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Autore: lady igraine    25/12/2016    3 recensioni
Demian ha quasi sedici anni, è armato della tragicità di un adolescente e dell’esperienza di vita di un uomo fin troppo intraprendente. La sua esistenza è in costante bilico tra un morboso amore per la propria famiglia, afflitta dal dramma della malattia terminale della madre, ed un mondo più oscuro, di amici poco raccomandabili che gli permettono di sfogare i sentimenti più ombrosi e repressi della sua anima. È in questa fase che lo incontra Arianna, infantile, irrequieta e altrettanto problematica ragazza, dotata di un instancabile sorriso che cela più malinconie e segreti che gioie. Sono tre, i mesi decisivi, quelli che, nel bene e nel male, lasceranno un segno indelebile nelle loro vite.
***
La coscienza era una bestia oscura che divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di facciata che tutto andasse bene.
"Le persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di plastica che non si possono rompere. È il dentro che è una fregatura, un agglomerato di marciume infilato a forza tra gli organi, da qualche parte"
La sua coscienza era terribile più di tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un bambino strappa i petali ad una margherita
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buon Natale!

 

Lo so, un altro ritardo, ma credo ormai l’abbiate capito… le scadenze uccidono il mio spirito!

Comunque è una buona occasione per fare gli auguri a tutti e in particolare a Fabula Nera, Usagi e Claddaghring8: grazie di tutto, per come mi avete riaccolto dopo un lungo periodo di assenza e per le vostre fantastiche parole d’incoraggiamento. Siete fantastiche!

 

Il ritardo è dovuto ad una mia testardaggine, la solita: il francese!

Come ricorderete, forse, a volte alcuni dialoghi sono in lingua.

Se ricordate altrettanto bene, io non so il francese.

Un bel paradosso, me ne rendo conto!

Perché insisto nonostante un tale intoppo? Oltre ad una notevole dose di autolesionismo, soprattutto perché il rapporto tra Demian e Sarah perderebbe un qualcosa che solo andando avanti comprenderete, e quindi mi costringo a forza a colmare una lacuna incolmabile.

Ho fatto del mio meglio (e rispolverato tre anni di medie infernali con professori di francese dal fortissimo accento siciliano che non mi hanno facilitato il compito), siate tolleranti e… beh, se sapete il francese e scorgete qualche indecente obbrobrio della vergogna, magari ditemelo.

Sarebbe un gesto davvero apprezzato!

Per non ammorbarvi, l’ultima postilla la lascio a fine capitolo, giuste per spiegare un paio di cose se aveste domande!

 

 

 


À Demian


Capitolo secondo

Sarah

 

 

Sarah era fragile.

Demian era cresciuto ripetendoselo ancora e ancora, per non scordarlo mai.

Per imprimersela a fuoco addosso, quella sensazione d’impotenza e paura, per respirarla sempre, in ogni momento, e non poterla mettere da parte mai.

Era la prima cosa che gli era stata detta, quando la sua bellissima sorellina era nata. Non il colore degli occhi, il peso, quanto aveva pianto o se era come lui.

Niente di tutto questo, solo che era fragile.

E allora l’aveva cercata, con il naso spiaccicato al vetro ed il corpo sollevato sulle punte per poter vedere più lontano, aveva frugato con lo sguardo ogni lettino, sforzandosi di riconoscere fra quelle file di neonati uno simile all’altro, la sua Sarah.

C’era Jules accanto a lui, gli aveva messo un braccio attorno alle spalle e lo aveva attirato a sé, e Demian riusciva solo a ricordare di aver stretto la sua maglietta forte e che era stato il cugino a spiegargli quella verità troppo grande e incomprensibile che gli adulti gli avevano raccontato solo a metà.

Sarah soffriva di problemi cardiaci.

Come a un fiore nato prematuro quando ancora il gelo imperversa intorno a lui, le era stata tolta la possibilità di difendersi da sola, e Demian aveva capito, lo aveva compreso subito, un’ineluttabile verità che aveva falciato con un solo colpo spietato e preciso la sua età più tenera e pura: avrebbe dovuto proteggerla, sarebbe dovuto diventare forte, la campana di vetro che l’avrebbe difesa dalle brutture della vita, per poterla tenere al sicuro.

O l’avrebbe persa.

Perderla era l’unica cosa che non sarebbe mai riuscito a sopportare.

Essere tanto forte però, non si era rivelato facile, Demian aveva scoperto di non essere all’altezza di quel compito che si era assegnato da solo, illudendosi forse di poter dare più di quanto fosse in grado.

Poteva essere il timore degli ultimi giorni a renderlo immotivatamente più ansioso e isterico di quanto la situazione non richiedesse, ma non poteva impedirsi di vedere in ogni svincolo e ogni deviazione da un percorso ben organizzato e preciso un pericolo per lei, e la loro situazione familiare era sempre una svolta imprevista, un filo teso che minacciava di spezzarsi e di spezzarla.

Solamente grazie a questa consapevolezza aveva ammesso un anno prima, seppur con ritrosia, che la sua bestiolina sarebbe stata meglio lontano da loro, da lui e Jen, e avrebbe avuto una vita più tranquilla sotto la tutela di Claire.

E odiava vivere senza di lei e saperla distante, ma all’idea che anche Sarah potesse vedere la lenta progressione della malattia di maman si sentiva peggio, allora il suo conforto era saperla ancora innocente e si aggrappava a quell’innocenza pura, incontaminata, per sopprimere la nostalgia e la solitudine.

C’erano dei momenti in cui, senza un motivo apparente, lo sconforto gli pesava come un macigno e gli sembrava di essere slegato dal proprio corpo, in quei momenti si pentiva, capiva che, forse, aveva sbagliato tutto, avrebbe dovuto permettere che fosse zia Claire a farsi carico di Jenevieve, di lui e di Sarah, avrebbe dovuto affidare quel compito così delicato a qualcuno che ne fosse all’altezza. Poi però, la lucidità tornava e tornava una delle sue poche certezze: era lui la famiglia di maman, e quella malattia era un peso che solo lui doveva prendere su di sé.

Per quanto impensabile, Jenevieve lo aveva assecondato.

Demian ne ignorava realmente il motivo e non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo, semplicemente era giunto alla conclusione che Jen dovesse aver pensato che, seguendo i suoi desideri, forse lo avrebbe aiutato ad accettare meglio la situazione.

La verità era che nulla poteva renderla meno amara, ma questo poteva comprenderlo unicamente Sarah.

La sua Sarah.

Giunse nel parcheggio di fronte alla scuola elementare che erano quasi le nove, e già gli sembrava di averci messo un’infinità di tempo, e che in quel lasso di tempo sarebbe potuto accaderle di tutto.

Avrebbe persino potuto provare una forma di ansia per il suo ritardo, bastava solo questa consapevolezza a farlo sentire un inetto e un incapace.

Sollevò gli occhi stanchi, arrossati, sull’edificio giallo stinto, bucato da immensi finestroni e racchiuso da una ringhiera verde pallido che lasciava intravvedere un grande cortile maltenuto, ed anche se il luogo era completamente diverso provò una fitta allo stomaco, una sensazione di impiccio che poteva tradurre più onestamente con “ricordo”.

Poteva trattarsi di pura e banale reminiscenza ma Dem era più portato a credere che, probabilmente, tutte le elementari si assomigliassero in qualche modo, ed era facile per lui rivedere in un cortile spoglio una fetta consistente della sua infanzia.

Suonò al citofono e la voce rude di una bidella su di età lo invitò a introdursi nella scuola con un sordo e fastidioso rumore che aprì il cancellino. Demian salì correndo i gradini in pietra calcarea che conducevano all’ingresso e solo di fronte alla porta a vetri rallentò per prendere un’andatura più tranquilla e sicura.

Il salone, dalle pareti di un giallo un po’ più acceso, era vivace e decorato da disegni di bambini che giocavano e si rincorrevano, da farfalle variopinte e dalle impronte delle mani degli alunni. Era un ambiente diverso dalle elementari che aveva frequentato lui, sembrava più accogliente e vivibile, sereno. Demian di quei suoi anni conservava un ricordo amaro, la scuola era sempre stato un luogo difficile per qualcuno come lui, risentire addosso l’umiliazione era spontaneo, ma perlomeno riconosceva un merito al periodo più ingrato della sua vita: gli aveva insegnato a farsi le ossa.

La scrivania della bidella, a ridosso della parete opposta all’entrata, era presieduta da una bassa donnina dai ricci scapestrati biondo tinti, con un doppio mento prominente che veniva malamente nascosto dal dolcevita a collo alto.

«Buon giorno. Sono Demian Lemaire, sono venuto a prendere Sarah Lemaire»

La bidella alzò svogliatamente gli occhi dalla sua rivista, lo squadrò e, senza perdere l’aria annoiata, annuì piano «Sì, hanno chiamato mezz’ora fa» confermò, sollevandosi con estrema riluttanza.

Indossava delle scarpe con il tacco basso, il ticchettio snervante rimbombò nel salone facendola apparire come un piccolo gnomo dal grugno perennemente scontento. La seguì fino a quando non la vide fermarsi davanti ad una porta decorata con delle coccinelle sotto la scritta “5 B” e bussare con impazienza, come avesse fretta di ritornare alle proprie mansioni.

Anche quel piccolo momento di attesa prima del “avanti!” della maestra riusciva ad apparirgli come un lasso di tempo sufficientemente lungo da dilatare la sua ansia. Di ansia, per Sarah, ne provava con una facilità disarmante, per qualunque cosa, un respiro più pesante, una smorfia incompresa, e diventava totalmente incapace di gestirsi. Era questo il motivo per cui, a conti fatti, nonostante tutto il tenero amore che provava per lei, la evitava come la peste.

Perché la salute di sua sorella era la sua più grande paura, non sempre riusciva ad armarsi per affrontarla.

La bidella si sporse dall’uscio discretamente e Dem, subito, infilò con poco garbo la testa sopra quella della donna, per poter vedere la classe. Il suo quasi metro e ottanta unito alla bassa statura della bidella non gli rese il compito particolarmente complicato, così gli riuscì di studiare rapidamente le tre file di scolari curiosi che lo fissavano confusi di rimando.

La chioma screziata di biondo di sua sorella gli permise di metterla a fuoco rendendo indistinto qualunque volto la circondasse, e Sarah, dall’angolo della seconda fila, intercettò i suoi occhi e gli sorrise raggiante.

La bidella provvide subito ad allontanarlo bruscamente.

«Il signore è venuto a prendere Sarah Lemaire» sibilò gelandolo con un’occhiataccia ben poco convincente.

L’insegnante, dapprima perplessa, gli sorrise affabile, e Demian per riflesso considerò tra sé che fosse la maestra di matematica. Aveva quel sorriso dal retrogusto sadico che sapeva di perfido, quando riconsegnava una verifica.

«Certamente. Sarah, hai preparato tutto?»

La sua sorellina scattò immediatamente dal posto come non stesse aspettando altro, si caricò in spalla lo zaino e afferrò il giubbino, un soldatino perfettamente addestrato.

«Ci vediamo domani» le sorrise la maestra, e Sarah ricambiò con entusiasmo, sembrava un’incarnazione della gioia e della spensieratezza così palese da risultare sciocca. Demian non riusciva a comprenderla, non del tutto, quasi diventava difficile sostenere il suo sguardo pulito e dolce, gli pareva che la sua anima potesse illuminare tutto e lo accecava.

Davanti alle fossette e alla spruzzata di lentiggini sulla pelle chiara, si sentì improvvisamente più tranquillo e tutta l’inquietudine provata nell’ultima settimana si dissolse come non avesse mai avuto ragione di essere.

Sarah era una creatura fatata nata sulle sponde di Ys, che si barcamenava tra il mondo dei mortali e il regno dei faerie e camminava come sollevata da terra, in una leggerezza che apparteneva a lei soltanto.

«Arrivederci» la bimba si volse verso la classe sventolando la mano e ricevette un “Ciao” corale in risposta, poi tornò a posare le sue iridi di caramello su di lui e Demian provò la necessità di abbracciarla.

Mentre la bidella richiudeva la porta, si accorse quasi distrattamente che i bambini all’interno dell’aula lo stavano studiando bisbigliando e ridacchiando.

 

Ok, la scuola sembrerà anche diversa, ma certe cose non cambiano mai.

 

La purezza infantile sarebbe sempre stata meschina e crudele e l’avrebbe portato ogni volta a sentirsi un bambino di sette anni ferito.

«Fratellone!» esclamò la sorella, saltandogli tra le braccia tradimento «Pourquoi tu es ici?»

Gli occhioni brillavano di traboccante felicità e quella sua gioia lo travolse come un’onda in piena, facendolo ridere. La sollevò da terra e girò su se stesso, lasciando che la risata calda di Sarah riempisse qualunque silenzio e sradicasse ogni tormento.

 

«Tu n'es pas heureuse de me voir?»

Non sei felice di vedermi?

 

Sarah si aggrappò tenacemente al suo collo e nascose il volto sulla sua spalla, sentì le labbra aperte in sorriso sincero sulla clavicola mentre le risa si stemperavano dolcemente e lei annuiva.

Fu l’indisposto colpo di tosse della bidella a ricordargli che si trovavano ancora a scuola e stavano facendo troppo baccano.

A malincuore, lasciò che i piedi di Sarah ritoccassero terra, ma si concesse almeno la gioia di stringere la sua piccola manina candida prima di congedarsi dalla donna e avviarsi all’uscita.

 

«Donne-moi le sac à dos»

Dammi lo zaino.

 

La aiutò a sfilarselo dalle spalle e si accorse con un’insensata punta di fastidio che era pesante e avrebbe voluto che lei non dovesse fare sforzi, seppur non troppo eccessivi. Non poteva ignorare che anche la più piccola fatica l’appesantiva e rendeva il suo respiro labile affannoso, anche quando le sue preoccupazioni sfioravano il ridicolo non riusciva ad accantonarle, perché il mondo complottava costantemente alle spalle della sua fragile bestiolina.

 

«Tu me ramènes à la maison?»

Mi porti a casa?

 

Lo guardava dal basso, con le sopracciglia leggermente aggrottate e gli occhi dal taglio obliquo che, alla luce pallida di una giornata autunnale riflettevano mille sfaccettature d’ambra sciolta. A volte, gli sembrava di rivedere le espressioni di sua madre quando era bambino, ma macchiate di una consapevolezza diversa, più genuina e viva.

Si morse l’interno della guancia e cercò di non mostrarle che quella domanda in qualche modo lo aveva ferito, perché con lei viveva di sensi di colpa e che Sarah desse per scontato che non sarebbero rimasti insieme se non il tempo necessario era solo l’ennesima dimostrazione concreta che sua sorella non si aspettava niente da lui. Non aveva fatto nulla per alleviare la loro separazione, la lasciava troppo tempo da sola. Era per lei la presenza più assenza, si mostrava solo per sparire.

Le sorrise dolcemente, senza guardarla in volto, per non permetterle di leggergli dentro e farle capire che stare con lei era la sua cura, ma anche il suo personale inferno.

 

«En vérité je pensais que nous aurions pu rester esemble jusqu'au déjeuner»

In verità pensavo che saremmo potuti stare insieme fino a pranzo.

 

«Vraiment?»

Aveva l’aria sconvolta di qualcuno a cui avessero appena confermato la vera esistenza dell’isola di Ys, e allora Dami sfoggiò il suo miglior sguardo da cucciolo ferito.

 

«Bien sûre, mais si tu n’as pas envie ce n’est pas un problème»

Certo, ma se non hai voglia non fa niente.

 

Borbottò affranto.

Il viso di Sarah si aprì in uno dei suoi più raggianti sorrisi e le guance s’imporporarono di rosso per l’entusiasmo. L’ascoltò ridere, assorbì ogni più piccolo gesto di quella bambolina e delle sue manine da fata e pensò che non sarebbe mai riuscito a comprenderla, non davvero.

Era un mistero che non gli era dato di svelare, ché la sua petite peste era un estremo ed insieme il suo opposto: era serena, candida, e allo stesso tempo cosciente di ciò che le accadeva e che accadeva alle persone che amava. I suoi aspetti più salienti erano inconciliabili, eppure questo non minava il suo essere, Sarah era piena di vita, era radiosa, sempre.

«Mais tu ne vas jamais à l'école?»

Ma tu non vai mai a scuola?

 

Si grattò la testa coperta dal berretto nero, in un moto d’imbarazzo per la risposta che quella domanda innocente portava con sé, perché la verità era tutto meno che innocente e non desiderava mettersi in cattiva luce agli occhi della sua pestifera sorellina.

Scrollò le spalle con noncuranza, come bastasse un gesto a scacciare pensieri sgradevoli, e la frangia bianca gli ricadde sugli occhi.

 

«Porquoi je devrais, si tu études puor tous deux?»

Perchè dovrei, quando tu studi per tutti e due?

 

La canzonò, facendo leva sullo spropositato amor proprio della bimba, che come prevedibile si gonfiò d’orgoglio come un gufo impettito: riusciva ad apparire persino più piccola e tenera.

 

«J'ai pris distinct!»

Ho preso distinto!

 

Cinguettò soddisfatta, strappandogli l’ennesimo, irrimediabile sorriso storto.

E mentre Sarah lievitava nel suo ego appagato, pensò che voleva solo avere una scusa per strapazzarla come fosse un peluche. A tradimento la sollevò e se la caricò in spalla e Sarah fece solo in tempo ad urlare senza possibilità di divincolarsi. All’urletto stridulo fece eco l’ennesima risata liberatoria.

 

«Seulement? Tu devrais t’engager bien plus, si autrement tu ne me égales plus! Je prenais seul “excellents”»

Solamente? Dovrai impegnarti di più o non mi batterai mai! Io prendevo solo “ottimi”!

 


la punzecchiò, e infilò le dita gelide sotto il suo maglioncino per farle il solletico ai fianchi. Sarah per il solletico ci moriva, si dimenava come un’anguilla, tentava sempre, in ogni modo, di sgusciare alla sua presa e, soprattutto, rideva fino alle lacrime con tanto trasporto da splendere, per tutta quella gioia, e allora nemmeno lui poteva esimersi e si lasciava contagiare da quell’allegria che sgorgava come fonte di vita da una sorgente incontaminata.

 

«Menteur!»

 

Ridacchiò

 

«Je le sais, que à l’école tu n’était pas bravo!»

A scuola andavi malissimo, lo so!

 

Prese fiato come non respirasse da una vita, annaspò, rise e si mangiò le parole, non le riusciva di scandire i suoni e più faticava, più si lasciava trasportare dalle risa.

 

«Je te pries, laisse-moi! Je ne respire pas!» biascicò a stento.

Ti prego, lasciami! Non respiro!

 

A sentirla tanto in difficoltà, con quelle gambettine magre che si agitavano e le mani affrancate alla sua felpa disperatamente, gli veniva voglia di tormentarla ulteriormente. Quando alle risa spontanee subentrarono violenti colpi di tosse, Demian però s’irrigidì e venne colto da un panico inatteso.

La rimise subito a terra e s’inginocchiò davanti a lei, esclamando il suo nome con urgenza.

«Sarah! Sarah, tu te sens bien?»

Le strinse il braccino sottile e le scostò i lunghi capelli che le coprivano il bel viso, nascosto dalle mani a coppa. Avrebbe voluto picchiarsi, lo sapeva benissimo che doveva far sì che rimanesse tranquilla, ma poi quando lei rideva e si lasciava andare tanto spontaneamente si scordava di tutto.

Sarah smise di tossire, scostò le mani e sfoderò un ghigno furbetto di chi la sa lunga.

 

«Eh eh, Je le savais que en ce moyen  tu te serais arrêté!»

Eh eh, lo sapevo che così la smettevi!

 

Asserì soddisfatta, e a Demian mancò il respiro per lo sbigottimento.

Si ritrovò a fissarla per un lungo istante senza parole, sbatté le palpebre ancora e ancora, sforzandosi di focalizzare la situazione.

 

«Tu as feint?»

Hai fatto finta?

 

Mormorò allibito.

L’infarto era venuto a lui.

 

Come può scherzare su una cosa smile?

Non si rende conto di quanto mi tormenti costantemente?

 

Il sorriso le morì lentamente sulle labbra, gli angoli della bocca si piegarono verso il basso e Dami realizzò, con svilimento, di averla ferita, di nuovo.

 

«J’étais en train de blaguer»

Stavo scherzando

 

Sussurrò ad occhi bassi, giustificandosi come fosse in torto, e Demian sapeva che non lo era, che era stato lui, ingiustamente, a metterla a disagio.

 

«Tu es ainsi toujours trop sérieux, je me sens bien, frère. Tu le sais que je ne te dirais jamais un bougeoir»

Sei sempre così serio… io sto bene, fratellone. Lo sai che non ti direi mai una bugia.

 

Le guance spruzzate di leggere lentiggini erano arrossate dalla colpa, e Demian ne provò una profonda vergogna e si sentì anche peggio di uno schifo. L’unica cosa che odiava più dello stato di salute di sua sorella, era solamente la propria capacità di ricordarle costantemente la sua diversità e fargliela pesare con la sua angoscia.
Non importava quanto s’impegnasse o si ammonisse, al minimo segnale diventava soffocante e non le permetteva di vivere la sua età come avrebbe dovuto, persino nelle piccole cose. Sarah aveva quel dono, il dono di fargli desiderare di essere altrove e, al contempo, di fargli desiderare di non allontanarsi mai da lei.

E adesso, di fronte a quegli occhi d’oro, sarebbe scappato subito, ma come poteva scappare dalla sua bellissima bestiolina, se poi avrebbe avuto un disperato bisogno di lei?

Di sapere che stesse bene?

Si morse ancora le labbra e poi, sospirando la sua esasperazione, abbozzò un sorriso compassato, nel vano tentativo di rimediare.

 

«Alors, qu’est-ce que tu veux faire?»

Allora, cosa vuoi fare?

 

Domandò,  in un miserabile sforzo di cancellare con un colpo di spugna la sua inadeguatezza.

Sarah lo comprese perché esitò, ma poi gli sorrise con quell’aria dispettosa e furbetta ai suoi occhi adorabile.

 

«Je veuz aller au parc!»

Voglio andare al parco!

 

 

Demian sbuffò e sollevò gli occhi al cielo, ma in realtà era solo grato, infinitamente grato, che sua sorella fosse come era, che possedesse quella dolcezza e quella comprensione che non avrebbero dovuto appartenere ad una creatura tanto piccola e indifesa, così sguarnita davanti alla vita.

La guardava e tutto l’amore che provava per lei lo travolgeva con tanta prepotenza da togliergli le parole per dirlo, per questo non ci riusciva, per questo forse era inabile a mostrarle l’affetto che provava e non riusciva a farle comprendere che lei era il suo nord in un’esistenza senza bussola.

 

«Et parc soit»

E parco sia.

 

La aiutò a mettersi a cavalcioni sulle sue spalle e prima di avviarsi verso i giardini pubblici le prese una mano e le depose un leggero bacio sul polso.

 

«Et je veux une crème glacee aussi!»

E voglio anche un gelato!

 

 

Aggiunse Sarah, appoggiando il mento sulla sua testa per poi dargli un pizzicotto.

In cambio ricevette solo sbuffi disperati.

 

«Tu es une gâtée»

Sei una viziata.

 

Quando raggiunsero i giardini pubblici, davanti a loro si aprì una distesa verde punteggiata da alberi sfioriti tinti delle tonalità dell’autunno. I rami screziati di rosso e di oro rendevano vivace il sentiero della pista ciclabile e ombreggiavano gli scivoli e le altalene, le foglie secche ricoprivano il terreno di un caldo manto marrone-dorato.

Sarah gli sfilò la berretta di lana e la indossò lei stessa, poi gli passò le mani fra i capelli.

Lo faceva sempre anche da piccola, li faceva scorrere fra le dita come fossero fili di seta, e Demian all’aperto non si scopriva mai il capo, per il disagio, a meno che non fosse sua sorella a desiderarlo.

Per questo non le disse nulla e la lasciò giocare distrattamente, ma Sarah afferrò una ciocca e la tirò con fastidio.

 

«To dois mettre moins gel! Les cheveux sont tous secs et je ne les aime pas»

Metti meno gel! I capelli sono tutti secchi, non mi piacciono»

 

Si lamentò, e Demian sbuffò divertito «Mais je les aime», le fece notare con una punta di rimprovero che in realtà era solo troppa tenerezza.

Forse sarebbe diventato come suo nonno, a volte lo pensava, burbero in maniera esasperante.

 

«Mais sans tes cheveux sont doux comme la soie!» insistè la bambina.

Ma senza I tuoi capelli sono morbidi come seta!

 

Aveva sempre trovato insolito che Sarah non gli avesse mai fatto domande a quel proposito, aveva sempre preso atto delle stranezze che lo riguardavano e che non concernevano nessun altro dei suoi conoscenti senza battere ciglio. Probabilmente, per lei le sue prerogative estetiche non erano nemmeno diversità, erano solo una manifestazione di lui, perché Sarah ragionava senza pregiudizi.

Era raro, per un bambino, e Demian lo aveva già imparato da piccolo, tutti lo avevano sempre guardato di traverso ed era stato più facile, per i suoi compagni d’infanzia, emarginarlo piuttosto che non farsi domande.

Rimase in silenzio e la aiutò a rimettere i piedi per terra.

Subito, Sarah indicò il fortino di legno munito di scivolo e altalena.

 

«Je veux aller sur la balançoire!»

Voglio andare sull’altalena!

 

Esclamò, e prima che potesse anche solo pensare di fargli delle raccomandazioni, si era già voltata e stava correndo.

 

«Ehi, arrête-toi! Tu le sais que tu ne dois pas courir!»

Fermati! Lo sai che non devi correre!

 

La rimproverò andandole dietro e in risposta ricevette un’impertinente linguaccia.

 

«Oui, oui, je le sais “maman”!» lo prese in giro.

Sì, sì, lo so “mamma”.

 

«Ok j'ai compris» borbottò rassegnato «Mais tu ne te déplaces pas. Je te pousse»

Ok, ho capito. Ma non muoverti. Ti spingo io.

 

Sarah si accomodò placidamente sull’asse di legno e lo guardò colma di aspettativa.

Era incredibilmente leggera, così eterea che Demian talvolta ci aveva creduto davvero, che fosse una silfide di cristallo. La spingeva e nel mentre la studiava, osservava le gambe magre tese al cielo, i lunghi capelli castani screziati di miele che si sollevavano in un sinuoso strascico.

Era la bambina più bella che avesse mai visto, e non perché fosse sua sorella. Semplicemente, aveva una dolcezza nei tratti, nello sguardo fermo, sicuro, un’inesauribile vena infantile nel sorriso e un atteggiamento da grande troppo in fretta che la rendevano adorabile.

«Fratellone?»

«Oui?»

Sarah volse il capo e lo guardò da sopra la spalla, aggrappandosi saldamene alle catene per non sbilanciarsi.


«Comment va maman?»

Come sta la mamma?

 

Lo chiese a voce sottile appena sussurrata, con una cautela innaturale che stonava con la sua esuberanza e Demian si meravigliò ancora di quanto bene lo conoscesse, tanto a fondo da sapere perfettamente che bastava citare maman per ferirlo.

Sussultò e mancò di spingerla, allora Sarah puntò i piedi nella terra e fermò l’altalena.

Dami non lo sapeva, se provava più pena per se stesso o per lei, che era stata costretta a conoscere il tatto quando invece avrebbe dovuto potersi esprimere liberamente e chiedere di sua madre senza dover temere le conseguenze.

 
«Maintenant elle va mieux»

Ora sta meglio.

 

Non riuscì a infondere in quelle parole la forza che avrebbe voluto, suonavano deboli anche e a se stesso, come la voce insicura e tremante ed infatti non gli riuscì di rassicurarla. Sarah s’incupì, chinò la testolina bionda lasciando che i capelli nascondessero alla sua vista ogni sua espressione, e si mordicchiò il labbro.

Poi, fece per rialzare il viso, ma esitò, e Demian comprese che desiderava tanto dirgli qualcosa e tuttavia non ne trovava il coraggio, i bei lineamenti puerili erano mangiati da un’attanagliante incertezza.

 

«Tu aussi ne me dis pas les mensonges, c’est vrai?»

Anche tu non mi dici le bugie, vero?

 

Mormorò infine.

Seppe da quello sguardo colmo di parole non dette che non era solo quel dubbio a tormentarla.

S’inginocchiò davanti a lei e le prese le mani piccole fra le sue. Per uno sciocco momento, si perse nel contrasto di colori della loro pelle, perché le mani di Sarah erano delicate e rosee mentre le sue avevano la stessa, gelida consistenza del marmo, ed era assurdo, inspiegabile.

Era il cuore della sua bestiolina a tradirla, il suo stesso cuore il nemico che doveva combattere ogni giorno, un nemico contro cui Demian era assolutamente impotente, eppure anche solo il colore di quella pelle morbida, di quelle guance spruzzate di leggere lentiggini, gridava vita.

 

«No, petite peste, je ne te dis pas les mensonges»

No piccola peste, non ti dico le bugie.

 

Non riuscì a sostenere quella menzogna guardandola negli occhi, era consapevole di starla tradendo, proprio lei che era la purezza incarnata ed era l’unica persona della quale Demian bramasse la fiducia come fosse una panacea contro ogni male.

Sarah allora gli sorrise facendo mostra di un dentino mancante.

 

«Et quand je peux la voir?»

E quando posso vederla?

 

Demian abbassò le palpebre in un sospirò profondo, cercando di riorganizzare i propri pensieri, di trovare qualcosa di sensato da dirle che non le causasse troppo dolore. La richiesta di sua sorella era lecita, non vedeva maman da mesi e la colpa era solo sua, aveva espressamente detto a Claire di non permetterle di incontrare Jen per non condannare anche Sarah alla sua medesima sofferenza.

La stava tenendo lontano da sua madre negli ultimi istanti della sua vita, facendole soffrire entrambe di nostalgia e mancanza, non aveva di certo bisogno di un indovino per capire che, un giorno, sua sorella non l’avrebbe perdonato.

Solo, non gli importava.

Doveva proteggerla dal dolore di vedere maman in quella condizione penosa, se fosse stata al sicuro avrebbe potuto accettare anche di perderla in futuro.

 

«Je ne sais pas.  Maintenant elle est toujours à l’hôpital»

Non saprei. Adesso è ancora in ospedale.

 

«Je peux venir avec toi. Je sais que tu vas toujours à la voir, la tatie me l’a dit!»

Posso venire con te. Lo so che vai sempre a trovarla, me l’ha detto la zia!

 

Scoraggiato si ripromise di fare un bel discorsetto a zia Claire sulla sua bocca troppo grande, le accarezzò la linea dolce del viso, quando però parlò lo fece con fin troppa durezza

 

«Ce n'est pas le moment appropriéè»

Non è il momento.

 

Tagliò corto e si pentì all’istante, vedendo gli occhi di sua sorella farsi tragicamente lucidi.

 

«Mais»

 

S’interruppe, incerto.

Vederla triste lo tormentava, mentirle non gli permetteva di essere clemente con se stesso, ma non era minimamente intenzionato a cedere su quel punto con Claire.

Non aveva un’alternativa che gli lasciasse la coscienza già martoriata in pace.

 

«Je te promets que, au plus vite, je t'emmènerai la voir» aggiunse infine.

Ti prometto che il, prima possibile, ti porterò da lei.

 

Sarah sporse il labbro inferiore in un broncio deluso amabile, ma annuì e Demian l’abbracciò stretta, le accarezzò e i capelli e le depositò un bacio leggero sulla fronte, sussurrandole piano come avesse fra le mani un uccellino spaurito

 

«Ne t’agite pas, reste calme»

sta tranquilla, non agitarti.

 

 

La sua bestiolina si scostò e gli sorrise più serenamente, scuotendo pianto la testa.

 

«Je ne m'agite pas, ou à la fine tu te agites plus que moi»

Non mi agito, o alla fine tu diventi più nervoso di me.

 

Quella fossetta ingenua all’angolo della bocca gli sciolse il cuore, le rimboccò i capelli dietro le orecchie, le sfiorò la guancia rossa e fredda. Era così soffice da smuovergli un’infinita dolcezza quando i suoi occhi di sole si mostravano tanto forti e determinati, ma Demian non era mai certo di quanto Sarah avesse compreso, né di quanto restasse ferita a causa sua. Quel suo sorrisino impenitente lasciava intuire un “so tutto, non c’è bisogno che mi spieghi nulla”, che lo gettava in un’incertezza costante.

 

«Dis-moi ce que tu veux faire. Nous ferons tout ce que tu veux, sauf courir»

Dimmi che cosa vuoi fare. Faremo tutto quello che vuoi, tranne correre»

 

Le disse infine, rassegnato a non poterla mai afferrare del tutto.

 

«Je veux ma glacée!» rispose, ridendo spensierata come se non avessero mai toccato l’argomento “maman” e tutto ciò che comportava. Demian decise di rispettare la scelta della sua bestiolina, si alzò stirando le braccia e la guardò ghignando.

 

«Et?»

 

«Tutto tutto?» inclinò la testa come a rafforzare il proprio dubbio, come se stesse tastando un qualche limite. La sua dolcezza riusciva davvero a farlo sorridere anche quando avrebbe desiderato solo gettarsi sotto un treno.

Per questo Sarah doveva essere necessariamente una fata, perché lo elevava, lo sollevava come una carezza lasciandolo sospeso e poi lo rigettava all’inferno con la sua sola tristezza.

 

«tout ce que»

Qualunque cosa.

 

 

 

Un libro.

Sarah gli aveva chiesto di aiutarla a leggere un libro.

Non se ne era sorpreso, sua sorella amava leggere e ancora di più adorava che qualcuno leggesse per lei, era una bambina dagli svaghi troppo limitati che, fortunatamente, aveva trovato nella lettura la sua ancora di salvezza. Come aveva fatto anche lui.

Quello doveva essere uno dei rari meriti di maman, che era stata una madre negligente e terribile, ma in un mare di errori eclatanti era stata all’altezza di trasmettere loro almeno il suo amore per l’arte ed il bello.

Pensava questo, mentre la sua petite peste apriva lo zainetto e ne estraeva la sua copia consunta di “Ar Priñs Bihan”, Le Petite Prince. Demian lo prese dalle sue mani con solennità e lo contemplò con calma nostalgica, ché quel libro era l’unico cimelio di famiglia: la mamie lo aveva regalato a maman quando era bambina, Jen lo aveva ceduto a lui nell’infanzia e, quando si era ammalata, Dami lo aveva dato a Sarah.

Lo aveva fatto perché aveva capito, nel momento in cui il cancro si era fatto più forte, che non sarebbero più tornati in Francia, non per molto tempo almeno, e non voleva che la sua bestiolina si potesse allontanare dalle loro origini.

L’edizione era però in dialetto bretone e Sarah non lo capiva, la mamie lo parlava inframmezzandolo con il francese, quando si rivolgeva a loro, e se già Demian lo comprendeva a stento, per sua sorella risultava una lingua estranea che si sforzava d’imparare.

Si erano seduti tra le radici di un albero, Sarah si era sdraiata comodamente, usando le sue gambe come cuscino, e facendo sfarfallare le lunghe ciglia dei suoi già adorabili occhioni, lo aveva convinto a recitarlo per lei.

Non era stato impegnativo, Demian quasi lo sapeva a memoria, ma aveva provato comunque dell’imbarazzo.

 

 

«A! Priñs Bihan, komprenet ‘m eus, tamm-ha-tamm, da vuhezig velkonius.

E-pad pell ne ‘z poa bet evel didu nemet c’hwekted ar c’huzh-heol»

 

“Oh, piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita malinconica.

Per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti.”

 

 

«Velkonius?» si era accigliata Sarah, aggrappandosi alla sua manica e scuotendola, le sopracciglia aggrottate.

 

«Mélancolique» chiarì, scompigliandole i capelli e trattenendo una risata al borbottio scocciato della bimba

 

«Elles ne se ressemblent pas» e poi aveva aggiunto «Et c’hwekted?»

 

Non si assomigliano.

 

 

Si era morso il labbro e sorridendo aveva scrollato le spalle «Douceur»

Aveva ripreso:

 

«Desket ‘m eus ar munud nevez-se d’ar pevare deiz, d’ar beure, pa ‘c’h eus lavaret din:

-Me ‘blij din ar c’huzh-heol. Eomp da welout ur c’huzh-heol…

-Met ret eo gortoz…

-Gortoz petra?

-Ez afe an heol da guzh.

Da gentañ e ‘c’h eus diskouezet bezañ souezhet-meurbet, ha goude e ‘c’h eus graet goap ac’hanout. Ha lavaret ‘c’h eus din:

-Krediñ a ran emaon atav du-mañ!»

 

 

Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando mi hai detto:

"Mi piacciono tanto i tramonti. Andiamo avedere un tramonto..."

"Ma bisogna aspettare..."

"Aspettare che?"

"Che il sole tramonti..."

Da prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e

poi hai riso dite stesso e mi hai detto:

"Mi credo sempre a casa mia!..."

 

Sarah si era lamentata con uno sbuffo

«Je n'ai pas compris bien»

Non ho capito bene.

 

«Qu'est-ce que tu n'as pas compris?»

Che cosa non hai capito?

 

Glielo aveva chiesto sapendo che in realtà Sarah non aveva compreso quasi nulla, ed infatti lei gonfiò le guance e lasciò andare una pernacchia.

 

«Krediñ a ran emaon atav du-mañ» aveva soffiato, e Demian si era concesso quella risata divertita che premeva per essere liberata.

 

«”Je me crois toujours chez moi”» parafrasò, chinandosi a baciarle ancora la testolina. Sarah aveva preso la mano fra le sue, aveva giocato con le sue dita e aveva liberato un sorriso furbo.

 

«En vérité j'ai compris, mais je l'aime. C’est mon passage préféré!»

In verità ho capito, ma lo amo. È il mio passaggio preferito!

 

Il cellulare nella tasca allora aveva vibrato e Demian si era interrotto.

Le aveva sorriso, le aveva promesso che avrebbero continuato insieme un’altra volta e, dopo averle preso il tanto agognato gelato, così grande che neanche volendo sarebbe riuscita a finirlo, l’aveva riaccompagnata a casa dalla zia, in moto.

Non le aveva dato possibilità di protestare.

Non era nemmeno entrato a salutare, si era tenuto a distanza, guardando il cancello di casa da lontano, si era fatto dare un bacio frettoloso sulla guancia da una Sarah chiaramente delusa che non avesse trascorso la giornata con lei come le aveva promesso, e se ne era andato.

L’aveva fatto a testa china, l’aveva fatto perché quando vivevano un momento sereno e perfetto si sentiva soffocare e provava l’impulso ancestrale di fuggire. Che Sarah fosse la cosa più importante della sua vita non era sufficiente, starle accanto era una sofferenza che, almeno a se stesso, non poteva negare, ironicamente soprattutto quando le cose andavano bene.

Perché non andavano mai davvero bene e lui non riusciva ad ingannarsi, crogiolarsi in un’illusione era una sofferenza maggiore.

Quel messaggio improvviso era stato la scappatoia che gli serviva per assecondare la propria vigliaccheria e non aveva potuto fare a meno di coglierla al volo. Quando Niko chiamava e decideva di riunire il gruppo, tutti dovevano accorrere, era la regola, e questa regola spesso gli consentiva di evitare quelle giornate in famiglia alla Mulino Bianco che non aveva e non meritava.

Non riusciva più nemmeno a mettere piede in casa di sua zia, si sentiva alienato, un oggetto fuori posto in quadro perfettamente ordinato.

Lui e suo cugino erano diversi, lo erano sempre stati, fin da bambini.

Stava per perdere sua madre, aveva perso suo padre tempo prima, quando li aveva abbandonati, e Sarah era fragile.

Non aveva ricevuto nulla di perfetto, non poteva integrarsi in una famiglia affiatata e completa come quella di Jules, poteva solo ammirarla prendendo le distanze, poteva solo cercare d’immaginare come avrebbe potuto essere, se le cose fossero andate diversamente.

Si guardò allo specchio ancora e ancora, ricambiando con disprezzo quel riflesso diafano che lo tormentava.

 

Sei una possibilità andata male.

Sei un caso su trentacinque mila, un refuso di stampa.

 

Se lo ripeteva ogni volta, come se potesse così indursi a cambiare, eppure l’immagine davanti ai suoi occhi non mutava.

Su trentacinquemila, su quindicimila, dati diversi a seconda della manifestazione della patologia, per lui erano solo numeri per descrivere un maledetto gene recessivo tramandato dalla famiglia di sua madre e manifestato in lui per beffa del destino.

 

Malattia congenita.

 

Suonava tutto molto tecnico, quando erano i medici a parlargliene, ma a Demian quelle cifre davano solo la nausea.

Si arrese davanti a se stesso, infilò la testa nel lavandino e fece scorrere l’acqua per risciacquarsi i capelli, come la sua petite peste gli aveva suggerito di fare poche ore prima. Poi prese una salvietta e li tamponò piano, asciugandosi il volto pallido.

 

Albinismo.

 

Tutto sommato non gli era andata male: anche se la sua vista era abbastanza rovinata, non lo era così tanto da impedirgli una vita quasi normale con le lenti o gli occhiali, e il suo strabismo era sufficientemente leggero da passare inosservato tranne ad un occhio attento.

Non tutti quelli come lui erano altrettanto fortunati, sapeva di non potersi seriamente lamentare, a molti non era possibile continuare a studiare a causa della vista, altri avevano la pelle tanto rovinata da sembrare piagata. Lui stava bene ed era molto bello, almeno questo se lo concedeva. Naturalmente era pallido come un fantasma e la luce del sole lo irritava da morire in ogni modo possibile, ragione per cui aveva un rapporto conflittuale con il sole e non era mai stato al mare, tranne sulle fredde coste dell’Atlantico vicino a casa della mamie, in Francia, dove aveva trascorso ogni giorno estivo della sua infanzia fino ai suoi dodici anni.

Gli occhi azzurro sporco, quasi grigio misto ad una delicata sfumatura rosata, lo fissavano di rimando dallo specchio mentre cercava d’indossare le lenti a contatto colorate che servivano a proteggerli dall’eccessiva luce e a non mostrare quella strana sfumatura sanguigna.

In passato aveva avuto altri problemi, era stato fisicamente debole e vittima di bullismo da parte di quei bambini che consideravano la sua una diversità patologica. Aveva imparato a sue spese la crudeltà e il giudizio spietato delle persone che lo avevano sempre circondato, che lo guardavano come fosse un poveretto da compatire, un caso umano con cui era impossibile interagire in maniera normale.

Molto avevano avuto vergogna anche solo a guardarlo negli occhi, un imbarazzo immotivato che lo aveva ferito e che ancora lo disturbava.

E allora si era ripromesso che non avrebbe più concesso a nessuno di sopraffarlo, di farlo sentire un difetto, uno scherzo naturale.

L’unica distanza tra lui ed il resto del mondo era banale mancanza di melanina che lo privava anche del fascino che altrimenti i suoi lineamenti gli avrebbero conferito. Era stato più difficile per lui, rispetto ad una persona normale, rendere il proprio fisico altrettanto forte, ma si era impegnato a fondo per limare ogni possibile differenza.

Si passò la salvietta umida sul collo e sui muscoli delle braccia e dell’addome, ben delineanti, prima di indossare una maglietta nera che sbatteva incredibilmente in contrasto con la sua pelle.

Poi prese il tirapugni appoggiato sul mobile, lo indossò sulla mano sinistra e lo strinse, recuperò un coltellino a serramanico e se lo mise in tasca.

 

***

 

La luce bassa del tramonto tratteggiava in lontananza le sagome oscure dei suoi compagni, raccolti contro una staccionata logorata del parchetto vicino alla stazione dei treni.

Quelle erano le ore della giornata in cui i ragazzi normali iniziavano a evitare quella zona, quel quartiere. Non era ben visto dalla gente per bene, con le case dimesse, i muri ricoperti di murales ai quali lui stesso aveva contribuito, con tutte le risse e i locali malandati e la droga.

Non era il luogo ideale per passeggiare amabilmente a braccetto con le persone care.

Per questo ci andava.

Lì non si sentiva fuori posto, ma esattamente dove doveva essere, confuso in una massa di diseredati non diversi da lui. Non erano propriamente amici, erano suoi simili, condannati quanto lo era lui stesso a tutto ciò che non avevano la forza di sopportare.

Nicolas gli si fece incontro e si salutarono stringendosi la mano e battendosi il pugno, in un gesto che aveva il sapore dell’abitudine.

Per qualche distorto motivo quella routine aveva il raro dono di calmarlo, quando si trovava in loro compagnia poteva far cadere ogni maschera di compostezza e tolleranza e annegare in ogni malessere vivendolo fino in fondo senza remore.

«Ehi Dem, hai sentito del nuovo gruppo?» gli domandò Dave con un sorriso colmo di allegria artificiosa, mentre si avvicinava per porgergli la canna che si stava fumando e che ormai era quasi del tutto consumata. Gliela sfilò dalle dita e fece un lungo e lento tiro.

«No» soffiò insieme al fumo «Chi sarebbero?»

«Novellini» intervenne Niko «Ragazzini che hanno deciso d’interferire con il nostro giro» snudò un ghigno perfido che sottintendeva in maniera limpida come pensava di sistemare le cose.

Demian dubitava seriamente che fossero davvero un problema, riteneva più probabile che Nicolas avesse semplicemente voglia di sfogare il proprio sadismo.

«Una lezione basterà per ricordare a tutti che questo è il nostro territorio» chiarì Alex, scrollando le spalle con indifferenza, come stesse parlando di semplice, banale e noiosa burocrazia.

 Teo, seduto sulla staccionata con le braccia a penzoloni e una sigaretta in bocca, rise di gusto alla sola idea, Andrea invece abbozzò un sorriso distante, non stava ascoltando, forse pensava alla birra che si sarebbe scolato di lì a poco.

«Età?» era stato un sospetto nato dell’espressione meschina di Teo a indurlo a farsi scrupoli, sebbene fosse ironico: lui per primo era il più piccolo del suo gruppo e vi era entrato nell’Estate dei suoi tredici anni, difficilmente avrebbe trovato qualcuno più giovane di come lui lo era stato.

Difficilmente però, qualcuno abituato all’ambiente si sarebbe arrischiato a occupare un territorio già gestito da altri spacciatori, soprattutto se a gestirlo era Niko, un nome piuttosto noto nel giro e nipote di un ancor più noto spacciatore.

Le regole de gioco erano in realtà piuttosto elementari.

«Mocciosi che si divertono a fare i grandi» sputò Teo con la stessa, insofferente espressione con cui avrebbe potuto rigurgitare bile.

Demian piegò la bocca in una smorfia amara.

A volte non capivano o non ricordavano, lo definivano ridendo il piccolo del gruppo eppure sembrava che non si rendessero veramente conto di quanti anni lui stesso avesse. Se qualcuno giocava a fare il grande, Demian sapeva di essere il primo, e quei ragazzi con lui.

«Quindici, sedici. Non di più» specificò Alex con un sorriso maligno complice verso Nicolas «Con questi ci divertiamo»

Dem gettò a terra il mozzicone della canna ormai finita e sollevò l’angolo della bocca in un’espressione sarcastica.

«Non mancherò»

Niko sfoderò quella piega della bocca che osava definire in qualche modo sorriso

«Lo sapevo che eri dei nostri»

 

ANGOLO AUTRICE

 

Nei miei sopralluoghi a Finisterre, nei paesini che nel mio immaginario hanno riempito l’infanzia del mio cucciolo, mi sono accorta di una notevole mancanza della mia vecchia versione.

Questa mancanza è il dialetto bretone, infatti hanno il bilinguismo (ovviamente il Piccolo Principe in bretone non potevo non regalarmelo e l’ho comprato al volo!).

Per questo la scelta di mettere il brano estratto dal libro della madre in bretone: Demian non lo parla, è vero, ma ho pensato che per loro sia un po’ come per noi, quando i nonni ci parlano in dialetto e noi lo capiamo soltanto senza essere in grado di masticarlo.

Almeno, parlo per me!

Non ho mai imparato una sola parola di sardo nonostante gli sforzi di nonna, e il bergamasco mi è estraneo pur con tutto l’impegno di nonno =)

 

L’isola di Ys, che cita Demian, è una leggenda locale propria del paesino della nonna di Demian, nata proprio nella baia di Douarnenez. Una specie di mito di Atlantide, per intenderci.

Dovrebbe caratterizzare meglio le sue origini… spero!

 

Detto questo, aggiornerò prima di Capodanno, anche perché ho già corretto il prossimo capitolo.

Ora mi ritiro, che la mia famiglia minaccia di defenestrare il computer…

 

Buone feste e buon Natale!!!

  
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