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Autore: Heretic Seal    28/12/2016    0 recensioni
Nel dolore di una perdita si finisce sempre per allontanare chi davvero ci può salvare dal baratro. Ma l'amore sa essere più forte di ogni dolore.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sono nuovamente qua con un'altra one shot, non a tema natalizio purtroppo. Spero che possa piacervi comunque.
Auguro a tutti una buona lettura.
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Era l’ennesima notte insonne che Lexa passava a rigirarsi nel letto. Immagini e frammenti di ricordi si affollavano nella sua mente impedendole di dormire.
Le ferite del corpo stavano guarendo, ma quella profonda dell’anima sapeva benissimo che non si sarebbe mai più rimarginata. Quel dolore era così forte e profondo che finiva per sommergerla ogni volta che riaffiorava in superficie.
L’orologio sul comodino segnava le tre del mattino, fuori la città era immersa nel silenzio della notte. Nel condomino non si sentiva un solo rumore e questo amplificava quella sensazione di malessere che aveva dentro.
Esasperata abbandonò il letto, sul volto si dipinse una smorfia per via del dolore che proveniva dalla ferita al fianco. Vi posò sopra la mano ancora fasciata dal bendaggio e con fatica si mise in piedi. Andò in cucina a prendere un bicchiere d’acqua.
Dalla finestra poteva vedere il luccichio del mare in lontananza, alcuni punti luminosi identificavano la presenza di navi in avvicinamento al porto di Los Angeles. Avrebbe desiderato avere dentro di se la calma del mare in quel momento.
Era successo tutto troppo in fretta, lei aveva provato, c’aveva provato davvero. Tutti le ripetevano da giorni che non era colpa sua, che era stato un incidente e che non avrebbe potuto fare niente di diverso per cambiare le cose. Ma quelle erano soltanto parole che rimbalzavano contro quel muro che lei stessa aveva eretto e stava allontanando le persone e che, soprattutto, stava allontanando l’unica persona che davvero avrebbe potuto aiutarla ad uscire da tutto questo.
 
La mattina arrivò troppo in fretta, un altro giorno era iniziato. O forse era sempre lo stesso, cambiava solo la data sul calendario. Le sembrava che ogni momento fosse uguale a quello precedente e a quello successivo.
Si era appisolata sul divano appena un paio d’ore prima quando venne svegliata dal suono del campanello.
Si stropicciò gli occhi con la mano sana e andò ad aprire trovandosi davanti la figura di Indra.
“Buongiorno” le disse la donna mettendole in mano una tazza di caffè ed un sacchetto con delle brioche calde.
“Buongiorno a te. Come mai da queste parti?” le domandò Lexa visibilmente infastidita da quella visita.
“Volevo vedere come stavi, visto che non rispondi al telefono. Ed in più devo ricordarti che hai del lavoro da sbrigare” le disse come se nulla fosse mentre procedeva lungo il corridoio fino alla cucina.
“Ho ancora bisogno di riposare, lo ha detto anche il medico” ribattè Lexa piccata.
“Si, una settimana fa lo ha detto. Devi reagire! E tornare a lavorare è la cosa migliore che tu possa fare. Lo studio sta andando a rilento senza di te”
“Non sono l’unico architetto presente nel tuo studio” le rispose la ragazza mentre si portava indietro i capelli.
“No, non sei l’unica, ma sei la migliore. Hai dei progetti in sospeso ed i clienti chiedono di te, quindi ora ti fai una doccia, ti rendi presentabile ed andiamo in ufficio. Dai, sbrigati” le disse Indra con un tono che non ammetteva repliche.
Lexa sostenne per qualche istante il suo sguardo, poi si arrese e andò in bagno. Fino a quel momento tutti avevano cercato di darle tempo e spazio, ma a questo punto qualcuno doveva prendere in mano le redini e Indra era sicuramente l’unica che poteva farlo, lei lo sapeva bene.
Dopo la doccia si rifasciò accuratamente la mano destra, indossò un paio di jeans con sopra una camicetta a cui abbinò un giacca nera. Lasciò i capelli sciolti in modo da nascondere un poco alcuni graffi che aveva sul volto. Si guardò allo specchio, ma non riusciva a riconoscersi per quanti sforzi facesse, quella fiamma di determinazione e sicurezza che ardeva nei suoi occhi era spenta.
“Sono pronta” disse ad Indra una volta uscita dalla sua stanza da letto.
“è il primo passo Lexa” le rispose la donna sorridendole prima di precederla fuori dall’abitazione.
 
Nello studio c’era il solito fermento fra clienti che andavano e venivano, architetti che esponevano le loro idee su plastici e disegni, assistenti che correvano come trottole impazzite a portare caffè e tutto ciò che poteva servire.
Gli uffici avevano pareti di vetro chiaro che si alternavano a bande di vetro smerigliato per dare una sensazione di privacy. Gli ambienti erano moderni e minimal, votati all’essenzialità e alla funzionalità. Il colore predominante era il bianco ed il senso di calore era dato dal mobilio in legno di mogano.
Lexa entrò nel suo ufficio, l’ultimo in fondo al corridoio, l’unico con le finestre su due lati da cui poteva ammirare la skyline di Los Angeles. Al momento di trasferirsi nella nuova sede dello studio Indra le aveva dato la possibilità di scegliere il suo ufficio e quella vista l’aveva fatta decidere immediatamente.
Tutto era rimasto come l’ultima volta che ci era entrata, circa tre settimane prima.
Le cianografie del suo ultimo progetto erano ancora sul tavolo da disegno, le matite e tutti gli strumenti erano come li aveva lasciati.
Si sedette sulla poltrona ergonomica di pelle e si lasciò andare contro lo schienale, le spalle alla porta e lo sguardo rivolto verso i grattaceli del centro.
Si lasciò scivolare nei pensieri, quel senso d’impotenza e di colpa tornò a farsi vivo, gli occhi le si fecero lucidi, ma non aveva più la forza nemmeno di piangere.
Una voce alle sue spalle la fece trasalire richiamandola alla realtà “Ehi, sei tornata davvero allora. Indra aveva detto che sarebbe venuta a tirarti fuori di casa” disse Octavia entrando e avvicinandosi alla scrivania.
Lexa si voltò con la sedia verso di lei “Si, non ho avuto molta scelta alla fine”
“Come stai?”
“Bene, le ferite stanno guarendo. Ho ancora un po’ di dolore soprattutto al fianco, ma almeno posso tornare ad usare la mano”
Octavia la squadrò con lo sguardo “Sai bene cosa intendo. Non mi riferisco alle ferite fisiche”
“Va tutto bene. Sto bene, davvero. Prima o poi passerà anche questa” le rispose e lo sguardo finì inevitabilmente su una delle due cornici che erano nell’angolo della scrivania.
“Hai parlato con Clarke? Continua a chiedermi di te” disse Octavia, quasi con un pizzico di rimprovero nella voce.
“Non me la sento di vederla” Lexa si alzò e andò verso il tavolo da lavoro. Octavia stava per aggiungere qualcos’altro, ma lei la fermò “Meglio che mi metta a lavoro, altrimenti sono venuta per niente”.
L’altra annuì e le fece un mezzo sorriso preoccupato “Buon lavoro e bentornata. Vieni a prendere un caffè da me dopo” e senza aspettare risposta lasciò Lexa da sola nel suo ufficio.
Ripensò alla foto sulla scrivania, tre persone: lei, Clarke e il suo fratellastro Kevin, figlio di una seconda relazione di suo padre. Ricordava ogni momento di quel giorno in cui l’avevano scattata.
Lei e Clarke stavano insieme da poco, erano andate a prendere Kevin a scuola e poi erano andati tutti insieme al parco.
Sebbene la sua famiglia fosse una gran casino lui era stata la cosa migliore che le fosse capitata. Dopo la perdita di sua madre non aveva mai accettato il fatto che suo padre si fosse risposato e con la matrigna non era mai andata d’accordo, ma l’arrivo di quel bambino aveva cambiato molte cose. Lui era l’unico motivo che la legava ancora alle sue radici.
E ora anche quell’ultimo legame si era spezzato.
Le lacrime si affacciarono di nuovo agli occhi, ma ancora una volta le ricacciò indietro e si concentrò sul lavoro.
 
Alla fine Indra aveva avuto ragione, lavorare l’aveva aiutata a non pensare, a soffocare i sentimenti che si portava dentro e, almeno per qualche ora, aveva potuto tirare il fiato.
Non si era fermata nemmeno per il pranzo, si era limitata a mangiare un sandwich che le aveva portato Octavia, declinando però l’offerta di consumare insieme quel pasto.
La sera era arrivata senza che lei se ne accorgesse, Indra si offrì di riaccompagnarla a casa, ma lei rifiutò. Aveva bisogno di stare da sola, erano giorni che non si concedeva una lunga passeggiata.
S’incamminò in direzione di casa sua, il marciapiede era illuminato dalla luce ambrata dei lampioni, le vetrine dei negozi erano freddamente illuminate dai faretti a led. Attorno a lei le persone correvano per tornare a casa in tempo per la cena, dai loro cari, mentre lei poteva fare con tutta calma.
Ogni tanto sentiva vibrare il telefono nella tasca dei jeans ma evitava di controllare, sapeva già che si sarebbe trattato dell’ennesimo messaggio in cui qualcuno le chiedeva come stava. Onestamente era stanca di dare sempre le solite risposte. Possibile che nessuno capisse? Possibile che dovesse sempre giustificare il suo stare male?
Avrebbe voluto il potere di riportare indietro il tempo, di riavvolgere il nastro, fermarlo un istante prima dell’incidente e cambiare qualcosa per impedire che tutto andasse in rovina.
Non aveva causato lei l’incidente, non era lei alla guida di quell’auto che aveva sbandato invadendo la loro corsia e colpendoli in pieno facendoli precipitare nel canale. Aveva cercato in tutti i modi di salvare Kevin portandolo fuori dai rottami, ma non ci era riuscita, di questo si sentiva colpevole e nessuno avrebbe potuto mai toglierle quel peso dalle spalle.
 
Aveva camminato così assorta nei suoi pensieri che non si era resa conto di essere ormai giunta in prossimità del suo condominio, non distante dal centro.
Entrò nell’atrio e fu salutata dal portiere di notte che le consegnò della posta arrivata nel pomeriggio. Salì al quinto piano e si diresse alla porta del suo appartamento, ma solo all’ultimo si rese conto della ragazza bionda che sedeva a terra a gambe incrociate giocherellando con un foglietto di carta.
“Clarke” esclamò Lexa. In verità non era troppo sorpresa di vederla li.
“Ehi, ciao. Finalmente sei uscita di casa, eh?” le chiese la ragazza che nel frattempo si era alzata e aveva rimesso in tasca quel foglietto ormai consunto.
“Già. Che ci fai qua?” il tono di Lexa non era troppo felice.
“Volevo vedere come stavi e volevo anche parlare un po’ con te” le spiegò Clarke sentendosi un in imbarazzo.
“Senti Clarke, ti ringrazio, ma… sono stanca. Voglio andare a letto” rispose Lexa aprendo la porta.
La bionda sbuffò infastidita “Per quanto ancora mi eviterai? Credi che allontanandomi le cose si risolveranno?”
Lexa fece un respiro profondo “Clarke, lasciami perdere ok? È meglio così”
“Non puoi chiedermi questo. Lexa, io ti amo lo sai, non puoi chiedermi di lasciarti così”
“Non te lo sto chiedendo infatti. Io ho bisogno di stare da sola. Lo dico per il tuo bene Clarke”
“Quindi decidi tu per entrambe? È così?” rispose la bionda con tono duro “Smettila di sentirti in colpa. Cosa dobbiamo fare per farti capire che non sei la responsabile della morte di Kevin?”
“Non potete fare nulla ok? È un problema mio e forse è meglio che ti trovi una persona diversa. Lasciami perdere Clarke, è meglio per tutti!” rispose Lexa a tono prima chiudere la porta praticamente in faccia alla sua compagna che rimase sulla soglia, con i pugni serrati e impotente di fronte al dolore della persona che più amava nella sua vita.
“Quando vorrai parlarmi sai dove trovarmi! Non ti lascio sola!” disse Clarke prima di voltarsi e andarsene rassegnata per l’ennesima volta.
Dall’altro lato della porta Lexa si lasciò scivolare a terra quando le gambe non riuscirono più a sorreggerla. Anche questa volta le lacrime non uscirono, ma si sentiva ormai persa.
Si sentiva in gabbia, una gabbia fatta di dolore e senso di colpa. Aveva perso sua madre, aveva perso Kevin e ora aveva perso anche Clarke. Per quanto forte fosse come donna, si sentiva spiazzata da tutto questo e quel suo lato fragile che aveva sempre nascosto al mondo era uscito allo scoperto.
L’armatura che l’aveva sempre protetta era caduta. La sua stessa anima si era frantumata e lei non sapeva da che parte cominciare a rimettere insieme i pezzi, come in un puzzle di cui non si ha l’immagine campione.
 
Anche quella fu un’altra notte insonne passata a rigirarsi nel letto, abbracciando forte quel cuscino su cui lei aveva posato tante volte i suoi capelli biondi.
Ora erano due le immagini che aveva in testa: Kevin e Clarke, Clarke e Kevin. Prendevano l’uno il posto dell’altra e viceversa.
Per proteggere se stessa aveva sempre tenuto tutti alla larga dalla sua vita, aveva amicizie bellissime con persone che però la conoscevano solo in superficie, ma loro due no. Loro avevano visto la Lexa quella vera, quella genuina, quella che sapeva amare con tutte le sue forze e che avrebbe dato la sua stessa vita per le persone che amava.
Era tardi adesso. Aveva chiuso anche l’ultima porta.
Le tornò alla mente una tema che Kevin aveva fatto a scuola e in cui aveva preso un voto bellissimo. Doveva parlare di una persona che l’aveva ispirato e di come l’avesse ispirato e lui scrisse quel tema su di lei. Ricordava una frase in particolare che l’aveva colpita “Da grande spero di essere almeno un po’ come mia sorella. Di avere quella forza che lei ha di andare avanti per la sua strada senza dimenticare mai la sua essenza più vera e di saper amare incondizionatamente”.
Questo era ciò che suo fratello aveva sempre visto in lei e si era riconosciuta in quelle parole.
Ma adesso cosa era rimasto di quella Lexa? C’era ancora qualcosa sepolto da qualche parte in mezzo a tutto quel caos che le regnava dentro?
Stava tradendo Kevin e la sua memoria vivendo così?
Si stava ponendo quelle domande quando finalmente il sonno arrivò, mentre fuori il cielo cominciava a rischiararsi per l’inizio di un nuovo giorno.
 
Si svegliò dopo appena due ore di sonno, la luce del sole ormai alto filtrava dalle tende colpendola dritta in viso. Sentiva la bocca arida, le labbra secche. Il sudore le aveva appiccicato alcune ciocche di capelli alla fronte. Si passò una mano sul volto, aveva avuto un incubo quasi sicuramente perché sentiva il cuore batterle forte nel petto.
Aveva anche sognato Kevin che le diceva di essere deluso da ciò che stava diventando. Sapeva benissimo che era solo la sua parte razionale che cercava di reagire, ma era comunque scossa e turbata.
Si alzò dal letto e s’infilò sotto la doccia per cercare di calmarsi un po’, sarebbe tornata in ufficio quella mattina. Ieri era riuscita a tenere la mente occupata per qualche ora e adesso ne aveva ancora bisogno.
Scelse gli abiti senza troppa cura, l’importante era che la rendessero presentabile. Si truccò leggermente guardandosi fugacemente allo specchio per non indugiare troppo sul suo riflesso.
In strada fermò un taxi e si fece portare allo studio. Dal finestrino osservava la città e le persone che l’abitavano. Anche fuori sentiva le pareti di quella prigione che si stava costruendo farsi sempre più strette attorno a lei.
In una ventina di minuti fu in ufficio, salutò alcuni dei colleghi che incontrò nell’atrio e poi s’infilò nella sua stanza. Non indugiò su niente, mettendosi subito a lavoro, aveva bisogno di sentire il cervello lavorare, la vena creativa fluirle fuori come un’onda.
Lavorò per quasi due ore piene, fino a che i suoi occhi non le chiesero un attimo di tregua. Posò la matita accanto al progetto e stiracchiò un po’ le dita della mano destra.
Uscì dal suo ufficio e si avvicinò alla caffetteria per riempire due tazze di caffè, una per se, l’altra per Octavia. Le doveva almeno un caffè per il modo in cui l’aveva trattata il giorno precedente.
“Ciao. Ti disturbo?” domandò entrando con cautela nell’ufficio dove la sua collega era intenta a redigere alcuni documenti.
L’altra sembrò sorpresa da quella visita ma annuì col capo “Nessun disturbo. Mi serve proprio una pausa” rispose mentre salvava il file su cui stava lavorando.
“Una tazza di caffè della pace” disse Lexa accennando un sorriso.
Octavia sorrise a sua volta per rassicurarla “Pace per cosa? Mica abbiamo litigato noi due. O mi sono persa qualche passaggio?”
“Beh, non sono stata una gran bella persona ultimamente. Mi dispiace”
“Lexa, non devi scusarti con me e con nessun altro. È comprensibile che tu ti senta così, ma non devi lasciarti andare. Siamo tutti preoccupati per te”
“Lo so e mi sento una… una stronza! È che non so da dove cominciare”
“Non è il dove, ma con chi ricominciare”
 Lexa sospirò “Ti riferisci a Clarke?”
Octavia annuì “Mi ha detto che è stata da te ieri sera e di come l’hai trattata”
“Non sono capace di darle ciò di cui ha bisogno”
“Questo lo dici tu ora, ma non è diverso da quello che le hai dato prima. Sei ancora capace di amarla come hai sempre fatto” le disse sorridendo e aggiunse “Clarke è ancora li accanto a te, permettile di entrare di nuovo nella tua vita”.
“Come faccio dopo ieri sera?” domandò Lexa, quasi con l’aria di una bambina che non sa come uscire dal guaio in cui si è infilata.
“Va da lei, il resto verrà da se” le disse Octavia guardandola senza smettere di sorridere “Su, cosa aspetti?”
“Ma ora?” domandò ancora Lexa senza capire.
“No, aspetta ancora dell’altro. Va da lei, immediatamente” ripetè l’altra finendo poi il suo caffè.
Lexa annuì pensierosa e lasciò la stanza. Andare da Clarke la spaventava, ma forse Octavia aveva ragione. Doveva almeno provare, alla fine non aveva più nulla da perdere.
 
La casa di Clarke era una villetta unifamiliare subito fuori dal centro della città. Lexa si fece lasciare dal taxi all’incrocio precedente, giusto per avere il tempo di raccogliere il coraggio e le parole da dirle. Camminava lentamente e ad ogni passo aveva la tentazione di voltarsi e andarsene, ma poi ne sarebbe valsa la pena di continuare a vivere così?
Da una finestra aperta sentiva provenire della musica, si avvicinò alla porta e, dopo un attimo di esitazione, suonò il campanello.
Quando la porta si aprì Clarke era visibilmente sorpresa di trovarsela davanti “Eih, ciao” le disse.
“Ciao. Ti disturbo?”
“No, no, non disturbi. Entra dai” e le lasciò lo spazio per entrare.
Subito fu investita dal profumo di vaniglia che aleggiava sempre in casa, Clarke adorava quell’aroma e per questo lei l’aveva sempre presa in giro. Entrò in salotto e posò la sua borsa sul divano.
Ci fu qualche attimo di silenzio imbarazzato in cui nessuna delle due sapeva che cosa dire, alla fine fu Lexa a parlare per prima “Sono venuta a chiederti scusa. Per ieri sera. E per tutte le altre volte” disse senza mai alzare lo sguardo. Si sentiva come una ladra che va a confessare un furto al proprietario e non ha il coraggio di guardarlo in faccia per paura della sua reazione.
Clarke sospirò “Non devi chiedermi scusa di niente Lexa”
“Ti ho tratta da schifo”
“Si, questo è vero, ma non te ne faccio una colpa”
“Non devi essere accondiscendente con me. E nemmeno compassionevole” disse la mora portandosi indietro i capelli.
“Non sono accondiscendete, né tanto meno compassionevole. Stai passando un periodo difficile ed è normale che tu reagisca così. Però sono arrabbiata, perché non vorrei che mi escludessi in questo modo” questa volta fu Clarke ad abbassare lo sguardo.
Lexa fece un sospiro profondo e cominciò a camminare avanti e indietro nervosamente.
“è tutto un casino. Io… non so cosa fare”
“Devi smettere di darti la colpa della morte di Kevin. Non sei la responsabile di quello che è successo”
“Si invece, si, è colpa mia. È solo colpa mia” ribattè Lexa alzando il tono della voce con rabbia mista a frustrazione.
“Perché ne sei convinta?”
“Se io non avessi ritardato a lavoro sarei andata a prenderlo in orario agli allenamenti”
“E cosa sarebbe cambiato?”
“Non lo so! Forse non saremmo stati li in quel momento! Io… non sono riuscita a tirarlo fuori in tempo dalla macchina” adesso camminava più velocemente avanti e indietro.
“Non potevi fare nulla Lexa. Hai sentito i soccorritori? Non saresti riuscita a tirarlo fuori da sola”
“Dovevo provarci ancora”
A quel punto sulle guance di Clarke cominciarono a comparire le prime lacrime “Saresti morta anche tu se non fossi uscita dall’auto”
“Sarebbe stato meglio!!” urlò a quel puntò Lexa con tutto il fiato che aveva in corpo.
Venne il silenzio, per alcuni momenti nessuna delle due proferì parola, era troppo il peso che Lexa aveva appena scaricato. Anche lei adesso piangeva.
Clarke si asciugò le lacrime con la mano “Quindi… noi due, io e te, valiamo così poco che non ti sarebbe importato di lasciarmi sola?”
Per Lexa fu come ricevere uno schiaffo in pieno volto, non aveva mai pensato a quel lato della faccenda, non aveva mai pensato realmente a Clarke e alla loro storia. Aveva semplicemente chiuso la porta e aveva tenuto dentro il dolore.
Si sedette sul divano con il volto fra le mani e pianse. Pianse finalmente tutte quelle lacrime che erano rimaste li senza trovare una via d’uscita, ma ora le lasciò andare.
“Scusami! Perdonami!” ripeteva fra i singhiozzi.
Clarke si sedette accanto a lei, le cinse le spalle e prese a cullarla come se fosse una bambina. Sapeva che le parole di Lexa erano state dettate dalla rabbia e dal dolore, ora doveva lasciare che tutto venisse fuori.
 
Passarono minuti in un silenzio rotto soltanto dal pianto di Lexa, finalmente quel macigno che da giorni le premeva sul cuore si stava dissolvendo. Per tutto il tempo Clarke non smise mai di tenerla stretta a se.
Piano piano quel velo scuro che si era depositato sul suo cuore si sollevò e Lexa capì. Capì di aver allontanato l’unica persona che poteva darle amore incondizionato, l’unica persona che avrebbe fatto di tutto pur di tirarla fuori da quel limbo in cui era caduta.
Alzò lo sguardo incontrando quello di Clarke, i suoi occhi erano ancora più azzurri a causa del pianto.
Senza dire niente avvicinò le labbra alle sue per poi baciarla. Clarke rispose a quel bacio chiudendo gli occhi ed assaporandone ogni istante.
Le loro mani si cercavano, avide e bisognose di contatto.
Quel bacio divenne sempre più profondo ed intenso, denso di amore, rabbia, paura e dolore.
In pochi istanti parte dei vestiti era finita sul pavimento, il resto avrebbe fatto la stessa fine di li a poco.
Si muovevano su un terreno conosciuto, ma che in quel momento sembrava completamente nuovo ed inesplorato.
I loro movimenti erano spontanei, dolci e violenti al tempo stesso. Volevano saziarsi l’una dell’altra.
Erano come naufraghi appena approdati su un’isola deserta, erano confuse e spaventate. Un vortice di emozioni si agitava dentro ognuna di loro.
Alla fine si lasciarono andare, esauste, una accanto all’altra. Spossate e sconvolte da quel turbinio di emozioni.
Lexa affondò il volto nell’incavo del collo di Clarke e la strinse forte a se “Mi ero persa” disse con un filo di voce.
“Ma ora sei tornata a casa” rispose l’atra sempre a voce bassa, come se parlare troppo forte avrebbe rovinato tutto.
“Non è vero che tu e la nostra storia non contate nulla per me. In realtà è solo per te che non sono andata a fondo davvero”
Clarke la costrinse a cambiare posizione e le prese il volto fra le mani “Lo so, l’ho sempre saputo. Lasciamoci questa storia alle spalle e ricominciamo da capo. Kevin vorrebbe vederci felici”
Lexa annuì e si fece più vicina per baciarla di nuovo.
Erano state lontane per troppo tempo, lei aveva perso la rotta, ma adesso aveva ritrovato quel porto sicuro in cui sapeva di poter trovare la pace di cui aveva bisogno per andare avanti.
Aveva perso qualcuno di molto importante, ma aveva ritrovato l’altra metà del suo cuore.
 
When love and death embrace
I love you
And you're crushing my heart
I need you
Please take me into your arms”

HIM – When Love and Death Embrace
  
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