Anime & Manga > Yuri on Ice
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Autore: R e d_V a m p i r e     08/12/2016    5 recensioni
Otabek esita, arrossisce un po' sul naso e sgrana impercettibilmente gli occhi, mormorando un fioco ''scusa'' prima di lasciarlo andare. Indietreggia d'un passo, prendendosi la mano con cui l'ha toccato nella gemella e stringendovi piano contro le dita mentre sente i passi secchi di quello allontanarsi e la porta chiudersi con un tonfo sordo alle sue spalle.
Non ha ancora tredici anni, c'è un volo per New York che lo aspetta ed un duro programma lungo anni lontano da casa che ha voluto con tutte le sue forze nel momento in cui si è reso conto che non desidera altro che poter gareggiare con i migliori e dimostrare di esserlo a sua volta; eppure il suo cuore batte forte e rimbomba nelle orecchie con ferocia, mentre le parole che ha soffocato si arrampicano prepotentemente lungo la gola e premono per uscire.
«La prossima volta che ci vedremo sarà da pari. Perciò continua a fare del tuo meglio, Yuri.»
[#motopatati / Otabek x Yurio | ''Five years ago'' | Post episodio 10]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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In regards to love: Kairos*

Alice: Per quanto tempo è per sempre?
Bianconiglio: A volte, solo un secondo.

 

Il rumore delle lame che graffiano il ghiaccio ed il concitato chiacchericcio degli altri ragazzi sono l'unica compagnia a cui lo straniero dai ribelli capelli corvini può ambire. L'ha realizzato dopo appena una settimana dal suo arrivo, quando si è reso conto che tutti i suoi tentativi di comunicazione non facevano altro che infrangersi contro l'ostinata diffidenza dei suoi ospitanti; per quanto si sia sforzato di instaurare un qualche tipo di conversazione con loro, fosse anche delle più banali e portate avanti in un basilare russo stranamente melodico per via del suo accento, si è sentito rispondere con tutto l'astio di una pura lingua dura e fredda, nella sua pur difficilmente comprensibile bellezza, quanto la stessa terra in cui viene parlata.
La Russia è bellissima. Così simile alla terra da cui proviene lui eppure diversa al punto da non trovare nulla di familiare a cui poter aggrapparsi per sentirsi almeno un po' accettato. Sembra che tutti e tutto vogliano mettere in chiaro che, lì, tu sei solo un turista. Un ospite passeggero, destinato a durare giusto il tempo di una nevicata prima di andare via. Solo un'impronta nella coltre bianca che, presto, verrà coperta e cancellata dalla neve nuova - a nessuno importa di te, nessuno sentirà la tua mancanza o noterà la tua assenza quando sarai andato via. E' così che vanno le cose, soprattutto se provieni da un'ex repubblica dell'Unione Sovietica e sei considerato una sorta di traditore.
Otabek questo, dall'alto dei suoi tredici anni non ancora compiuti, lo ha facilmente compreso ed accettato con la stessa rassegnata quietezza con cui si accettano le cose inevitabili della vita.
Del resto non è che sia venuto a San Pietroburgo per farsi degli amici.
Quelli erano solo una variabile che, sotto sotto, un ragazzino che non arriva al metro e cinquanta con una massa di ribelli capelli corvini e occhi nocciola troppo grandi ed innocenti per un viso che già inizia a perdere le rotondità della fanciullezza, tiene in conto. Specie se hai qualche problema di inespressività, cosa che ti rende assai difficile il compito di socializzare anche in situazioni meno ostiche di questa.
Perlomeno rende difficile percepire la malinconia che riverbera appena nelle pagliuzze dorate di uno sguardo apparentemente vacuo, fisso sulla pista di pattinaggio a cui non sembra aver voglia d'accedere.
Sta seduto sugli spalti, rannicchiato in modo da occupare meno spazio visibile e passare così inosservato (non che sia così difficile quando gli altri fanno di tutto per ignorarti), il viso seppellito fra le ginocchia strette al petto e i suoi pattini abbandonati al fianco con le lame ancora coperte dalle loro protezioni colorate, a riflettere sul fatto che la sua tuta blu scuro, dorata e bianca non sia poi così diversa da quelle di un blu più chiaro, rosse e bianche che sfoggiano i compagni nordici. Eppure una differenza minimale appare così sostanziale per loro, un intero abisso che non si può e non si vuole colmare.
Sono solo dei colori. Certe volte vorrebbe dirlo, quando vede le smorfie che non si curano di nascondere in sua presenza. Ma ogni volta rimane zitto e si limita a distogliere lo sguardo.
Dovrebbe allenarsi, Otabek. E' lì per quello, in fondo. Per diventare più bravo, per migliorare e così scrollarsi di dosso la fastidiosissima sensazione di non essere abbastanza - abbastanza bravo, abbastanza talentuoso, abbastanza espressivo ed emozionante. Solo che è difficile quando ti scontri con la realtà che ti vede essere di una spanna inferiore a quelli che invece dovrebbero essere tuoi pari; non essere riuscito a stare al passo degli altri della Junior è uno smacco all'orgoglio, ma ritrovarsi addirittura con i principianti è anche troppo per chi il suo debutto l'ha fatto solo di recente e con grande fatica e sacrificio.
E' demotivato. E la cosa concorre ad abbatterlo ulteriormente considerato quanto a casa si aspettino da lui e come abbiano fatto grossi sacrifici a loro volta per permettergli quel periodo in Russia. Dovrebbe impegnarsi ancora di più e dare il mille per mille per ringraziare i suoi genitori e chi crede in lui, invece sta seduto a guardare gli altri allenarsi come fosse uno spettatore qualsiasi.
''Forse dovrei lasciar perdere.''
«Plisetsky, dannazione!»
La voce del coach Yakov rimbomba per tutto il palazzetto; sembra davvero alterato, almeno dato il tono usato, e il giovane pattinatore asiatico non può fare a meno che tornare a mettere a fuoco lo sguardo per puntarlo nella direzione da cui proviene quello che ha tutta l'aria di essere un rimprovero.
La persona a cui è rivolto, però, sembra fare orecchie da mercante e non essere particolarmente colpito dal viso rosso dell'uomo e dai suoi occhi comicamente strabuzzati - come sempre, quando si infervora.
Avrà sì e no dieci anni, piccolino e magro magro come un chiodo, con un visetto candido ed una scodella di capelli biondissimi con la frangetta ordinata ad arrivare poco sopra arrabbiati occhi dal taglio allungato che, da quella distanza, il kazaco non saprebbe dire se azzurri o verdi.
«Me ne fotto» sbotta il bambino, con sfida e una faccia tosta tale da far impallidire il suo allenatore prima che torni a diventare ancor, se possibile, più rosso.
Gli altri presenti, dopo un attimo di attonito silenzio, sono tornati alle loro faccende con l'indifferenza di chi deve vedere scenette del genere tutti i giorni o quasi.
Otabek però non c'è abituato. Lui non si sognerebbe mai di rispondere così ad un adulto, soprattutto il proprio coach, educato e mite com'è. Invece quel marmocchio si atteggia come se di anni ne avesse venti e, soprattutto, sapesse già di averla vinta qualsiasi sia la scenetta che debbano portare avanti.
Difatti Feltsman dopo un po' sbotta, soffia forte dal naso e alza le mani in segno di resa scuotendo con rimprovero il capo, prima di abbassarle di botto e dargli le spalle come a dire ''fa un po' come vuoi''. Sa già che qualsiasi tentativo sarebbe del tutto inutile con quel ragazzino e non ha la pazienza per stare dietro ad un altro piccolo prodigio testardo come un mulo - gli basta ed avanza Vitya per quello, anche se Yuretchka sembra fermamente intenzionato a seguire fedelmente le sue orme, grazie tante.
Il bambino si lascia sfuggire un sorrisetto vittorioso, corredato di linguaccia infantile alla schiena dell'adulto, prima di staccarsi dal muretto che delimita la pista ed iniziare a fare qualche giro di riscaldamento.
Il giovane Altin non sa di preciso perché, ma c'è qualcosa in quella figura tanto graziosa quanto tremenda che gli impedisce di distogliere lo sguardo da lui. E' affascinante il modo in cui si muove con sicurezza sui pattini, come danza con una grazia che raramente ha visto in un ragazzo e come, soprattutto, si cimenta in salti che alla sua età dovrebbero essere vietati. E, otto volte su dieci, riesce anche.
E' così che si ritrova ad assistere agli allenamenti di Yuri per la prima volta. 
 

Lentamente seguire gli allenamenti del più piccolo diventa una costante e, allo stesso tempo, gli dà la spinta per riprendere i propri.
La luce che vede in quegli occhi così belli - gli ricordano un po' la luce del sole che riverbera sulla pacata superficie del Big Almaty durante il periodo estivo, quando il ghiaccio si scioglie e l'acqua torna a scorrere liberamente, adesso che ha visto bene il loro colore - quando pattina e sfida il suo allenatore ed i suoi limiti per dimostrare di poter essere il migliore è affascinante. In qualche modo d'ispirazione per lui, che non vorrebbe mai smettere di vederla brillare nello sguardo della fata russa.
Eppure, appena mette piede fuori dalla pista, sembra che venga soffocata da qualcosa che non riesce ad identificare perché gli occhi del piccolo Plisetsky tornano a guardare al mondo con noia, quando non rabbia.
Otabek non ricorda di averlo mai visto sorridere da quando è lì né, se è per questo, rivolgersi a qualcun altro dei suoi compagni o passare del tempo con loro. Sta da solo, con quelle buffe cuffie tigrate nelle orecchie e l'aria corrucciata rivolta al cellulare dall'assurda cover leopardata stretto in un piccolo pugno.
L'asiatico non ha mai avuto il coraggio di andare a parlargli. Si sono incrociati, di tanto in tanto, scambiandosi occhiate distratte e poi tirando ognuno dritto per la sua strada. Ma mai più di questo.
Non è neanche sicuro che si sia mai accorto che sia sempre lì, seduto al suo anonimo posticino negli spalti, quando si allena. Che non abbia mancato una sua singola prova e che abbia trattenuto il fiato tutte le volte in cui è caduto ed intimamente esultato quando, invece, i suoi salti hanno raggiunto man mano livelli sempre più alti.
In realtà va bene anche così, se lo è ripetuto spesso, ma adesso che deve lasciare San Pietroburgo sente almeno di dover fargli sapere che esiste e che conosce ed ammira il suo valore.


«Volevo solo dirti che sei davvero bravo.»
Trova il modo di farlo il pomeriggio prima della sua partenza.
Lo incrocia negli spogliatoi e gli appoggia con esitazione, mascherata da sicurezza per via della sua non-espressione, una mano su un braccio per fermarlo ed impedirgli di uscire dalla stanza.
Il ragazzino lo fissa in tralice, abbassando con astio lo sguardo sull'arto che appoggia sulla stoffa scura, prima di tornare sul viso del kazako e sbuffare incerto qualcosa che suona come un vago ''grazie''. O potrebbe essere anche ''vaffanculo'', è difficile per il più grande dirlo con assoluta certezza.
Visto che il tizio non sembra avere intenzione di mollarlo e continua a guardarlo con quell'inquietante faccia da pescelesso, Yuri si sente in diritto di innervosirsi e strattonare il braccio per cui viene tenuto.
«Potresti mollarmi, adesso?»
Non gli piace che lo tocchino, soprattutto gente che non ha mai visto prima - o, comunque, con quello non c'ha mai avuto a che fare. Del resto è uno straniero e nonostante l'età si allena ancora con i principianti mentre lui è già in aria di debutto. Di certo non può avere nulla in comune con uno così.
Otabek esita, arrossisce un po' sul naso e sgrana impercettibilmente gli occhi, mormorando un fioco ''scusa'' prima di lasciarlo andare. Indietreggia d'un passo, prendendosi la mano con cui l'ha toccato nella gemella e stringendovi piano contro le dita mentre sente i passi secchi di quello allontanarsi e la porta chiudersi con un tonfo sordo alle sue spalle.
Non ha ancora tredici anni, c'è un volo per New York che lo aspetta ed un duro programma lungo anni lontano da casa che ha voluto con tutte le sue forze nel momento in cui si è reso conto che non desidera altro che poter gareggiare con i migliori e dimostrare di esserlo a sua volta; eppure il suo cuore batte forte e rimbomba nelle orecchie con ferocia, mentre le parole che ha soffocato si arrampicano prepotentemente lungo la gola e premono per uscire.
«La prossima volta che ci vedremo sarà da pari. Perciò continua a fare del tuo meglio, Yuri.» 
Ed è soltanto uno spogliatoio vuoto in una comune giornata di inizio settembre a San Pietroburgo ad accogliere la sua promessa. Ed il freddo a suggellarla, perché rimanga intatta negli anni a venire finché non arrivi di nuovo  l'estate a reclamarne i frutti.



«Dopo quell'estate, mi sono spostato molto per allenarmi, dalla Russia agli Stati Uniti, fino al Canada. Sono riuscito a ritornare alla mia pista, quella di Almaty, solo l'anno scorso. Ora più che mai voglio vincere il campionato, per il mio Kazakistan.»
Non lo guarda, mentre pronuncia quelle parole. Anche se adesso è vicino a lui, dopo cinque anni, anche se non viene fissato più con superiorità ma con una tiepida ed imbarazzata curiosità.
Ad essere imbarazzato, perlomeno, è lui. Averlo al suo fianco e rivelare quello che ha tenuto solo per sé negli ultimi anni è parecchio difficile anche se dalla tua hai un viso che è difficile leggere e non viene attraversato da emozioni; eppure non sei sicuro che i tuoi occhi non ti tradiscano, perché in quelle parole c'è ben altro.
Ci sono tutti i giorni, di quei lunghi cinque anni in giro per il mondo, passati a pensare a lui e a dare il meglio per poter essere alla sua altezza. Per poter mantenere la promessa e sfidarlo, poter parlargli, un giorno, da pari a pari.
Perché non è solo per il suo paese che intende vincere con tutte le sue forze.
«Otabek, perché sei venuto a parlarmi? Siamo avversari, no?»
Continua a chiederselo Yuri, eppure non sa darsi una risposta. Perché l'ha salvato come un eroe in brillante armatura a cavallo del suo rombante destriero e l'ha portato lì?
Non si ricorda di lui, ad essere onesti, ed in fondo la cosa un po' gli dispiace. Ma è la prima persona che gli si avvicina tanto, di sua spontanea volontà, e lo aiuta senza volere nulla in cambio. Solo un po' del suo tempo, solo due chiacchere in compagnia.
Non sa cosa pensare.
«Ho sempre pensato fossimo molto simili. Tutto qui.»
Finalmente si volta a guardarlo, trova il coraggio come l'ha trovato quell'ultimo pomeriggio in Russia di cinque anni fa. Questa volta sono i raggi morenti del sole che colora le nuvole del cielo sopra Barcellona, rendendo lunghe le ombre e quasi accecandoli un po', a fare da testimone.
Lo fissa e spera di non avere un'espressione troppo dura, troppo scontrosa. Non abbastanza limpida per ispirargli quella fiducia che cerca.
«Vuoi essere mio amico sì o no?»
Il vento soffia e accarezza la frangia che nasconde in parte il bel viso del pattinatore più giovane. I suoi capelli sono diventati più lunghi, in quegli anni, i suoi lineamenti sono però rimasti gentili anche se cerca di nasconderli dietro espressioni feroci e scontrose. E' diventato bellissimo, come la terra da cui proviene, anche se forse non altrettanto irraggiungibile; sono occhi carichi di infantile meraviglia che lo guardano, le labbra socchiuse nella sorpresa ed un timido rossore a tingergli il viso.
Yuri non dice nulla, in realtà. Si limita ad avvicinarsi di un passo all'asiatico ed allungare una mano con un accenno di sorriso. Non sa spiegarsi neanche il battito saltato nel ricambiare il suo sguardo - sembra oro, in quel momento - mentre ripensa a quella folle fuga in moto e decide che non sarebbe male sentire ancora il vento sul viso tenendosi stretto a lui mentre corrono per le strade della città - qualsiasi città, non importa. Non importa neanche dare un perché a quello che prova. Non adesso.
Otabek trattiene il respiro, il cuore che batte forte. Poi sorride a sua volta, impercettibilmente, e gli stringe la mano. La tiene fra le sue mentre la luce morbida del sole li bagna e li acceca per qualche istante.
E' un primo passo. Ha aspettato tanto, cinque anni, potrà farlo ancora.
Tutto il tempo del mondo vale l'attesa di un singolo istante perfetto.





N.d.a -
*Kairos (καιρός) o Cairo è una parola che nell'antica Grecia significava "momento giusto o opportuno" o "momento supremo". Gli antichi greci avevano due parole per il tempo, χρονος (chronos) e καιρος (kairos). Mentre la prima si riferisce al tempo cronologico e sequenziale, la seconda significa "un tempo nel mezzo", un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale "qualcosa" di speciale accade. Ciò che è la cosa speciale dipende da chi usa la parola. Chi usa la parola definisce la cosa, l'essere della cosa. Chi definisce la cosa speciale definisce l'essere speciale della cosa. È quindi proprio la parola, la parola stessa, quella che definisce l'essere speciale. (Fonte: Wikipedia) 
Il discorso dell'ultima parte della OS è ripreso dalla decima puntata uscita ieri, quindi potrebbe essere un piccolo spoiler per chi ancora non l'ha vista. Io vi avevo avvisati (?)
Che dire. E' sbocciato l'amore, letteralmente. Sono bastati cinque minuti insieme e il discorso di Otabek perché scattasse in me la scintilla che mi ha fatto urlare all'OTP suprema - la Phitchuri-o rimarrà sempre nel mio cuore, ma sono consapevole di quanto sia infattibile e crack oltre ogni livello. E, sfortunatamente, è stata soppiantata dalla Yurek? Otario? Yurebek? Non ho idea di come si potrebbe chiamare o se un nome è stato dato. Nel dubbio invadiamo il mondo con il tag #motopatati che come nome è stupendo. E quindi niente, boh, è nata questa piccola OS. E mi sa che non sarà l'unica 
sì è una minaccia(?)
Al solito ringrazio in anticipo chi leggerà e chi vorrà darmi un parere o semplicemente fangirleggiare con me su questi due amorini.
Finalmente una gioia per il nostro Yurio!
See ya


 

   
 
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