Buon
Natale!
Lo so, un altro ritardo, ma
credo ormai l’abbiate capito… le scadenze uccidono
il mio spirito!
Comunque è una buona
occasione per fare gli auguri a tutti e in particolare a Fabula Nera,
Usagi e
Claddaghring8: grazie di tutto, per come mi avete riaccolto dopo un
lungo
periodo di assenza e per le vostre fantastiche parole
d’incoraggiamento. Siete
fantastiche!
Il ritardo è dovuto ad una
mia testardaggine, la solita: il francese!
Come ricorderete, forse, a
volte alcuni dialoghi sono in lingua.
Se ricordate altrettanto
bene, io non so il francese.
Un bel paradosso, me ne
rendo conto!
Perché insisto nonostante un
tale intoppo? Oltre ad una notevole dose di autolesionismo, soprattutto
perché
il rapporto tra Demian e Sarah perderebbe un qualcosa che solo andando
avanti
comprenderete, e quindi mi costringo a forza a colmare una lacuna
incolmabile.
Ho fatto del mio meglio (e
rispolverato tre anni di medie infernali con professori di francese dal
fortissimo accento siciliano che non mi hanno facilitato il compito),
siate
tolleranti e… beh, se sapete il francese e scorgete qualche
indecente obbrobrio
della vergogna, magari ditemelo.
Sarebbe un gesto davvero
apprezzato!
Per non ammorbarvi, l’ultima
postilla la lascio a fine capitolo, giuste per spiegare un paio di cose
se
aveste domande!
À Demian
Capitolo secondo
Sarah
Sarah era fragile.
Demian era cresciuto
ripetendoselo ancora e ancora, per non scordarlo mai.
Per imprimersela a fuoco
addosso, quella sensazione d’impotenza e paura, per
respirarla sempre, in ogni
momento, e non poterla mettere da parte mai.
Era la prima cosa che gli
era stata detta, quando la sua bellissima sorellina era nata. Non il
colore
degli occhi, il peso, quanto aveva pianto o se era come lui.
Niente di tutto questo, solo
che era fragile.
E allora l’aveva cercata,
con il naso spiaccicato al vetro ed il corpo sollevato sulle punte per
poter
vedere più lontano, aveva frugato con lo sguardo ogni
lettino, sforzandosi di
riconoscere fra quelle file di neonati uno simile all’altro,
la sua Sarah.
C’era Jules accanto a lui,
gli aveva messo un braccio attorno alle spalle e lo aveva attirato a
sé, e
Demian riusciva solo a ricordare di aver stretto la sua maglietta forte
e che
era stato il cugino a spiegargli quella verità troppo grande
e incomprensibile
che gli adulti gli avevano raccontato solo a metà.
Sarah soffriva di problemi
cardiaci.
Come a un fiore nato
prematuro quando ancora il gelo imperversa intorno a lui, le era stata
tolta la
possibilità di difendersi da sola, e Demian aveva capito, lo
aveva compreso
subito, un’ineluttabile verità che aveva falciato
con un solo colpo spietato e
preciso la sua età più tenera e pura: avrebbe
dovuto proteggerla, sarebbe
dovuto diventare forte, la campana di vetro che l’avrebbe
difesa dalle brutture
della vita, per poterla tenere al sicuro.
O l’avrebbe persa.
Perderla era l’unica cosa
che non sarebbe mai riuscito a sopportare.
Essere tanto forte però, non
si era rivelato facile, Demian aveva scoperto di non essere
all’altezza di quel
compito che si era assegnato da solo, illudendosi forse di poter dare
più di
quanto fosse in grado.
Poteva essere il timore
degli ultimi giorni a renderlo immotivatamente più ansioso e
isterico di quanto
la situazione non richiedesse, ma non poteva impedirsi di vedere in
ogni
svincolo e ogni deviazione da un percorso ben organizzato e preciso un
pericolo
per lei, e la loro situazione familiare era sempre una svolta
imprevista, un
filo teso che minacciava di spezzarsi e di spezzarla.
Solamente grazie a questa
consapevolezza aveva ammesso un anno prima, seppur con ritrosia, che la
sua
bestiolina sarebbe stata meglio lontano da loro, da lui e Jen, e
avrebbe avuto
una vita più tranquilla sotto la tutela di Claire.
E odiava vivere senza di lei
e saperla distante, ma all’idea che anche Sarah potesse
vedere la lenta
progressione della malattia di maman si sentiva peggio, allora il suo
conforto
era saperla ancora innocente e si aggrappava a
quell’innocenza pura, incontaminata,
per sopprimere la nostalgia e la solitudine.
C’erano dei momenti in cui,
senza un motivo apparente, lo sconforto gli pesava come un macigno e
gli
sembrava di essere slegato dal proprio corpo, in quei momenti si
pentiva,
capiva che, forse, aveva sbagliato tutto, avrebbe dovuto permettere che
fosse
zia Claire a farsi carico di Jenevieve, di lui e di Sarah, avrebbe
dovuto
affidare quel compito così delicato a qualcuno che ne fosse
all’altezza. Poi
però, la lucidità tornava e tornava una delle sue
poche certezze: era lui la
famiglia di maman, e quella malattia era un peso che solo lui doveva
prendere
su di sé.
Per quanto impensabile,
Jenevieve lo aveva assecondato.
Demian ne ignorava realmente
il motivo e non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo, semplicemente
era
giunto alla conclusione che Jen dovesse aver pensato che, seguendo i
suoi
desideri, forse lo avrebbe aiutato ad accettare meglio la situazione.
La verità era che nulla
poteva renderla meno amara, ma questo poteva comprenderlo unicamente
Sarah.
La sua Sarah.
Giunse nel parcheggio di
fronte alla scuola elementare che erano quasi le nove, e già
gli sembrava di
averci messo un’infinità di tempo, e che in quel
lasso di tempo sarebbe potuto
accaderle di tutto.
Avrebbe persino potuto
provare una forma di ansia per il suo ritardo, bastava solo questa
consapevolezza
a farlo sentire un inetto e un incapace.
Sollevò gli occhi stanchi,
arrossati, sull’edificio giallo stinto, bucato da immensi
finestroni e
racchiuso da una ringhiera verde pallido che lasciava intravvedere un
grande
cortile maltenuto, ed anche se il luogo era completamente diverso
provò una
fitta allo stomaco, una sensazione di impiccio che poteva tradurre
più
onestamente con “ricordo”.
Poteva trattarsi di pura e
banale reminiscenza ma Dem era più portato a credere che,
probabilmente, tutte
le elementari si assomigliassero in qualche modo, ed era facile per lui
rivedere in un cortile spoglio una fetta consistente della sua infanzia.
Suonò al citofono e la voce
rude di una bidella su di età lo invitò a
introdursi nella scuola con un sordo
e fastidioso rumore che aprì il cancellino. Demian
salì correndo i gradini in
pietra calcarea che conducevano all’ingresso e solo di fronte
alla porta a
vetri rallentò per prendere un’andatura
più tranquilla e sicura.
Il salone, dalle pareti di
un giallo un po’ più acceso, era vivace e decorato
da disegni di bambini che
giocavano e si rincorrevano, da farfalle variopinte e dalle impronte
delle mani
degli alunni. Era un ambiente diverso dalle elementari che aveva
frequentato
lui, sembrava più accogliente e vivibile, sereno. Demian di
quei suoi anni
conservava un ricordo amaro, la scuola era sempre stato un luogo
difficile per
qualcuno come lui, risentire addosso l’umiliazione era
spontaneo, ma perlomeno
riconosceva un merito al periodo più ingrato della sua vita:
gli aveva
insegnato a farsi le ossa.
La scrivania della bidella,
a ridosso della parete opposta all’entrata, era presieduta da
una bassa donnina
dai ricci scapestrati biondo tinti, con un doppio mento prominente che
veniva
malamente nascosto dal dolcevita a collo alto.
«Buon giorno. Sono Demian
Lemaire, sono venuto a prendere Sarah Lemaire»
La bidella alzò
svogliatamente gli occhi dalla sua rivista, lo squadrò e,
senza perdere l’aria
annoiata, annuì piano «Sì, hanno
chiamato mezz’ora fa» confermò,
sollevandosi
con estrema riluttanza.
Indossava delle scarpe con
il tacco basso, il ticchettio snervante rimbombò nel salone
facendola apparire
come un piccolo gnomo dal grugno perennemente scontento. La
seguì fino a quando
non la vide fermarsi davanti ad una porta decorata con delle coccinelle
sotto
la scritta “5 B” e bussare con impazienza, come
avesse fretta di ritornare alle
proprie mansioni.
Anche quel piccolo momento
di attesa prima del “avanti!” della maestra
riusciva ad apparirgli come un
lasso di tempo sufficientemente lungo da dilatare la sua ansia. Di
ansia, per
Sarah, ne provava con una facilità disarmante, per qualunque
cosa, un respiro
più pesante, una smorfia incompresa, e diventava totalmente
incapace di
gestirsi. Era questo il motivo per cui, a conti fatti, nonostante tutto
il
tenero amore che provava per lei, la evitava come la peste.
Perché la salute di sua
sorella era la sua più grande paura, non sempre riusciva ad
armarsi per
affrontarla.
La bidella si sporse
dall’uscio discretamente e Dem, subito, infilò con
poco garbo la testa sopra
quella della donna, per poter vedere la classe. Il suo quasi metro e
ottanta
unito alla bassa statura della bidella non gli rese il compito
particolarmente
complicato, così gli riuscì di studiare
rapidamente le tre file di scolari
curiosi che lo fissavano confusi di rimando.
La chioma screziata di
biondo di sua sorella gli permise di metterla a fuoco rendendo
indistinto
qualunque volto la circondasse, e Sarah, dall’angolo della
seconda fila,
intercettò i suoi occhi e gli sorrise raggiante.
La bidella provvide subito
ad allontanarlo bruscamente.
«Il signore è venuto a
prendere Sarah Lemaire» sibilò gelandolo con
un’occhiataccia ben poco
convincente.
L’insegnante, dapprima
perplessa, gli sorrise affabile, e Demian per riflesso
considerò tra sé che
fosse la maestra di matematica. Aveva quel sorriso dal retrogusto
sadico che
sapeva di perfido, quando riconsegnava una verifica.
«Certamente. Sarah, hai
preparato tutto?»
La sua sorellina scattò
immediatamente dal posto come non stesse aspettando altro, si
caricò in spalla
lo zaino e afferrò il giubbino, un soldatino perfettamente
addestrato.
«Ci vediamo domani» le
sorrise la maestra, e Sarah ricambiò con entusiasmo,
sembrava un’incarnazione
della gioia e della spensieratezza così palese da risultare
sciocca. Demian non
riusciva a comprenderla, non del tutto, quasi diventava difficile
sostenere il
suo sguardo pulito e dolce, gli pareva che la sua anima potesse
illuminare
tutto e lo accecava.
Davanti alle fossette e alla
spruzzata di lentiggini sulla pelle chiara, si sentì
improvvisamente più
tranquillo e tutta l’inquietudine provata
nell’ultima settimana si dissolse
come non avesse mai avuto ragione di essere.
Sarah era una creatura
fatata nata sulle sponde di Ys, che si barcamenava tra il mondo dei
mortali e
il regno dei faerie e camminava come sollevata da terra, in una
leggerezza che
apparteneva a lei soltanto.
«Arrivederci» la bimba si
volse verso la classe sventolando la mano e ricevette un
“Ciao” corale in
risposta, poi tornò a posare le sue iridi di caramello su di
lui e Demian provò
la necessità di abbracciarla.
Mentre la bidella richiudeva
la porta, si accorse quasi distrattamente che i bambini
all’interno dell’aula
lo stavano studiando bisbigliando e ridacchiando.
Ok, la scuola sembrerà anche diversa,
ma certe cose non
cambiano mai.
La purezza infantile sarebbe
sempre stata meschina e crudele e l’avrebbe portato ogni
volta a sentirsi un
bambino di sette anni ferito.
«Fratellone!»
esclamò la
sorella, saltandogli tra le braccia tradimento «Pourquoi tu
es ici?»
Gli occhioni brillavano di
traboccante felicità e quella sua gioia lo travolse come
un’onda in piena,
facendolo ridere. La sollevò da terra e girò su
se stesso, lasciando che la
risata calda di Sarah riempisse qualunque silenzio e sradicasse ogni
tormento.
«Tu n'es pas heureuse de me
voir?»
Non sei felice di vedermi?
Sarah si aggrappò
tenacemente al suo collo e nascose il volto sulla sua spalla,
sentì le labbra
aperte in sorriso sincero sulla clavicola mentre le risa si
stemperavano
dolcemente e lei annuiva.
Fu l’indisposto colpo di
tosse della bidella a ricordargli che si trovavano ancora a scuola e
stavano
facendo troppo baccano.
A malincuore, lasciò che i
piedi di Sarah ritoccassero terra, ma si concesse almeno la gioia di
stringere
la sua piccola manina candida prima di congedarsi dalla donna e
avviarsi
all’uscita.
«Donne-moi le sac à
dos»
Dammi lo zaino.
La aiutò a sfilarselo dalle
spalle e si accorse con un’insensata punta di fastidio che
era pesante e
avrebbe voluto che lei non dovesse fare sforzi, seppur non troppo
eccessivi.
Non poteva ignorare che anche la più piccola fatica
l’appesantiva e rendeva il
suo respiro labile affannoso, anche quando le sue preoccupazioni
sfioravano il
ridicolo non riusciva ad accantonarle, perché il mondo
complottava
costantemente alle spalle della sua fragile bestiolina.
«Tu me ramènes à
la maison?»
Mi
porti a casa?
Lo guardava dal basso, con le sopracciglia
leggermente aggrottate e gli occhi dal taglio obliquo che, alla luce
pallida di
una giornata autunnale riflettevano mille sfaccettature
d’ambra sciolta. A
volte, gli sembrava di rivedere le espressioni di sua madre quando era
bambino,
ma macchiate di una consapevolezza diversa, più genuina e
viva.
Si morse l’interno della guancia e
cercò di
non mostrarle che quella domanda in qualche modo lo aveva ferito,
perché con
lei viveva di sensi di colpa e che Sarah desse per scontato che non
sarebbero
rimasti insieme se non il tempo necessario era solo
l’ennesima dimostrazione
concreta che sua sorella non si aspettava niente da lui. Non aveva
fatto nulla
per alleviare la loro separazione, la lasciava troppo tempo da sola.
Era per
lei la presenza più assenza, si mostrava solo per sparire.
Le sorrise dolcemente, senza guardarla in
volto, per non permetterle di leggergli dentro e farle capire che stare
con lei
era la sua cura, ma anche il suo personale inferno.
«En
vérité je pensais que nous aurions pu
rester esemble jusqu'au déjeuner»
In
verità pensavo che saremmo potuti stare insieme fino a
pranzo.
«Vraiment?»
Aveva l’aria sconvolta di qualcuno a cui
avessero appena confermato la vera esistenza dell’isola di
Ys, e allora Dami
sfoggiò il suo miglior sguardo da cucciolo ferito.
«Bien sûre, mais si tu
n’as pas envie ce
n’est pas un problème»
Certo,
ma se non hai voglia non fa niente.
Borbottò affranto.
Il viso di Sarah si aprì in uno dei
suoi più
raggianti sorrisi e le guance s’imporporarono di rosso per
l’entusiasmo.
L’ascoltò ridere, assorbì ogni
più piccolo gesto di quella bambolina e delle
sue manine da fata e pensò che non sarebbe mai riuscito a
comprenderla, non
davvero.
Era un mistero che non gli era dato di
svelare, ché la sua petite peste era un estremo ed insieme
il suo opposto: era
serena, candida, e allo stesso tempo cosciente di ciò che le
accadeva e che
accadeva alle persone che amava. I suoi aspetti più salienti
erano
inconciliabili, eppure questo non minava il suo essere, Sarah era piena
di
vita, era radiosa, sempre.
«Mais
tu ne
vas jamais à l'école?»
Ma tu non vai mai a scuola?
Si grattò la testa coperta
dal berretto nero, in un moto d’imbarazzo per la risposta che
quella domanda
innocente portava con sé, perché la
verità era tutto meno che innocente e non
desiderava mettersi in cattiva luce agli occhi della sua pestifera
sorellina.
Scrollò le spalle con noncuranza,
come bastasse un gesto a scacciare pensieri sgradevoli, e la frangia
bianca gli
ricadde sugli occhi.
«Porquoi
je devrais, si
tu études puor tous deux?»
Perchè dovrei, quando tu studi per
tutti e due?
La canzonò, facendo leva
sullo spropositato amor proprio della bimba, che come prevedibile si
gonfiò
d’orgoglio come un gufo impettito: riusciva ad apparire
persino più piccola e
tenera.
«J'ai
pris distinct!»
Ho preso distinto!
Cinguettò soddisfatta,
strappandogli l’ennesimo, irrimediabile sorriso storto.
E mentre Sarah lievitava nel
suo ego appagato, pensò che voleva solo avere una scusa per
strapazzarla come
fosse un peluche. A tradimento la sollevò e se la
caricò in spalla e Sarah fece
solo in tempo ad urlare senza possibilità di divincolarsi.
All’urletto stridulo
fece eco l’ennesima risata liberatoria.
«Seulement? Tu
devrais t’engager bien plus, si autrement tu ne me
égales plus! Je prenais seul
“excellents”»
Solamente?
Dovrai impegnarti di più o non mi batterai mai! Io prendevo
solo “ottimi”!
la punzecchiò, e infilò le
dita gelide sotto il suo
maglioncino per farle il solletico ai fianchi. Sarah per il solletico
ci
moriva, si dimenava come un’anguilla, tentava sempre, in ogni
modo, di
sgusciare alla sua presa e, soprattutto, rideva fino alle lacrime con
tanto
trasporto da splendere, per tutta quella gioia, e allora nemmeno lui
poteva
esimersi e si lasciava contagiare da quell’allegria che
sgorgava come fonte di
vita da una sorgente incontaminata.
«Menteur!»
Ridacchiò
«Je le sais, que à
l’école
tu n’était pas bravo!»
A
scuola andavi malissimo, lo so!
Prese fiato come non respirasse da una vita,
annaspò, rise e si mangiò le parole, non le
riusciva di scandire i suoni e più
faticava, più si lasciava trasportare dalle risa.
«Je te pries, laisse-moi! Je ne respire
pas!»
biascicò a stento.
Ti
prego, lasciami! Non respiro!
A sentirla tanto in difficoltà, con
quelle
gambettine magre che si agitavano e le mani affrancate alla sua felpa
disperatamente, gli veniva voglia di tormentarla ulteriormente. Quando
alle
risa spontanee subentrarono violenti colpi di tosse, Demian
però s’irrigidì e
venne colto da un panico inatteso.
La rimise subito a terra e
s’inginocchiò
davanti a lei, esclamando il suo nome con urgenza.
«Sarah! Sarah, tu te sens
bien?»
Le strinse il braccino sottile e le
scostò i
lunghi capelli che le coprivano il bel viso, nascosto dalle mani a
coppa.
Avrebbe voluto picchiarsi, lo sapeva benissimo che doveva far
sì che rimanesse
tranquilla, ma poi quando lei rideva e si lasciava andare tanto
spontaneamente
si scordava di tutto.
Sarah smise di tossire, scostò le mani
e
sfoderò un ghigno furbetto di chi la sa lunga.
«Eh eh, Je le savais que en ce moyen tu te serais arrêté!»
Eh eh, lo sapevo che così la smettevi!
Asserì soddisfatta, e a
Demian mancò il respiro per lo sbigottimento.
Si ritrovò a fissarla per un
lungo istante senza parole, sbatté le palpebre ancora e
ancora, sforzandosi di
focalizzare la situazione.
«Tu as feint?»
Hai fatto finta?
Mormorò allibito.
L’infarto era venuto a lui.
Come
può scherzare su una cosa smile?
Non
si rende conto di quanto mi tormenti costantemente?
Il sorriso le morì lentamente sulle
labbra,
gli angoli della bocca si piegarono verso il basso e Dami
realizzò, con
svilimento, di averla ferita, di nuovo.
«J’étais
en train de blaguer»
Stavo
scherzando
Sussurrò ad occhi bassi,
giustificandosi come
fosse in torto, e Demian sapeva che non lo era, che era stato lui,
ingiustamente, a metterla a disagio.
«Tu
es ainsi toujours trop
sérieux, je me sens bien, frère. Tu le sais que je ne te dirais jamais un
bougeoir»
Sei
sempre così serio… io sto bene, fratellone. Lo
sai che non ti direi mai una
bugia.
Le guance spruzzate di leggere lentiggini erano
arrossate dalla
colpa, e Demian ne provò una profonda vergogna e si
sentì anche peggio di uno
schifo. L’unica cosa che odiava più dello stato di
salute di sua sorella, era
solamente la propria capacità di ricordarle costantemente la
sua diversità e
fargliela pesare con la sua angoscia.
Non
importava quanto s’impegnasse o si
ammonisse, al minimo segnale diventava soffocante e non le permetteva
di vivere
la sua età come avrebbe dovuto, persino nelle piccole cose.
Sarah aveva quel
dono, il dono di fargli desiderare di essere altrove e, al contempo, di
fargli
desiderare di non allontanarsi mai da lei.
E adesso, di fronte a quegli
occhi d’oro, sarebbe scappato subito, ma come poteva scappare
dalla sua
bellissima bestiolina, se poi avrebbe avuto un disperato bisogno di
lei?
Di sapere che stesse bene?
Si morse ancora le labbra e
poi, sospirando la sua esasperazione, abbozzò un sorriso
compassato, nel vano
tentativo di rimediare.
«Alors,
qu’est-ce que tu
veux faire?»
Allora,
cosa vuoi fare?
Domandò,
in un miserabile sforzo di cancellare con un
colpo di spugna la sua inadeguatezza.
Sarah lo comprese perché
esitò, ma poi gli sorrise con quell’aria
dispettosa e furbetta ai suoi occhi
adorabile.
«Je veuz aller au parc!»
Voglio andare al parco!
Demian sbuffò e sollevò gli
occhi al cielo, ma in realtà era solo grato, infinitamente
grato, che sua
sorella fosse come era, che possedesse quella dolcezza e quella
comprensione
che non avrebbero dovuto appartenere ad una creatura tanto piccola e
indifesa,
così sguarnita davanti alla vita.
La guardava e tutto l’amore
che provava per lei lo travolgeva con tanta prepotenza da togliergli le
parole
per dirlo, per questo non ci riusciva, per questo forse era inabile a
mostrarle
l’affetto che provava e non riusciva a farle comprendere che
lei era il suo
nord in un’esistenza senza bussola.
«Et parc soit»
E
parco sia.
La aiutò a mettersi a cavalcioni sulle
sue
spalle e prima di avviarsi verso i giardini pubblici le prese una mano
e le
depose un leggero bacio sul polso.
«Et
je veux une crème glacee aussi!»
E
voglio anche un gelato!
Aggiunse Sarah, appoggiando il mento sulla
sua testa per poi dargli un pizzicotto.
In cambio ricevette solo sbuffi disperati.
«Tu es une
gâtée»
Sei
una viziata.
Quando raggiunsero i giardini pubblici,
davanti a loro si aprì una distesa verde punteggiata da
alberi sfioriti tinti
delle tonalità dell’autunno. I rami screziati di
rosso e di oro rendevano
vivace il sentiero della pista ciclabile e ombreggiavano gli scivoli e
le
altalene, le foglie secche ricoprivano il terreno di un caldo manto
marrone-dorato.
Sarah gli sfilò la berretta di lana e
la
indossò lei stessa, poi gli passò le mani fra i
capelli.
Lo faceva sempre anche da piccola, li faceva
scorrere fra le dita come fossero fili di seta, e Demian
all’aperto non si
scopriva mai il capo, per il disagio, a meno che non fosse sua sorella
a desiderarlo.
Per questo non le disse nulla e la
lasciò
giocare distrattamente, ma Sarah afferrò una ciocca e la
tirò con fastidio.
«To
dois mettre moins gel! Les cheveux
sont tous secs et je ne les aime pas»
Metti
meno gel! I capelli sono tutti secchi, non mi piacciono»
Si lamentò, e Demian sbuffò
divertito «Mais
je les aime», le fece notare con una punta di rimprovero che
in realtà era solo
troppa tenerezza.
Forse sarebbe diventato come suo nonno, a
volte lo pensava, burbero in maniera esasperante.
«Mais sans tes cheveux sont doux comme
la
soie!» insistè la bambina.
Ma
senza I tuoi capelli sono morbidi come seta!
Aveva sempre trovato insolito che Sarah non
gli avesse mai fatto domande a quel proposito, aveva sempre preso atto
delle
stranezze che lo riguardavano e che non concernevano nessun altro dei
suoi
conoscenti senza battere ciglio. Probabilmente, per lei le sue
prerogative
estetiche non erano nemmeno diversità, erano solo una
manifestazione di lui, perché
Sarah ragionava senza pregiudizi.
Era raro, per un bambino, e Demian lo aveva
già imparato da piccolo, tutti lo avevano sempre guardato di
traverso ed era
stato più facile, per i suoi compagni d’infanzia,
emarginarlo piuttosto che non
farsi domande.
Rimase in silenzio e la
aiutò a rimettere i piedi per terra.
Subito, Sarah indicò il
fortino di legno munito di scivolo e altalena.
«Je veux aller sur la
balançoire!»
Voglio
andare sull’altalena!
Esclamò, e prima che potesse anche solo
pensare di fargli delle raccomandazioni, si era già voltata
e stava correndo.
«Ehi,
arrête-toi! Tu le sais que tu ne dois pas courir!»
Fermati! Lo sai che non devi correre!
La rimproverò andandole dietro e in
risposta
ricevette un’impertinente linguaccia.
«Oui, oui, je le sais
“maman”!» lo prese in
giro.
Sì,
sì, lo so “mamma”.
«Ok j'ai compris»
borbottò
rassegnato «Mais
tu ne te déplaces pas. Je te pousse»
Ok, ho capito. Ma non muoverti. Ti spingo io.
Sarah si accomodò
placidamente sull’asse di legno e lo guardò colma
di aspettativa.
Era incredibilmente leggera,
così eterea che Demian talvolta ci aveva creduto davvero,
che fosse una silfide
di cristallo. La spingeva e nel mentre la studiava, osservava le gambe
magre
tese al cielo, i lunghi capelli castani screziati di miele che si
sollevavano
in un sinuoso strascico.
Era la bambina più bella che
avesse mai visto, e non perché fosse sua sorella.
Semplicemente, aveva una
dolcezza nei tratti, nello sguardo fermo, sicuro,
un’inesauribile vena
infantile nel sorriso e un atteggiamento da grande troppo in fretta che
la
rendevano adorabile.
«Fratellone?»
«Oui?»
Sarah volse il capo e lo
guardò da sopra la spalla, aggrappandosi saldamene alle
catene per non
sbilanciarsi.
«Comment
va maman?»
Come sta la mamma?
Lo chiese a voce sottile appena
sussurrata, con una cautela innaturale che stonava con la sua
esuberanza e
Demian si meravigliò ancora di quanto bene lo conoscesse,
tanto a fondo da
sapere perfettamente che bastava citare maman per ferirlo.
Sussultò e mancò di
spingerla, allora Sarah puntò i piedi nella terra e
fermò l’altalena.
Dami non lo sapeva, se
provava più pena per se stesso o per lei, che era stata
costretta a conoscere
il tatto quando invece avrebbe dovuto potersi esprimere liberamente e
chiedere
di sua madre senza dover temere le conseguenze.
«Maintenant
elle va mieux»
Ora sta meglio.
Non riuscì a infondere in
quelle parole la forza che avrebbe voluto, suonavano deboli anche e a
se
stesso, come la voce insicura e tremante ed infatti non gli
riuscì di
rassicurarla. Sarah s’incupì, chinò la
testolina bionda lasciando che i capelli
nascondessero alla sua vista ogni sua espressione, e si
mordicchiò il labbro.
Poi, fece per rialzare il
viso, ma esitò, e Demian comprese che desiderava tanto
dirgli qualcosa e
tuttavia non ne trovava il coraggio, i bei lineamenti puerili erano
mangiati da
un’attanagliante incertezza.
«Tu aussi ne me dis pas les
mensonges, c’est vrai?»
Anche tu non mi dici le bugie, vero?
Mormorò infine.
Seppe da quello sguardo
colmo di parole non dette che non era solo quel dubbio a tormentarla.
S’inginocchiò davanti a lei
e le prese le mani piccole fra le sue. Per uno sciocco momento, si
perse nel
contrasto di colori della loro pelle, perché le mani di
Sarah erano delicate e
rosee mentre le sue avevano la stessa, gelida consistenza del marmo, ed
era
assurdo, inspiegabile.
Era il cuore della sua
bestiolina a tradirla, il suo stesso cuore il nemico che doveva
combattere ogni
giorno, un nemico contro cui Demian era assolutamente impotente, eppure
anche
solo il colore di quella pelle morbida, di quelle guance spruzzate di
leggere
lentiggini, gridava vita.
«No, petite peste, je ne te
dis pas les mensonges»
No piccola peste, non ti dico le bugie.
Non riuscì a sostenere
quella menzogna guardandola negli occhi, era consapevole di starla
tradendo,
proprio lei che era la purezza incarnata ed era l’unica
persona della quale
Demian bramasse la fiducia come fosse una panacea contro ogni male.
Sarah allora gli sorrise facendo
mostra di un dentino mancante.
«Et quand je peux la voir?»
E quando posso vederla?
Demian abbassò le palpebre
in un sospirò profondo, cercando di riorganizzare i propri
pensieri, di trovare
qualcosa di sensato da dirle che non le causasse troppo dolore. La
richiesta di
sua sorella era lecita, non vedeva maman da mesi e la colpa era solo
sua, aveva
espressamente detto a Claire di non permetterle di incontrare Jen per non
condannare anche Sarah alla sua medesima sofferenza.
La stava tenendo lontano da
sua madre negli ultimi istanti della sua vita, facendole soffrire
entrambe di
nostalgia e mancanza, non aveva di certo bisogno di un indovino per
capire che,
un giorno, sua sorella non l’avrebbe perdonato.
Solo, non gli importava.
Doveva proteggerla dal
dolore di vedere maman in quella condizione penosa, se fosse stata al
sicuro
avrebbe potuto accettare anche di perderla in futuro.
«Je
ne sais pas. Maintenant
elle est toujours à l’hôpital»
Non saprei. Adesso è ancora in ospedale.
«Je peux venir avec toi. Je sais
que tu vas toujours à la voir, la tatie me l’a
dit!»
Posso venire con te. Lo so che vai sempre a
trovarla, me l’ha
detto la zia!
Scoraggiato si ripromise di
fare un bel discorsetto a zia Claire sulla sua bocca troppo grande, le
accarezzò la linea dolce del viso, quando però
parlò lo fece con fin troppa durezza
«Ce
n'est pas le moment appropriéè»
Non è il momento.
Tagliò corto e si pentì
all’istante, vedendo gli occhi di sua sorella farsi
tragicamente lucidi.
«Mais»
S’interruppe, incerto.
Vederla triste lo
tormentava, mentirle non gli permetteva di essere clemente con se
stesso, ma non
era minimamente intenzionato a cedere su quel punto con Claire.
Non aveva un’alternativa che
gli lasciasse la coscienza già martoriata in pace.
«Je
te promets que, au plus vite, je t'emmènerai la
voir» aggiunse infine.
Ti prometto che il, prima possibile, ti
porterò da lei.
Sarah sporse il labbro
inferiore in un broncio deluso amabile, ma annuì e Demian
l’abbracciò stretta,
le accarezzò e i capelli e le depositò un bacio
leggero sulla fronte,
sussurrandole piano come avesse fra le mani un uccellino spaurito
«Ne t’agite pas, reste
calme»
sta tranquilla, non agitarti.
La sua bestiolina si scostò
e gli sorrise più serenamente, scuotendo pianto la testa.
«Je
ne m'agite pas, ou à la fine tu te agites plus que
moi»
Non mi agito, o alla fine tu diventi
più nervoso di me.
Quella fossetta ingenua
all’angolo della bocca gli sciolse il cuore, le
rimboccò i capelli dietro le
orecchie, le sfiorò la guancia rossa e fredda. Era
così soffice da smuovergli
un’infinita dolcezza quando i suoi occhi di sole si
mostravano tanto forti e
determinati, ma Demian non era mai certo di quanto Sarah avesse
compreso, né di
quanto restasse ferita a causa sua. Quel suo sorrisino impenitente
lasciava
intuire un “so tutto, non c’è bisogno
che mi spieghi nulla”, che lo gettava in
un’incertezza costante.
«Dis-moi ce que tu veux
faire. Nous
ferons tout ce que
tu veux, sauf courir»
Dimmi che cosa vuoi fare. Faremo tutto quello che
vuoi,
tranne correre»
Le disse infine, rassegnato
a non poterla mai afferrare del tutto.
«Je veux ma
glacée!»
rispose, ridendo spensierata come se non avessero mai toccato
l’argomento
“maman” e tutto ciò che comportava.
Demian decise di rispettare la scelta della
sua bestiolina, si alzò stirando le braccia e la
guardò ghignando.
«Et?»
«Tutto tutto?»
inclinò la
testa come a rafforzare il proprio dubbio, come se stesse tastando un
qualche
limite. La sua dolcezza riusciva davvero a farlo sorridere anche quando
avrebbe
desiderato solo gettarsi sotto un treno.
Per questo Sarah doveva essere
necessariamente una fata, perché lo elevava, lo sollevava
come una carezza
lasciandolo sospeso e poi lo rigettava all’inferno con la sua
sola tristezza.
«tout ce que»
Qualunque cosa.
Un libro.
Sarah gli aveva chiesto di
aiutarla a leggere un libro.
Non se ne era sorpreso, sua
sorella amava leggere e ancora di più adorava che qualcuno
leggesse per lei,
era una bambina dagli svaghi troppo limitati che, fortunatamente, aveva
trovato
nella lettura la sua ancora di salvezza. Come aveva fatto anche lui.
Quello doveva essere uno dei
rari meriti di maman, che era stata una madre negligente e terribile,
ma in un
mare di errori eclatanti era stata all’altezza di trasmettere
loro almeno il
suo amore per l’arte ed il bello.
Pensava questo, mentre la
sua petite peste apriva lo zainetto e ne estraeva la sua copia consunta
di “Ar Priñs
Bihan”, Le Petite Prince.
Demian lo
prese dalle sue mani con solennità e lo contemplò
con calma nostalgica, ché
quel libro era l’unico cimelio di famiglia: la mamie lo aveva
regalato a maman
quando era bambina, Jen lo aveva ceduto a lui nell’infanzia
e, quando si era
ammalata, Dami lo aveva dato a Sarah.
Lo aveva fatto perché aveva
capito, nel momento in cui il cancro si era fatto più forte,
che non sarebbero
più tornati in Francia, non per molto tempo almeno, e non
voleva che la sua
bestiolina si potesse allontanare dalle loro origini.
L’edizione era però in
dialetto bretone e Sarah non lo capiva, la mamie lo parlava
inframmezzandolo
con il francese, quando si rivolgeva a loro, e se già Demian
lo comprendeva a
stento, per sua sorella risultava una lingua estranea che si sforzava
d’imparare.
Si erano seduti tra le
radici di un albero, Sarah si era sdraiata comodamente, usando le sue
gambe
come cuscino, e facendo sfarfallare le lunghe ciglia dei suoi
già adorabili
occhioni, lo aveva convinto a recitarlo per lei.
Non era stato impegnativo,
Demian quasi lo sapeva a memoria, ma aveva provato comunque
dell’imbarazzo.
«A! Priñs Bihan, komprenet
‘m eus, tamm-ha-tamm, da vuhezig velkonius.
E-pad
pell ne ‘z poa bet
evel didu nemet c’hwekted ar c’huzh-heol»
“Oh,
piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita
malinconica.
Per
molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei
tramonti.”
«Velkonius?» si era accigliata
Sarah, aggrappandosi alla sua manica e scuotendola, le sopracciglia
aggrottate.
«Mélancolique»
chiarì,
scompigliandole i capelli e trattenendo una risata al borbottio
scocciato della
bimba
«Elles ne se ressemblent pas»
e poi aveva aggiunto «Et
c’hwekted?»
Non si assomigliano.
Si era morso il labbro e
sorridendo aveva scrollato le spalle «Douceur»
Aveva ripreso:
«Desket ‘m eus ar munud
nevez-se d’ar pevare deiz, d’ar beure, pa
‘c’h eus lavaret din:
-Me
‘blij din ar
c’huzh-heol. Eomp da welout ur
c’huzh-heol…
-Met
ret eo gortoz…
-Gortoz
petra?
-Ez afe an heol da guzh.
Da gentañ e ‘c’h
eus
diskouezet bezañ souezhet-meurbet, ha goude e
‘c’h eus graet goap ac’hanout. Ha
lavaret ‘c’h eus din:
-Krediñ a ran emaon atav
du-mañ!»
Ho
appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando
mi hai
detto:
"Mi
piacciono tanto i tramonti. Andiamo avedere un tramonto..."
"Ma
bisogna aspettare..."
"Aspettare
che?"
"Che
il sole tramonti..."
Da
prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e
poi
hai riso dite stesso e mi hai detto:
"Mi
credo sempre a casa mia!..."
Sarah si era lamentata con
uno sbuffo
«Je
n'ai pas compris bien»
Non ho capito bene.
«Qu'est-ce
que tu n'as pas compris?»
Che cosa non hai capito?
Glielo aveva chiesto sapendo
che in realtà Sarah non aveva compreso quasi nulla, ed
infatti lei gonfiò le
guance e lasciò andare una pernacchia.
«Krediñ a ran emaon atav
du-mañ» aveva soffiato, e Demian si era concesso
quella risata divertita che
premeva per essere liberata.
«”Je me crois toujours chez
moi”» parafrasò, chinandosi a baciarle
ancora la testolina. Sarah aveva preso
la mano fra le sue, aveva giocato con le sue dita e aveva liberato un
sorriso
furbo.
«En
vérité j'ai compris,
mais je l'aime. C’est mon passage
préféré!»
In verità ho capito, ma lo amo.
È il mio passaggio preferito!
Il cellulare nella tasca allora
aveva vibrato e Demian si era interrotto.
Le aveva sorriso, le aveva
promesso che avrebbero continuato insieme un’altra volta e,
dopo averle preso
il tanto agognato gelato, così grande che neanche volendo
sarebbe riuscita a
finirlo, l’aveva riaccompagnata a casa dalla zia, in moto.
Non le aveva dato
possibilità di protestare.
Non era nemmeno entrato a
salutare, si era tenuto a distanza, guardando il cancello di casa da
lontano,
si era fatto dare un bacio frettoloso sulla guancia da una Sarah
chiaramente delusa
che non avesse trascorso la giornata con lei come le aveva promesso, e
se ne
era andato.
L’aveva fatto a testa china,
l’aveva fatto perché quando vivevano un momento
sereno e perfetto si sentiva
soffocare e provava l’impulso ancestrale di fuggire. Che
Sarah fosse la cosa
più importante della sua vita non era sufficiente, starle
accanto era una
sofferenza che, almeno a se stesso, non poteva negare, ironicamente
soprattutto
quando le cose andavano bene.
Perché non andavano mai
davvero bene e lui non riusciva ad ingannarsi, crogiolarsi in
un’illusione era
una sofferenza maggiore.
Quel messaggio improvviso
era stato la scappatoia che gli serviva per assecondare la propria
vigliaccheria e non aveva potuto fare a meno di coglierla al volo.
Quando Niko
chiamava e decideva di riunire il gruppo, tutti dovevano accorrere, era
la
regola, e questa regola spesso gli consentiva di evitare quelle
giornate in
famiglia alla Mulino Bianco che non aveva e non meritava.
Non riusciva più nemmeno a
mettere piede in casa di sua zia, si sentiva alienato, un oggetto fuori
posto
in quadro perfettamente ordinato.
Lui e suo cugino erano
diversi, lo erano sempre stati, fin da bambini.
Stava per perdere sua madre,
aveva perso suo padre tempo prima, quando li aveva abbandonati, e Sarah
era
fragile.
Non aveva ricevuto nulla di
perfetto, non poteva integrarsi in una famiglia affiatata e completa
come
quella di Jules, poteva solo ammirarla prendendo le distanze, poteva
solo
cercare d’immaginare come avrebbe potuto essere, se le cose
fossero andate
diversamente.
Si guardò allo specchio
ancora e ancora, ricambiando con disprezzo quel riflesso diafano che lo
tormentava.
Sei
una possibilità andata male.
Sei
un caso su trentacinque mila, un refuso di stampa.
Se lo ripeteva ogni volta, come se potesse
così indursi a cambiare, eppure l’immagine davanti
ai suoi occhi non mutava.
Su trentacinquemila, su quindicimila, dati
diversi a seconda della manifestazione della patologia, per lui erano
solo
numeri per descrivere un maledetto gene recessivo tramandato dalla
famiglia di
sua madre e manifestato in lui per beffa del destino.
Malattia
congenita.
Suonava tutto molto tecnico, quando erano i
medici a parlargliene, ma a Demian quelle cifre davano solo la nausea.
Si arrese davanti a se stesso, infilò
la
testa nel lavandino e fece scorrere l’acqua per risciacquarsi
i capelli, come
la sua petite peste gli aveva suggerito di fare poche ore prima. Poi
prese una
salvietta e li tamponò piano, asciugandosi il volto pallido.
Albinismo.
Tutto sommato non gli era andata male: anche
se la sua vista era abbastanza rovinata, non lo era così
tanto da impedirgli
una vita quasi normale con le lenti o gli occhiali, e il suo strabismo
era
sufficientemente leggero da passare inosservato tranne ad un occhio
attento.
Non tutti quelli come lui erano altrettanto
fortunati, sapeva di non potersi seriamente lamentare, a molti non era
possibile continuare a studiare a causa della vista, altri avevano la
pelle tanto
rovinata da sembrare piagata. Lui stava bene ed era molto bello, almeno
questo
se lo concedeva. Naturalmente era pallido come un fantasma e la luce
del sole
lo irritava da morire in ogni modo possibile, ragione per cui aveva un
rapporto
conflittuale con il sole e non era mai stato al mare, tranne sulle
fredde coste
dell’Atlantico vicino a casa della mamie, in Francia, dove
aveva trascorso ogni
giorno estivo della sua infanzia fino ai suoi dodici anni.
Gli occhi azzurro sporco, quasi grigio misto
ad una delicata sfumatura rosata, lo fissavano di rimando dallo
specchio mentre
cercava d’indossare le lenti a contatto colorate che
servivano a proteggerli
dall’eccessiva luce e a non mostrare quella strana sfumatura
sanguigna.
In passato aveva avuto altri problemi, era
stato fisicamente debole e vittima di bullismo da parte di quei bambini
che
consideravano la sua una diversità patologica. Aveva
imparato a sue spese la
crudeltà e il giudizio spietato delle persone che
lo avevano sempre circondato, che lo guardavano come fosse un poveretto
da
compatire, un caso umano con cui era impossibile interagire in maniera
normale.
Molto avevano avuto vergogna
anche solo a guardarlo negli occhi, un imbarazzo immotivato che lo
aveva ferito
e che ancora lo disturbava.
E allora si era ripromesso
che non avrebbe più concesso a nessuno di sopraffarlo, di
farlo sentire un
difetto, uno scherzo naturale.
L’unica distanza tra lui ed
il resto del mondo era banale mancanza di melanina che lo privava anche
del
fascino che altrimenti i suoi lineamenti gli avrebbero conferito. Era
stato più
difficile per lui, rispetto ad una persona normale, rendere il proprio
fisico
altrettanto forte, ma si era impegnato a fondo per limare ogni
possibile
differenza.
Si passò la salvietta umida
sul collo e sui muscoli delle braccia e dell’addome, ben
delineanti, prima di
indossare una maglietta nera che sbatteva incredibilmente in contrasto
con la
sua pelle.
Poi prese il tirapugni
appoggiato sul mobile, lo indossò sulla mano sinistra e lo
strinse, recuperò un
coltellino a serramanico e se lo mise in tasca.
***
La luce bassa del tramonto
tratteggiava in lontananza le sagome oscure dei suoi compagni, raccolti
contro
una staccionata logorata del parchetto vicino alla stazione dei treni.
Quelle erano le ore della
giornata in cui i ragazzi normali iniziavano a evitare quella zona,
quel
quartiere. Non era ben visto dalla gente per bene, con le case dimesse,
i muri
ricoperti di murales ai quali lui stesso aveva contribuito, con tutte
le risse
e i locali malandati e la droga.
Non era il luogo ideale per
passeggiare amabilmente a braccetto con le persone care.
Per questo ci andava.
Lì non si sentiva fuori
posto, ma esattamente dove doveva essere, confuso in una massa di
diseredati
non diversi da lui. Non erano propriamente amici, erano suoi simili,
condannati
quanto lo era lui stesso a tutto ciò che non avevano la
forza di sopportare.
Nicolas gli si fece incontro
e si salutarono stringendosi la mano e battendosi il pugno, in un gesto
che
aveva il sapore dell’abitudine.
Per qualche distorto motivo
quella routine aveva il raro dono di calmarlo, quando si trovava in
loro
compagnia poteva far cadere ogni maschera di compostezza e tolleranza e
annegare in ogni malessere vivendolo fino in fondo senza remore.
«Ehi Dem, hai sentito del
nuovo gruppo?» gli domandò Dave con un sorriso
colmo di allegria artificiosa,
mentre si avvicinava per porgergli la canna che si stava fumando e che
ormai
era quasi del tutto consumata. Gliela sfilò dalle dita e
fece un lungo e lento
tiro.
«No» soffiò insieme
al fumo «Chi
sarebbero?»
«Novellini» intervenne Niko
«Ragazzini
che hanno deciso d’interferire con il nostro giro»
snudò un ghigno perfido che
sottintendeva in maniera limpida come pensava di sistemare le cose.
Demian dubitava seriamente
che fossero davvero un problema, riteneva più probabile che
Nicolas avesse
semplicemente voglia di sfogare il proprio sadismo.
«Una lezione basterà per
ricordare a tutti che questo è il nostro
territorio» chiarì Alex, scrollando le
spalle con indifferenza, come stesse parlando di semplice, banale e
noiosa
burocrazia.
Teo, seduto sulla
staccionata con le braccia a penzoloni e una sigaretta in bocca, rise
di gusto
alla sola idea, Andrea invece abbozzò un sorriso distante,
non stava
ascoltando, forse pensava alla birra che si sarebbe scolato di
lì a poco.
«Età?» era stato un
sospetto nato
dell’espressione meschina di Teo a indurlo a farsi scrupoli,
sebbene fosse
ironico: lui per primo era il più piccolo del suo gruppo e
vi era entrato
nell’Estate dei suoi tredici anni, difficilmente avrebbe
trovato qualcuno più
giovane di come lui lo era stato.
Difficilmente però, qualcuno abituato
all’ambiente si sarebbe arrischiato a occupare un territorio
già gestito da
altri spacciatori, soprattutto se a gestirlo era Niko, un nome
piuttosto noto nel giro e nipote di un ancor più noto
spacciatore.
Le regole de gioco erano in realtà
piuttosto
elementari.
«Mocciosi che si divertono a fare i
grandi»
sputò Teo con la stessa, insofferente espressione con cui
avrebbe potuto
rigurgitare bile.
Demian piegò la bocca in una smorfia
amara.
A volte non capivano o non ricordavano, lo
definivano ridendo il piccolo del gruppo eppure sembrava che non si
rendessero
veramente conto di quanti anni lui stesso avesse. Se qualcuno giocava a
fare il
grande, Demian sapeva di essere il primo, e quei ragazzi con lui.
«Quindici, sedici. Non di
più» specificò Alex
con un sorriso maligno complice verso Nicolas «Con questi ci
divertiamo»
Dem gettò a terra il mozzicone della
canna
ormai finita e sollevò l’angolo della bocca in
un’espressione sarcastica.
«Non mancherò»
Niko sfoderò quella piega della bocca
che
osava definire in qualche modo sorriso
«Lo sapevo che eri dei nostri»
ANGOLO
AUTRICE
Nei miei sopralluoghi a
Finisterre, nei paesini che nel mio immaginario hanno riempito
l’infanzia del
mio cucciolo, mi sono accorta di una notevole mancanza della mia
vecchia
versione.
Questa mancanza è il
dialetto bretone, infatti hanno il bilinguismo (ovviamente il Piccolo
Principe
in bretone non potevo non regalarmelo e l’ho comprato al
volo!).
Per questo la scelta di
mettere il brano estratto dal libro della madre in bretone: Demian non
lo
parla, è vero, ma ho pensato che per loro sia un
po’ come per noi, quando i
nonni ci parlano in dialetto e noi lo capiamo soltanto senza essere in
grado di
masticarlo.
Almeno, parlo per me!
Non ho mai imparato una sola
parola di sardo nonostante gli sforzi di nonna, e il bergamasco mi
è estraneo
pur con tutto l’impegno di nonno =)
L’isola di Ys, che cita
Demian, è una leggenda locale propria del paesino della
nonna di Demian, nata
proprio nella baia di Douarnenez. Una specie di mito di Atlantide, per
intenderci.
Dovrebbe caratterizzare
meglio le sue origini… spero!
Detto questo, aggiornerò
prima di Capodanno, anche perché ho già corretto
il prossimo capitolo.
Ora mi ritiro, che la mia
famiglia minaccia di defenestrare il computer…
Buone feste e buon Natale!!!