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Autore: Amantide    23/12/2016    2 recensioni
Sherlock è alle prese con un caso del quale non riesce a venire a capo poiché il suo palazzo mentale sembra essere inaccessibile. La sua ossessione per il lavoro lo porterà ad una soluzione drastica della quale non aveva previsto le conseguenze e toccherà come sempre al suo fedele amico John fargliele notare. [SHERLOLLY]
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Dal testo:
Sherlock era bravo a mentire, era il mago del travestimento e dell’inganno ma in tutti quegli anni di convivenza John aveva imparato a riconoscere quando diceva la verità.
“Come te la sei procurata?” domandò John arrendendosi a quella realtà.
“Credimi” biascicò Sherlock dal divano, “è meglio che tu non lo sappia…”
Genere: Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo autore: Ciao a tutti e grazie per esservi fatti incuriosire da questa storia. Premetto che è la prima FF che scrivo su questo fandom e avendo sempre scritto fanfiction su libri l'idea di confrontarmi con una serie Tv mi spaventava un po', ma allo stesso tempo mi affascinava a sufficienza da farmi fare un tentativo. Il risultato mi piace quindi voglio condividerlo con voi nella speranza che incontri anche il vostro gusto. Ero partita dall'idea di scrivere una Sherlolly pura e semplice ma quando si scrive di pancia non tutto va sempre come ci si aspetta quindi non so nemmeno io come catalogare questa storia. Nella mia testa i personaggi sono tutti IC ma mi piacerebbe sentirmelo dire da voi perchè autovalutarsi è sempre troppo facile. Concludo questo angolo autore ringraziando LaTum che mi ha iniziata a questo fandom e che aspetta la pubblicazione di questa FF più di tutti.




WORK ADDICTION
 
 

John Watson fermò un taxi al volo all’altezza del Piccadilly Theatre. Salì sul sedile posteriore dell’auto stringendosi nel cappotto, infreddolito, poi si rivolse al conducente: “221, Baker Street” disse con garbo alla nuca dell’uomo seduto al volante.
L’autista inserì la freccia e s’insinuò nel traffico londinese mentre John controllava la tasca interna del cappotto dove aveva appena riposto i biglietti per la prima del musical preferito di Mary. Si era arrovellato per settimane circa il regalo più adatto da fare alla sua fidanzata per il compleanno ma, nonostante tutti i suoi sforzi, l’idea più azzeccata e geniale era venuta come sempre al suo coinquilino.
Un attimo prima che il taxi svoltasse in Baker Street, John guardò il suo cellulare, erano le tre del pomeriggio passate e Sherlock non si era ancora fatto vivo. Nessun messaggio insolente, nessuna richiesta assurda e nessuna minaccia di morte se non l’avesse raggiunto entro pochi minuti. Strano, si disse riponendo il cellulare nella tasca del cappotto. Forse, come sosteneva la signora Hudson, Sherlock si stava veramente abituando all’idea che una volta sposato John non avrebbe più vissuto con lui.
Quando il taxi si fermò davanti al portone del 221B di Baker Street, John pagò la corsa e scese dall’auto stringendo il nodo della sciarpa; l’inverno era alle porte e quel pomeriggio Londra sembrava intenzionata a ricordarglielo.
Salì il gradino davanti al portone e, mentre cercava le chiavi, qualcosa catturò la sua attenzione. Il batacchio in bronzo affisso alla porta era stato lucidato di recente, l’occhio attento e ipercritico di Sherlock aveva finito per contagiarlo. Qualche anno prima non si sarebbe mai accorto di un dettaglio del genere ma oggi sapeva cogliere i messaggi impliciti che un oggetto insignificante come il batacchio di una comunissima porta sita in Baker Street portava con sé; e in questo caso il messaggio era più che chiaro: se la signora Hudson aveva pulito l’esterno della porta significava che non aveva niente da fare, il che era molto strano dal momento che il mercoledì era il giorno in cui rassettava il loro appartamento insultando Sherlock per il disordine.
John sospirò domandandosi quale scusa si fosse inventato questa volta il suo coinquilino per impedire alla proprietaria di casa di fare le pulizie. Probabilmente se ne stava sdraiato sul divano, chiuso nel suo palazzo mentale, deciso ad ignorare ogni singolo stimolo proveniente dall’ambiente esterno. Scese dal gradino ed entrò allo Speedy’s bar, se Sherlock si stava arrovellando su qualche caso, o peggio, si stava annoiando, sarebbe stato meglio presentarsi al suo cospetto offrendogli un caffè caldo.
Il servizio dello Speedy’s fu rapido ed efficiente come al solito e fu così che solo due minuti più tardi John aprì la porta di casa facendo attenzione a non rovesciare le due tazze di caffè che portava con sé; la signora Hudson non avrebbe gradito una nuova macchia sulla moquette dell’ingresso.
Salì le ripide scale che conducevano al suo appartamento e puntò dritto alla serratura; quando Sherlock era nel suo palazzo mentale era inutile bussare, l’aveva imparato a sue spese.
“Sherlock, perché diavolo non hai fatto fare le pulizie alla signora Hudson questa volta?” domandò entrando nell’appartamento e andando diretto in cucina per posare le tazze di caffè sul tavolo sommerso dalle cianfrusaglie del suo coinquilino.
“Sherlock!” esalò fissando il soffitto della cucina su cui era comparsa una nuova macchia di cui non voleva sapere l’origine, “sai che detesto quando m’ignori!”
L’ennesimo silenzio di Sherlock mandò John su tutte le furie.
Sbuffò sconsolato e si decise a tornare in salotto, questa volta sul piede di guerra.
“Sherlock!” Sbraitò uscendo dalla cucina. Stava per urlargli contro di nuovo com’era solito fare tutte le volte che gli faceva perdere la pazienza, quando capì che questa volta il suo migliore amico aveva un motivo più che valido per non rispondere alle sue accuse. Era sdraiato sul divano avvolto nella sua vestaglia preferita, la testa reclinata all’indietro con gli occhi chiusi e un’espressione sofferente impressa sul volto più pallido del solito, il braccio sinistro cadeva a peso morto dal divano, le dita che sfioravano la moquette del pavimento dove John notò rabbrividendo un laccio emostatico e una siringa usata.
“Sherlock!” Gridò di nuovo, ma questa volta non c’era rabbia nel suo tono di voce, solo vivida e palpabile preoccupazione.
Il detective non reagì e John si chinò su di lui per accertarsi delle sue condizioni. Gli posò una mano sul collo in cerca del battito. Era lieve, un tirocinante di medicina non avrebbe saputo rilevarlo senza uno stetoscopio, ma lui sì. Il cuore di Sherlock batteva ancora e John si rese conto che per un attimo era stato il suo a smettere di funzionare.
Quella di ritrovarlo in punto di morte era stata una paura che aveva accompagnato John in tutti gli anni in cui aveva vissuto in quell’appartamento. Sapeva che Sherlock era sempre stato affascinato dalle sostanze chimiche in generale, droghe comprese. Lui stesso aveva ammesso di averne fatto più volte uso in passato ma era convinto che da quando convivevano avesse ridotto drasticamente le dosi, o per lo meno così pensava.
“Sherlock!” gli gridò contro sfilandosi il cappotto per poi cercare di riscuoterlo da quello stato pietoso in cui si trovava da chissà quanto tempo.
“Sherlock!” Urlò di nuovo assestandogli uno schiaffò e poi un altro e un altro ancora. Ce ne vollero altri tre prima che lui si riprendesse. Aprì gli occhi e subito li richiuse infastidito dalla luce che filtrava dalla finestra, emise un rantolo rannicchiandosi sul divano e John gli fu subito accanto.
“Sherlock!” Lo chiamò di nuovo obbligandolo a girarsi affinché potesse studiargli attentamente le pupille incastonate in quegli occhi di ghiaccio. “Bevi!” Gli ordinò allungandogli un bicchiere d’acqua, “sei disidratato e non voglio sapere da quanto!”
Sherlock obbedì sotto lo sguardo severo di John che aveva smesso di gridargli contro solo perché aveva bisogno di riprendere fiato.
“Posso sapere di che cosa si tratta?” sbottò John mostrando a Sherlock la siringa, ancora sconvolto dalla situazione.
“Avevo un caso da risolvere” fece Sherlock vago, più che deciso a risparmiarsi la ramanzina del suo medico di fiducia.
“Non avrai più casi da risolvere se continuerai a ridurti a questo!” Lo rimproverò John facendo sparire siringa e laccio emostatico dalla vista di Sherlock che tornò a sdraiarsi sul divano, gli occhi chiusi e una mano premuta sulla fronte. “Nel caso in cui non te ne fossi accorto hai rischiato un’overdose!”
Sherlock non rispose e John s’infuriò; per quanto le parole di Sherlock potessero essere pungenti e inappropriate, a volte i suoi silenzi riuscivano ad essere anche peggio.
“Cosa fai?” tuonò Sherlock dal divano sentendo l’amico trafficare con il cellulare.
“Chiamo Molly! Preparati a fare qualche esame signorino!” Lo informò John, il telefono all’orecchio e l’espressione sempre più furiosa.
Sherlock roteò gli occhi. Ci mancava solo Molly adesso.
“Non risponde, sembra che non sia in laboratorio… strano, dovrebbe essere di turno” disse John scorrendo la rubrica in cerca di un numero alternativo da contattare.
“Che disdetta” ironizzò Sherlock tirando un sospiro di sollievo.
“Chiamo Lestrade” annunciò John lanciandogli un’occhiataccia.
“No, non Josh!” Si lagnò Sherlock.
“Greg!” Gli gridò dietro l’altro un attimo prima che l’ispettore di polizia gli rispondesse: “Ciao Greg!” Esordì cordiale, “senti… mi domandavo se per caso Molly fosse con te perché in laboratorio non c’è… come sarebbe è stata sospesa?”
Sherlock rabbrividì.
“Ti ringrazio Greg, ci sentiamo.” E con quelle parole John chiuse la chiamata e tornò a fissare Sherlock.
“Molly non sarà disponibile per un po’, pare che sia stata sospesa” riassunse John riponendo il cellulare nella tasca.
“Come mai?” domandò Sherlock, un sopracciglio inarcato.
“Lestrade non ha saputo dirmi di più” ammise John mogio per poi riscuotersi all’improvviso gridando: “Sherlock! Dannazione non cercare di fregarmi spostando la conversazione su Molly! Voglio sapere cosa c’era in quella siringa! Hai intenzione di dirmelo tu o vuoi che faccia tutto da solo?”
Sherlock gli lanciò un’occhiata di sfida e per un lunghissimo attimo i due si fissarono l’un altro in attesa che qualcuno parlasse.
“Morfina” brontolò Sherlock con lo stesso tono di un bambino obbligato a chiedere scusa.
“Avevi chiuso con la morfina, abbiamo fatto pulizia quattro anni fa, ho distrutto personalmente le tue scorte, ricordi?” John era incredulo.
“Falla analizzare allora” lo sfidò Sherlock, la faccia affondata nel cuscino del divano.
Sherlock era bravo a mentire, era il mago del travestimento e dell’inganno ma in tutti quegli anni di convivenza John aveva imparato a riconoscere quando diceva la verità.
“Come te la sei procurata?” domandò John arrendendosi a quella realtà.
“Credimi” biascicò Sherlock dal divano, “è meglio che tu non lo sappia…”
 
 
Il giorno prima                        
 
Sherlock aveva trascorso l’intera mattinata nei peggiori quartieri di Londra alla ricerca d’informazioni. Il caso a cui stava lavorando si era rivelato più complesso del previsto e la sua rete di barboni meno efficiente del solito nel procurargli ciò di cui aveva bisogno. Tutto ciò che aveva in mano era un indirizzo incompleto, lo scontrino di un pub irlandese in periferia e una ciocca di capelli rossi che aveva recuperato sulla scena del crimine. Troppo poco anche per Sherlock Holmes.
Quando aveva accettato il caso si era ripromesso di risolverlo in nove giorni al massimo, nonostante la sua media si aggirasse intorno ai sei. Era un caso interessante e parecchio intricato, questo gli era stato chiaro fin dall’inizio, pertanto si era concesso tre giorni in più del solito per portare alla luce la verità; ma ora, sullo scadere del settimo giorno, ancora non vedeva la luce in fondo al tunnel e la cosa cominciava seriamente a infastidirlo.
Come se tutto questo non bastasse, Mycroft aveva telefonato già due volte per un consulto circa il regalo di anniversario dei loro genitori.
“Fanno quarant’anni di matrimonio!” Aveva esclamato il maggiore degli Holmes sentendo Sherlock sbuffare nella cornetta del telefono.
“Hai idea di cosa siano quarant’anni di matrimonio?” aveva aggiunto sperando di risvegliare l’interesse del fratello circa le dinamiche familiari.
“Grazie al cielo no” rispose Sherlock asciutto, “e per quanto tu ti finga esperto, non lo sai neanche tu.”
“Dopotutto siamo fratelli anche in questo…”
“Mio malgrado”
“È sempre un piacere parlare al telefono con te fratellino”
“Vorrei poter dire lo stesso”
“Il brillante Sherlock Holmes non ha veramente nessun’idea?”
“Mandali in crociera alle Hawaii” suggerì Sherlock conscio del fatto che quel regalo avrebbe certamente fatto più felice lui che i suoi genitori. Se non altro sarebbero stati fuori dai piedi per un po’.
Sherlock aveva richiuso la chiamata un attimo prima di salire i gradini d’ingresso del Bart’s domandandosi a quante altre persone avrebbe dovuto suggerire regali di compleanno e anniversario. Stupide, inutili ricorrenze.
Tutte quelle distrazioni non avevano fatto altro che rallentare il suo lavoro, tra i preparativi per le nozze di John, i capricci di suo fratello e le pulizie della Signora Hudson, erano giorni che non trovava la tranquillità necessaria per accedere al suo palazzo mentale. Non c’era da stupirsi che fosse indietro con le indagini.
Se non altro al Bart’s avrebbe trovato un po’ di pace, sempre che Molly non avesse litigato col fidanzato del momento o fosse in cerca di consigli per qualche regalo. 
Molly era ammirabile sotto molti punti di vista, in primis per la sua intelligenza e la sua dedizione al lavoro, era affidabile, dolce, sincera e, cosa che Sherlock apprezzava più di ogni sua altra qualità, era disposta a tutto pur di assecondare una buona causa. E in quegli anni Sherlock di buone cause gliene aveva presentate parecchie, prima fra tutte la sua morte, necessaria al fine di sconfiggere Moriarty.
D’altro canto, una donna con così tante qualità non poteva che essere un disastro sotto altri aspetti, le relazioni umane per esempio, la sfilza di fidanzati che lei gli aveva presentato in quegli anni ne era la prova più lampante.
Sherlock salì le scale rapidamente, augurandosi che la patologa fosse di turno e gli permettesse di servirsi del suo laboratorio. Mentre pensava a quali esami eseguire sul campione di capelli che aveva recuperato sulla scena del crimine, gli venne in mente un altro motivo per cui poteva valere la pena vedere Molly quel giorno, qualcosa che l’avrebbe certamente aiutato a rilassarsi e a distendere i nervi rendendogli finalmente possibile risolvere quel caso. C’era un unico problema, problema che non poteva assolutamente permettersi di sottovalutare. Nei due anni che aveva trascorso lontano da Londra fingendosi morto, la vita delle poche persone che, in un modo o nell’altro, gli volevano bene era andata avanti. John era in procinto di sposarsi, la signora Hudson aveva cambiato la marca della sua tinta per capelli con risultati catastrofici (e lui aveva dovuto fare del suo meglio per evitare di farglielo notare) e Molly si era fidanzata ufficialmente, con uno ben messo economicamente stando alla dimensione e al numero di carati del solitario che le era stato regalato.
Entrò nel laboratorio sbottonandosi il cappotto e subito identificò Molly china su un microscopio ottico.
“Sherlock” esordì lei quasi spaventata, “scusa, non ti avevo sentito entrare.”
“Non volevo disturbarti” spiegò lui aggirandosi con interesse tra microscopi, baker e fialette.
“Non disturbi mai, e poi oggi lavoro fino a tardi, avevo giusto bisogno di un po’ di compagnia.” Spiegò lei stringendosi nelle spalle mentre un lieve sorriso le affiorava timidamente sul viso.
Sherlock levò lo sguardo su Molly che aveva abbandonato il suo fedele microscopio per raggiungerlo. Indossava il solito camice bianco un po’ ingiallito sulla manica destra, quello che aveva il secondo bottone scucito, i capelli erano raccolti come sempre in una coda di cavallo, forse fatta un po’ di corsa dal momento che non era impeccabile come al solito, anche il sorriso timido che gli riservava era sempre lo stesso e Sherlock non poté che ricambiare quando notò che l’unica cosa ad essere diversa dal solito era anche l’unica che lo interessava davvero.
Non fece nessun commento a riguardo, si limitò a fare quello che gli riusciva meglio: osservare; al momento era tutto quello che gli serviva, al resto avrebbe pensato più tardi.
Tirò fuori il campione di capelli che intendeva analizzare e cominciò a trafficare con i vetrini.
“Di cosa si tratta?” chiese timidamente Molly fissando la ciocca di capelli rosso fuoco che Sherlock aveva poggiato sul tavolo.
“Presto lo saprò” tagliò corto Sherlock con un tono che fece capire a Molly che non era il momento di fare domande.
La patologa arretrò di qualche passo e poi tornò a dedicarsi al suo lavoro lasciando Sherlock alle prese con le sue analisi.
 
“Scendo a prendere un caffè” annunciò Molly quaranta minuti più tardi, “ti porto qualcosa?”
“No, ti ringrazio, per oggi ho finito, ma lascia che ti accompagni almeno fino alle scale.” Fece Sherlock riordinando la sua postazione per poi andare incontro a Molly che era in piedi vicino alla porta.
“Come va con John?” domandò lei, “è ancora arrabbiato con te?”
“A giudicare dal numero di volte che dorme da Mary direi di sì” fece sapere Sherlock infilandosi il cappotto e alzando il bavero.
“C’è qualcosa che posso fare per te?” domandò ingenuamente Molly, come sempre destabilizzata dallo sguardo glaciale del detective più famoso di Londra.
Sherlock abbassò lo sguardo e si concentrò sul dettaglio che già in precedenza aveva catturato la sua attenzione. Studiò minuziosamente la mano sinistra di Molly, quella in cui stringeva la chiave della macchinetta del caffè, quella in cui avrebbe dovuto esserci il suo anello di fidanzamento.
“Sherlock” lo chiamò Molly che era ancora in attesa di una risposta e, come sempre, si sentiva terribilmente in soggezione quando lui la osservava in silenzio per troppo tempo.
Il consulente investigativo si riscosse e, senza che nulla facesse presagire un gesto simile, afferrò delicatamente il viso di Molly e le posò un bacio sulle labbra.
La patologa si fece piccola sotto di lui, accolse quel bacio chiudendo gli occhi, senza domandarsi cosa avesse spinto Sherlock ad un gesto tanto audace. Levò entrambe le mani e le allacciò intorno al collo del detective per stringerlo a sé, beandosi del suo calore.
Sherlock si fece più vicino e Molly si trovò schiacciata contro il muro. Inebriata dal suo profumo, non fu in grado di respingerlo, aveva sognato quel momento troppo a lungo per fermarlo sul più bello. Sentì una mano di Sherlock allentare la presa sul suo viso per insinuarsi sotto al camice dove poco dopo la raggiunse l’altra mano.
Molly trattenne il respiro e lasciò che le mani di Sherlock la accarezzassero, sorprendendosi di come parevano conoscere bene il suo corpo. Forse Sherlock in tutti quegli anni le aveva dedicato più attenzioni di quante lei immaginasse.
Era talmente coinvolta e stordita dalla situazione che quasi capitombolò in avanti quando Sherlock si voltò a destra per guardare fuori dal vetro della porta, ponendo fine a quel bacio inaspettato.
Molly si limitò a guardarlo annaspando, incapace di porre qualsiasi domanda. Com’era possibile che una persona tanto fredda e distaccata fosse capace di baciare in modo tanto dolce e appassionato?
“Devo andare” furono le uniche parole del consulente investigativo che si dileguò senza dare nessuna spiegazione alla patologa che rimase appoggiata al muro con una mano premuta sulle labbra e l’espressione incredula.
 
“Baker Street” disse Sherlock all’autista di un taxi parcheggiato appena fuori dal Bart’s. L’uomo gettò a terra la sigaretta che stava fumando e salì in auto avviando il motore mentre Sherlock prendeva posto sul sedile posteriore.
All’altezza di Russell Square Sherlock infilò una mano in tasca e si rigirò tra le dita una tessera bianca dotata di banda magnetica che riportava il logo dell’ospedale da cui si stava allontanando, Molly Hooper gli sorrideva dalla fototessera ignara di tutto.
 
Quella sera Molly rientrò a casa tardi, il suo turno pomeridiano si era prolungato di un paio d’ore e, visto quello che era successo tra le mura del Bart’s, non aveva poi così tanta fretta di rincasare.
Decise di tornare a casa a piedi per concedersi del tempo per pensare. Imboccò Gresham Street camminando a testa bassa avvolta nel suo cappotto, mentre l’aria fredda di Londra le sferzava il viso e le faceva lacrimare gli occhi. Ripensò al comportamento di Sherlock e al suo bacio, e di come fosse strano pensare a quelle due parole nella stessa frase. Molly sorrise sotto alla sciarpa di lana colorata. Imprevedibile lo era sempre stato, ma mai fino a quel punto.
Aprì la porta di casa e subito fu accolta dal suo gatto che le venne incontro con la coda alta, pronto a strusciarsi sulle sue gambe travolgendola di fusa. Molly si chinò e accarezzò il gatto prima ancora di togliersi il cappotto, sapeva che tutte quelle moine altro non erano che un modo per farsi riempiere le ciotole, ma resistere a quel batuffolo di pelo le era impossibile.
Raggiunse il bagno decisa a sciacquarsi il viso ma quando fece per aprire il rubinetto del lavandino, il suo sguardo venne catturato da qualcosa che luccicava proprio accanto alla manopola in acciaio. Il suo anello di fidanzamento, quello che Tom le aveva regalato qualche settimana prima che Sherlock tornasse ad incasinarle la vita, riluceva riflettendosi nello specchio. Quella mattina aveva fatto tutto di corsa e dopo la doccia aveva scordato di rimetterlo. Si vergognò di se stessa per non aver nemmeno sentito il desiderio d’indossarlo appena rientrata.
Fissò la sua immagine allo specchio ma non fu in grado di sostenere il suo stesso sguardo per più di qualche secondo perché crollò in un pianto silenzioso accasciandosi ai piedi del lavandino.
 
Il mattino seguente Sherlock si alzò di buon’ora e uscì di casa talmente di corsa che quasi travolse la signora Hudson sulle scale. Aveva lavorato fino alle cinque del mattino con scarsi risultati e si era addormentato vestito sulla poltrona rimediando un doloroso torcicollo e due occhiaie che certo non gli conferivano un bell’aspetto. Il caso che stava seguendo iniziava a nuocere gravemente alla sua salute, se ne rendeva conto, ma allo stesso tempo non riusciva a darsi pace. Conosceva un unico modo per uscire da quella situazione e, grazie a Molly, presto sarebbe potuto rientrare nel suo palazzo mentale trovando la soluzione al caso. Infilò una mano nella tasca destra del cappotto e serrò le dita attorno alla chiave magnetica che aveva sottratto alla patologa il giorno prima.
Prese un caffè al volo in uno Starbucks e si avviò al Bart’s. Quella mattina era troppo apatico anche per parlare con l’autista del taxi così scelse la metro.
 
John trasse un profondo respiro, poi tornò a fissare il suo interlocutore. “Ti prego, dimmelo un’altra volta” sibilò John ricorrendo a tutto il suo autocontrollo per evitare di mettere le mani addosso a Sherlock.
Il consulente investigativo sbuffò.
“Sherlock” lo chiamò l’altro, “ho detto dimmelo un’altra volta.”
“No! Nonostante tu tenda a sottovalutarti sei un uomo intelligente John, non c’è bisogno che io ti ripeta una seconda volta come sono andate le cose, so bene che hai capito” borbottò Sherlock servendo il tè al suo coinquilino.
“Non puoi averlo fatto sul serio” piagnucolò John nascondendo il viso tra le mani in preda alla disperazione.
“Va bene, allora diciamo che non l’ho fatto se la cosa ti fa stare meglio!”
“Ok Sherlock, allora guardami negli occhi e dimmi che non l’hai fatto veramente!” Disse John puntando un dito contro Sherlock che se ne stava in piedi vicino alla finestra con in mano una tazza di tè fumante.
Sherlock sembrò cercare le parole più giuste per accontentare il suo migliore amico poi scrollò le spalle e dichiarò: “No non posso, l’ho fatto sul serio.”
“Sherlock! Hai baciato Molly solo per rubarle la chiave magnetica che dà accesso alle scorte di farmaci dell’ospedale per farti di morfina! Sei una persona orribile e spero che tu te ne renda conto!” Sputò fuori John tutto d’un fiato, ancora incredulo.
“Come ho già detto, avevo un gran bisogno di accedere al mio palazzo mentale per risolvere il caso a cui sto lavorando…” Spiegò Sherlock con tutta la calma di cui era capace.
“Il suo palazzo mentale” borbottò John a denti stretti alzando gli occhi al soffitto. “Sherlock, Molly è stata sospesa per colpa tua, è accusata di furto ai danni dell’ospedale, te ne rendi conto?”
Sherlock fece una smorfia. “Questo non l’avevo previsto…” ammise a bassa voce, lo sguardo fisso fuori dalla finestra.
“Certo! Invece farle tradire il fidanzato faceva parte del tuo piano!” Ironizzò John fissando Sherlock nel riflesso del vetro.
“Non c’è nessun fidanzato” dichiarò Sherlock risoluto.
“Certo che c’è un fidanzato, si chiama Tom, l’hai anche conosciuto! E nel caso tu te ne fossi dimenticato, ha chiesto a Molly di sposarlo!”
“John, mi deludi amico mio…” sorrise Sherlock, “pensavo che tu e la tua Mary foste più ferrati in fatto di gossip.”
“Co…cosa” balbettò John che non capiva minimamente a cosa Sherlock si riferisse.
“Molly non è più fidanzata” dichiarò servendosi dell’altro tè.
“Sherlock io non so di cosa tu stia parlando… quello che so è che stasera io e Mary siamo a cena con Molly e Tom quindi, ribadisco, non so di cosa tu stia parlando!!!” Sbottò John sull’orlo di una crisi di nervi, la vena sulla tempia che pulsava vistosamente.
Sherlock si accigliò. “Bel tentativo John, dico sul serio, ottima interpretazione, saresti stato quasi credibile se solo io non avessi notato che Molly non indossa più l’anello di fidanzamento.”
John era sbalordito, gli stava venendo un gran mal di testa e voleva solo andarsene, ciononostante si sforzò in ogni modo di trovare le parole più appropriate: “Sherlock, Molly si sposerà con Tom a maggio e tu le devi delle scuse!”
“John, ti ho detto che non indossa più l’anello!”
“Ti sarai sbagliato!” Sbraitò John scattando in piedi.
Quell’insinuazione mandò Sherlock fuori di testa. “Ho controllato due volte! E io non sbaglio una, figuriamoci due volte!” Sbottò mentre una sensazione sconosciuta si faceva largo dentro di lui; per la prima volta stava considerando la possibilità di aver fatto una deduzione sbagliata.
“Sherlock vai a scusarti con Molly, ora!”
“Spiacente, il mio medico ha detto che ho rischiato un’overdose, non posso uscire!” E con quelle parole Sherlock si chiuse in camera sbattendo la porta.
Ne uscì due ore più tardi, imbronciato, e constatò con gioia che John aveva lasciato l’appartamento.
Tornò sul divano e approfittò di quel momento di pace per accedere al suo palazzo mentale; la dose di morfina era stata di grande aiuto peccato che John avesse deciso di catapultarlo fuori dalle sue riflessioni nel momento meno opportuno. Portò le mani giunte sotto al mento e chiuse gli occhi, perso nei meandri della sua memoria, mentre le parole del suo migliore amico gli rimbombavano nella testa: Molly è fidanzata. Stasera io e Mary siamo a cena con Molly e Tom. Non so di cosa tu stia parlando.
Scacciò tutti quei pensieri dalla mente, aveva bisogno di ordine, non c’era spazio per certe cose nel suo palazzo mentale.
“Credevo che ci fosse spazio per tutto nel tuo palazzo mentale”. Era la voce di Molly, Sherlock ne era sicuro. Improvvisamente la patologa gli comparve davanti con indosso il camice e le braccia conserte.
“Beh?” fece lei un po’ scocciata, “non mi rispondi nemmeno?”
“Non dovresti essere qui” commentò Sherlock accigliato.
“Quindi non c’è posto nemmeno per me nel tuo palazzo mentale…”
“Cosa vuoi?” sibilò Sherlock infastidito da quella presenza.
“Non è a me che devi chiederlo” ridacchiò Molly, “è il tuo palazzo mentale, non il mio, è a te che devi domandare cosa ci faccio qui.”
“Non ora Molly”
“E quando allora? Quando nel tuo sangue non ci saranno più tracce della morfina che hai rubato a mie spese?” Domandò Molly acida, cattiva, fredda come non lo era mai stata. Sherlock fu investito da quella frase come un treno in corsa, Molly era sempre stata al suo fianco anche nelle scelte più azzardate e pericolose e ora, tutto d’un tratto, era contro di lui.
Sherlock uscì dai suoi pensieri con urlo liberatorio, un urlo carico di rabbia e frustrazione e cadde dal divano accasciandosi per terra mentre la signora Hudson entrava nell’appartamento spaventata da quelle urla.
“Sherlock” guaì la donna avvicinandosi, “si sente male?”
“No, no, sto bene, torni pure di là” biascicò Sherlock in preda ad un’emicrania insopportabile.
“Ma è tutto sudato!” Constatò la signora Hudson notando la fronte di Sherlock visibilmente imperlata di sudore.
“Sto bene” si lagnò Sherlock.
“Io chiamo il dottor Watson” annunciò la donna sempre più preoccupata.
 
Dieci minuti più tardi John rientrava di corsa nell’appartamento di Baker Street.
“Oh John!” Esclamò la signora Hudson vedendo il medico entrare in casa trafelato. “Mi sono spaventata così tanto… ma che cos’ha?”
“Signora Hudson può stare tranquilla, torni pure nel suo appartamento… a Sherlock penso io.” Disse John educatamente spingendo l’anziana padrona di casa fuori dall’appartamento.
“Ti credevo da Molly a scusarti” esordì John freddo non appena richiuse la porta.
“È nel mio palazzo mentale, John” sospirò Sherlock seduto per terra con la schiena appoggiata al divano.
“Chi?” fece l’altro confuso.
“Molly! Cosa ci fa Molly nel mio palazzo mentale, John?”
Il medico fece una risata che rimbombò nel silenzio dell’appartamento e Sherlock s’irrigidì. “Cosa c’è da ridere?”
“Si chiamano sensi di colpa Sherlock e mi stupisco che tu li abbia ma…”
“Ma?” lo incalzò l’altro.
“È un buon segno” concluse John.
“Un buon segno?” ripeté Sherlock basito, “io non riesco a lavorare perché Molly è nel mio palazzo mentale e tu mi dici che è un buon segno?”
“Sherlock, Molly è nel tuo palazzo mentale perché ti senti in colpa… scusati con lei e sparirà dalla tua testa.” Lo rassicurò John.
Sherlock si levò in tutta la sua altezza e fissò il medico con vivido interesse.
“Tu dici?” domandò accigliato.
“Sì, sono piuttosto sicuro della mia diagnosi e anche della cura” confermò John.
“In tal caso” disse Sherlock guardando l’orologio, “devo vedere Molly, subito.”
John si lasciò scappare un sorriso e guardò Sherlock avviarsi alla porta. “Fossi in te preferirei il cappotto alla vestaglia… inizia a fare piuttosto freddo là fuori!”
Senza che John aggiungesse altro, Sherlock tornò sui suoi passi, gettò la vestaglia sul divano e si mise il cappotto, John gli lanciò la sciarpa e lui se l’annodò al collo un attimo prima di uscire di casa.
 
Molly se ne stava accovacciata sulla poltrona vicino alla finestra quando vide Sherlock scendere da un taxi e dirigersi verso il suo portone. Indossava il suo cappotto preferito, i capelli erano più scompigliati del solito e camminava a passo svelto, come se avesse una certa fretta di rivederla.
Sentì il cuore accelerare i battiti mentre la salivazione le si azzerava e l’anello che portava al dito cominciava a pesare come un macigno.
Molly si ricompose rapidamente davanti allo specchio del bagno, pettinò i lunghi capelli castani e controllò che il mascara non fosse sbavato, Sherlock se ne accorgeva sempre.
Il campanello suonò mentre usciva dal bagno, si avviò all’ingresso e dopo aver respirato profondamente si decise ad aprire la porta.
“Devi andartene!” Esordì Sherlock pragmatico varcando la soglia dell’appartamento di Molly a grandi falcate, le mani incrociate dietro la schiena e il cappotto svolazzante.
“Sherlock ma questa è casa mia!” Sbottò lei sconvolta da quella richiesta tanto assurda e un po’ risentita per non aver ricevuto nemmeno un saluto dal suo ospite inaspettato.
“Sei nel mio palazzo mentale” dichiarò lui risoluto, come se quella dichiarazione fosse sufficiente a giustificare l’affermazione precedente.
“Nel tuo cosa?”
“Palazzo mentale” ribadì Sherlock asciutto studiandola dall’alto del suo metro e ottantacinque.
“E quindi?” Domandò timidamente lei, come sempre un po’ intimorita dalla possibile e imprevedibile reazione del detective.
“Come ho già detto, devi andartene” ribadì lui che non amava doversi ripetere.
“Ma io…” tentò di dire Molly un attimo prima che lui sbottasse stroncando sul nascere ogni suo tentativo di spiegarsi.
“Dannazione Molly! Non puoi stare nel mio palazzo mentale, non riesco a lavorare!” Sbraitò camminando per il salotto mentre Molly richiudeva la porta sperando che i vicini non sentissero le urla di Sherlock.
“Ho una cosa per te a proposito…” fece Sherlock estraendo la chiave magnetica dalla tasca e posandola sul bracciolo del divano.
Molly fissò il piccolo oggetto, sbalordita, non poteva credere ai suoi occhi.
“Sherlock” sussurrò lei, la voce strozzata pur di non cedere alle lacrime. “Cosa significa?” domandò alla schiena del detective. Lui rimase fermo immobile in mezzo al salotto, incapace di spiegare a Molly il senso delle sue azioni.
“Sherlock guardami!” Sibilò lei al culmine della rabbia.
Sherlock si voltò a guardarla consapevole del dolore che stava infliggendo alla patologa ma sinceramente dispiaciuto.
“Ero indietro con le indagini” spiegò.
“È tutto quello che sei capace di dire? Io rischio il posto e tu te ne esci dicendo che eri indietro con le indagini?”
Molly si sentì un’idiota, come aveva anche solo potuto pensare per un momento che il bacio di Sherlock non avesse un secondo fine.
“Mi dispiace” tentò Sherlock conscio del fatto che la discussione aveva raggiunto un punto di non ritorno.
“Di cosa?” domandò lei arrabbiata, “di avermi fatta sospendere? Di aver rovinato il mio fidanzamento? O di avermi usata per raggiungere i tuoi scopi?”
Sherlock rimase in silenzio, in cerca delle parole più giuste.
“Hai ricominciato con la morfina?” domandò Molly quasi disgustata, “ne avevi bisogno e così hai pensato alle scorte del Bart’s? Dovevi proprio mettermi in mezzo? Non potevi affidarti ai tuoi amici senzatetto per procurarti una dose?”
“Ultimamente non sono molto efficienti…” si lasciò scappare Sherlock che capì immediatamente di aver perso una buona occasione per stare zitto. Si morsicò la lingua mentre l’espressione sul viso di Molly mutava lentamente. Dal disgusto era passata alla delusione.
“Come mai un uomo dotato di un cervello come il tuo non è in grado di capire quando sta facendo del male agli altri?” chiese Molly più a se stessa che a Sherlock.
“Sono sinceramente dispiaciuto di averti fatto soffrire Molly Hooper, ma allo stesso tempo sono felice di averti aiutato a capire che quella non era la tua strada…”
“Strada? Quale strada?” borbottò Molly confusa.
“Hai appena deciso di chiudere definitivamente con Tom, non credere che io non l’abbia intuito.”
“Sherlock! Come ti permetti di dire una cosa del genere?” l’aggredì Molly toccata sul vivo.
Sherlock fece una smorfia, una di quelle che compariva spesso sul suo viso quando qualcuno ci metteva troppo tempo a comprendere quello che lui aveva dedotto in un secondo.
Prese un profondo respiro e cominciò a parlare tutto d’un fiato: “Molly Hooper, stasera alle otto tu e Tom avevate una cena con John e Mary in un prestigioso ristorante di Soho, lo so da fonti attendibili. Ora sono le sette e trentacinque minuti e nonostante la mia visita sia inaspettata, non ti ho interrotto mentre ti preparavi, cosa assai strana dal momento che, calcolando il tempo necessario per raggiungere Soho da qui, Tom sarebbe dovuto passare a prenderti non più tardi delle otto meno un quarto per giungere in orario al ristorante, e lui è un tipo puntuale….”
“Che ne sai tu che è puntuale?” balbettò la patologa spiazzata dalla parlantina del detective che sembrava quasi annoiato all’idea di dover perdere tempo a spiegare ciò che per lui era ovvio.
“Ha l’orologio del cellulare sincronizzato con quello da polso, l’ho notato in più di un’occasione, viaggia quasi sempre in metro per evitare i ritardi che il traffico londinese può provocargli e si agita quando qualcuno giunge in ritardo ad un appuntamento anche se si tratta di occasioni informali.”
“Ma…”
“Come dicevo… tu non sei pronta per uscire e non hai alcuna intenzione di prepararti, inoltre non guardi il telefono in attesa di una chiamata da parte di Tom che ti avvisi del suo ritardo, ipotesi che, infatti, abbiamo già scartato perché improbabile, e cosa più importante stai giocherellando nervosamente con l’anello di fidanzamento da quando sono qui.” Concluse Sherlock certo di aver fatto centro anche questa volta.
In risposta alle sue accuse, Molly strinse la mano destra intorno alle dita della sinistra, colta sul fatto, abbassò lo sguardo e rimase in attesa che Sherlock le desse la mazzata finale.
“Ieri non lo indossavi, ho controllato ben due volte prima di… baciarti” riuscì a dire Sherlock con non poca fatica, “credevo avessi già chiuso con lui, ma il mio fedele amico John mi ha fatto notare che, per quanto mi scocci ammetterlo, probabilmente mi sbagliavo visto che avevate una cena prenotata per stasera. Ora dimmi Molly Hooper… quale donna, quale futura sposa, dimentica d’indossare il suo anello di fidanzamento?”
Molly fissava Sherlock in silenzio, la mascella serrata nel tentativo di trattenersi dal rispondere in malo modo a quell’insinuazione.
Sherlock sospirò, poi parlò di nuovo: “la risposta è una donna che non è innamorata del suo uomo, una donna che ieri si è lasciata baciare senza opporre la minima resistenza, una donna che sperava che io stasera fossi qui per dirle qualcosa di diverso.”
Molly si lasciò sfuggire una lacrima e si sfilò l’anello per abbandonarlo sul tavolino alla sua destra con un gesto di stizza. Come sempre Sherlock aveva capito tutto prima di lei e in questo caso era stato fin troppo diretto nel rinfacciarglielo.
“Non l’ho ancora lasciato” bisbigliò Molly, “gli ho detto che mi sentivo poco bene e abbiamo rimandato la cena…” spiegò fissando il pavimento. “Ma hai ragione” continuò levando lo sguardo su Sherlock, “io non lo amo, e quello che è peggio è che amo un altro uomo che…”
“Non ha la minima idea di cosa sia l’amore e pertanto non è in grado di contraccambiarti” concluse Sherlock scrutandola dall’alto.
Molly annuì in silenzio mentre una lacrima le rigava la guancia sinistra.
“Molly io…” tentò Sherlock levando una mano nel tentativo di asciugare le tracce di quel pianto silenzioso.
“No” Ruggì lei arretrando per mantenere le distanze. “Non voglio sentire altro.”
“Sto cercando di scusarmi per ciò che ho fatto” ammise Sherlock a disagio, chiedere scusa non era mai stato il suo forte ma questa volta sentiva il bisogno di farlo.
“Vai via Sherlock...” esalò lei dopo un interminabile silenzio.
In quel momento qualcuno bussò alla porta ed entrambi si voltarono giusto in tempo per vedere Tom entrare con un mazzo di fiori e un ampio sorriso che svanì non appena vide Molly in lacrime e Sherlock al suo fianco.
“Tom” esalò lei stupita da quella seconda visita inaspettata.
“Molly che succede?” Domandò Tom preoccupato rivolgendo un’occhiata truce a Sherlock che rimase impassibile al centro del salotto, “sono venuto a vedere come stavi… mi hai detto che stavi male ma non pensavo che lui…”
“Suvvia Tom” lo interruppe Sherlock, “non giungere a conclusioni affrettate… siete tutti pessimi quando cercate di fare il mio lavoro!”
“Che le hai fatto?” domandò Tom scostando Molly e rivolgendosi a Sherlock, impettito.
“Come prego?” fece Sherlock a cui veniva quasi da ridere.
“Cosa ci fai in casa della mia fidanzata?”
“Gatti!” Improvvisò Sherlock afferrando il peloso coinquilino di Molly che camminava sul bracciolo del divano ignaro di tutto, “avevo bisogno di qualche campione di pelo per delle analisi e Molly ha gentilmente messo a disposizione il suo amico” sorrise Sherlock lasciando andare il gatto e mettendo qualche pelo all’interno di una bustina di plastica che ripose nel cappotto. “Ma ora vado, immagino che voi abbiate tante cose da dirvi, vero Molly?” fece Sherlock ammiccando all’anello abbandonato sul tavolino in modo che solo lei potesse cogliere il riferimento. Uscì a testa alta dall’appartamento sistemandosi il bavero del cappotto, certo del fatto che dopo quel momento non avrebbe mai più rivisto Tom.
 
“Hai fatto in fretta” osservò John che se ne stava in poltrona a leggere il giornale davanti al caminetto dell’appartamento in Baker Street.
Sherlock non disse nulla ma gli sorrise amabilmente mentre si sfilava sciarpa e cappotto.
“Beh? Com’è andata?” domandò il medico richiudendo il quotidiano e fissando Sherlock in attesa di una risposta esaustiva.
Sherlock roteò gli occhi. “Male, è arrivato il suo fidanzato, o meglio, quello che fino a poco fa era il suo fidanzato, e ha pensato di averci colto in un momento compromettente…”
“Stai scherzando” fece John incredulo.
“Scherzo di rado” gli ricordò l’altro.
“Beh… hai chiarito tutto spero” buttò lì John che non sembrava troppo sicuro di voler sapere com’era andata a finire la faccenda.
“Sai che non sono portato per certe cose… ma Molly è una donna intelligente, nonostante abbia commesso il grave errore di innamorarsi di me, e sono abbastanza sicuro che finirà per perdonarmi anche questa volta” disse imbracciando il violino e cominciando a strimpellare una serie di tristi accordi davanti alla finestra.
 

 
  
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