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Autore: Illiana    24/12/2016    2 recensioni
SPIN-OFF della FanFiction "Gli Artigli della Farfalla", anche se è una storia autoconclusiva.
Roma, anno domini 1501 – Ezio Auditore cerca alleati per attaccare e sconfiggere il suo più acerrimo nemico, Cesare Borgia. La Confraternita degli Assassini sta per nascere...
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ezio Auditore, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il Credo che ci accomuna'
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Disclaimer: ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti, ma soprattutto ad avvenimenti o personaggi appartenenti ad altre fanfiction è da ritenersi puramente casuale ed involontario. :-)




Le campane delle chiese nei dintorni suonarono la prima ora(1). Rabbrividii di freddo. Gli ultimi raggi del sole non raggiungevano l’angolo buio nel quale mi ero rifugiato. La persona che stavo aspettando avrebbe dovuto arrivare a breve, se fosse stata di parola. Anche nella mia vita precedente, aspettare era una cosa che non ho mai sopportato, ma in questo frangente avrei dovuto essere paziente, senza scelta. I minuti arrivavano e passavano, indifferenti alla mia sofferenza.

Sembrava fosse passata un'eternità, quando da una porticina di servizio di Castel Sant’Angelo spuntò una figura, che si fermò incerta nell’arco della porta. Mi permisi un moto di esultanza: gli sforzi degli ultimi mesi erano serviti a qualcosa, finalmente! Dopo aver dato fondo a quasi tutti i fiorini in mio possesso per corrompere una serie infinita di servi, garzoni, soldati e ruffiani, ero riuscito a trovare il contatto giusto: Gertrude, una delle cameriere personali di Cesare Borgia. Capelli biondi ricci, forme generose evidenziate ancora di più da abiti stretti: i gusti del figlio di Alessandro VI erano ben noti in città, e forse questo era il motivo per cui lei era anche qualcosa di più di una serva, secondo le dicerie del popolino; ma a me tutto questo non importava.

Stazionai diversi giorni nei pressi della taverna che procurava il vino per la mensa del Papa, e dopo aver individuato la persona giusta, feci in modo di avvicinarla fuori da sguardi indiscreti. Avevo scoperto che il Borgia stava organizzando in gran segreto una spedizione bellica, lasciando il controllo di Roma a suo fratello Giovanni, e la giovane mi aveva promesso informazioni interessanti sugli spostamenti del suo padrone. Dietro il pagamento di una lauta somma, ovviamente.

Mi palesai, uscendo dal mio nascondiglio, e lei sobbalzò dalla sorpresa e dal nervosismo, prima di riconoscermi. A quel punto, fece un passo avanti.

- Ah, siete voi, messer Cristiano! Ho poco tempo, se si accorgono della mia assenza, passerò dei guai! –

- Basterà. Dovete solo confermarmi che la partenza del viaggio sarà domani. –

- Dov'è ciò che mi avete promesso in cambio? - Tirai fuori un sacchetto di pelle, facendo tintinnare a bella osta il gruzzolo di monete che conteneva. Le ultime che possedevo. Ma questo non mi preoccupava: se il mio piano avesse funzionato, io non avrei avuto più bisogno di soldi. Non avrei avuto più bisogno di nulla.

Gertrude osservò con cupidigia quello che avevo in mano, e con un gesto veloce afferrò il suo bottino facendolo sparire nella scollatura tra i seni.

Poi fece schioccare la lingua, lo sguardo furbo: - Padron Cesare lascerà Roma domattina alle prime luci dell’alba, scortato dalle sue guardie personali. -

- Solo con un manipolo di soldati? Nessuno dei suoi fedelissimi lo accompagnerà? - Maledizione. Cesare non mi serviva, da solo. Strinsi i pugni: ad un soffio dal raggiungere l'obiettivo, non potevo accettare che mi sfuggisse, che lui sfuggisse alla mia giustizia.

Lo sguardo della mia informatrice indugiò verso la porta rimasta socchiusa: voleva andarsene, ma se non mi avesse detto ciò che mi serviva sapere, sarei stato disposto a fermarla con la forza, e a picchiarla, persino. Corrugò le sopracciglia: - Intendete dire Micheletto da Corella, Oliverotto da Fermo e Vitellozzo Vitelli? Certo che andranno con lui, lo seguono come la sua ombra, quei tre! Non conosco la loro destinazione, però. Su quella non sono riuscita a sapere nulla. –

- Grazie. Questo è già sufficiente per me. - Io sapevo dove si sarebbero diretti: Urbino. Cesare stava lasciando Roma per raggiungere il suo esercito, che si apprestava a conquistare la città governata dal duca Guidobaldo da Montefeltro.

Gertrude si avvicinò di più a me, sorridendo maliziosamente: - Pensavo che potremmo… incontrarci alla stessa taverna questa sera, quando avrò finito il servizio dai miei padroni. Sarà divertente, spendere i danari in vino buono e in una camera pulita, per trastullarci in santa pace. – Il pensiero che qualcuno notasse la sua assenza non era più tanto importante per lei.

Con fermezza, scostai la sua mano, che si era insinuata attraverso i lacci della camicia e mi accarezzava il petto. Inarcai un sopracciglio: - Madonna, temo ci sia stato un malinteso. Vi ho pagato per ottenere delle informazioni, e solo per quello. – Il tono glaciale faceva il paio con il gelo che mi sentivo crescere dentro, che mi fermava il cuore e mi intorpidiva i pensieri.

Le riservai un breve inchino e volsi le spalle per andarmene, ma evidentemente il mio secco rifiuto doveva bruciarle, perché parole irose mi raggiunsero come frecce: - Ehi biondino! Chi cazzo pensi di essere? Ne posso avere a decine, anche meglio di te! Dove l’hai lasciata la tua virilità? Forse non ce l’hai del tutto, e preferisci andare con gli uomini invece che con le donne! Puah! Vatti a far fottere! –

Le sue accuse mi lasciavano indifferente. Tutto, ormai, aveva il colore ed il sapore della cenere. L’unico sentimento che mi classificava come essere vivente e senziente era l’odio, l’unico scopo che mi faceva muovere e pensare era la vendetta. Una volta compiuta quella, avrei potuto raggiungere i miei famigliari. Quasi ogni notte la passavo insieme a loro perché, anche se di giorno mi sforzavo di non soffermarmi su quei ricordi che trasudavano dolore, la notte non avevo alcun potere sui sogni, anzi sugli incubi, che mi visitavano durante il sonno.

E allora sono sempre lì, in un fosso lungo la strada che riporta me e mio padre a casa dopo un viaggio d’affari. Nei miei incubi posso quasi sentire con vivida realtà il sapore del fango che mi è finito in bocca, le mani appiccicose per il mio sangue rappreso, la schiena che mi duole come fosse scuoiata per via della ferita di spada che ho ricevuto dai sicari. Eppure, proprio a quella ferita avrei dovuto essere grato, perché mi permise di sopravvivere, quando gli assalitori mi lasciarono lì, considerandomi morto. Raggiunsi Roma, e casa mia, dopo giorni di cammino. Svenni diverse volte, ma mai nessuno mi soccorse.

Nei sogni, almeno quella parte di sofferenza mi viene risparmiata, perché ciò che vedo subito dopo è il fumo che si alza pigramente dall’edificio di proprietà della mia famiglia. La casa è stata data alle fiamme giorni prima e lasciata bruciare senza che nessuno dei vicini potesse intervenire, minacciati dalle stesse persone che compirono l'attacco.

Solo il muro antistante la strada è rimasto in piedi, pericolante e prossimo al crollo, ma io entro, anche se ogni fibra del mio corpo urla il suo rifiuto. Devo sapere, e contemporaneamente, non vorrei. Ci sono persone che hanno perso il senno, per aver sopportato un dolore troppo grande. Incespico nelle macerie e nei legni dei solai crollati, sentendo di essere troppo debole per continuare a camminare. Cerco di orizzontarmi, e riconosco gli scheletri carbonizzati degli scaffali della libreria, l’orgoglio di mio padre.

Vorrei urlare per rompere il silenzio che ammanta lo spettacolo che ho davanti, ma nel sogno, sento che la mia bocca è ancora piena del fango del fossato. E allora le mie mani, che assomigliano ad artigli, cominciano a scavare tra i detriti. Prima con lentezza, il dolore mi buca la pelle come mille aghi roventi, poi sempre più veloce, ed il dolore si è come zittito.

Trovo mia sorella Chiara per prima, riconosco il corpo dai brandelli di stoffa del vestito color lavanda che lei odiava, ma che si intonava perfettamente con i suoi capelli biondi. I riccioli di cui andava tanto fiera ora non ci sono più, arsi e carbonizzati come la sua fanciullezza e la sua vita. Mia madre è accanto a lei, in un gesto protettivo che è stato tanto inutile quanto disperato.

Vorrei sapere come sono morte, avrei voluto essere con loro per proteggerle, anche se non sono riuscito a difendere neppure mio padre. Eppure, il Signore misericordioso sa che ho tentato di farlo, con tutte le mie forze. La mia speranza è che sarò assolto per quello che commetterò, prima di presentarmi al suo cospetto.

Non tutte le volte i sogni sono uguali, alle volte rivivo certi particolari, altre no. Alcune volte, si interrompono a questo punto, facendomi illudere, perché un pensiero si fa strada nel mio dolore. Anche negli incubi è presente, effimero e malefico come poi si è rivelato: lei non è insieme con mia madre e mia sorella. Forse è riuscita a scappare, forse era al mercato nel momento dell’attacco. Adele, mia moglie. Adele e le sue manie alle volte ancora infantili, il segreto che mi avrebbe confidato dopo quell’ultimo viaggio d’affari, ma che quella chiacchierona di mia sorella mi aveva svelato subito. Sarei diventato… padre.

E finalmente riesco ad urlare, perché altrimenti sarei morto soffocato all’istante, quando vedo affiorare la sua mano candida tra i resti bruciati della credenza in cui custodivamo l’argenteria. Urlo per mesi, o così mi pare. Alla fine, urlo senza avere più voce. Urlo senza provare più dolore. Le lacrime che ho pianto diventano strisce chiare sul mio viso sporco. Non si è salvato nessuno, neanche i nostri fedeli servitori sono riusciti a scampare alla carneficina, ma io sono troppo esausto per piangere anche loro. Sono l’ultimo derelitto della razza umana, sono una parvenza di uomo, perché un uomo è fatto di sentimenti, speranze, ardori, paure persino, mentre io non ho più nulla. Sono una cassa vuota, e l’unica cosa che la fa ancora risuonare è l’odio.

Ogni volta che mi sveglio, nel giaciglio che l’artigiano al quale faccio da garzone mi ha messo a disposizione nella sua bottega, sono queste le uniche parole che affiorano, e diventano come una preghiera, scandita dai tonfi dolorosi del mio cuore: Sono vivo. Vivrò. Ma solo per vendicarvi.

Li ho vegliati per giorni, incapace di trovare la forza di seppellirli. Con il tempo sono riuscito a recuperare quel poco di lucidità che mi è servita per stabilire le priorità. Non ero impazzito, e forse questa non fu una fortuna, perché l’oblio della ragione è una forma di misericordia che viene concessa agli uomini. Nei pensieri che si schiarivano poco a poco, invece, c’era la contaminazione di una lordura immonda, che andava contro ciò in cui avevo creduto, prima che succedesse tutto questo.

I principi religiosi, che tanta parte avevano avuto negli insegnamenti che ci aveva impartito mia madre, dicevano di non commettere omicidi, e di perdonare i torti subiti. Io li avrei violati, tutti quanti. Senza remore, senza pentimenti. Se la strada per l'inferno era una scala, io stavo scendendo i primi gradini. Ora, mi rendo conto di quanto incoerenti fossero i miei pensieri: speravo di poter riabbracciare i miei cari, però loro non si trovavano certo all'inferno. Ma a quel tempo, non aveva importanza. Niente più la aveva, se non la ricerca dei responsabili e la loro morte.

Quando le ferite si rimarginarono a sufficienza, per prima cosa andai a riscuotere i crediti che mio padre, un commerciante di stoffe, vantava nei confronti dei suoi clienti: avevo bisogno di soldi con cui comprare le informazioni che mi servivano. Per fare questo, scesi altri gradini di quella scala infernale. Chi non si decideva a saldare il conto subito, si pentiva in seguito di aver preso una decisione poco saggia: le minacce di morte sortivano sempre l'effetto desiderato su quei pavidi.

Ero cambiato molto dal giorno dell'attacco, così tanto che era come se avessi vissuto due vite distinte. Dal mio viso avevo fatto sparire ogni sentimento, ogni moto d’anima. Non so se questi fossero semplicemente scivolati via, oppure se li avessi coperti con una maschera, come una lapide di marmo ricopre i corpi dei propri cari. Alcune volte coglievo uno sguardo terrorizzato negli occhi di quelle persone che avevano la sventura di incrociare i miei. Ma non aveva importanza, niente più l’aveva.

Cominciai a fare domande in giro: un passo alla volta, mi stavo avvicinando ai colpevoli, come una nuvola nera foriera di tempesta. Dopo essere riuscito ad individuare il nome dell’uomo che aveva trafitto a morte mio padre, e che sembrava essere il capo di quel gruppo di banditi, disperai inizialmente di riuscire a compiere la mia vendetta: Micheletto da Corella era il fedele braccio destro di Cesare Borgia, il suo luogotenente, l’anima nera di un’anima nera.

Per questo dovetti diventare più cauto nelle mie indagini, più generoso nelle ricompense per ricucire le bocche di chi mi aveva fornito notizie su di lui. Gertrude mi aveva dato l’informazione finale, quella fondamentale per riuscire a terminare il mio piano di vendetta.

Quella sera non tornai alla bottega dell'artigiano; ormai non mi serviva più un rifugio, quindi sparii senza dare spiegazioni. La notte la passai insonne. Cercai di evocare i visi dei miei cari, di avvertire la loro presenza, ma essi non vennero. Volevo piangere, ma neanche le lacrime arrivarono. Ormai ero dannato, e mi trovavo davanti alla porta dell'inferno. Ma a chi poteva importare? In fondo, vendicandomi avrei anche reso un servigio ad altri, avrei tolto ad una canaglia la possibilità di commettere altri delitti.

L’indomani, in un’alba nebbiosa, scelsi la posizione più adatta lungo la strada che da Castel Sant’Angelo portava fuori città, per attendere il passaggio del corteo del Borgia: il tetto di una casa sul viale che costeggiava il Tevere mi permetteva di avvistarli con un buon anticipo, nonostante la nebbia. Quando fossi stato certo della loro identità, mi sarei calato giù per affrontarli. Nel silenzio quasi irreale, cominciai a sentire il rumore di un gruppo numeroso che si stava avvicinando. Mi preparai ad attaccare, scacciando ogni rimorso residuo, cercando di calmare il battito furioso del cuore.

- La tua vita vale davvero così poco? – Trasecolai. Poco ci mancò che mi lasciassi sfuggire un’imprecazione. Il mio turbamento non era dovuto tanto alla sorpresa di trovarmi a pochi passi di distanza un individuo che era apparso quasi come un fantasma, quanto allo stridente contrasto tra il mio rovello interiore e la pacata tranquillità, quasi sorniona, che trapelava da quella frase. Il tono con cui era stata pronunciata lasciava intendere una blanda curiosità, come se si stesse informando sul prezzo di un drappo di stoffa.

Mi ero voltato di scatto, e per qualche secondo studiai quella figura quasi irreale, cercando di valutarne le intenzioni. L’uomo si avvicinò al bordo del tetto, accovacciandosi accanto a me. Mi colpì il fatto che, nonostante le armi e l’armatura che indossava, si fosse mosso senza il minimo rumore. Il corteo si stava avvicinando sempre più, in una manciata di secondi sarebbe passato davanti alla mia postazione, ed io dovevo pensare velocemente a come liberarmi di questo contrattempo. Non gli risposi: farlo mi avrebbe fatto sprecare attimi preziosi, e poi una conversazione era l’ultimo dei miei pensieri. Riportai l'attenzione sulle figure a cavallo: gli zoccoli che battevano sul lastricato e il tintinnare dei finimenti metallici si udiva netto e tagliente nel silenzio ovattato della strada.

Ora che potevo vedere meglio il gruppo in viaggio, distinsi almeno una ventina di cavalieri: preceduto da tre guardie, spiccava nel mezzo la persona di Cesare Borgia. Il suo portamento eretto e gagliardo, il suo mantello rosso vivo colpivano l’occhio immediatamente. Sprezzante e sicuro come lo descrivevano i suoi detrattori, il Borgia sembrava essere certo del suo potere e della sua invulnerabilità. Spostai lo sguardo alle sue spalle, dove due dei suoi fidi lo scortavano in maniera serrata: individuai senza la minima esitazione il mio bersaglio. Vestito di un farsetto di velluto blu, il mantello chiuso da una spessa catena d'oro, Micheletto da Corella cavalcava con lo sguardo fisso davanti a sé. Mai avrei potuto dimenticarmi quegli occhi freddi, lontani e sprezzanti, quel ghigno perenne sulla bocca dalle labbra troppo serrate per non far pensare subito ad un taglio.

Era giunto il momento di agire. Avrei soffocato il mio dolore in altro sangue. Avrei versato anche il mio, di questo ero più che certo. Non sapevo come, ma la mia sete di vedetta, il mio odio inestinguibile avrebbero guidato la mia lama verso le carni di quell’individuo immondo. Non aveva nessuna importanza se in quell’attacco avrei perso la vita, non mi illudevo di riuscire a fuggire da lì. Li avrei avuti tutti quanti addosso, ma a quel punto, con Corella morto, non aveva importanza cosa sarebbe successo. In fondo, la morte mi aveva camminato vicino per troppo tempo, e mi ero talmente abituato al suo pensiero che non mi sconvolgeva neanche più. Anzi, l’avrei accolta con il sorriso sulle labbra. Avrei abbassato le armi, e l’avrei aspettata come se fosse la mia personale liberatrice.

Una bassa risata mi riscosse: avevo dimenticato la presenza dell’altro. Era sempre lì, e anche lui fissava il corteo, che si avvicinava sempre più. – Quanto pensi di resistere, prima di venire ucciso? Quante guardie credi di poter sopraffare, con la tua spada? – Il tono continuava ad essere leggero, come se l’intera questione fosse per lui un divertimento segreto. Repressi un moto di impazienza. Il mio sguardo continuava a saettare da lui al mio bersaglio, sempre più vicino, come una miccia che bruciando velocemente si avvicina all’esplosivo.

Perché lo continuavo ad ascoltare? Cosa poteva dire per convincermi a desistere dalle mie intenzioni? Ma soprattutto, a che scopo lo faceva? – Non credo che tutto questo sia affare vostro, messere. Riprendete la vostra strada, e concedetemi la cortesia di dimenticare ciò che avete visto. -

- A dire il vero, le nostre strade coincidono, quindi mi spiace non poter esaudire la tua richiesta. – All'improvviso, il suo tono si fece pressante – Ascoltami! Il figlio del papa ha molti nemici. Non basterà un’azione improvvisata come la tua per eliminarlo. –

- Vi sbagliate. Non è la sua vita che voglio. – I miei occhi erano puntati su Corella. Il mio compagno seguì la direzione del mio sguardo.

- Capisco. Ma non per questo l'impresa sarà più semplice, credimi. – La mia sicurezza cominciò a vacillare. O forse la mia follia. In qualche parte della mente che non sapevo più di possedere si levò una voce: il buonsenso. Sarei riuscito ad affrontare degli avversari così apertamente formidabili? Il rumore degli zoccoli risuonavano e rimbombavano nelle mie orecchie, come un conto alla rovescia. Pochi secondi, e sarebbero passati davanti al palazzo su cui ero appostato. Non avrei più potuto calarmi al livello della strada, nel vicolo laterale, perché sarei stato scorto. E dopo mesi di appostamenti, quella che stava per sfumare era l’ultima occasione che mi si sarebbe mai presentata per compiere la mia vendetta. Ma cosa sarebbe successo se, come diceva quell’uomo, fossi stato ucciso prima ancora che il filo della mia arma si avvicinasse a Corella?

Provai a deglutire, ma non riuscii, la bocca riarsa. In più, sentivo la presa sulla spada che si andava indebolendo, le mani intorpidite dal gelo onnipresente, le cicatrici che bruciavano più del solito.

- Corella è solo un tirapiedi, ha agito dietro precisi ordini. Quelli del Borgia, ovviamente. E se non era lui a trarne vantaggio, lo avrà fatto per fare un favore a qualche suo alleato. – I primi soldati stavano passando, ma ora quello sconosciuto aveva tutta la mia attenzione. Mentre parlava, mi si era avvicinato ulteriormente: il suo viso era poco distante dal mio ed ora potevo vederlo interamente, non più celato dall’ombra del cappuccio. Gli occhi mi fissavano con un’intensità tale che sembravano artigliarmi l’anima, il sorriso era più uno snudare di zanne, il sussurro con cui pronunciò le parole successive si trasformò da piuma a piombo: - Se è la vendetta ciò che desideri, io posso fare in modo di fartela ottenere. Completa. Mandanti ed esecutori. Ma dovrai fidarti di me, ora, in questo momento, e lasciar perdere il tuo folle piano. –

Strinsi i denti, sentivo la mascella bloccata dalla tensione. Fiducia? Come potevo mettere la mia vita nelle mani di uno sconosciuto, con il rischio di essere ucciso una volta che avessi posato la spada? Di lui non conoscevo nemmeno il nome, né le sue origini. Indovinavo un accento straniero, del nord probabilmente, ma nulla più. Mio padre diceva sempre che quelle erano le cose più importanti da sapere, per conoscere e fidarsi di una persona, per poter concludere affari insieme: diffidava dei genovesi, per esempio, e stimava i veneziani. Ma tutto questo era inutile, adesso.

Il Borgia mi stava sfilando sotto gli occhi. Forse era davvero lui il mandante, e Corella, il semplice esecutore. E lo sconosciuto aveva ragione. Come avevo fatto ad essere così ottuso? Ma chi era costui che mi stava offrendo il suo appoggio? Con che fine lo faceva? Sembrò quasi mi leggesse nel pensiero: - Il Borgia è a capo di un potente gruppo, e ora che pensa di avere Roma in saldo nelle sue mani, sta già volgendo il suo sguardo all’Italia intera. Ho provato a combatterlo, ma da solo non è possibile. Cerco alleati, e persone capaci che uniscano le loro forze alle mie. Partiremo dal basso, indebolendo il suo potere con attacchi mirati ai centri del suo potere, raccogliendo via via sempre più seguaci. –

- Quindi siete stato voi a bruciare la torre comandata dal capitano de’ Grossi? – Un secco cenno di assenso: - Quella fu la prima, e forse anche la più rischiosa da attaccare. Dopo, mi occupai di uccidere i capitani di altre due torri al centro della città, Pietro e Valentino da Siena... Due figli di cagna... il prossimo che ho sulla mia lista è loro fratello Prospero... -

Erano giunte anche alle mie orecchie le notizie di quegli attacchi repentini e vittoriosi che avevano cominciato ad umiliare il potere che la casata dei Borgia vantava, incontrastato fino a quel momento, su Roma. Azioni fulminee, imprevedibili, ottenute solo grazie all’operato di un solo individuo. O almeno, così si vociferava. Le persone dalle quali ne avevo sentito raccontare si erano mostrate speranzose che finalmente qualcosa potesse cambiare, che il tallone che li aveva schiacciati fino a quel momento diminuisse la sua pressione. Erano state buone notizie anche per me: se davvero un singolo era riuscito in queste imprese, allora anche io sarei riuscito nella mia.

Corella si era sporto a parlare con l’uomo che gli cavalcava al fianco: se le mie fonti dicevano il vero, doveva trattarsi di Oliverotto. Potevo quasi distinguere ogni pietra preziosa che incrostava il fermaglio del suo mantello, tanto era vicino. L’unica altra volta che mi era stato così vicino, aveva trafitto a morte mio padre, nonostante io cercassi di fermarlo. Afferrando la lama a mani nude, mi ero tagliato profondamente i palmi, e le cicatrici ancora fresche me lo ricordavano continuamente.

Dentro di me cominciò a crescere un lamento di animale ferito. Era troppo tardi. Troppo tardi per attaccarlo, troppo tardi per compiere la mia vendetta. Esalai un urlo silenzioso, posando sulle tegole la spada, ormai inutile.

Avevo perso tutto. Ogni motivo per vivere, ogni significato del morire. Un pensiero mi attraversò la mente, come il rintocco nitido di una campana in una mattina d'inverno: la mia morte ora non sarebbe servita a niente. Tanto valeva, dunque, vivere. E cosa avevo di più semplice da fare, se non accettare una speranza, l’offerta che quell’uomo mi stava mettendo davanti? Forse potevo ancora riuscire ad ottenere la mia giustizia, ma l’unico modo era farlo appoggiandomi a qualcuno. Lui mi aveva chiesto un aiuto, promettendomi qualcosa in cambio.

Un sorriso sbilenco si dipinse sulla mia bocca: sorridere mi faceva male, anche se non lo facevo per esprimere gioia. Era come indossare dopo molto tempo un vecchio abito dismesso che non pensavo avrei più usato. Accettavo questo dolore come una sorta di contrappasso nella mia vita.

- Siete coraggioso, ma folle quanto me, a ben vedere. – Osservavo la schiena degli ultimi soldati che chiudevano il gruppo di cavalieri: entro breve sarebbero scomparsi alla mia vista, oltre la curva per cui continuava la strada che arrivata fuori città, al ponte Milvio, così come l’oggetto della mia vendetta.

Il suono basso della risata del mio vicino mi sorprese: - La vita è un rischio ed una battaglia continua. È inevitabile, quando porti avanti lotte con obiettivi così importanti. Ma i rischi che corro sono ben valutati, ed io sono allenato ad affrontarli. Potresti diventarlo anche tu, se accetterai di aiutarmi. –

- Di cosa stiamo parlando, esattamente? –

Sapeva di avermi convinto, per questo motivo gonfiò il petto e mi diede una pacca sulla spalla: - Di questi argomenti, sono certo se ne parli meglio davanti a qualcosa di caldo e di molto forte. Seguimi! Qui vicino c’è la taverna di un vecchio amico, un posto tranquillo per fare quattro chiacchiere. –

Si alzò senza attendere la mia risposta. Con un passo sciolto e veloce attraversò il tetto e con un balzo raggiunse quello del palazzo accanto. Da lontano mi giunse il nitrito di un cavallo del gruppo che era appena scomparso dalla mia vista, ma non sentii alcun altro suono. La nebbia si stava dissolvendo al primo sole, quindi quello che avevo visto compiergli non era frutto di un’allucinazione. Ero impressionato ed incredulo.

- Aspettate! – Feci alcuni passi di corsa, la mano tesa verso di lui, come ad aggiungere maggior enfasi alle mie parole: - Non conosco nemmeno il vostro nome! –

- Come io non conosco il tuo. Ma se questo ha così importanza per te, io sono Ezio Auditore da Firenze, per servirti! -


(1) Le sei di sera




ANGOLO DELL'AUTORE: Buongiorno a tutti! Non so neanche da dove cominciare... è anni che non pubblico più nulla, ma più che disinteresse si è trattato di un vero e proprio blocco dello scrittore (?) quindi... dopo un lungo ragionare e riscrivere, riesco a farmi e a fare un piccolo regalo di Natale a tutti i lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare a leggere fin qui! Come dicevo nella presentazione, questa storia è uno spin-off della FF “Gli Artigli della Farfalla” (per ora incompleta ma chissà, ora che ho rotto il ghiaccio...), anche se si può leggere autonomamente, a differenza dello spin-off di “Bocca di Rosa” (ancora incompleta anche questa!!!).
Dato che amo tantissimo ACB ed i “miei” assassini, mi è piaciuto raccontare come Ezio abbia reclutato il primo componente della Confraternita, Cristiano. E visto che non sono tanto normale, quando ho cominciato a pubblicare la FF principale avevo trovato dei visi che rispecchiassero l'idea che avevo dei personaggi nella mia testa, giusto per renderli ancora più reali! Vi ripropongo quello di Cristiano, che è perfettamente rappresentato da Paul Walker: http://1.bp.blogspot.com/-TtnsXh0Cbbc/Taph2D_0hII/AAAAAAAAB-s/uzZGjxjhj7g/s1600/Paul_Walker_3914_1280_1024.jpg

Spero di farmi risentire presto! Tantissimi auguri di buon Natale! :-)
Illiana

P.S. Se a qualcuno interessa, questo è il link per la FF “Gli artigli della Farfalla”: http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2318469&i=1
  
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