecchie. Era
speranza.
Beth sperava di avere ragione,
sperava che lui venisse lì, ogni giorno, per vedere lei. Per
cercare quel
contatto capitato per caso – per un suo errore – e
per mostrarle quel fiore
sbucato dalla neve.
«Ti
porto il caffè» disse al ragazzo,
guardandolo senza vederlo.
Devo
parlargli.
Non
devo lasciarlo andare via. Non così.
Si
affrettò per prendere il
contenitore caldo del caffè e raggiunse il tavolo del
cliente, dedicandogli un
sorriso e un istante della sua vita – un istante che avrebbe
potuto, o dovuto,
dedicare a qualcun altro.
«Sei
di turno anche stasera?»
Quasi non
sentì la domanda, presa
com’era da un altro tavolo – un altro cliente.
«Sì» rispose, lanciando
un’occhiata a
Daryl per assicurarsi che ci fosse ancora.
C’era.
«Ma
solo fino alle sei.»
«È già buio alle sei»
constatò il
ragazzo. «Potrei accompagnarti…»
«Non ne ho bisogno, grazie.»
Beth
camminò fino al bancone per
riporre il contenitore al suo posto. Sentì il campanellino
della porta, e provò
l’impulso brutale di voltarsi.
Lo
sapevo,
pensò. È
andato via.
Alle sei in
punto, Beth sciolse il
nastro del grembiule, lo tolse e lo lasciò nel retro del
locale.
Era stanca e voleva solo tornare a
casa.
Infilò cappotto, guanti e berretto di
lana, e salutò la ragazza che le dava il cambio.
«A domani» disse, sollevando la
sciarpa sul mento mentre apriva la porta.
Fuori, la neve
ricopriva le strade,
lasciando giusto due scie grigie a mostrare l’asfalto.
C’erano pochissime auto
parcheggiate fuori dalla caffetteria, e una moto nera, con il sellino
ricoperto
da cristalli di ghiaccio.
Faceva freddo, e Beth avrebbe dovuto
camminare a piedi fino a casa, gli stivali alti che affondavano nella
coltre
bianca.
«Ragazzina.»
Lei continuò ad avanzare. Non era la
prima volta che qualche sconosciuto tentava di avvicinarla.
«Beth.»
Un fiore sepolto
dai fiocchi, che
solo lei riusciva a vedere.
Si voltò e lo vide.
«Ciao,
Beth.»
Lei fece un
passo verso di lui e si
fermò, come se avesse osato troppo. «Cosa ci fai
qui fuori?» Con questo tempo.
Beth credeva di conoscere la
risposta. E sperava di sentirla da lui.
“Sono
venuto per te”, sarebbe stata
la musica più dolce di
quel giorno.
Ma Daryl alzò le spalle, fece un
verso gutturale, stringendosi addosso il giubbotto di pelle nero.
«Che
cosa significa?»
Beth si
lasciò sfuggire un sorriso,
scuotendo la coda bionda.
Gli occhi di Daryl catturarono i
suoi, in una muta risposta. Come un manto di neve che cade troppo
presto,
mostrando ciò che c’era dietro.
Il cielo era
nero, i lampioni
illuminavano a stento la strada, eppure lei riuscì a capire
più cose di lui in
quel momento, osservando il viso avvolto nella penombra, di quanto
avesse mai
intuito durante quella infinità di mattine.
Faceva freddo, eppure Beth si sentì
avvampare.
«Beth!»
la ragazza del locale aprì la
porta, investendola con tepore e luce, tanto da farle abbassare le
palpebre.
«Scusate… ti ho vista qui fuori. Volevo solo dirti
che domani verrò prima, così
potrai tornare a casa presto.»
Lei annuì, mentre la porta si
richiudeva.
Quando si
voltò verso Daryl, lo trovò
più vicino di quando lo aveva guardato l’ultima
volta.
E lei non era riuscita nemmeno a
sentirlo…
Vide il respiro di lui condensarsi
tra loro e unirsi al suo. Calore che si confondeva con calore, e desiderio che incontrava altro desiderio.
Daryl fece un
cenno verso la moto,
avanzando fino a lei. «Posso portarti io.»
C’era un incendio dentro di lei,
anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Pensare di salire
dietro di
lui, di avvolgerlo con le braccia,
di
respirare il suo odore…
Beth
annuì. «Va bene.»
… la
faceva sentire strana. Non aveva
mai pensato in quel modo a un estraneo, non certo a uno vestito in quel
modo,
che le offriva passaggi sulla sua moto.
Daryl la prese per un braccio, e
oltre strati di stoffa, Beth sentì la pelle sciogliersi
sotto il suo tocco.
Come sarebbe stato sentirlo davvero?
«Andiamo.»
Sentì
la mano spostarsi sulla sua
schiena, giaccia contro giacca, e
sentì il corpo rovente sotto lo sguardo di lui.
Sollevò appena gli occhi e incontrò i
suoi, come aveva pensato.
C’era poca differenza di altezza tra
loro, eppure Beth percepì il suo respiro caldo contro la
guancia scivolare
sotto la sciarpa, fino a collo.
«Sì» disse, trattenendo il respiro.
Faceva freddo,
ma non più di tanto,
non ora, non per Beth. Non adesso che sentiva il naso di Daryl contro
l’orecchio, non nel momento in cui anche lui si accorse del
suo fremito.
«Hai
freddo?»
Daryl lo disse sottovoce, ma per Beth
fu la carezza che aspettava, che bramava
da quando si era accorta della sua presenza nel locale, da quando aveva
incrociato il suo sguardo.
«Nemmeno
un po’.»
Percepì
il sorriso di Daryl sulla
guancia e si sentì impazzire.
Voltò appena il capo, giusto per
dargli modo di raggiungere le sue labbra. E fu lì che si
incontrarono, quando
Daryl la strinse a sé, spingendo sulla schiena per farla
aderire a lui.
«Odori
di caffè.»
Beth
percepì quelle parole come un
soffio incandescente sulla bocca. Sentì il respiro di lui
unirsi al suo,
percepì il suo sapore – tabacco e dopobarba
– prima ancora di sentirlo.
«Ti dispiace?»
Brivido su brivido, nell’attesa di
scoprire qualcosa di lui che ancora non conosceva. Tremò
appena, quando sentì
le sue labbra percorrerle la guancia, cercando la strada giusta per
baciarla.
«Io amo il caffè.»
Daryl la spinse
completamente contro
di lui, come se fossero una cosa sola. E poi, finalmente,
trovò la via.
Quando la baciò – dapprima
lentamente, lasciando alle loro labbra il tempo di conoscersi; poi
divorando
ogni pensiero di lei, come se non fosse esistito nient’altro
eccetto loro –
Beth pensò che non avrebbe voluto baciare più
nessuno.
Toccare più nessuno.
Lasciarsi baciare e toccare da
nessuno.
Tranne
che da Daryl.
Note
dell’autrice:
Prima volta che mi presento
nel
fandom! E ho amato scrivere questa storia, tant’è
che avrei voluto prolungarla
ancora e ancora, e non farla terminare mai… Ho amato il
prompt datomi da LaSil88 sul gruppo Facebook
“Il
Giardino di Efp”, e confesso di aver pensato subito a Daryl e
Beth.
Amo questa storia. Posso? Amatela
anche voi, o dovrò tornare a leggerla tutta sola soletta!
Celtica