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Autore: Dio_dei_Fluff    17/12/2016    0 recensioni
- Prima diamo un occhiata, poi userò il mio cognome per parlare con il direttore. Risparmio anche il biglietto per una persona…-
- Simpatico, ma lo sai che ogni tanto non ti sopporto?-
- Mi conosci da due giorni e già pensi questo di me?-
- No… tiro ad indovinare, guarda…. Ora entriamo, prima che la genti pensi male perché ti vede parlare da solo…-
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Legami che vanno oltre la morte
“Nessuno sarà sottoposto a tortura
né a pene o trattamenti crudeli,
inumani o degradanti”.
 
"No person shall be subjected to torture
 them to cruel,
 inhuman or degrading treatment".
 
Art. 5 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
 
Non credo di ricordarmela bene, mia madre. Avevo solo sei anni quando lei se ne andò per un errore.
Era una sera d’inverno, pioveva a dirotto e lungo il tragitto verso casa mia madre sbandò e andò a scontrarsi contro un albero, a grande velocità.
Arrivata all’ospedale, aveva perso molto sangue, le misero una flebo con gruppo sanguigno diverso dal suo.
Questo provocò il suo decesso. Forse si sarebbe potuta salvare, forse adesso non starei raccontando la sua morte; ma io di quella maledetta notte non ricordo quasi nulla, oltre le lacrime di mio padre e quelle di mia nonna cariche di sofferenza.
Ma da piccoli non si riesce a comprendere la perdita di un caro, non si riesce a realizzare di aver perso la metà del tuo cuore.
Poi quando ebbi un’età più matura, tutto fu più chiaro e doloroso.
Il giorno dopo la sua morte era il mio compleanno, ma da quell’anno smisi di festeggiarlo.
Ogni anno mia madre, per il mio compleanno, mi nascondeva il regalo da qualche parte nella casa.
Il mio compito era trovarlo.
Passavo ore e ore a cercarlo, ma quando finalmente lo trovavo e lo tenevo fra le mani, dimenticavo la fatica precedente.
Nel pacchetto c’erano una letterina, che mi leggeva lei prima di andare nel mondo dei sogni e, di solito, un pupazzetto o una barretta di cioccolato.
Quel maledetto anno, invece, rinunciai a cercarlo.
Solamente molti anni più tardi lo trovai per caso.
Questa volta nella lettera c’era scritto qualcosa di molto strano: era quasi come se lei sapesse già che, al mio settimo anno di vita, non sarebbe stata più accanto a me.
Nella lettera si parlava in particolare di una di una bambina e insieme alla carta prestampata di un orfanotrofio in Toscana c’era una chiave; la bambina e la chiave erano legate a me più di quanto in quel momento potessi immaginate.
Ricordo benissimo l’istante in cui trovai il pacchetto nascosto da mia madre, nove anni dopo la sua morte.
Le gambe incominciarono a tremarmi, e io non capii più nulla; da un lato ero felice perché mi ricordai i bellissimi momenti trascorsi con lei, dall’altra però mi avvolse il senso di vuoto che mi aveva lasciato la sua morte, quel vuoto che, giorno dopo giorno, era diventato una voragine.
Ripresami dalla confusione afferrai con impeto il pacchetto e mi feci scivolare la lettera della mamma tra le dita: senza accorgermene le lacrime mi stavano rigando il volto.
La parole esprimevano tutte le emozioni che avevamo vissuto insieme, la gioia che provavo da piccolo quando prima di addormentarmi mi accarezzava leggendomi una favola, ma di quelle carezze io non mi ricordo nemmeno l’odore. Di quella volta che mi persi al supermercato, di quanto ero spaventata e confusa nel non vederla più.
La lettera parlava di una bambina e di una chiave, ma l’agitazione del momento mi distrasse e non feci molto caso a quelle parole, che a prima vista mi apparvero prive di senso.
Tra i singhiozzi corsi ad abbracciare mio padre, che ricambiò avvolgendomi tra le sue braccia ancora più forte.
La mattina dopo mi sentivo forte ed euforica, era come se la mamma fosse di nuovo accanto a me con il suo sorriso e i suoi occhi che mi incoraggiavano ad esplorare la vita tutt’attorno. Presi la mia bicicletta e pedalai fino a casa di Marco, il mio migliore amico, non vedevo l’ora di raccontargli tutto!
Mentre pedalavo non pensavo ad altro che a come dire a Marco del pacchetto, della lettera e della bambina. Non guardavo neanche la strada, ormai quella che portava alla casa del mio giovane compagno di avventure la sapevo a memoria, uscita da casa mia gira al secondo incrocio e poi pedala per tutto il rettilineo e poi gira a destra.
Alla casa di Marco però non arrivai mai. Percorrevo il rettilineo, non avevo mai pedalato così forte, il mio corpo si muoveva da solo tanta era l’adrenalina che circolava in corpo e il paesaggio scorreva via come se trasportato dal vento. Forse fu la presunzione a farmi pensare che a quell’ora del giorno nessuno andava in macchina o forse fu proprio l’eccitazione che non mi fece guardare a sinistra arrivata all’incrocio, però avrei dovuto. Un camion sbucò all’improvviso da quella piccola bretella che collegava l’autostrada al nostro piccolo paese e mi prese in pieno. Arrivai all’ospedale di corsa e mi addormentai.
Quando mi svegliai non ero più nelle saletta in quel grigio ospedale, ma a casa mia. Mio padre non c’era allora decisi di cercarlo nel luogo dove lo trovavo quando non era al lavoro: il cimitero davanti alla tomba di mamma. Mi diressi verso quel luogo funesto e vidi papà piangere davanti ad una tomba, ma non era la tomba della signora che portava il suo cognome. La foto aveva qualcosa di familiare: ero io. Mi avvicinai per scorgere il nome di chi mi assomigliava tanto e notai con orrore che era proprio il mio, c’era scritto: Rosa Bianchini 2101999 – 3072014.
Ma se io ero viva come potevo essere morta? Provai a poggiare una mano sulla spalla di mio padre, ma non se ne accorse, era come se io non esistessi. Teneva in mano qualcosa: l’ultimo regalo di mia madre. In quel momento capii: io ero morta ma la mia anima aveva ancora qualcosa da fare su questo mondo prima di ricongiungersi con quella della mamma: doveva trovare quella bambina.

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Era già passato un mese da quando avevo scoperto la mia condizione di “morta che cammina”, ma mi stava stretta.
Era vero, potevo girare per la città, fare cose che nessuno avrebbe potuto fare da vivo, ma il fatto che nessuno mi potesse vedere era brutto, oltre che noioso.
Anche la ricerca della bambina non andava bene, avevo cercato  in tutti gli orfanotrofi, in tutti gli ospedali e avevo anche frugato fra le carte di alcuni psicologi per bambini, ma nulla: quella bambina sembrava un fantasma, il che è comico. L’unica informazione su quella marmocchia introvabile era che aveva la mia età: 16 anni.
Poi c’era la chiave: bel dilemma anche quello. Non apriva nessuna porta, avevo anche provato a controllare su “Morti Google” il motore di ricerca più utilizzato dai non-vivi!, ma avevo scoperto solo che quello era la chiave di un lucchetto e non di una porta o portone: era la chiave di un lucchetto di vecchia data, che serviva per aprire e chiudere gli strumenti di tortura. Il che mi ha fatto prendere un colpo, comico a dirsi, dato che io colpi non ne posso prendere essendo morta.
La cosa più raccapricciante è che se qualcuno aveva rubato quella chiave, voleva dire che quel determinato strumento di tortura era usato, almeno fino alla scomparsa della misteriosa chiave.

-Firenze è affollatissima in questo periodo dell’anno.- disse una signora che camminava accanto a me e che io attraversai con tranquillità.
Bisognava darle ragione: in estate Firenze era piene di gente, ma essere un fantasma ha anche i suoi lati positivi: puoi attraversare le persone e non devi guardare  la strada quando attraversi… morire due volte non si può.
Ero appena andata a cercare negli archivi dell’Università di Storia di Firenze per vedere se qualche museo (la Toscana, avevo scoperto, era piena di musei sulla tortura) avesse uno strumento simile a quello che poteva fare al caso mio; infatti lo trovai. Il museo della tortura di Volterra aveva uno strumento chiamato Gabbia  Sospesa. Era stato raccapricciante cercare quelle informazioni, anche un fantasma può soffrire di mal di stomaco. Quindi dopo il mio interessante viaggio agli archivi dell’università stavo attraversando la folla (nel vero senso della parola) per riuscire a prendere il prossimo autobus per Volterra. Certo, potevo farmela anche a piedi, i fantasmi non avvertono la stanchezza, ma vuoi confrontare un viaggio a piedi dove non senti nulla con un comodissimo autobus dove senti tutto quello che la gente dice? Così, dopo essere salita sul mezzo di trasporto mi accoccolai vicino al finestrino e ascoltai le interessanti conversazioni della gente.

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Volterra sembrava una piccola cittadina arroccata su una collina, ma le apparenze ingannano. Un intricato groviglio di strade, vicoletti e vicoli ciechi metteva in difficoltà anche un fantasma, quindi erano tre ore che giravo fra le vie di Volterra e ancora non avevo trovato l’incriminato museo della tortura. Anche se attraversavo i muri, comunque mi perdevo e problema grandissimo: non potevo chiedere indicazioni; come se lo spiega la gente il fatto che sente delle voci che gli chiedono dove è il museo della tortura? Anche passare per i muri era scomodo, non sai mai dove andare.
Stavo vagando per quella cittadina quando senti un – Ahio! -. Ero appena andata a sbattere contro un ragazzo che doveva avere circa la mia età. Le mie riflessioni su quel bel ragazzo con gli occhi azzurro mare e i capelli color della pece furono interrotte da un fulmine a cielo aperto: come poteva qualcuno vedermi e andare a sbattermi contro? Quel ragazzo mi guardò, stava per dirmi qualcosa quando mi  misi a correre e lui mi seguì subito dietro; la mia fortuna era che le persone le attraversavo, invece il ragazzo doveva scusarsi ogni volta che andava a sbattere contro qualcuno. Dopo una corsa sfrenata mi ritrovai nell’enorme parco di Volterra: lì ero sicura che nessuno mi avrebbe trovato. Invece sottovalutavo le capacità del ragazzo che dopo cinque minuti vidi arrivare davanti a me. Non potevo scappare, il che è comico… un fantasma che non può scappare, ma volevo sapere il perché quel ragazzo mi vedesse e chiedergli informazioni sul museo della tortura, magari anche di accompagnarmi… un ragazzo così carino non lo si trova tutti i giorni nel modo  dei morti.

-Tu sei un fantasma?- mi chiese molto sgarbatamente.
-Non ci si presenta prima?- gli risposi io sulla difensiva. Volevo capire, ma non doveva mostrarsi antipatico, in due secondi sarei potuta scomparire e ricomparire in Alaska.
-Hai  ragione, scusa. Io sono John Salivan. Tu?- ora si ragionava.
-Io sono Rosa Bianchini e per rispondere alla tua domanda, sì sono un fantasma. Ora lascia che ti faccia una domanda: come puoi vedermi?-
-Io ho il dono di vedere quelli come te. Ma se sei qui significa che hai qualcosa da fare, tutti quelli come te che ho visto dovevano fare qualcosa su questo mondo, se no vi evocherei -dalle tombe o dalle ceneri, ma questi sono dettagli, cosa devi fare?-
-Devo cercare una bambina, uno strumento di tortura e un orfanotrofio. Sono stata abbastanza chiara?-
-Sei qui per il famoso museo della tortura per caso? E da come giravi per la città immagino che tu non sappia dove sia.-
-Che perspicace… vuoi aiutarmi si o no?-
-Chi mi obbliga ad aiutarti?-
-Il fatto che tu mi veda è già un segno di quello che voi mortali chiamate destino, poi non posso lasciare che il figlio del deputato Paul Salivan vada in giro dicendo che ha visto un fantasma che sta cercando uno strumento di tortura. Tutto chiaro?-
-Fantasma perspicace. Mi stai simpatica, ti aiuterò, ma domani, ora è tardi e non mi importa se puoi passare attraverso i muri del museo, ci andremo domani. Io a differenza tua devo a mangiare e dormire, quindi verrai nella camera con me. Sono solo quindi la gente non mi prenderà per pazzo, ora vieni che correrti dietro è faticoso.-
-Ma il tuo paparino, lo sa che tu parli con i morti?-
-Per farmi prendere per pazzo? No, non lo sa nessuno. Tu sei uno dei pochi fantasmi che ho visto, di solito dialogo con i miei nonni sulla loro tomba. Ora vieni?- mi tese una mano
-Ma lo sai che io sono inconsistente?-
-Per me no, prova.- provai ed era vero, io ero come ritornata umana in quel breve momento. Se io non fossi stata invisibile per tutte le altre persone, saremmo potuti passare per due fidanzatini che passeggiano nel parco e la cosa mi avrebbe fatto anche piacere se… beh si, se non un fossi un maledettissimo fantasma.
-A proposito, come sai che sono figlio del deputato?-
-Io ero Americana e la mia tomba è ancora lì, la toglieranno tra circa 30 anni quindi…-
-Andiamo va… ho un sonno…-E così conobbi quel ragazzo così strano che prima mi fu amico, ma poi inevitabilmente ci innamorammo l’uno dell’altro stravolgendo tutte le regole fino ad ora create fra vivi e morti.

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-Contenta, questo è il museo della tortura di Volterra, ora, cosa devi cercare?- mi chiese dopo avermi portato davanti ad una casa molto spaventosa che aveva un insegna con scritto “Museo della Tortura” in caratteri molto inquietanti. Lo so che non dovrei spaventarmi, che sono un fantasma e che io faccio paura alla gente, ma le immagini che vidi in quel luogo così tetro mi vengono ancora in mente e mi danno il voltastomaco.
-Dobbiamo chiedere della gabbia sospesa-
-Prima diamo un occhiata, poi userò il mio cognome per parlare con il direttore. Risparmio anche il biglietto per una persona…-
-Simpatico, ma lo sai che ogni tanto non ti sopporto?-
-Mi conosci da due giorni e già pensi questo di me?-
-No… tiro ad indovinare, guarda…. Ora entriamo, prima che la genti pensi male perché ti vede parlare da solo…-
-Entriamo…..- entrati pagò il suo biglietto e io lo seguì. Quello che vedemmo mi fece attorcigliare le budella che mi restavano e anche al mio compagno di avventure diedero allo stomaco: la vergine di Norimberga, la Ghigliottina… non trovammo però la Gabbia sospesa. Allora John decise che avrebbe usato il suo cognome e in men che non si dica entrammo nell’ufficio del direttore.
-Buongiorno, signor Salivan. Posso fare qualcosa per lei?- John aveva preparato per bene il suo discorso, infatti come se fosse la cosa più naturale del mondo disse tranquillo:- Sto facendo la tesi al corso di storia antica e vorrei vedere la Gabbia sospesa, so che voi l’avete, ma giù non l’ho vista.-
-Ovvio, ci dispiace, ma la ha comprata un orfanotrofio qualche decennio fa.-
-Ma allora, come mai non l’avete detto all’università di Firenze? Mi avevano assicurato che da voi potevo trovarla, ora come farò per la mia tesi?-
-Abbiamo molti altri strumenti, molto più interessanti di quello.- il pavone che fa la ruota pensai, ora toccava a te John, non mi deludere.
-Ma io voglio vedere quello- sa essere testardo il ragazzo quando si mette d’impegno- come faccio, il mio relatore mi aveva detto che se non fossi tornato con quello strumento e una tesi mi avrebbe bocciato! Mi dica in che orfanotrofio l’ha portata.-
-Non ci hanno dato recapiti, solo una busta con carta intestata.-
-Mi faccia vedere la busta, o dirò a papà che il museo della tortura non ha denunciato della gente che ha comprato uno strumento di tortura-
-Ecco qui.- il foglio era lo stesso della lettera che mia madre mi aveva lasciato, tutto tornava: in un orfanotrofio maltrattavano i bambini e grazie alla mancanza della chiave ora non potevano ma…. Dovevo esserne sicura.
-Chiedi al direttore quante chiavi ci sono.- dissi in un orecchio a John,  il quale subito ripeté la domanda e il direttore rispose:- una – perfetto. John si congedò con una scusa e scendemmo le scale per poi uscire.
-È fatta, ora non ci resta che trovare l’orfanotrofio.- disse il mio prode amico stiracchiandosi le membra stanche per aver passato quasi due ore a vedere raccapriccianti oggetti.
Sembra facile, ma io l’orfanotrofio ‘Misericordia di Dio’ non lo ho mai sentito.-
-Beh, ora io vado a comprare una cosa in questo tabacchino, poi ti porto a mangiare, cioè io mangio tu…tu…-
-Io resto lì con te.-
-Giusto…. bene io entro un secondo.- Entrando pensai che fosse veramente sexy, ma poi mi rimproverai per aver pensato una cosa simile, io dovevo pensare alla bambina e alla chiave, però… basta! Mi diedi uno schiaffo e aspettai che John tornasse, per poi andare a mangiare.
-A cosa pensavi quando sono uscito?- mi chiese mentre mangiava un piatto di spaghetti cacio e pepe in un tipico agritur.
-Io… a nulla.- dissi in modo sconnesso andando nel pallone.
-Sarà, ma non mi stai dicendo la verità-
-Mangia che è meglio!!!!-

 
E così continuammo a ridere e scherzare per due ore, senza immaginare che duro lavoro avremmo dovuto compiere.
Due giorni passati su computer, al telefono e sui giornali, ma niente. Io e John uscivamo solo per mangiare, cioè lui mangiava, poi spendevamo tutta la nostra giornata a cercare un orfanotrofio inesistente.
Poi il terzo giorno trovò qualcosa.

-Eccolo!!!-
-Trovato?-
-Che domande, certo che lo ho trovato. O meglio ho trovato un recapito per i signori Steinberg, lo stesso nome che c’è sulla carta dell’orfanotrofio. Non credo neanche che ci siano tanti Steinberg in Toscana.-
-Sei un genio!- dissi abbracciandolo. Cademmo insieme sul letto e lui mi guardò come se volesse dirmi qualcosa, per poi ripensarci.
-Bene, ora dobbiamo andare lì e trovare la bambina, giusto?- chiesi per rompere il ghiaccio.
-Sì, ma lo faremo domani. Oggi vogli mangiare come si deve in un ristorante decente e non alla paninoteca qui all’angolo.- mi disse. – quindi vestiti comoda che poi andiamo a fare un giro al parco.-Mi tese la mano e, dopo aver chiuse la pota, ci incamminammo verso il ristorante. Dopo che John si abbuffò mi portò al parco a vedere il tramonto. Ci sedemmo su una panchina e gli chiesi:- Perché sei qui a Volterra?-
-Mio padre è sotto elezioni e non voleva che io gli stessi fra i piedi. Carino no?-
-Beh, se non fossi venuto non mi avresti conosciuto, no?-
-Sì, un fantasma petulante che ha la passione per i vestiti firmati e odia le cose rosa. Mi ritengo fortunato.-
-Io sarei un fantasma petulante?-
-Si petulante e…- i nostri volti si stavano avvicinando, stava per darmi un bacio e io lo volevo quel bacio, quelle labbra morbide… le nostre labbra si stavano sfiorando quando sentimmo un rumore fortissimo, ci girammo di scatto e vedemmo un bambino che era caduto da un’altalena dismessa e con lui era caduto anche l’altalena stessa. Quell’atmosfera romantica rovinata da un marmocchio che era caduto; stavo per andare a dirgliene quattro quando l’unica mano che potevo sentire mi fermò e una voce disse:- Vieni, dobbiamo andare, domani ci aspetta una giornata lunga.-Sembrava triste, come se lo avesse voluto anche lui quel bacio mancato, ma non si possono rimpiangere le cose che stavano per accadere.

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Dopo che ci siamo svegliati e dopo che John ha fatto colazione abbiamo preso la sua moto per fare la Toscana “on  the road”. L’orfanotrofio era dal lato opposto rispetto a Volterra, in mezzo alle colline su una strada inusata in una casa chiusa… il posto migliore per torturare dei bambini e per passarla liscia.
Dopo aver detto a John che io anche senza casco potevo  viaggiare e che sarebbe stato strano per la gente vedere un casco volante, ci decidemmo a partire. La moto di John era velocissima, le colline Toscane volavano via come trasportato dal vento e in qualche ora, dopo esserci fermati due volte a mangiare e a fare benzina, perché andare ai 130km/h faceva consumare il carburante, o almeno così mi disse John, perché io di motori, né da viva né da morta, ciò mai capito qualcosa.
Arrivati davanti all’orfanotrofio rabbrividimmo. La casa era pesantemente in rovina: le finestre avevano le sbarre, le porte erano di ferro tutto arrugginito e i muri cadevano a pezzi. Ci chiedemmo se era quello il luogo giusto. Stavamo per andarcene, quando John mi toccò un braccio e mi disse di guardare vicino all’ultima finestra, nella torre più alta. Lì con nostro sommo terrore vedemmo ciò che non ci dovrebbe essere in un orfanotrofio normale e che ci convinse che quello era l’orfanotrofio giusto: la gabbia sospesa. Capimmo quindi che quella non era messa lì solo per bellezza ma veniva utilizzata, almeno fino a che mi madre non rubò la chiave. Io e John decidemmo che avremmo frugato fra gli archivi di notte e che io dovevo andare in “avanscoperta” adesso: io posso attraversare i muri, la gente non mi vede e bla bla bla. Prima di andarmene sentii un braccio che mi fece girare e qualcosa di caldo sulle labbra. Era ciò che ieri non eravamo riusciti a finire, pensai.

-​Questo è per ieri e questo- disse mettendomi un piccolo braccialetto al polso che lui aveva uguale – è per far si che tu ti ricordi  sempre di me-
-Ma lo sai che io prima o poi tornerò nel mondo dei morti?- gli chiesi piacevolmente stupita da ciò che aveva fatto. Certo, lo sfondo non era romantico, ma era stata una delle cose più belle della mia vita, seconda solo al ritrovamento del pacco di mia madre.
-Meglio un po’ che mai, giusto?- mi chiese baciandomi una guancia.
-Giusto.- dissi baciandolo, anche se in cuor mio sapevo che era sbagliato e che quando sarei scomparsa gli avrei distrutto il cuore.
-Ora vai che ti aspetto qui con ansia. Io intanto faccio qualche chiamata per vedere se questo posto si può chiudere. Ah, non farti uccidere.-
-Sarcastico…- dissi io mentre mi incamminavo verso la porta.Bene e qui c’è l’archivio.- dissi a John mentre con una torcia percorrevamo quei tetri corridoi. Quando quel pomeriggio ero entrata non potevo credere a quello che vedevo: bambini con pochi vestisti, denutriti e senza giochi o libri. Immaginai fossero anche senza istruzione, per non parlare dei vari strumenti di tortura. Questo orfanotrofio andava contro la carta dei diritti dei bambini e contro il 5° diritto della carta dei diritti umani. Per fortuna che John aveva ottenuto le informazioni adatte per chiuderlo, in due giorni si sarebbe risolto tutto e i bambini sarebbero andati in un orfanotrofio decente, che non torturava le persone e che dava una speranza a i bambini.
-Mette i brividi.- disse John tenendomi per mano, un po’ per tranquillizzarci e un po’ perché si stava bene, mano nella mano. Arrivati aprimmo la porta e trovammo un ammasso di scartoffie. Cercammo quelle risalenti a circa 16 o di 17 anni prima, le trovammo e scoprimmo cose terribili. Mia madre lavorava come cuoca in quel posto, ma aveva stipulato un contratto sul quale era scritto che non poteva avere figli, o l’avrebbero licenziata.Mi sentivo morire. John mi abbracciò e io sentii calde lacrime scendermi sulla faccia e bagnare la camicia di John. Mi disse- Andiamo in cucina- e io in silenzio acconsentii. Arrivati in cucina vidi che era tutta polverosa, come se nessuno ci mettesse piede da anni. Il che secondo me era vero. Fornelli polverosi, forni che non andavano, tavoli rotti, frigo senza elettricità e soprattutto senza cibo. Le pentole erano arrugginite, le posate immacolate come l’argenteria che aveva mia nonna, bicchieri sbeccati, ragnatele nei piatti, escrementi di topo nelle credenze… quello non era il posto adatto a dei bambini, quello era il posto adatto al nuovo film di mio zio (famoso regista) “La casa degli orrori”. Guardammo dappertutto, ma nulla. La cucina era il luogo dove lavorava mia madre, quindi ci doveva essere un indizio e lo trovammo. Dietro una pentola rotta nella credenza più sporca trovammo una lettera. Era intestata “A Rosa”. Con le mai tremanti la aprii e comincia a leggerla.
 
 
 
Cara Rosa,
 se stai leggendo questa lettera è perché io sono morta e tu hai trovato la mia lettera che parlava della bambina e ti ha condotto in questo orfanotrofio. Ti racconterò la mia storia.
Io sono nata da genitori poveri che non potevano permettersi di allevarmi, quindi mi misero in questo orfanotrofio. Quando ero giovano io il signor. Steinberg era buono e gentile con noi, però qualche tempo dopo morì e ad occuparsi di noi diventò suo figlio. Lui era cattivo e ci trattava male. Ad un certo punto comprò una gabbia e lì ci metteva noi ragazzi quando ci comportavamo male, senza né cibo né acqua. Ci proibiva di uscire, ma io scappai e conobbi tuo padre. Ci sposammo in segreto qualche tempo dopo i miei 21 anni. Intanto ero riuscita a diventare la cuoca dell’orfanotrofio. Però il mio contratto aveva una postilla: per fare in modo che io non potessi lasciare il lavoro mi hanno obbligato ad non avere figli e a non sposarmi. Il guaio era già fatto, per metà, poi però ebbi una bellissima notizia: aspettavo due gemelle! Nulla mi aveva reso più felice in quel momento, ma poi mi venne in mente l’orfanotrofio. Non potevo nasconderlo a lungo, allora decisi di parlarne con il signor Steinberg, il quale mi disse che o lasciavo i bambini o io andavo in America con una e l’altra sarebbe rimasta qui con loro. Non avevo altra scelta, non volevo che le mie figlie morissero, quindi decisi di portare in America la seconda nata e di chiamarla Rosa, i fiori che il vecchio signor Steinberg ci regalava ad ogni festa della donna e la primogenita chiamarla Lia, abbreviativo di Eliana, un nome che ricorda il di greco Helios, il sole. Perché lei non doveva perdere la speranza e brillare come il sole anche nei momenti più brutti. L’orfanotrofio pagò tutto e anche i medici che dissero che io avevo perso uno dei due bambini. Prima di partire diedi un’occhiata veloce al luogo dove ero vissuta per circa 25 anni e trovai la chiave. Mi ricordai delle parole di Peter Singer “Noi siamo responsabili non solo di quello che facciamo, ma anche di quello che avremmo potuto impedire”, quindi decisi di rubare la chiave. Volevo che mia figlia non vivesse in un luogo dove la torturavano, ma immagino che senza la gabbia abbiano trovato un modo diverso di torturare i poveri ragazzi.
Tutte le volte che pensavo hai miei giorni con tuo padre mi dicevo che era un bene che avevo preso la chiave, mi ero ripromessa che ti avrei nascosto il pacco e che sarebbe saltato fuori, come per magia dopo che io fossi morta.
Confidavo nella tua intelligenza e sapevo che saresti andata a fondo con la questione, che avresti riportato a casa da tuo padre la nostra altra bambina e che l’avrebbe amata, come ha amato te.
Se hai trovato questa lettera significa che sei andata fino in fondo, che hai cercato una soluzione e che l’hai trovata.
Se mai morirò prima che tu sia diventata grade ti lascio queste parole: so che non potrò seguirti nella crescita, non ti potrò dare consigli sull’amore, ma ricordati ama. Io ho amato tuo padre e non mi sono mai pentita di avervi creato. Siete le mie principesse anche se non ho visto crescere Lia e probabilmente morirò a causa di un incidente e di una sbagliata trasfusione di sangue.
Perdonami per averti mentito.
Tua Mamma.
Come potevo non perdonarla? Come potevo non dirle grazie per quello che aveva fatto e che mi aveva lasciato? Abbracciai John e gli chiesi di stringermi forte e lui acconsentì. Qualche minuto, ora, non lo capii, dopo vedemmo l’alba e allora decidemmo di uscire di corsa dalla casa. Si sentivano dei rumori strani, come dei bastoni che picchiavano su un pavimento, non volemmo scoprire a cosa servissero. Prima di uscire John fece qualche foto agli interni, per far si che suo padre avesse tutte le prove per far chiudere per sempre l’orfanotrofio.
Stavamo per uscire quando sentimmo che qualcuno era scappato. Ci nascondemmo in una credenza e ascoltammo.

-Eliana è scomparsa.- disse una voce maschile moto profonda.
-Quella li, chissà dove si è cacciata, anche sua madre aveva una vena ribelle ma questa volta non gliela facciamo scampare, questa volta chiave o  no la butto nella gabbia, anche se Her Steinberg dice che senza chiave non si può fare niente.-Volevano rinchiudere la mia sorellina, la mia piccola sorella che non avevo mai visto, ma che per la quale avevo già sviluppato un senso di protezione molto grande.
-John dobbiamo trovarla.-
-Certo, non voglio che la tua sorellina finisca nella gabbia. Ho mandato le foto a papà e gli ho già detto tutto, ora dobbiamo solo avvisarlo quando partiamo e quando saremo nelle vicinanze del confine fra Marche e Toscana, da lì ci pensa lui a prendere questi furfanti.-
-Perfetto, allora avvisalo che partiamo subito.-
-Ai tuoi ordini!- mi disse schioccandomi un bacio sulla guancia. Uscimmo in un momento di distrazione dei due aguzzini, inforcammo le due ruote e partimmo all’inseguimento.###

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La toscana può sembrare una bellissima regione fatta di colline e pianure, ma se voi foste andati in moto ai 120 km/h su e giù per quelle che voi definite belle colline, capireste che le cose non sono così. Io e John scoprimmo a nostre spese che vomitare in moto non è la cosa migliore della terra, soprattutto se devi rincorrere dei maltrattatori di bambini e una ragazzina, che non si sa come possa andare così veloce. John e io impiegammo un bel po’ a trovare mia sorella soprattutto perché il concetto di moto non è quello di auto, quindi, se Lia andava con qualsiasi mezzo a lei concesso, i suoi aguzzini andavano in macchina. Per fortuna che John ebbe un idea. Quel ragazzo non finirà mai di stupirmi.

-Perché non facciamo una chiamata anonima e diciamo ai due di venire sul confine? Sono più che certo che se i due andranno da una parte la tua sorellina andrà dall’atra e la città più vicina è Arezzo. Di conseguenza la tua sorellina andrà lì, potendosi riposare dai suoi inseguitori.-
-Sei un genio, ogni tanto.- dissi con un sorriso e dopo aver fatto le giuste telefonate andammo ad Arezzo.Dopo aver cercato per una buona mezzora la trovammo. Era in un parco vicino alla chiesa di Santa Maria del Piave. Con lei c’era una ragazza di circa trent’anni con una moto. John si avvicinò a Lia e le chiese se poteva venire con lui un momento.  La portò dove c’ero io e le diede una lettera. Quando lei la lesse ci guardò, ma di fatto guardava solo lui, e disse:- Come hai fatto a trovarlo? Io non ne sapevo nulla e questa lettera è indirizzata ad una donna, mia sorella. Dov’è?-
-Lei non è più in questo mondo Lia.- diceva la verità distorta, io ero su questo mondo, solo che… si beh ero morta.
-Come può essere morta? Ho scoperto di avere una famiglia e la mia sorellina è morta?-
-Si, dispiace molto anche a me. Lei era la mia ragazza ed è per questo che mi ha lasciato la lettera per venirti a trovare. Ora se lo vorrai io ti potrò portare in America da tuo padre.-
-Ma l’orfanotrofio? I bambini… verranno ancora maltrattati?-
-Non ti preoccupare, ho fatto in modo che l’orfanotrofio venisse chiuso e mai più riaperto. I bambini sono andati in luoghi consoni ed adatti a delle piccole vite.-
-Come posso crederti? Io non ti ho mai visto, potresti dirmi una bugia per riportarmi in quel luogo.-John tirò fuori una chiave e disse – Questa è la chiave della gabbia che c’era attaccata sulla torre del vostro orfanotrofio. L’ha rubata vostra madre quando l’hanno costretta a scappare. Puoi non credermi, ma puoi anche provarci. Io non ti obbligherò a venire con me, mi auguro che tu ci provi. Posso farti vedere i biglietti che mi hanno mandato per portarti in America. Ne ho le prove che sono nella parte giusta, ma sta a te decidere se seguire un perfetto sconosciuto che ti porterà da tuo padre oppure vivere qui, con l’eterno terrore che quelli dell’orfanotrofio vengano a riprenderti e lavorare in un ristorante come cameriera. Sta a te scegliere, però sappi che in un paesino dell’Alabama c’è tuo padre che ti aspetta, pronto a darti l’amore che non hai mai avuto. –
Ti crederò, solo perché sai parlare così bene e riesci ad incantare la gente. Saluto un attimo quella…- ma girandosi non vide nessuno. Io sapevo che quella donna era nostra madre, però non glielo dissi.
-Dov’è finita quella donna?-
-Quella era una persona che ti ha aiutato perché sei sua figlia, quella era tua madre, che è venuta per dirti ciao.- subito scoppiò a piangere. John mi guardò come per chiedermi il permesso e io quasi a malincuore glielo diedi; lui abbracciò mia sorella e la portò verso la moto. La fece salire e poi mi disse: - Sembri gelosa-
-Che? Un fantasma geloso? Tu prova a toccarla che ti farò vedere quanto è bello l’oltretomba.-
-Fantasma geloso.- mi disse per poi dire a mia sorella di tenersi stretta che avrebbero fatto un lungo viaggio.Io gli dissi che l’avrei aspettato davanti a casa mia in America fra due giorni. Li vidi partire e poi decisi che sarei andata a San Gimignano quel giorno. SI dice che ci faccia il giro del pozzo tre volto un giorno ci ritorni.
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La porta di casa mia sembrava stranamente grande e spaventosa. Erano mesi che non la vedevo e faceva paura. Vidi John arrivare con la moto e mi ricordai che fra poco sarei dovuta partire per ritornare nel mio mondo. Un po’ mi dispiaceva non stare con John, la mia sorellina e mio papà, ma ognuno ha il suo posto e il mio non era sulla terra.
Chiesi a John dove fosse stato e disse che Lia l’aveva obbligato a farle vedere mia tomba. Era gentile, forse non aveva capito che di li a poco ci saremmo dovuti separare o lo sapeva e non voleva pensarci. Comunque bussò e mio padre venne ad aprire. Lo vidi invecchiato e stanco però quando John gli spiegò la storia sorrise, un sorriso caldo e sincero che veniva dal cuore.
Quando chiuse la porta John si girò e vide che stavo scomparendo. Mi disse in lacrime – Non puoi partire, come farò senza di te?-

-Io lo avevo detto, ma ricorda. Quando vedrai il braccialetto che porti al polso ti ricorderai di me e so che non è una grande consolazione, ma io ti aspetterò dall’altra parte.- mi sorrise proprio mentre stavo scomparendo, ma negli ultimi attimi in questo mondo lo vidi entrare nella fioreria vicino a casa mia a comprare delle rose. Quando usci disse – Queste sono per te!- 

 
  
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