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Autore: atychiphobia    30/12/2016    1 recensioni
«E’ strano, sai? Vederti completamente, sinceramente ferito da qualcosa. Insomma, sono o non sono io quello che sta male per tutto? Tu sei quello sempre estraneo a tutto, quello che viene sfiorato da qualsiasi cosa e veramente toccato da nulla, non è così?»
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Di quando ti piace qualcuno e niente va secondo i piani, ma alla fine va bene pure così. Ah, e di quando il tuo migliore amico è la tua unica vera certezza.
[20k]
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Prima di potervi lasciare alla storia ho bisogno di fare qualche precisaione: se siete qui per leggere la one shot dell'anno, con un plot originale e un lessico che nemmeno quelli dell'Accademia della Crusca, allora questa non è la storia che fa per voi. E' un racconto scritto dal punto di vista del protagonista, quasi come se quest'ultimo stesse raccontando i vari avvenimenti ad un suo amico o conoscente - per questo motivo, il lessico è abbastanza basilare e ci sono nei discorsi evidenti influenze dialettali. Troverete qua e là anche errori fatti di proposito(e molto probabilmente altri che invece ho fatto perché sono ignorante dentro, mi dispiace).

A chi è ancora deciso a immergersi nella storia di questi quattro adolescenti scemi, buona lettura. ♥


 

«Che l’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente, di non riuscire più a sentire niente.»

«L’Officina è chiusa» fece una voce conosciuta da dietro la porta. Sospirai, per poi «Miche’, sono io, aprimi» dire. La mia voce non sembrava far trasparire alcuna emozione, come succedeva sempre, d’altronde. Andava tutto bene.
«Nico?» fece il ragazzo che mi si parò davanti, la porta socchiusa mantenuta aperta con una mano. «Yup, chi t’aspettavi?». Lui mi guardò per qualche secondo, come se avesse intuito che qualcosa non andava, ma dopo una scrollata di spalle spalancò la porta e mi fece entrare senza aggiungere altro. Ero lì, ero a casa finalmente. Quel posto era un simbolo, simboleggiava sicurezza, lì niente avrebbe potuto farmi male. Lì niente avrebbe potuto ferirmi.
«Vaffanculo» borbottai, realmente contro nessuno, forse contro me stesso. Parlavo come se qualcosa mi avesse davvero ferito, ma non era così, non era vero? Non era successo niente.
«Oh, ma che c’hai?» la voce di Vincenzo mi richiamò alla realtà. Alzai gli occhi ad incontrare i suoi che mi scrutavano con un misto di curiosità e preoccupazione.
«Vincenzo preoccupato, Miche’ scriviti ‘sta data.»
«È inutile che fai il coglione Nico. Ti ripeto, che c’hai?»
«Niente, te l’ho già detto.»
Vincenzo, davanti a me, sospirò. Lanciò un’ultima occhiata allo zaino che stava preparando a pochi passi da noi, per poi afferrarmi per il polso e trascinarmi verso una delle panche attaccate ai muri. «Che hai?» mi fece una volta avermi fatto sedere ed essersi buttato al mio fianco. Sospirai. Cosa era successo? Che avevo?
Vidi la sua espressione incupirsi qualche secondo dopo, e prima che io potessi anche solo aprire bocca per dirgli che no, Vinci, non ho proprio nulla sperando lui comprendesse e capisse che non avevo affatto intenzione di parlare, Vincenzo prese delicatamente il mio mento tra le sue dita per spostarmelo leggermente di lato. I suoi occhi erano sul mio collo. Non riuscii a capire cosa stesse fissando finché non mi ricordai ciò che era successo qualche ora prima. «Cazzo» mormorai, nello stesso istante in cui «Ma chi è stato?» esclamava lui, la mano ancora legata intorno al mio polso di colpo ebbe una presa più ferrea. Cazzo.
«È per questo che stai così, non è vero?» fece lui, mentre io cercavo una scusa valida a tutto quello. Non sapevo nemmeno il motivo per cui cercarla, ma mi sembrava l’unica cosa giusta da fare. Una scusa, una scusa, cerca una scusa, dai Nico. «Chi è stato?» chiese poi, gli occhi fissi nei miei. Sapevo di non potergli mentire se mi guardava fisso negli occhi in quel modo.
«Non sai chi è» borbottai soltanto, la mia voce un sussurro.
«E allora?»
«Ti ho detto che non lo conosci, Vi’.»
«Ciò non mi tratterrebbe in alcun modo dall’andare da questa persona, che sia un lui o una lei, per prenderla a calci in culo se è colpa sua il fatto che stai così. È colpa sua, vero?»
«Eh? Perché parli anche al maschile?»
«Nico, ma mi credi per caso scemo?»
«No» sussurrai, la mente offuscata. Non sapevo cosa rispondergli, in qualsiasi altra occasione probabilmente avrei detto qualcosa di sarcastico. Ovviamente lo credevo scemo, era un coglione. Eppure.
«Allora? È un lui?»
«Sì.»
«E che ha fatto?»
«Niente.»
«Nico’.»
«Solo un bacio, e… qualche toccatina? Un bacio, te lo giuro, solo quello.»
«Vedi che non mi scandalizzo mica eh.»
Deglutii. «Lo so.» Non era vero.
«E mi vuoi dire perché stai così allora?»
«Eh,» mormorai fissando il muro davanti a me «è lunga la storia.»
«E quindi? Che m’interessa che è lunga?»
«Non c’hai tempo Vinci, devi andare a chitarra.»
«Ma che ti frega? Stiamo parlando di cose serie qua, chitarra può aspettare.»
«Stai dicendo che la mia vita sessuale è più importante della tua chitarra? Da quando?»
«Da quando ne hai una, finalmente» rispose lui, un piccolo sorrisetto sul viso a tradire il suo tono sarcastico.
«Divertente» mormorai allora, una gamba poggiata sulle sue e il suo braccio intorno alla mia schiena, quasi a dirmi non preoccuparti, so come ti senti. In verità non sapeva come mi sentivo, cosa stessi provando, quello che stava succedendo. Alla fine non lo sapevo nemmeno io. Feci finta di nulla, cercai di sentirmi sicuro e consolato tra quelle braccia che m’avevano tenuto stretto un sacco di volte, più di quante ne potessi ricordare.
«Come lo sapevi?» chiesi dopo un po’ di silenzio, Michele dimenticato nell’altra stanza e la mia bocca a pochi centimetri dal collo del ragazzo su cui ormai ero completamente seduto. Speravo non gli importasse, che non lo trovasse strano. Alla fine non era la prima volta che succedeva, no? Perché mai avrebbe dovuto trovare strano un gesto così semplice?
La sua voce interruppe il filo dei miei pensieri. «Ma che domande sono?» fece lui, e riuscii a captare vero smarrimento nel suo tono, come se se lo stesse chiedendo davvero. «Vincenzo» gli risposi io, senza in realtà sapere come continuare la frase. E che potevo dirgli?
«Nico, quanto tempo è che ci conosciamo?» sembrò cambiare discorso, nemmeno gli avessi chiesto che giorno era. Non m’interessava da quanto tempo era che lo conoscevo, io volevo capire come avesse fatto a capire che forse mi piacevano anche i ragazzi.
«Nico’, mi rispondi o no?» La mia mano si chiuse attorno al suo bicipite senza che io ci facessi realmente caso. «Ci conosciamo da cinque anni» gli dissi, il mio tono abbastanza annoiato. Come sempre.
«Nevvero, non sai manco fare due calcoli. Ci conosciamo da sei anni e mezzo.»
«Oh ma che stai a dire?»
«Cinque anni sono il totale degli anni in cui abbiamo parlato e siamo stati amici, ma io conosco a tuo fratello da sei anni e mezzo.»
«E che c’entra mo ‘sto fatto?»
«C’entra che so’ quasi sette anni che t’osservo e so come sei, so chi sei, Nico. Secondo te in sette anni non c’arrivo a capire che probabilmente ti piacciono anche i ragazzi, eh?»
Rimasi in silenzio per qualche secondo. «Non lo so.»
«Che?»
«Non lo so se mi piacciono anche i ragazzi. Non lo so se mi piacciono i ragazzi. Ma che vuoi che ne sappia io, Vince’, non lo so. Figurati se mi metto a pensare a ‘sti fatti. Che cazzo ne so, non so proprio nulla, ma vaffanculo.»
«Nico’.» Le sue dita si strinsero attorno al mio fianco in un silenzioso modo per dirmi di calmarmi. Feci finta di nulla. «Vince’, ma vaffanculo pure tu.»
«Se hai finito» borbottò allora, la sua mano sinistra a spostarmi i capelli che mi erano ricaduti sulla fronte. «Hai finito?» chiese poi, giusto per esserne sicuro. Grazie al cazzo che avevo finito: non sapevo più che dire. Da quando ero arrivato in Officina non sapevo che dire in realtà, oltre ad un semplice vaffanculo.
«No, Vinci, andatevene tutti affanculo. Perché sono l’ultimo a capire le cose? Perché sono quello che non capisce mai un cazzo di nessuno e invece voi capite tutto e sempre?»
«Ma di che stai parlando?»
«Di tutto, Vince’, di tutto e di niente. Sono sette anni che mi conosci e non hai ancora capito che non parlo mai di niente io, eh? Non so di che sto parlando, non so il motivo per cui sto parlando. Cazzo, c’è qualcosa che so oppure no?»
«Nico’, smettila, la stai facendo troppo grossa. Ho capito che non vuoi dirmi che è successo, ma calmati ‘n attimo.» Lo fissai e lui mi fissò di rimando. «Per piacere, oh» aggiunse quando notò il modo in cui la mia mascella si era contratta. Mi morsi il labbro, sentendomi di colpo scomodo sulle sue gambe. Dovevo alzarmi.
«Vince’ non c’è bisogno, è da prima che ti sto a dire che va tutto bene. Davvero, ho… ho solo bisogno di stare solo, sì» feci, facendo leva sulla mano che stava sulla sua coscia e alzandomi piano. Sentii Vincenzo sospirare da dove era rimasto seduto.
«Nico» mi fece solo, qualche minuto più tardi, quando aveva ormai lo zaino pronto sulle spalle, la voce tremendamente più dolce. Andava tutto bene.
«Eh?» risposi portandomi una mano tra i capelli ricci, mentre con l’altra prendevo una chitarra che qualcuno aveva lasciato in un angolo, probabilmente Michele. Alzai gli occhi dallo strumento che mi ero messo in grembo quando non sentii alcuna risposta da Vincenzo. Stava fissando il muro, quasi in trance. «Vince’, che vuoi?» chiesi incrociando le gambe per terra, la schiena contro il muro di pietra.
«Volevo dirti che sei un coglione, Nico’, ma ti voglio bene lo stesso». Sorrise nel guardare le mie labbra separarsi in quello che non era altro che shock. «Ricordatelo» fece poi semplicemente, prima di chiudersi il portone alle spalle e lasciarmi da solo in quella stanza.

«Maledetto il giorno in cui mi son fidato di questo paese lurido, sperduto, imbarazzato, freddo, grigio, solitario, disastrato, dove ho creduto di esserti vicino ma vicini eran solo i guai.»

«Si può?» Alzai le sopracciglia scettico appena quella nuova voce mi arrivò alle orecchie. «Chi è?» chiesi semplicemente, la testa appoggiata al muro e nessuna voglia di alzarmi per andare ad aprire. Michele se n’era andato qualche decina di minuti prima, aveva detto di doversi vedere con una tipa ed era uscito. Sospirai quando nessuno mi rispose dall’altra parte della porta, afferrai la chitarra che avevo sulle gambe e la poggiai al muro prima di alzarmi.
«Peppe? Che ci fai tu qua?»
«Oh, Nico’» fece il ragazzo che avevo davanti a mo’ di saluto. Aggrottai le sopracciglia. «Dimmi.»
«Posso entrare?»
Aprii la porta senza dire nulla, aspettando che fosse lui a parlare. Lo fece subito dopo essere entrato ed essersi seduto su una panca.
«Che è successo?» chiese. Nessun soggetto, nessun contesto. Restai in silenzio, per poi «Eh?» fare, quando lui non sembrò voler aggiungere altro.
«Nicola, che è successo?» domandò un’altra volta. E che era successo? Quando?
«Ma di che stai a parlare?»
«L’ho visto, prima. Stava tornando a casa. Non mi aveva nemmeno notato. Sono andato da lui, l’ho saluto, ma si comportava in maniera strana. Gli ho chiesto che aveva e mi ha detto “Niente, Pe’, statti tranquillo”.» Serrai la mascella quando continuò a parlare, dopo essersi fermato per qualche secondo. «Non mi dice mai di stare tranquillo. Anzi, in realtà me lo dice sempre, ma mai così. Era serio. Me lo ha detto come se ci fosse realmente qualcosa di cui avrei dovuto preoccuparmi. Di solito è lui che sta ingigantendo un problema, e non c’è niente di cui realmente preoccuparsi.» Rimasi in silenzio, pensando che avrebbe continuato il discorso. Non lo fece.
«Ha fatto il mio nome?»
«Nope.»
«E che c’entro io? Perché stai qua allora?»
Peppe tossì. Lo fissai. Lo fissai finché non smise di tossire e non tornò a guardarmi con quell’aria quasi incredula che aveva da quando era entrato in Officina. «Secondo te non l’ho visto come ti guarda?»
«Eh?»
«Nico, oh, ma seriamente stai a fare?»
«Ma che stai a dire, scusa? Ma come mi guarda chi, Tano? Ma che cazzo stai dicendo, com’è che mi guarda, eh? Dio mio, e fateveli meno film mentali ogni tanto.»
Peppe sorrise, ovviamente. Me lo sarei dovuto aspettare da lui. Sorrisi di rimando, cosciente del fatto che avrebbe notato ogni briciolo di sarcasmo nel mio sorriso.
«Non te ne sei accorto, non è vero?»
Mi voltai senza rispondergli, incamminandomi verso la chitarra che prima avevo lasciato accanto ad una delle panche. Mi sedetti silenziosamente, senza dire nulla. Niente disse anche Peppe, che si limitò ad osservarmi strimpellare qualche nota.
«Quello che dalla musica la gente vuole è sentirsi dire che andrà sempre tutto bene e che l’amore vince ancora e che c’è tutto da scoprire, che la vita va vissuta nelle gioie e nel dolore. È tutto quanto vero, hanno solo che ragione: siamo noi quelli sbagliati che hanno sempre da ridire, che hanno voglia di far male, che non vogliono star bene. “Ma tu, com’è che stai tu?” nessuno lo chiede più.»
«A che ti fa pensare ‘sta canzone?»
«Ma che te ne frega?»
«Dai, oh, lo sai che faccio schifo a fare da psicologo.»
«E quindi? Vorresti che io ti facilitassi il lavoro?»
«Magari, sai com’è.»
«Be’, direi di no. Non è il tuo giorno fortunato, direi che puoi anche andartene.»
Peppe sospirò, sembrava non aver fatto altro da quando era entrato. «Da quant’è che ti piace?» fece poi, il tono a sembrare vagamente curioso. Lo fissai come se non l’avessi mai visto prima.
«Gaetano?»
«Sì, Nico, di lui stiamo parlando.»
«E che vuoi che ti risponda? Che vuoi sentirti dire?»
Mi fissò per qualche secondo in silenzio per poi scoppiare a ridere, come se io avessi fatto una qualche battuta divertente. In realtà facevo schifo a fare battute divertenti. «Avevo ragione, ovviamente avevo ragione.»
«Oh, Pe’, ma che ti sei bevuto oggi? Ma che stai a dire?»
«Sai come mi hai sempre risposto quando t'ho chiesto se ti piaceva qualcuno? Era un continuo “ma fammi il piacere”, “meglio solo che male accompagnato”, “no grazie, io passo”. Non c'è stata una volta in cui m'hai risposto in modo diverso. Nemmeno quando t'eri fidanzato con quella tipa, com'è che si chiamava? Una cosa tipo Maria. Un giorno ti chiesi “ti piace?” e senza troppi giri di parole mi mandasti affanculo e dicesti che volevi cambiare discorso, dopo un “ma tu sei completamente rincoglionito”.»
«Penso anche oggi che tu sia completamente rincoglionito, se questo ti può consolare.»
«Oggi m'hai chiesto cosa volevo sentirmi dire, non l’hai mai fatto. Nico, oggi voglio sentirmi dire la verità.»
Lo guardai attentamente: era diventato stupido. Non c’era altra spiegazione. «Minchia, oh. Mi fai un favore? La smetti di essere così poetico e… strano, che Madonna mia mi sta a salire l’ansia.»
«Dai oh» mormorò lui, la sua espressione per niente scalfita, come se io non gli avessi detto nulla. Quasi speravo ci fosse rimasto male, così da finire lì quel discorso. Sbuffai, per poi «La verità te l’ho già detta, sei tu che non vuoi ascoltare.»
«E quale sarebbe ‘sta verità di cui parli?» Mi guardò negli occhi come se facendolo riuscisse a leggermi dentro. Sapevo che non era così, probabilmente con lui potevo osare qualche bugia in più. Non sapevo però quanto voglia avevo ancora di mentirgli e, in qualche modo, di mentire anche a me stesso.
«La verità è che non è successo nulla» provai. La voce leggermente più bassa ed insicura del solito, cosa che pensavo Peppe non avesse notato finché non sospirò, un piccolo sorriso ad incurvargli le labbra. «Se non me lo vuoi dire va bene. L’unica cosa che penso di sapere sul mestiere dello psicologo è che non si dovrebbe mai costringere il proprio paziente a parlare di qualcosa di cui questo non vuole trattare. Quindi, tranquillo, è okay.» Rimasi in silenzio per qualche minuto. Era la seconda volta in meno di un’ora che qualcuno mi chiedeva di parlare di ciò che era successo e io facevo finta di niente. Non era mio solito mentire così spudoratamente, non ammettere che qualcosa non andasse. Era una sensazione strana, una sensazione nuova, che sicuramente in quel momento non avrei augurato a nessuno di provare. Una sensazione che non ti permette di far nulla, una sensazione di stallo che fino ad allora mi era capitato di provare poche volte. Non puoi far finta di niente perché qualcosa è successo e allo stesso tempo non puoi risolvere la questione perché non vuoi ammettere a te stesso cosa è successo. E che si fa in questi casi? «Pe’, non so che fare.»
Peppe alzò lo sguardo fino ad incontrare il mio. «In che senso?»
«Non so che fare. Non riesco a parlare di quello che è successo e non riesco nemmeno ad ignorare il tutto.»
«Perché dovresti ignorare ciò che è successo?»
«Perché… non era… perché non era ciò che volevamo?»
«Cosa?»
«Perché non doveva succedere quel che è successo, ecco.»
«Be’, alla fine se “quel che non doveva succedere” è successo un motivo ci sarà pure, no?»
«No.»
«Nicola.»
«Peppe.»
«Nico e Peppe» fece una voce dalla porta. Voltai, contemporaneamente a Peppe, la testa in quella direzione: era Vincenzo.
«Oi Vince’» lo salutò il ragazzo seduto alla panca davanti a me. Vincenzo gli fece un cenno e subito dopo puntò il suo sguardo nel mio. Sospirai.
«Che ci fai già qua?» gli domandai io, una volta che aveva posato lo zaino accanto alla porta e si era avvicinato al centro della stanza.
«Ché, non mi vuoi?» disse scherzando, per poi accigliarsi e «Se volete stare da soli posso andarmene, non c’è problema» dire.
Mi alzai per andare verso di lui, che ci guardava con le mani aperte davanti al petto come in segno di scuse. Allacciai le mie mani alle sue senza nemmeno riflettere su ciò che stavo facendo, ma Vincenzo non sembrò farci molto caso. Mi strinse forte le mani a sua volta, tirandomi verso di sé fino a far scontrare il mio corpo con il suo petto.
«Hey coglione» mi fece lui allora, una mano ad accarezzarmi piano i capelli e la sua fronte poggiata alla mia spalla destra.
«Hey Vi’.»
«Tutto bene?» mormorò dopo poco, la sua bocca ora vicina al mio orecchio per via dell’abbraccio in cui mi aveva racchiuso. Poggiai le mie mani sui suoi fianchi. Andava tutto bene.
«Sì.»
«Ble, mi sto ingelosendo io qua, eh.» La voce di Peppe sembrò riportare entrambi alla realtà. Vincenzo si staccò da me lentamente, come se gli pesasse farlo, e non trascurai il modo in cui mi costrinse dolcemente a sedermi sulle sue gambe una volta vicini ad una delle lunghe panche attaccate al muro.
Peppe, davanti a noi, ci osservò con un’espressione stranita. «Mi sono mica perso qualcosa qui?»
«Eh?» borbottai nello stesso momento in cui «Nah» faceva Vincenzo, sotto di me.
«Me’, se lo dici tu.» Passò qualche secondo di silenzio prima che qualcuno prendesse parola un’altra volta. «Di che stavate parlando prima, quando sono arrivato?»
«Di nulla.»
«Di Tano.» Voltai di scatto gli occhi verso Peppe. Non lo aveva appena detto. Non lo aveva appena detto. Non lo aveva appena detto. Inconsciamente sperai che più ripetevo quella frase, più ci sarebbe stata possibilità che si realizzasse.
«Che ha fatto stavolta Gaetano?» I miei occhi corsero su quelli di Peppe in cerca d’aiuto, quasi a chiedergli di pensare al mio posto ad una qualsiasi scusa per ovviare in quella situazione in cui ci aveva cacciati. Lo sguardo di Peppe era perso quanto il mio era, invece, preoccupato. Peppe sembrò cercare di dire qualcosa, ma lo sguardo quasi scocciato di Vincenzo lo zittì. Vincenzo ci osservò con aria interrogativa per qualche altro secondo, prima di arrivare evidentemente da solo a delle conclusioni.
Le sue braccia si strinsero quasi inconsapevolmente attorno al mio bacino, in una morsa che non sapevo bene come interpretare: era arrabbiato con me o stava solo cercando inconsciamente di proteggermi?
«Tano» fece solo. Avevo sperato che avesse avuto altro da aggiungere: quando Vincenzo non parlava era peggio di quando ti diceva tutto in faccia. E invece, «Tano» ripeté un’altra volta, il tono man mano più cupo. Peppe mi lanciò uno sguardo, ma non ebbe il tempo di dire nulla perché «È una presa per il culo, non è vero?» riprese subito a parlare Vincenzo.
«Vinci…» provai, senza trovare altro da aggiungere perché non sapevo cosa dirgli.
«Cosa c’è?» rispose lui, l’aria nella stanza di colpo più rigida. «È lui quello che t’ha fatto il succhiotto, non è così? Perché prima m’hai detto una cazzata?» chiese ancora, mettendo di nuovo fine al silenzio che regnava sovrano. Feci spallucce.
«Nico’, t’ho chiesto perché prima m’hai detto che non conoscevo il tipo che t’ha fatto quel succhiotto.»
«Non sapevo…»
Mi fece cambiare posizione sulle sue gambe fino a che non fui seduto difronte a lui, i suoi occhi nei miei. «Cosa non sapevi? Che conosco Gaetano?» Il suo tono sembrò sempre più innervosito. Ovviamente sapevo che lo conosceva, avevamo parlato di lui svariate volte.
«No, io. Non sapevo…»
Aspettò qualche minuto per poi «Oh, parla» urlare. Lo fissai a corto di fiato, spaventato. La sua espressione sembrò crollare quando si rese conto di aver appena urlato, i denti andarono a mordergli il labbro inferiore e io non riuscii a non abbassare lo sguardo sulle mani che avevo in grembo. Solo in quel momento mi resi conto di quanto le mie unghie stessero affondando nella pelle a causa di tutta la preoccupazione che non mi stava permettendo di pensare lucidamente.
«Scusami» borbottò solo, il tono poco più alto di un sussurro. Portò le mani verso le mie e con dolcezza le incastrò tra di loro. Diede una piccola stretta che non potei far altro che ricambiare. «Scusami» ripeté poi, con voce più chiara.
«Non ti preoccupare» feci allora, l’espressione più tranquilla e l’ombra di un sorriso sulle mie labbra. Alzò gli occhi verso i miei.
«Non volevo arrabbiarmi, non… sono arrabbiato. È che non mi aspettavo fosse lui, tutto qui.»
«Quindi non sei arrabbiato perché è lui?»
«E perché dovrei?»
«Be’, per tutto quello che ti ha fatto, no? E perché pensi che sia un coglione? E che sia troppo poco per me?»
«Ovviamente lo penso. È la verità. Nico, penso che davvero poche persone siano alla tua altezza. Sei tu, comunque, a dover scegliere per te. Sei tu a decidere su ciò che ti riguarda, e io non posso intervenire. Non sarei un buon amico se ti dicessi che non puoi uscire con lui, non avrebbe senso. Non posso e non voglio farci nulla: la vita è tua e le scelte anche. Però, se mai dovesse fare il coglione, sai dove trovarmi, sarò di sicuro disposto a dargli un cazzotto da parte tua.»
Gli sorrisi. Era forse il primo sorriso sincero che facevo da quando ero tornato in Officina quel pomeriggio, la prima volta in cui riuscii finalmente a sentirmi un tantino più rilassato, più tranquillo, più a casa.
«Me la sono presa così tanto perché pensare a quanto tempo avresti passato cercando di non nominare l’accaduto soltanto perché è successo con lui m’ha fatto incazzare.» Si fermò per qualche momento, lo sguardo fisso sulle nostre mani ancora intrecciate. «Oh, prima t’ho chiesto da quanto siamo amici, no? Sono tanti anni. In tutti ‘sti anni non ci siamo mai detti stronzate, quindi non accetto che cominciamo ora, va bene? Poi, figurati, per colpa di una cazzata simile? Non esiste proprio, non ci pensare nemmeno. Di sicuro quest’amicizia non finirà per qualche coglione a caso, m’hai capito?» Lo fissai, un’altra volta a corto di fiato e senza sapere come rispondergli. Con Vincenzo era così: o non ti diceva nulla o ti diceva tutto insieme, e m’aveva appena detto tutto ciò che pensava senza nemmeno mezzo filtro. Era per quello che eravamo amici.
«Ti ricordi cosa m’hai detto prima, quando stavi per uscire di qua?» gli chiesi, e solo dopo pochi secondi lui annuì, la sua espressione interrogativa. «Be’, pure io ti voglio un saccaccio bene, Vince’.» Le sue mani andarono ad avvolgere completamente il mio corpo e non opposi alcuna resistenza quando mi tirò verso di sé, i nostri petti a toccarsi e il mio volto al sicuro nell’incavo tra il suo viso e la sua spalla.
«Pronto?» fece dopo un po’ di tempo la voce di Peppe dietro di me. Mi voltai sorpreso, la sua presenza dimenticata. Non ebbi comunque modo di fare nulla perché Peppe continuò a parlare con chi era dall'altra parte del telefono. «Sì, ah. No. In Officina. È okay, non preoccuparti. Sì, va bene. A tra poco.»
«Chi era?» fece Vincenzo. Avevo una brutta sensazione nello stomaco, come se già sapessi la risposta.
«Gaetano.»
«Cosa?» Non seppi dire se la mia era sembrata più un’esclamazione o una vera e propria domanda, ma aveva lo stesso spaventato il ragazzo sotto di me. «Me ne devo andare subito» continuai, ma prima che avessi la possibilità di alzarmi Vincenzo aveva già avvolto le sue braccia intorno al mio corpo per tenermi ancorato a lui.
«Non hai capito proprio un cazzo Nico. Tu non vai da nessuna parte, rimani qua perché questa è casa tua. Al massimo è lui che deve andarsene.»
Lo fissai in silenzio. Sapevo che avesse ragione, sapevo che la scelta giusta sarebbe stata quella di rimanere lì e affrontare la situazione, ma sapevo anche che non ce l’avrei mai fatta a rivederlo. Non quel giorno almeno. «Me ne devo andare» dissi di nuovo piccato. Vincenzo puntò i suoi occhi nei miei velocemente, probabilmente a causa del tono che avevo appena usato. Pensavo opponesse ancora resistenza, mi dicesse di rimanere, mi pregasse di farlo, invece «Dove vuoi andare? T’accompagno?» fece con assurda semplicità. Peppe, dietro di noi, si avvicinò alla panca su cui eravamo seduti e con finta tranquillità ci disse di non preoccuparci, di rimanere noi dentro, che lui e Tano avrebbero parlato fuori.
«Effettivamente sarebbe meglio così.» Schietto, senza mezzi termini. Fissai Vincenzo che aveva appena parlato, l’ombra di un sorriso affezionato ma tirato sulle mie labbra.
«Non posso stare qua, ho bisogno di uscire» ammisi.
«Andiamo, allora.» Vincenzo si fermò, mordendosi il labbro. «Vuoi andare da solo? È okay se vuoi farti una passeggiata solamente tu eh, per, che ne so, schiarirti le idee.»
«Alzati, coglione, e usciamo un poco da qua. Ma per chi m’hai preso, pensi davvero che rifiuterei ad un’uscita con te?»

«Ho fatto tutto quello che dovevo fare ed ho sbagliato per il gusto di sbagliare, son stato sveglio quando era meglio dormire ed ho dormito solo per ricominciare.»

«Smettila di ignorarmi.» Mi voltai verso la mia destra, Vincenzo a camminare di fianco a me. «Eh?»
«T’ho detto di smetterla di ignorarmi, è da quando siamo usciti dall’Officina che lo stai facendo. A che stai pensando?»
«A niente, stavo canticchiando una canzone e basta.»
Vincenzo si fermò, la schiena appoggiata ad un’auto bianca e il suo sguardo puntato su di me. «Non t’ho mai visto così, sai?»
«Così come?»
«Così perso dentro ai tuoi pensieri, così fuori dal mondo. Non mi fraintendere, sei sempre stato un po’ così, a cazzo. Ma oggi è diverso. T’incanti e pensi, si vede che lo fai. Però poi se qualcuno ti chiede che c’hai gli rispondi che va tutto bene, che non è successo niente. E invece internamente stai ancora rimuginando su qualcosa, ma guai a dire che cosa. Di solito sei un libro aperto, per quanto tutti possano dire il contrario. Nico, ma ti sei visto? Le tue espressioni parlano sempre, sia in situazioni negative che positive. Non ho mai capito quelli che ti trovano un enigma, forse perché ti conosco da così tanto tempo da saper leggere qualsiasi tuo comportamento. Più o meno ho sempre saputo come trattarti, non è così? O almeno ho fatto del mio meglio per capire come sei e trattarti nel modo migliore che conosco. Eppure oggi non so che fare, non so che dire, non so che inventarmi. Oggi sei diverso dal Nicola che ho sempre conosciuto, e vorrei dire che questo… nuovo Nicola è peggiore di quello a cui sono abituato, ma penso che quella sia solo la paura a parlare per me. Ti conosco da tanto tempo, Nico, eppure per la prima volta mi sembri davvero ferito da qualcosa.»
Uno schiaffo in faccia avrebbe probabilmente fatto meno male. Fissai Vincenzo come stordito, senza sapere che rispondergli, ma non ci fu bisogno di una risposta da parte mia perché lui continuò quella specie di monologo. «È strano, sai? Vederti completamente, sinceramente ferito da qualcosa. Insomma, sono o non sono io quello che sta male per tutto? Tu sei quello sempre estraneo alle cose, quello che viene sfiorato da qualsiasi cosa e veramente toccato da nulla, non è così? Eppure, cazzo, quando finalmente una cosa t’ha toccato, quando qualcosa è riuscito ad andare oltre ai muri invisibili che ti sei costruito tutt’attorno, quella stessa cosa t’ha distrutto. Completamente. E non provare a dirmi il contrario, ché lo vedo dal modo in cui i tuoi occhi sono sempre persi che c’ho ragione io. Prima avrei insistito nel rimanere in Officina se non avessi sentito puro panico nella tua voce alla sola idea di rivederlo. L’avrei fatto, se non avessi visto come tutto il tuo corpo ha reagito non appena Peppe ha detto che era lui dall’altra parte del telefono. È stato… strano. Strano perché io, quello che sta male per tutto e per niente, non avrei reagito così. Perché t’aspetti un crollo del genere da me, da uno che per ogni cazzata si rovina la giornata, e non da qualcuno come te. Da qualcuno a cui per rovinagli la giornata ti ci devi mettere d’impegno, e all’ottanta percento non ci riesci nemmeno perché ‘sto qualcuno è troppo preso a non pensare a nulla, a stare bene, a farsi i cazzi suoi. Perché ‘sto qualcuno è, esattamente come te, sfiorato da tutto e non toccato da nulla. O almeno così sembra. È strano. Non so davvero che dire, non so cosa fare. Posso solo stare qua, parlarti, dirti ciò che penso, essere il Vincenzo che hai sempre conosciuto e di cui ti fidi, ma per il resto non credo di poter far altro, anche se lo vorrei.»
Silenzio. «Vinci, guardami un po’.» Il ragazzo davanti a me alzò gli occhi che durante il monologo aveva tenuto lontani dalla mia faccia, forse per paura della mia reazione, forse per concentrarsi maggiormente su ciò che stava dicendo. Era una cosa che faceva spesso. «La vuoi sapere una cosa?»
«Eh, dimmi.»
«Qualsiasi cosa dovesse succedere tra me e te, tra me e Tano, tra me e qualcun altro, tra te e chiunque altro, no?, tu rimarrai sempre l’uomo della mia vita. Nulla potrà mai cambiare questo. Te lo giuro, Vince’.»
Mi guardò interdetto e prima che potessi anche solo sorridergli per fargli capire che, alla fine, andava tutto bene, le sue braccia furono tutt’intorno a me a stringermi in una presa brusca ma dolce, forte ma delicata.
«Andrà tutto bene, te lo prometto» mi disse qualche tempo dopo, probabilmente qualche minuto o qualche decina di minuti. Non m’interessava quanto tempo fosse passato, in realtà. M’interessava soltanto rimanere protetto tra le sue braccia.


«Proteggimi dal cielo che è troppo alto, dalla terra che è troppo terra, dalle situazioni in cui non mi trovo, in cui non mi ritrovo più. Proteggi questo tuo ragazzo.»

Aprire gli occhi la mattina era sempre stato il momento più critico della giornata per me. Pensare di dovermi alzare, di dover ricominciare ancora un giorno tutto daccapo, di dover interagire con altre persone, provare sentimenti e tutte quelle cose che per alcuni erano ovvie, normali, ma che a me pesavano più di quanto si potesse immaginare, era dannatamente stancante. Aprire gli occhi era sempre stato un problema, ma quel giorno non fu così. Appena mi accorsi di essere sveglio i miei occhi si spalancarono velocemente nel buio della stanza, senza che mi accorgessi di averlo anche solamente voluto. Senza che avessi il tempo di capire ciò che stavo facendo. Aprii con forza gli occhi, una parte di me voleva provare a me stesso che aveva ragione, che non l’avrei più trovato accanto a me. L’altra, invece, voleva rassicurarmi ed essere rassicurata a sua volta dalla vista del suo corpo steso accanto al mio. Quando aprii gli occhi lo vidi lì, infatti. Sorrideva leggermente nel sonno, la sua faccia rilassata come forse non l’avevo mai vista e la sua mano sinistra posta sotto la testa. Sembrava non avere alcun problema al mondo. Continuai a fissarlo inconsapevolmente per qualche secondo, perdendomi nell’osservare ogni lineamento del suo viso e ogni dettaglio che prima d’allora non avevo avuto mai l’occasione di notare. Lui era lì, davanti a me, dopo giorni in cui non c’eravamo nemmeno rivolti la parola. Era lì, il suo corpo coperto solo da un pesante piumone e nient’altro. Era lì, rannicchiato tra le coperte e per la prima volta lo vedevo apertamente, senza che mettesse su alcuna difesa. Era se stesso come mai mi aveva dato modo di guardarlo e probabilmente mai me l’avrebbe dato ancora, ma in quel momento non m’importava affatto, perché ciò che contava era che lui fosse lì con me. Gli accarezzai con gentilezza la guancia destra, aspettandomi quasi che aprisse gli occhi e si sottrasse al mio tocco, ma non lo fece. Non si svegliò nemmeno quando mi avvicinai di qualche centimetro al suo corpo, con la paura che la mia vicinanza lo spaventasse e lo rendesse irrequieto già di prima mattina. Rimasi lì, poco lontano da lui, una mia mano a coprire la sua, fino a che non mi riaddormentai.
Durò poco. Dopo nemmeno venti minuti, infatti, il rumore del telefono mi risvegliò. Era il suo. Lui dormiva. Non volevo alzarmi, non era nemmeno mia intenzione controllare il suo telefono, chi gli scriveva e chi no, quindi lo lasciai vibrare sul comodino per qualche altro minuto. Fu solo quando la vibrazione dei messaggi si trasformò nella musichetta di una chiamata che mi alzai con un grugnito per spegnere il telefono. Ero pronto a chiudere la chiamata senza nemmeno pensarci due volte, quando sullo schermo lessi il nome di Peppe seguito da un cuoricino rosso. Il cuoricino era il minimo che ci si potesse aspettare da uno come Tano. Staccai il cellulare, che la notte prima avevo trovato nella tasca dei suoi pantaloni con la batteria carica al cinque percento, dal caricabatterie e aprii la chiamata, portandomi il telefono all’orecchio mentre mi allontanavo dal letto, verso la porta della stanza. La socchiusi dietro di me nell’esatto momento in cui “Hey” mi faceva una voce conosciuta dall’altro lato del telefono.
«Hey, che c’è?» risposi io semplicemente. Ci furono pochi secondi di silenzio prima di un «Nico?» quasi sussurrato.
«Yup.»
«Che ci fai sveglio a quest’ora? Saranno le cinque di mattina. Perché hai il telefono di Tano?»
«Oh» esclamai. Mi ero dimenticato che non fosse il mio telefono. «Ah, be’. Dorme da me oggi.»
«Scusami?»
«Be’, sì. Quello che hai sentito.»
«Cosa? Perché sta dormendo da te, avete risolto tutto?»
«Nope.»
«E quindi perché sta da te? Che è successo?»
«Be’…»
«Se avete fatto quel tipo di cose non dirmelo, grazie.»
«Cosa?»
«Oh Nico’, lo sai cosa intendo.»
«In realtà no…»
«Eh. Sesso. Ma non voglio-»
«Sesso? Ma sei scemo?»
«No, ma sarebbe potuto succedere…»
«E secondo te sarei venuto a dirlo a te, se fosse successo?»
«Hey. Così infrangi il mio piccolo cuoricino. Sono uno dei tuoi amici più cari e il suo migliore amico, ovviamente sareste venuti a dirlo a me.»
«Parla per il tuo migliore amico e basta, grazie mille.»
Peppe ridacchiò leggermente. Io mi sedetti al tavolo della cucina, lanciando un’occhiata al telefono appeso al muro: erano le cinque e venti di mattina. Afferrai allora una scatola di cereali per versarli nel latte che avevo già messo in una ciotola. «Be’, che si dice?» Il tono di Peppe si era fatto drammaticamente più serio tutto d’un colpo. Feci finta di non capire.
«Eh? Cosa?»
«Cos’è successo stanotte, dopo che vi ho lasciati soli?»
«Non… niente. Lui era ubriaco, molto probabilmente domani mattina non ricorderà più nulla.»
«Nah, non è quel tipo di ubriaco. Si ricorda sempre tutto.»
«Okay.»
Peppe sospirò ed io continuai a mangiare delle cucchiaiate di cereali, perché ormai ero sveglio e di tornare in camera non se ne parlava proprio. Stavo appunto portandomi una cucchiaiata alla bocca quando sentii dei movimenti dietro di me. Mi girai, vidi una persona appoggiata alla porta. Era Tano ed era completamente vestito.
«Scusami,» dissi velocemente a Peppe, senza dargli alcuna spiegazione «devo andare.»
«Hey» mormorò lui soffice appena posai il telefono sul tavolo.
«Oi» feci io e, dopo qualche secondo in cui nessuno dei due si era azzardato a parlare, «Sei vestito» continuai. Lui abbassò il viso per poter guardare il suo torso vestito, quasi si fosse scordato di averlo fatto. «Sì, sono pronto.»
«Pronto per cosa? Lo sai che sono le cinque di mattina?» La domanda mi era nata spontanea e le avevo dato voce prima di potermi controllare.
«Pronto per andarmene.» Un’altra volta.
«Va bene.»
Lui sospirò. «Okay.»
Quando notò che avevo ricominciato a mangiare senza dargli nemmeno un’ultima occhiata lo sentii avvicinarsi piano, i passi piccoli e senza far tanto rumore, come se non mi volesse spaventare. «Il… il telefono» fece nella maniera più silenziosa possibile. Ed era strano, sarebbe potuto essere pure divertente in un altro momento. Divertente perché il modo di comportarsi che stava avendo non era assolutamente suo in alcuna maniera. Non gli apparteneva e sapevamo entrambi che mai gli sarebbe appartenuto. Semplicemente non era lui. Lui era quello scherzoso, quello che voleva buttarsi in acqua in pieno dicembre, quello che doveva dire la sua su tutto, quello che faceva finta di non aver paura di niente. Quello che avevo davanti era semplicemente un’altra persona, qualcuno di riservato, di distante, di timido, di innocuo. Lui non era così. Lui era tutt’altro che innocuo e l’avevo provato sulla mia pelle, a mie spese. Lui riusciva ad entrarti sottopelle, riusciva a mettere in disordine il tuo mondo con pochi gesti, poche parole. Quello non era il Tano che conoscevo, non era il Tano che avevo baciato tempo prima. Fu questo il motivo per cui non cercai di fermarlo quando mi disse che se ne sarebbe andato.
«Allora ci vediamo in giro.» Il tono era ovviamente incerto: sapeva anche lui che molto probabilmente non ci saremmo incontrati per tanto tempo e che avremmo passato i giorni successivi ad ignorarci, a far finta che niente di quello fosse mai successo. Tanto tutto quello era già successo una volta, no?, che male c’era ricominciare quello stupido e finto teatrino?
«Okay» fu l’ultima cosa che gli dissi prima che si chiudesse la porta alle spalle, dopo aver sussurrato un leggero “Ciao”. Ciao un cazzo. Vaffanculo.
Fissai la porta d’ingresso per qualche secondo, la mia schiena appoggiata al muro e la mente appannata, come se non riuscisse ad elaborare tutto ciò che era appena successo. Andava tutto bene. O forse no, forse per una volta non andava tutto bene per niente e me ne stavo rendendo conto lì, su due piedi, mentre fissavo un’ennesima barriera che lui aveva messo tra di noi. Non riuscii a far altro se non fissare la porta per qualche minuto: la mia mente vagava e nonostante continuassi a ripetermi di smetterla di rimanere lì, di andare in un’altra stanza, di pensare ad altro, i miei piedi non si mossero di un solo passo. Se n’era andato, un’altra volta. La consapevolezza di ciò che era successo cominciò a farsi spazio nella mia mente pian piano e contemporaneamente cominciai a voltarmi per tornare in camera. Non potei nemmeno muovermi ché il campanello d’ingresso risuonò più volte. Gettai uno sguardo confuso alla porta, ancora una volta, e dopo aver tirato un grande sospiro mi avvicinai per aprire.
«Cosa… cosa ci fai tu qui?» riuscii a dire, prima di essere letteralmente sbattuto contro il muro dalle sue mani. «Cazzo» sibilai sottovoce.
«Io sono un coglione e lo sai, ma anche tu mica scherzi, eh. Il lusso di lasciarmi andare senza nemmeno salutarmi, con un semplice “okay” non ce l’hai, m’hai capito?»
I miei occhi lo scrutarono freddi. «Ma che cazzo stai a dire?» domandai, la sua faccia troppo vicina alla mia per far finta di niente. Spostò lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra e, prima che entrambi potessimo muoverci anche di un solo millimetro, la sua voce echeggiò forte nella stanza. «Sto a dire che uno dei due avrebbe dovuto mettere da parte l’orgoglio e baciare l’altro, prima. Quindi adesso baciami, cretino.»
Le mie labbra furono sulle sue prima di quanto avrei mai ammesso ad alta voce. Come prima cosa lui mi morse il labbro, senza nemmeno lasciarmi un piccolo bacio di benvenuto o bentornato, senza perder tempo in quelle cose che a lui non erano mai importate minimamente. Distaccandosi, finalmente, dal personaggio che aveva impersonato fino a quando era uscito da quella porta pochi minuti prima. Tirò il mio labbro fino a farmi quasi male, fino a che i suoi denti persero la presa che avevano su di esso. Poi mi guardò per qualche secondo, il suo viso distante pochi centimetri dal mio. Sapevo che sarei apparso troppo debole, forse troppo bisognoso, ma non m’importò niente in quel momento, quando mi gettai un’altra volta verso la sua bocca, come se fosse tutto ciò di cui avevo bisogno. Le sue mani si spostarono lente fino alle mie cosce, e fu solo quando mi prese tra le sue braccia che aprii gli occhi per ritrovare i suoi già a guardarmi silenziosi. Mi aggrappai con le braccia al suo collo e accarezzai lentamente la sua mascella con la mano destra mentre continuava a darmi baci leggeri sulle labbra. Mi staccai di poco da lui, notando il modo in cui le sue labbra rosse sembrarono seguire le mie in una muta supplica di non essere lasciate sole, di non essere abbandonate. «Andiamo in stanza?» gli domandai in un sussurro, soffocato contro la pelle del suo collo. «Mhmh» gemette leggero mentre cominciava a muoversi quasi alla cieca per il corridoio, dirigendosi verso la mia stanza. «Voglio solo baciarti finché non riprenderai sonno» mormorò poi, negli stessi istanti in cui io mordevo nel modo più dolce possibile il suo collo, intenzionato a far rimanere una mia traccia su di esso. Gemetti in assenso per poi ritornare a quello che stavo facendo. La sua pelle era liscia in quella parte del collo, ruvida dove invece si era lasciato crescere un po’ di barba.
«Sai cosa?» mi domandò, portando poi una mano nei miei capelli e tirandomeli leggermente per attirare la mia attenzione sulla sua domanda. «Eh?» feci incerto, «Cosa?».
Mi guardò negli occhi mentre poggiava il mio corpo sul letto, per poi buttarsi senza alcuna grazia su di me. «Sei bellissimo.»
«Smielato» borbottai preso alla sprovvista, le guance più rosse di quanto avrei voluto. Lui rise tranquillo, un tipo di risata completamente diverso dalla sua solita. Una risata dolce, non eccessiva, ma allo stesso tempo tagliente, come alla fine era qualsiasi sua caratteristica. «Non l’ho mai negato, ma tu rimani comunque bellissimo.»
«Coglione.»
«Ah sì?» fece, il tono vagamente di sfida. Lo fissai senza dire niente, lasciandomi spostare dalle sue mani più vicino al suo corpo. Annuii brevemente mentre le sue dita accarezzavano delicate la pelle della mia schiena, facendo scontrare il calore di quest’ultima con il gelo che le caratterizzava. «Eh, sì» gli risposi io, rabbrividendo leggermente al suo tocco ghiacciato.
«Oi, stai tremando per colpa mia?» mormorò, un sorriso estasiato e quasi incredulo sul suo viso. I suoi occhi mi sembrarono brillare quando posai il mio sguardo su di loro. Gli lanciai un’occhiataccia fulminante. «Vaffanculo.»
«Vieni qui» fece piano dopo essersi posto allo stesso livello dei cuscini, il tono di voce di colpo più basso di quello che aveva usato fino a quel momento. Strisciai sul letto fino ad arrivare alla sua altezza, per poi mettermi comodo con la testa sul suo petto ed una mano intorno al suo bacino. «Sei così diverso» disse pensieroso, portandomi ad alzare il viso verso il suo. «Eh?» feci spaesato, fissandolo negli occhi.
«Sei così diverso da come probabilmente chiunque si aspetterebbe che tu fossi in momenti come questi. Sei così… fragile.»
«Io non-» cominciai, per poi essere interrotto dalle sue labbra che si posarono velocemente sulle mie. «Shh» sussurrò, «Non mi interessa discutere con te ora. Sono quasi le sei di mattino e hai dormito solo qualche ora stanotte, è tempo di riposarsi adesso.» Lo guardai scocciato, gesto che lui ricambiò con uno smagliante sorriso, e dopo avergli dato un ultimo bacio della buonanotte mi addormentai con le sue braccia avvolte attorno al mio corpo.

«Sto pensando a te come non ho mai pensato a te e sinceramente come non ho mai pensato ad altro. / […] / Sto sognando te e sinceramente non ho mai sognato di sognare altro.»

Quando mi risvegliai erano ormai le nove e qualcosa. Cercai di cambiare posizione nel letto, gli occhi ancora serrati e la mente annebbiata dal sonno, ma i miei movimenti vennero resi impossibili da un qualcosa che pesava sul mio fianco, impedendomi di spostarmi anche di un minimo. Appena la consapevolezza di cosa quel peso fosse si fece spazio nella sua mente i miei occhi si spalancarono veloci. Lui era ancora lì. Era lì, un braccio avvolto attorno a me e il maglione che aveva indosso ormai sgualcito sul suo corpo. Lasciai una carezza delicata sul suo viso, fissando le sue labbra mentre una strana voglia di baciarlo invadeva il mio corpo, prima di rendermi conto di ciò che stavo facendo. La mia mano si fermò di colpo, un’espressione confusa sul mio viso. Ero io, quello? Ero io quello che rimaneva a letto, abbracciato ad un altro ragazzo, ad accarezzare il suo viso? Ero io quello che non vedeva l’ora l’altro si svegliasse, solo per poterlo baciare? Ero io quello che arrossiva per uno stupido complimento, probabilmente dettato dalla semplice euforia del momento? Ero io quello che dava ai propri sentimenti così tanto spazio? Ero io quello si lasciava fare qualunque cosa l’altro avesse in mente? E ancora una volta, ero io quello che decideva di aspettare qualcuno, come io avevo inconsapevolmente aspettato lui? Quello che ci sarebbe rimasto male se, una volta risvegliatosi, non avesse trovato l’altro accanto a sé? Quello che provava veri sentimenti per un’altra persona? Sentimenti che andavano effettivamente oltre qualsiasi tipo di amicizia; ero davvero io quella persona?
«Devo alzarmi» feci a bassa voce, cosciente del fatto che lui stesse dormendo accanto a me. Cercai anche di muoverlo il meno possibile e di fare poco rumore così da non svegliarlo, per poi rilasciare un lungo sospiro quando fui finalmente in soggiorno. Fu, però, solo quando dall’altra parte del telefono una voce mi rispose «Oi Nico’, che vuoi a quest’ora?» che riuscii davvero a respirare per bene. La sua voce mi calmò, la sua voce mi calmava sempre. Presi un altro respiro profondo prima di azzardare qualche parola.
«Ho fatto una cazzata» dissi semplicemente, senza aggiungere altro. Lo sentii trattenere il respiro dall’altro capo del telefono.
«Che tipo di cazzata?»
Cercai di respirare ancora profondamente, la sensazione di star perdendo i contatti con la realtà che mi circondava ad assalirmi.
«Vinci è solo che… lui… e poi alla fine io…»
«Nico, ma che stai dicendo?»
«Che non… non so più chi cazzo sono. Che faccio delle cose e poi quando ci ripenso mi chiedo se ero davvero in me quando le ho fatte. Cioè, quello ero io?»
«Di che stai parlando? Che tipo di cose?»
Presi un profondo respiro prima di sentirmi pronto a parlare. «Io, eh. Di… di Tano.» La mia voce era uscita più incerta di quanto avessi voluto. Vincenzo se ne accorse.
«Lo avevo intuito» fece, per poi «Non preoccuparti, è okay parlare di lui» aggiungere subito dopo.
«Va bene.» Deglutii prima di provare a dar voce ai miei pensieri ancora una volta. «E’… quando io sono con lui. Quando sono con lui sembro una persona completamente diversa, lui mi rende una persona completamente diversa. Mi rende fottutamente stupido, te lo giuro. Se ci ripenso non so come rimanerci, davvero, non so come reagire.»
«Aspe’, che intendi con “stupido”?»
«Non… intendo che mi rende una persona… strana? Diverso da come sono di solito.»
Ci fu una pausa di qualche secondo. «C’è qualcun altro che ti rende strano come lo fa lui? Che ne so, tua mamma, tuo fratello? Tuo… nonno?»
«Me’» feci in dissenso, per poi «Sì. Sì che ci sta un’altra persona che mi rende diverso».
«E che rapporto hai con ‘st’altra persona? È un buon rapporto?»
«Vinci, sei tu quest’altra persona.»
«Eh?»
«Sì. Oh, pensaci. Con te non sono come mi conoscono tutti. Non sono quello indifferente, non sono quello diffidente, non sono silenzioso, non sto “nel mio”. T’abbraccio sempre, senza nemmeno una motivazione, mi siedo sempre il più vicino possibile a te anche quando non ce n’è bisogno, ho ormai perso il conto di quante volte t’ho dato baci sul collo soltanto perché m’andava e tu non hai mai trovato ‘sta cosa strana. T’ho dedicato certe tra le canzoni più romantiche al mondo con la massima tranquillità, c’ho un anello che m’hai regalato tu che mi porto sempre dietro e guai ad uscire senza quel coso. E questa è solo parte delle cose che faccio soltanto con te e con nessun altro.»
Vincenzo rimase silenzioso ancora una volta, prima di «Hai ragione».
«Come sempre.»
«Ovvio. Hai visto, comunque? Anche con me sei diverso dal Nicola di sempre, ma mica ti fai tutti ‘sti problemi che ti stai facendo ora con Tano.»
«Eh, lo so. Non è lo stesso, però.»
«Nah, ragionaci su: alla fine Tano non è l’unico a farti “cambiare”. Io e te abbiamo un bellissimo rapporto, eppure in mia presenza cambi, sei diverso da come sei con gli altri. Più che altro, ti lasci più andare ai sentimenti, cosa che di solito non fai. Non è un qualcosa di negativo.»
«Ma mi fa schifo lo stesso.»
«Come vuoi. Però stai tranquillo, il cambiare quando stai con lui non è niente di male.»
Sospirai. «Se lo dici tu. Comunque, cosa dovrei fare appena si sveglia?» domandai, una mano a scompigliarmi i capelli.
«Quello che ti senti, Nico. Non ci stanno delle istruzioni per ‘ste cose. Non so che avete fatto, non so la situazione, ma fai semplicemente tutto ciò che ti senti di fare, non fare nulla perché ti senti forzato. Se ti va di prendere la sua mano fra le tue dita, fallo. Se ti va di baciarlo, fallo. Se ti va di fumare una sigaretta sul balcone con lui, fallo. Se ti va di stare solo, diglielo. Nico, comunica col mondo, non tenerti tutto dentro.»
«È difficile.»
«Ce la puoi fare, cerca solo di fargli capire come ti senti. Se è almeno un po’ intelligente, capirà.»
«Oi.»
«Che vuoi?»
«È intelligente. Almeno un po’. Credo.»
«Bleh, romantico.»
«Coglione» borbottai di rimando, ridacchiando. Quando, poi, sentii dei passi avvicinarsi alla porta lo avvisai che avrei terminato la chiamata. «Ricordati,» mi fece qualche secondo prima di chiudere «che non c’è niente di male nel lasciarsi andare, qualche volta.»
«Eja eja» feci in risposta. «A dopo» lo salutai, mentre Tano entrava nel salotto.
Non ebbi nemmeno il tempo di poggiare il telefono sul tavolino che avevo davanti che lui si era già seduto accanto a me sul divano. «Oi» sussurrò, la voce impastata e resa roca dal sonno. Mi alzai velocemente in piedi, mormorando un leggero «Hey». Quando mi voltai verso di lui, stando accanto alla porta della cucina, vidi la sua espressione corrucciata e persa. Abbozzò un sorriso incerto nel momento in cui il suo sguardo incontrò il mio. Io cercai di ricambiarlo, fallendo miseramente. «Vuoi qualcosa da mangiare?» gli chiesi a mo’ di scuse, sperando di distrarlo dal brusco movimento che avevo fatto appena lui si era seduto accanto a me. Dovevo calmarmi, dovevo respirare. Dovevo cercare di far rallentare il battito del mio cuore, che sembrava quasi starmi per scoppiare nel petto. Dovevo cercare di ragionare sul da farsi, di pensare razionalmente a tutto ciò che era successo e ciò che stava per succedere. Non c’è niente di male nel lasciarsi andare, qualche volta. Dovevo lasciarmi andare o almeno provarci. Lo sapevo. Lo sapevo davvero, ma quando tornai in salotto e lo rividi lì, tranquillamente seduto sul divano come se fosse completamente a suo agio, come se lui sapesse esattamente cosa fare e come comportarsi, quando lo vidi sorridermi in modo leggero mentre si sporgeva di poco verso di me, in una muta richiesta di essere baciato, non riuscii a far altro se non allontanarmi di scatto da lui. E se baciarlo non era quello che volevo? Avrei dovuto baciarlo? E se lo avessi baciato, ma non nel modo giusto? Esisteva un giusto modo per baciare una persona? Ma a cosa cazzo stavo pensando?
Lui si allontanò lentamente dal mio volto, l’espressione accigliata e ferita. Si appoggiò allo schienale del divano, e mi sembrò che tutti i suoi gesti fossero di colpo a rallentatore. Era troppo calmo, troppo pacato, troppo silenzioso. Si portò una mano tra i capelli mentre si accingeva a mangiare le cose che gli avevo portato, ma non disse una sola parola e non mi guardò nemmeno per sbaglio, come se stesse facendo finta che io non esistessi. Di colpo la situazione sembrò tornata quella di poco tempo prima, quella in cui continuavamo ad ignorarci consapevolmente. Questa volta, però, la colpa era la mia.
«Vado fuori a fumare» farfugliai velocemente. Probabilmente Tano non riuscì nemmeno a capire quello che avevo appena detto; non annuì, non disse niente.

«Proteggi questo tuo ragazzo da questa testa maledetta che si infila nella sabbia, che pesa più di tutto il corpo se la vuoi tirare su. Da questa testa benedetta da qualche prete negli ’80, come si fa a chiamare testa se mi fa cadere giù? Proteggimi tu.»

«Non hai freddo?»
Il mio respiro si fermò di colpo quando sentii la sua voce dietro di me. Mi voltai lentamente, per trovarlo appoggiato alla porta che dava in cucina.
Deglutii, per poi ritornare a girarmi verso la ringhiera. «Un po’.»
«Che stai facendo?» Questa volta la sua voce era più vicina. Dopo pochi secondi lo vidi appoggiarsi alla ringhiera, poco spazio a dividerci. Alzai lo sguardo verso il cielo scurito dalle nuvole. «Non lo so. Riflettendo, credo.»
«Quando mai non stai riflettendo su qualcosa?» mormorò, lo sguardo perso ad osservare il parco che c’era vicino casa mia. Sembrava che anche lui fosse intento a pensare a qualcosa, ma non provai a chiedergli di cosa si trattasse.
«Con chi stavi parlando prima?» chiese ancora, riportandomi alla realtà. Solo in quel momento mi resi conto di non aver risposto alla sua precedente domanda, troppo preso ad osservarlo. «Con nessuno.» Tano mi lanciò un’occhiata che non riuscii a decifrare.
«Okay.»
«Okay» risposi, per poi «Andiamo dentro, ti va?» proporgli quando lo vidi tremare leggermente accanto a me. La sigaretta era ormai finita da un pezzo. Lui annuì solamente, seguendomi fino in soggiorno.
«Che ti va di fare?» gli chiesi una volta dentro.
Tano mi guardò, visibilmente preso in contropiede. Sembrò, per la prima volta quella mattina, senza parole. Ci pensò qualche altro secondo, prima di «Baciarti, onestamente».
Lo fissai interdetto, ancora in piedi accanto a lui. Lui ricambiò il mio sguardo, un sorriso sul suo volto.
«Stai calmo» fece, la voce di colpo più bassa e roca. «Stai calmo, scemo. Hai tutto il tempo del mondo per abituarti a quello che sta succedendo, per abituarti a me che ho voglia di baciarti ogni secondo. Non dobbiamo correre, non c’è problema. Posso aspettare tutto il tempo di cui hai bisogno.»
«Io…» biascicai, preso un’altra volta alla sprovvista. «Anche io voglio baciarti ogni volta che ti vedo.» Nonostante cercasse di far finta che le mie parole non lo avessero toccato, i suoi occhi sembrarono quasi luccicare. O forse era una mia impressione.
«Voglio baciarti anche adesso, per esempio.»
Lui deglutii, e finalmente mi sembrò di avere in mano le redini della situazione. Finalmente mi sembrò di poter essere io a decidere quello che sarebbe successo e come, per questo «Posso baciarti?» chiesi, cercando di sembrare sicuro e spavaldo, cosa che invece non ero. Tano se ne accorse, ma dopo aver ridacchiato leggermente al mio tono di voce annuì.
«Certo che puoi baciarmi, cretino. Non aspetto altro da quando mi sono svegliato.»

«E ho fatto una svastica / in centro a Bologna / ma era solo per litigare, / non volevo far festa / era solo un pretesto / per lasciarti andare. / Per lasciarti andare.»

«Meh da’, rispondi alla mia domanda: ci vieni o no, lunedì?»
Vincenzo mi lanciò uno sguardo scocciato, i suoi occhi stanchi mi osservarono per qualche secondo. «Devo proprio?» fece, il tono annoiato.
Annuii con forza, prima di prendere la sua mano nella mia. «Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego, ti prego, ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego» mormorai in una litania, finché, dopo uno sbuffo, non accettò la mia proposta.
«Okay, rompicoglioni, verrò al vostro concerto natalizio del cazzo, lunedì.»
«Rude» borbottai, un sorriso felice sulle mie labbra. «Sei l’amore della mia vita, lo sai?» gli chiesi poi, sdraiandomi accanto a lui sul pavimento dell’Officina. Si spostò di poco appena mi stesi, un suo braccio andò a circondarmi il bacino e lui appoggiò la testa sul mio petto. Si strinse contro di me, quasi a darmi calore, in netto contrasto con il gelo che sentivo a causa del pavimento freddo sotto di noi.
«Sì, sì. Queste cose sdolcinate dille al tuo fidanzato, almeno il diabete viene a lui e non a me.»
«Oi» feci, cercando di pizzicargli un fianco. «Non è il mio fidanzato» dissi poi, ricevendo un’occhiata curiosa da parte sua.
«Che? Non vi siete ancora messi insieme? Scusa, ma cosa state aspettando esattamente?»
«Io… non lo so? E’… tutto ciò che è successo è stato troppo… troppoStiamo solo prendendo le cose con calma, credo.»
«Questa è una cosa buona» rispose lui. Il tono di voce leggermente più serio quando «Lo avete deciso dopo la telefonata che mi hai fatto, quella di qualche giorno fa?».
«Forse.» Sospirai. «Sì, direi di sì.»
«Meglio.» Mi accarezzò leggermente la guancia, prima di spostare la tua attenzione su altro.
«Lo ha proposto lui, comunque.»
«Tano?»
«Sì, perché… io ero troppo sopraffatto, credo? Da tutto quello che mi avevi detto e che stava succedendo. Era tutto… tutto davvero, davvero troppo da recepire in una volta sola, per me. E quindi quando lui, subito dopo che ho chiuso la telefonata con te, ha cercato di baciarmi, io mi sono allontanato. So che non avrei dovuto, anche perché volevo baciarlo pure io, ma non ce l’ho fatta. Poi me ne sono andato fuori a fumare una sigaretta, come faccio sempre quando c’è qualcosa che non va. E lui è venuto da me poco dopo, nonostante ci fosse rimasto malissimo quando m’ero allontanato per non farmi baciare. Mi ha fatto qualche domanda a random finché non abbiamo deciso di tornare dentro, dato che sul balcone si gelava. Quando, poi, una volta in soggiorno, gli ho chiesto che voleva fare, lui ha risposto “baciarti” ed io sono rimasto là incredulo. Quindi Tano ha probabilmente scambiato la mia incredulità per incertezza e mi ha detto che avrò tempo per abituarmi a tutto questo, che non dobbiamo affatto correre, che va tutto bene. Mi ha rassicurato e m’ha detto che lui può aspettare e che non mi vuole mettere fretta.»
«Ha fatto bene.»
«Eh?»
«A darti tempo, intendo. Lo avrei fatto anche io, al posto suo.»
Lo guardai osservare il soffitto per qualche minuto. «Ovviamente lo avresti fatto anche tu» mormorai poi.
«Come fai ad esserne così sicuro?»
«Ti conosco e mi fido di te.» Vincenzo puntò i suoi occhi nei miei, senza però dire nulla. Potevo quasi sentire il suo cervello pensare.
«Non ti sembra esagerato fidarti così tanto di me?»
«Razionalmente fidarsi di chiunque è una grande stronzata, ma tu mi hai dimostrato più volte che su di te posso contare. Ovviamente non è mai stato niente rose e fiori, ci sono stati e ci saranno momenti in cui tutto sembrerà crollare, farai degli errori così come ne faccio io e così come ne facciamo tutti, però alla fine della giornata sei sempre il Vincenzo che conosco io. Sei sempre il mio migliore amico, quello silenzioso, quello troppo riservato, quello che sembra indifferente a tutto e a tutti finché non impari a conoscerlo. Sei quello che non sembra avere mai niente da offrire, ma che al tempo stesso ha troppo da dare. Non lo so, sei l’uomo della mia vita e potranno succedere un casino di cose tra di noi, ma continuerai sempre ad esserlo, nonostante tutto e tutti. Lo sai.»
«È sempre così strano sentirti parlare di cose del genere, sentirti davvero dire la tua su qualcosa senza alcun filtro.» In risposta lo osservai soltanto, lasciando calare il silenzio sulla conversazione. «Forse è vero» sussurrai alla fine, pensieroso.
«Eh?» mormorò lui, ma prima che io potessi anche solo pensare a cosa rispondergli, la porta d’ingresso si aprì lentamente.
«Hey belli» ci salutò una voce mentre mi sistemavo meglio contro il corpo di Vincenzo, che in quel momento stava sbadigliando. Alzai lo sguardo ad incontrare la figura di Peppe, ma con sorpresa notai anche la figura di qualcun altro accanto a lui. Cercai di sollevarmi velocemente da terra, la testa di Vincenzo a pesarmi ancora sul petto.
«Ciao» disse soltanto l’ultimo nuovo arrivato, i suoi occhi a perlustrare con una strana incertezza tutto ciò che si ritrovava davanti. Non riuscii a non notare come il suo sguardo si soffermò più del necessario sul mio corpo ancora vicinissimo a quello di Vincenzo. Deglutii.
«Oi Pe’» fece Vincenzo a quel punto, la massima nonchalance leggibile nella sua voce. Si allontanò con lentezza dal mio corpo, prima di alzarsi e tendermi una mano.
«T’aiuto?» chiese con tranquillità, tranquillità che non riuscii però a trovare nello sguardo che mi lanciò poco dopo. «No, faccio da solo» gli risposi, alzandomi e mettendomi poi di fianco a lui, le nostre spalle a toccarsi.
«Hey» feci allora, finalmente, gli occhi che andavano veloci da Peppe a Tano, senza che sapessi davvero su chi posarli. Quando notai gli occhi di Tano già fissi su di me abbassai lo sguardo.
«Ciao raga’» fece di nuovo Peppe, un’espressione che non riuscii a decifrare sul suo volto.
«Gaetano» borbottò a mo’ di saluto Vincenzo. Al sentire il suo nome, Tano spostò lo sguardo su di lui, quasi colto alla sprovvista.
«Solo Tano» rispose semplicemente, un qualcosa che assomigliava ad un sorriso incerto e quasi preoccupato sul suo volto.
«Come vuoi.» Mi voltai verso Vincenzo, le mie sopracciglia inarcate come a dire “Ma davvero stai facendo?”, a cui lui rispose con una semplice scrollata di spalle.
«Vi starete chiedendo perché siamo qui» prese parola Peppe, spostando ripetutamente lo sguardo da me a Vincenzo. «Immagino ve ne siate scordati, ma oggi abbiamo quell’incontro.»
«Quale incontro?» feci io, mentre «Oh» esclamava Vincenzo al mio fianco. «Mi sono dimenticato di avvisarti» mormorò poi, un piccolo sorriso di scuse sulle sue labbra.
«Un incontro di che?» gli domandai, i miei occhi fissi su di lui.
«Di tutti i rappresentanti delle scuole superiori» mi rispose Tano prima che potesse farlo Vincenzo. Lo fissai per pochi secondi, cercando di non soffermarmi troppo a lungo sul labbro che stava stringendo tra i denti, come se qualcosa lo stesse preoccupando.
«Okay.»
«Mi sono davvero scordato di dirtelo» fece Vincenzo qualche minuto dopo, mentre ci dirigevamo nella sala in cui sarebbe avvenuto l’incontro. «Scusami ancora» aggiunse poi. Gli diedi una leggera gomitata che lo sfiorò solamente, per dirgli in modo silenzioso di smetterla di scusarsi. «È tutto okay, che vuoi che sia.»
«Va bene» fece lui solamente, prima che Peppe non allungasse il passo per raggiungerci. Mise un braccio attorno al collo di Vincenzo, tirandoselo a sé fino quasi a farlo cadere, per poi farmi segno con la testa di guardare dietro di me. Appena mi voltai vidi Tano camminare qualche passo più indietro, la testa bassa a farlo sembrare troppo assorto nei suoi pensieri. Rallentai un po’, fino a quando non mi ebbe raggiunto.
«Hey» mormorai, riportandolo alla realtà. Tano mi lanciò un breve sguardo confuso, prima di spostare i suoi occhi su altro. «Hey» rispose solamente.
«Tutto bene?»
«Sì» fece, senza guardarmi. «Va tutto bene.»
«Ti vedo un sacco pensieroso» provai, curioso di ascoltare la sua risposta. Sembrava troppo distante, troppo distaccato, troppo perso nei suoi pensieri.
«Non… immagino di esserlo? Non è niente, comunque.»
«Se lo dici tu.»
«Yup» mi fece quando eravamo ormai vicini all’entrata della sala. «Oi» borbottò subito prima che aprissi la porta, una sua mano stretta attorno al mio polso. Peppe e Vincenzo erano ormai già dentro.
«Cosa?» gli domandai, la mano che teneva attaccata al mio polso a scendere fino a che le nostre dita non si intrecciarono le une con le altre. Diede una piccola stretta alla mia mano, prima di sporgersi di poco in avanti per far scontrare le sue labbra con le mie in un leggero bacio a stampo. La sua espressione si aprì in un sorriso. «Volevo solo baciarti, non l’ho fatto per niente negli ultimi giorni.» Gli sorrisi di rimando, a corto di parole.
Subito dopo, in sala, mentre ci avvicinavamo ai posti accanto a quelli già occupati da Vincenzo e Peppe, in un debole sussurro mi chiese: «Ti ha dato fastidio quello che ho fatto poco fa?».
«Ovviamente no, cretino. Mi piace baciarti.»
«Anche a me piace farlo.»

«Il tempo non si ferma, non si è mai fermato e quello che è passato chissà dov’è andato, forse in quel cassetto dove nascondevo la carta stagnola o nel bar, da Mauro

«Non sono geloso, o almeno non credo di esserlo.»
«Non sei geloso?» La voce risultò scettica persino alle mie orecchie.
Sentii Tano tossicchiare. «No? Perché non mi credi?»
Peppe rimase in silenzio per qualche secondo, per poi «Perché ho visto come lo guardi». Ancora silenzio. «Tano, quando tu guardi le persone, qualsiasi persona ti ritrovi davanti, i tuoi occhi esprimono tutto ciò che pensi, basta imparare a leggerli.»
«Non è vero.»
«A volte vorrei che non fosse vero anche io, ma che ci possiamo fare?»
«E come lo guardo, scusami?»
«A chi? A Vincenzo?»
«Sì.»
«Lo guardi… sei freddo, quando lo guardi. Di solito cerchi di essere sempre gentile con tutti, almeno amichevole. Con lui sei solo freddo, i tuoi occhi sembravano di ghiaccio prima, quando siamo entrati in Officina.»
«Dici sul serio?» Un colpo di tosse e poi il rubinetto dell’acqua aperto.
«È stato solo… è stato vederlo là, sdraiato per terra vicino a lui. È stato strano, avrei davvero voluto essere Vincenzo in quel momento. Con Nico ho sempre paura di fare un passo di troppo, di spingermi più in là di quel che posso. Vincenzo non ha questo problema invece, con lui Nico è semplicemente se stesso. Ma lo hai visto come si comporta? Sembra quasi siano amici da sempre, siano fatti per stare l’uno con l’altro. Io lo sapevo che fossero amici, li avevo visti insieme anche prima che… che tutta questa cosa con Nicola cominciasse, solo che la loro amicizia è davvero qualcosa di più. È più grande di come me l’immaginassi, è un’amicizia troppo grande per poterci competere.»
«Poterci competere?»
«Non dovrei farlo?»
«La vera domanda è: perché dovresti farlo? Cosa hai intenzione di fare, sconfiggere il tuo avversario? Cos’è, una gara a chi riesce ad essergli più amico? Ma ci hai mai pensato che se solo tu dovessi azzardarti a toccare la figura di Vincenzo, Nico chiuderebbe tutti i ponti con te? Hai cercato, almeno un po’, di capire cosa c’è tra di loro? Hai detto bene, la loro non è una semplice amicizia, e te lo confermo io che con quei due ci sono cresciuto quasi. Loro sono più che amici, loro sono la certezza l’uno dell’altro, loro affrontano tutto insieme, tutto uno accanto all’altro. Non ho ancora incontrato, in anni di conoscenza, una sola cosa che sia stata in grado di dividerli. Nemmeno tu, e sappiamo entrambi tutto ciò che è successo tra te e Vincenzo tempo fa, sei riuscito a farlo. Sarebbe una guerra persa in partenza, oltre che una guerra inutile.» Silenzio. «Pensa a Nicola, pensa a quello che hai capito di lui da quando lo conosci. Ora pensa a ciò che gli farebbe piacere che tu facessi, come gli piacerebbe che tu ti comportassi in questa situazione. Cosa vorrebbe lui, se ti stesse sentendo?»
Sentii il cuore accelerarmi nel petto, prima di «In realtà sto davvero sentendo» dire, mentre aprivo la porta dietro la quale ero stato dall’inizio della loro conversazione. Gli occhi di entrambi furono su di me. Tano sembrò terrorizzato, Peppe confuso.
«Cosa?» mormorò Peppe.
«Hai sentito tutto?» fece allora Tano, la voce quasi tremante. Gli sorrisi leggermente, sperando potesse calmarsi almeno un po’.
«Pe’, puoi lasciarci da soli?» chiesi allora a Peppe, che annuì mentre usciva dalla stanza. L’aria era tesa, sembrava quasi irrespirabile.
«Mi dispiace» fu la prima cosa che Tano disse appena la porta si chiuse.
«Quante cazzate.»
«Dico davvero.»
«Come vuoi.»
Tano si avvicinò lentamente a me, che mi ero appoggiato al vecchio mobile del lavandino, le sue dita a sfiorare lentamente la pelle della mia mano.
«Te la sei presa?» I suoi occhi erano fissi sul mio petto.
«Dovrei?»
«Direi di sì.»
«Invece non me la sono presa.»
Mi guardò di sfuggita, prima di spostare nuovamente il suo sguardo altrove.
«Perché-» Portai la mano destra ad accarezzargli lentamente la guancia, gesto che lo colse visibilmente di sorpresa. «Perché non me lo hai detto, quando te l’ho chiesto?»
«Cosa?» chiese solamente.
«Guardami negli occhi» mormorai prima, per poi «Perché prima, quando t’ho chiesto che avevi, hai fatto finta di nulla?» Abbassò ancora una volta lo sguardo, quasi non riuscisse a reggere il mio, il labbro stretto tra i denti.
«Non sapevo come avresti reagito.»
«Non andremo avanti se non parliamo di ciò che ci succede e di ciò che pensiamo. Sono il primo che ha difficoltà a farlo, lo so bene, però se davvero vogliamo far funzionare questa… cosa, dobbiamo cominciare a parlarci. A parlarci davvero, però. A dirci le cose in faccia. Puoi provare a dirmi quello che pensi in faccia, come se io non sapessi nulla di ciò che mi stai per dire? Dimmi cosa pensi, come se io non avessi sentito niente.»
Tano prese un profondo respiro. «Va bene, penso di poterci riuscire.»
«Vai.»
Mi strinse piano la mano destra con la sua. «Tu e Vincenzo avete un’amicizia strana: non l’ho mai capita. Mi ricordo che, qualche anno fa, quando successe tutto quel casino con Vincenzo, tu eri già suo amico. Eravate molto amici già da allora, ed io ne ero un sacco geloso. Poi però le cose sono cambiate, mi sono allontanato da Vincenzo e ho cercato di eliminare tutto ciò che mi ricordasse quel periodo in cui ero suo amico, tra cui tutti i sentimenti legati a lui. Avevo finalmente smesso di star male per tutto quello che era successo, mi ero messo, come si dice?, l’anima in pace, e poi sei arrivato tu. Sei arrivato tu e… e non so che cosa hai combinato, tu. Sapevo fossi amico di Vincenzo e io mi ero giurato che gli sarei stato il più lontano possibile come sarei stato il più lontano possibile da qualsiasi cosa anche indirettamente collegata a lui, ma poi. Poi non me n’è importato più niente di Vincenzo, quando ti ho incontrato, perché ad importarmi eri solo tu. Ho rotto la promessa che avevo fatto a me stesso e mi sono dato la possibilità di provare a creare qualcosa con te. E’ successo, no?, abbiamo creato davvero qualcosa. Mi ero persino scordato di tutta la parte riguardante Vincenzo, tanto ero preso da te, fino ad oggi. Oggi quando l’ho visto è stato… strano. E’ stato come tornare al passato, quando andavo a casa sua e lo vedevo a terra a fissare il soffitto. Quindi gli chiedevo che cosa ci facesse là sotto, e lui mi diceva “sto pensando e ragionando sul mondo, ti vieni a mettere qua vicino a me?” ma io roteavo gli occhi al cielo e mi andavo a piazzare sul divano. Una volta mi sdraiai vicino a lui, ma, lo sai com’è quando una cosa non va come la immagina lui, dopo un po’ si scocciò e mi disse “mi sto scocciando, non sei bravo a fare l’intellettuale con me. Un giorno troverò qualcuno a cui piacerà stendersi di fianco a me e con cui potrò parlare del tutto e del niente guardando il soffitto. Quando una persona sarà disposta a fare questa cosa per me e con me, solo allora saprò di aver incontrato la mia persona”. E quindi oggi vi ho visti sdraiati l’uno accanto all’altro, o, meglio, l’uno sull’altro, ed ho pensato “cazzo, hanno incontrato entrambi la loro persona, e io a che servo?”. E ho inconsciamente pensato che avrei avuto una vera possibilità solo se voi vi foste, per qualche motivo, separati. Ma io non voglio che si separiate, non ve lo augurerei mai, te lo giuro. Te lo giuro su cosa vuoi. Non ho mai pensato ad un modo per mettervi l’uno contro l’altro, ho solo pensato di essere inutile, completamente inutile, se tu ci sei per lui e lui c’è per te. Insomma, io rispetto a lui non sono nessuno.»
«Respira due secondi. Hai in parte ragione. Hai ragione perché lui è davvero la mia persona, lui è quello di cui mi fido più al mondo e tante altre cose. Te l’ha detto anche Peppe che la mia amicizia con Vincenzo è diversa, ma alla fine credo che questo tu l’avessi già capito da te. Però, pensaci un attimo: io e Vinci siamo amici da anni, siamo cresciuti insieme e ci conosciamo da sempre. Io e te, invece, ci conosciamo da quanto, un anno? E abbiamo cominciato a diventare più uniti soltanto nell’ultimo periodo, quindi è davvero poco tempo. In ogni caso, il fatto che io abbia lui non significa che sto bene così, che non ho bisogno di avere altri rapporti. Avere lui non limita le mie amicizie, né le mie relazioni. Lui è una cosa, tu ne sei un’altra. Non siete in una gara, non lo sarete mai. Sì, nella mia vita lui è una figura davvero importante, ma non c’è solo lui, non c’è solo Vincenzo. È come se io mi sentissi scoraggiato perché tu hai Peppe, non ha senso, vero? Che poi, sono due situazioni completamente differenti, con te ho un rapporto diverso da quello che ho con lui: lui è il mio migliore amico, io e te non siamo mica amici.»
«Non siamo amici?»
«Pensi che io vada a baciare tutti i miei amici?»
«No.»
«Appunto.»
«E, quindi, io cosa sono per te?»
«Tu sei il tipo che mi piace, scemo.»
I suoi occhi si spalancarono. «Eh?»
«Ovviamente mi piaci, non c’eri arrivato?»
«Sì, credo. Ma sentirselo dire in faccia è diverso.»
«Coglione.»
«Baciami.»
«Con piacere.»

«Oh, ascoltarmi, devo dirti questa cosa, voglio dire una canzone, voglio dirla con te: fatta male, sbagliata, lunga, corta, l’importante è che resti.»

Uscii dalla mia camera, camminando a passo lento verso il salotto. Appena ci entrai i suoi occhi furono su di me, la linea delle sue labbra a spezzarsi quasi subito in una risata.
«Ma cosa ti sei messo?» rise, indicando con una mano quello che avevo addosso. Gli lanciai uno sguardo di traverso, avvicinandomi di pochi passi al divano sul quale era seduto.
«Un maglione rosso con sopra una renna di Natale, perché tra pochi giorni è Natale» risposi piccato, un piccolo broncio sulle mie labbra. Lui si alzò piano dal divano e si avvicinò a me fino a quando i nostri corpi non furono a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro.
«Sei buffo vestito così» borbottò prima di circondare il mio bacino con le sue braccia, facendo così scontrare il suo petto con il mio.
«Grazie mille, eh» feci di rimando, cercando inutilmente di uscire dalla sua presa.
«Dove vuoi andare?» mormorò e contemporaneamente portò la sua mano destra nella tasca del mio pantalone, per poi farlo anche con la sinistra. Si sporse di poco in avanti per potermi baciare le labbra, cosa che gli lasciai fare senza lamentarmi, fino a quando «Lasciami, fammi prendere la chitarra e andiamo» borbottai sulla sua bocca. Per tutta risposta, i suoi denti ritornarono a stringere più forte il mio labbro.
«Ancora altri cinque minuti.» Le mie mani andarono a spingere il suo petto, allontanando il suo corpo dal mio. «Hai detto così anche l’altro giorno, all’incontro con gli altri rappresentanti, e alla fine siamo rimasti chiusi in quel cesso per venti minuti.»
«Giuro che questa volta non ti trattengo per così tanto.»
«Dovrei crederti?» feci, le sue labbra ancora una volta sulle mie. Le sentii curvarsi in un sorriso alla mia domanda.
«No, non dovresti farlo.»

«Una canzone da film: voglio sognare e stare male e ascoltarla e stare bene, cantarla e stare male, pensarti e stare bene

«Scusami ma dove cazzo stavi?»
Non gli risposi nulla, gli presi solo la mano, senza farci troppo caso, trascinandomelo appresso. «Vieni con me, ho fatto tardi.»
«Eh, non l’avevo notato» mormorò Vincenzo al mio fianco, l’ironia palpabile nella sua voce.
«Non rompere.» Salii di fretta le scale d’ingresso insieme a lui e, dopo un saluto generale a tutti quelli che si trovavano già a scuola, mi diressi a passo veloce verso la presidenza. Vincenzo ne rimase fuori.
«Dove sono gli altri rappresentanti, e Tano?»
«Tano sta arrivando, gli altri sono fuori a sistemare delle cose. Io sono venuto qui per prendere le chiavi della palestra, così possiamo prendere delle cose e poi sistemare il resto. Posso?»
«Certo che puoi, fai pure. Fate attenzione oggi, soprattutto a quelli di primo.»
«Ovviamente lo faremo.»
«Dico sul serio.»
«Lo so, è tutto chiaro.»
«Buona assemblea.»
«Grazie mille. ‘giorno.»
Appena uscito afferrai nuovamente il polso di Vincenzo, trascinandolo verso il cortile. «Minchia, ma perché ho accettato di venire? A quest’ora sarei potuto essere a casa mia nel letto a dormire.»
«Perché mi ami» gli risposi senza nemmeno pensarci, un po’ come succedeva sempre quando parlavo con lui.
«Ovviamente ti amo.»
«Cretino.»
«Ma che hai fatto alle labbra? Ce le hai tutte rotte» mi fece una volta in cortile. I miei occhi si spalancarono e d’istinto portai una mano a coprirmi la bocca.
«Be’, prima di venire qua potrei aver passato del tempo col mio ragazzo…» Il braccio di Vincenzo si fermò a mezz’aria mentre cercava di alzare il volume delle casse. Si voltò verso di me dall’alto della sedia su cui era salito. «Il tuo ragazzo?» disse, l’espressione di colpo più seria.
«Sì. Cioè, non è ufficiale, ma penso tutto si stia cominciando a stabilizzare, anche se, ecco, stiamo ancora lavorando su delle cose?»
Vincenzo scese con un salto dalla sedia e in pochi secondi mi ritrovai racchiuso tra le sue braccia. «Quanto cresce in fretta il mio piccolo bambino» mi sembrò di sentirgli dire ad un certo punto, e non potei far altro che rispondergli con un pugno giocoso sul petto.
«Va così la vita, papà, stai diventando vecchio.» In risposta mi diede uno scappellotto sulla testa, per poi tornare ad aggiustare le casse.
Stavamo giusto finendo di sistemare i microfoni quando dei passi veloci si sentirono rimbombare per tutto il cortile. Quando mi voltai e mi ritrovai Peppe a correre verso di me non ne fui affatto sorpreso.
«Ciao belli» esclamò entusiasta come saluto, un enorme sorriso sulle sue labbra.
Stavo per rispondergli quando «Ma come cazzo fai ad essere così attivo a quest’ora dell’alba?» fece Vincenzo, esagerato come al solito.
«In realtà sono le otto e mezza passate.»
«E’ lo stesso.»
«Come vuoi» tagliò corto Peppe, per poi fargli una smorfia che però Vincenzo non vide. Quando, poi, si voltò verso di me, la sua espressione era tornata ad essere quasi seria.
«Che succede?» gli domandai perplesso mentre cercavo di capire il motivo per cui il microfono non funzionasse bene. Peppe continuò a fissarmi, come se mi stesse studiando.
«Ho chiesto a quel coglione del tuo quasi-ragazzo, nonché mio migliore amico, di dirmi cos’è successo in bagno quando me ne sono andato, l’altro giorno. Sai cosa mi ha risposto? Ha detto “niente, è andato tutto bene”. Io però voglio i dettagli, quindi sono venuto qui per averli.»
«Cazzo ma tu stai male» borbottò a bassa voce Vincenzo accanto a noi. Peppe, in risposta, gli diede un calcio alla caviglia. «Porca puttana Pe’.»
«Stavamo dicendo?» fece subito dopo Peppe, voltandosi completamente verso di me.
«Stavamo dicendo che sei peggio delle comare dopo la messa della domenica mattina.»
«Le comare? E che c’entrano mo quelle?»
Sbuffai alla sua espressione perplessa. «Cosa vuoi sapere esattamente di ciò che è successo l’altro giorno?» feci, cambiando discorso.
«Che cosa è successo l’altro giorno?» domandò Vincenzo, qualche metro distante da noi. Non gli avevo detto nulla di quello che era accaduto nei bagni. Peppe mi lanciò un’occhiata a metà tra il sorpreso e il preoccupato, alla quale risposi scrollando semplicemente le spalle.
«Niente di che, cioè. Praticamente li ho sentiti parlare nei bagni, a Peppe e a Tano, e l’argomento eravamo io e tu, quindi mi sono fermato a sentire che dicevano. Lo so che non avrei dovuto farlo, ma non ci sono riuscito proprio a smettere di ascoltare. Peppe gli aveva appena chiesto se era geloso di te e io sul momento ho pensato che fosse completamente pazzo. Insomma, perché Tano avrebbe dovuto essere geloso di te? Ho continuato ad ascoltare e la risposta di Tano è stata un no, quindi che non era geloso di te, ed io ho per metà tirato un sospiro di sollievo. A quel punto Peppe, da psicologo improvvisato quale è, ha continuato a dirgli che secondo lui Tano era davvero geloso di noi, ha detto che, tipo, glielo si legge negli occhi? O che nei suoi occhi si legge tutto quello che prova, non mi ricordo. Una stronzata del genere, comunque. E allora Tano ci ha pensato e ha cominciato a dire che l’amicizia che abbiamo io e tu è troppo grande e che siamo troppo uniti per poterci dividere e-»
«Ma che cazzo stai dicendo, Nico’? Ma che gliene frega di quanto è forte la nostra amicizia, vuole provare a dividerci lui?» mi interruppe Vincenzo, lo sguardo freddo e il tono il più distaccato possibile.
«Ma secondo te io starei ancora insieme ad una persona che vuole che io e tu ci dividiamo? Ma sei diventato coglione?»
Vincenzo respirò profondamente, forse per calmarsi. La sua mascella era contratta, cosa che notò anche Peppe, che infatti mi lanciò uno sguardo preoccupato.
«Vinci» mormorai con voce leggera. Il suo sguardo passò dalle finestre che stava fissando al mio viso. «Vinci» feci di nuovo, la distanza che c’era tra i nostri corpi a pesarmi troppo in quel momento, per poter far finta di nulla. Mi avvicinai quindi a lui, seduto ad un angolo del piccolo palco, e mi sedetti lì accanto, i nostri corpi a toccarsi.
«Mi guardi, per piacere?» feci piano. Puntò nuovamente i suoi occhi su di me.
«Che vuoi?»
«La smetti?» dissi soltanto, afferrando con le mie dita una delle sue mani appoggiata sul suo ginocchio. «La smetti di essere di colpo così distaccato, di essere così te?» borbottai solamente, aspettando una sua reazione che però non ebbi. Mi fissò, il suo sguardo indecifrabile. A quel punto non potei far altro che continuare a parlare. «La smetti di essere sempre così diffidente? Vinci, mi conosci. Mi conosci davvero, mi conosci per quello che sono, per quale motivo dopo anni la tua reazione rimane sempre la stessa? Non sono qui per tradirti, non sono qui per farti del male, non sono qui per andarmene appena ne ho la possibilità. Non sono qui per fingere di essere tuo amico e poi voltarti le spalle, anche perché sai che faccio davvero schifo a fingere, ho troppa poca pazienza per perdere la mia vita a fingere di essere qualcuno che non sono. Lo so che hai paura. Lo so che dopo quello che è successo con il tuo vecchio migliore amico ormai vivi con un terrore costante e mi dispiace. Mi dispiace perché sei la persona più importante della mia vita e non meriti di star male per nessun motivo al mondo, però non ci possiamo fare nulla, non è vero? Tutto quello che posso fare io è scegliere di restare con te, nonostante tutto e tutti, ed è quello che avrei fatto anche questa volta, se ce ne fosse stato bisogno. Non c’è stato bisogno di scegliere di restare con te, comunque, perché non ho dovuto scegliere un bel niente. Se mi avessi fatto finire di parlare avresti capito che alla fine Tano mi ha detto che non ci vorrebbe mai separati e non proverebbe mai a dividerci, ha semplicemente pensato di non poter mai arrivare ad essere al tuo stesso livello, data la forte amicizia che c’è tra di noi. Mi ha parlato di quando eravate più piccoli, di quando una volta gli dicesti che avresti trovato la persona adatta a fare l’intellettuale con te, steso sul pavimento. Quando ci ha visti in Officina ha ripensato a quella vostra conversazione, ed ha capito l’importanza che abbiamo l’uno per l’altro e gli è sembrata troppa, credo l’abbia davvero spaventato. Si comportava come se io avessi avuto bisogno di una sola persona importante nella mia vita, e quel posto fosse già occupato da te. A quel punto io gli ho detto che sì, tu sei davvero la persona più importante per me, tu sei addirittura la mia persona, ma questo non significa che non ho bisogno di qualcun altro al mio fianco, di altre amicizie o relazioni. E alla fine gli ho detto che tu e lui siete su due livelli diversi, perché tu sei il mio migliore amico e lui è il ragazzo che mi piace, quindi competere non avrebbe proprio alcun senso.»
«Gli hai detto che ti piace?» esclamò Peppe a pochi metri da noi. Mi voltai verso di lui, la sua espressione incredula. Annuii, un lieve sorriso sulle mie labbra alla sua reazione. «E per lui questo è “niente”? Quella merda dopo mi sente, gli faccio un bel cazziatone e la prossima volta vediamo come risponde alle mie domande. Pezzo di merda.» Ridacchiai alle parole di Peppe, ma la mia risata fu subito interrotta da un «Mi dispiace» appena sussurrato. Mi voltai verso Vincenzo che aveva appena parlato, il suo sguardo ancora una volta perso ad osservare gli alberi. Sospirò, prima di «Mi dispiace essere così. Non te lo meriti. Tu meriti la mia totale fiducia, perché più volte mi hai provato che non sei un coglione, che tu rimani per davvero, che non te ne vai. E lo so che non dovrei avere dubbi, che dovrei essere sicuro tu sceglierai sempre prima me e poi chiunque altro, una parte di me questo lo sa davvero. Lo sa e non ha bisogno di nessun tipo di rassicurazione, perché è vero che ti conosco e so come sei e so che non saresti mai in grado di lasciarmi solo su due piedi, senza una motivazione valida. C’è un’altra parte di me però, che è quella che di solito in queste situazioni prevale, e questa parte mi tortura sempre, mi chiede in continuazione per quale motivo sono così sicuro di un qualcosa di non matematico, non scritto, non certo. Mi dice che sono uno stupido, e alla fine sono davvero uno stupido io, perché non c’è alcuna certezza. Si sta parlando di sentimenti, qui, ed i sentimenti non si possono prevedere, non sono logica né matematica. Se tu un giorno ti svegliassi e ti innamorassi di una persona e decidessi che l’amore è più importante dell’amicizia? Se tu mi lasciassi, troppo preso da questo nuovo sentimento? Io ho cercato, l’ho davvero fatto, mentre stavi parlando, di pensare in positivo, di pensare che tu avresti risposto come hai in realtà fatto, ma questa parte di me continuava a ricordarmi che c’era la possibilità che tu avessi scelto lui e non me. Aveva senso, se teniamo anche in conto che io non ne sapevo niente di ‘sta storia e stamattina sei stato con lui. Aveva perfettamente senso nella mia testa, anche se ti conosco e so che in realtà non è una cosa da te. Non lo so, Nico, non so che dire, solo che mi dispiace seriamente di essere così diffidente a volte, dico davvero.»
«Vieni qua» feci semplicemente, le mie braccia aperte per poter racchiudere il suo corpo tra di esse.
«Ti voglio bene» mi disse poco dopo, la voce un sussurro ed il suo viso attaccato al mio collo.
«Ti voglio bene pure io, bimbo. E vuoi saperla una cosa?»
«Dimmi» fece, le sue braccia ancora avvolte intorno a me a stringermi forte, come se avesse paura di lasciarmi andare.
«Il rapporto che ho con te va oltre anche all’amore. Tano mi piace, un giorno potrei arrivare persino ad amarlo, ma tu, con te è diverso. Tu sei la mia certezza e un giorno ti prometto che io sarò la tua, di certezza. Ricordatela ‘sta promessa.»

«Ma in verità ti vorrei accompagnare, fare ancora quattro passi con te, ma è difficile se vai veloce stare al passo con te. Come si fa?»
 
[Tano]

«Non è successo niente, è andato tutto bene, proprio così, non è vero?» fece una voce dietro di me.
«Eh?» dissi, spostando il mio sguardo dal palco e portandolo su Peppe, che si era appena piazzato accanto a me. Lui salutò prima qualcuno che si trovava nel pubblico, per poi tornare a guardarmi. «L’altro giorno, nei bagni, ti ha detto che gli piaci, non è vero?» mi fece a quel punto, i miei occhi ad allargarsi istantaneamente al ricordo di quello che era successo. Riuscivo quasi a risentire il batticuore che avevo provato in quegli istanti e il groppo causato dall’ansia e dalla paura che mi aveva impedito di respirare per bene per tutta la durata della conversazione. «Sì» mormorai, i miei occhi fissi su qualcosa di indefinito mentre la mia mente si perdeva nei ricordi.
«E questo sarebbe “niente”?» fece Peppe, le sopracciglia inarcate. Lo osservai bene per qualche secondo. Un sentimento simile alla colpa mi ricordava che quello che avevo davanti era il mio migliore amico, la persona a cui avevo sempre detto tutto. Sospirai solamente, perché non gli avevo raccontato di quello che era successo con Nico? Perché mi ero limitato a liquidare la conversazione con un “niente, è andato tutto bene”? Perché non riuscivo più ad aprirmi con lui? Sapevo fosse venuto da me con il solo intento di sfottermi e scherzare un poco, ma paradossalmente la situazione era più complicata di quello che lui immaginasse. Nell’ultimo periodo mi ero involontariamente chiuso in me stesso, prima per un motivo e poi per un altro. Peppe era l’unico che sapeva da sempre, da quando avevo cominciato ad avere i primi dubbi sul mio orientamento sessuale, ma nonostante questo non avevo mai trovato il coraggio di parlargli di Nicola, della mia cotta per lui, dei sentimenti che provavo nei suoi confronti. Se qualcuno mi avesse chiesto il perché non avrei saputo rispondere, eppure quella mi era sembrata la scelta più giusta da fare. Peppe poi aveva capito tutto da sé, forse perché questo è quello che i migliori amici riescono a fare dopo anni e anni di amicizia.
«Oh?» fece lui, una mano a scuotermi il braccio. Lo guardai, realizzando solo in quel momento di non aver risposto alla sua domanda.
«Mi dispiace non avertene parlato» borbottai senza aggiungere altro, il tono più alto del solito a causa della musica. Peppe mi guardò per qualche secondo prima di sorridermi appena.
«Ti dispiace solo per quello?» mi domandò poi, dopo avermi trascinato in un posto più appartato e lontano dalle casse.
«In realtà no» feci, la testa più bassa e lo sguardo fisso sulle mie scarpe.
«E per cos’altro ti dispiace?» fece, una nota divertita nella sua voce. Sapevo non fosse arrabbiato con me, sapevo anche che molto probabilmente non lo era mai stato. Si era sicuramente accorto del mio distaccarmi a poco a poco da lui, ma non aveva detto mai nulla, non aveva fatto niente se non cercare di rimanere al mio fianco in qualunque caso.
Lo osservai per poco, prima di «Mi dispiace perché tu sei sempre qui pronto ad ascoltarmi e invece io non ci sono mai quando servo. Mi dispiace perché tu ci sei, ma ultimamente ho sempre finto di non avere niente da dirti, anche quando era palese il contrario. Mi dispiace perché mi sono tenuto tutto dentro, quando sappiamo entrambi che i problemi pesano di meno quando vengono divisi con un’altra persona. Okay, forse quest’ultima cosa che ho detto è solo una stronzata, ma almeno sono poetico. Mi dispiace perché mi sei mancato. Mi sei mancato sempre, dappertutto: a scuola, a casa, a fare la birra il sabato sera, nelle passeggiate pomeridiane fatte solo per portare a spasso il cane. Mi sei mancato in generale, pezzo di merda, anche se sono stato io ad allontanarti. E, tra le tante cose, mi dispiace soprattutto averti allontanato.»
Peppe mi abbracciò in modo veloce, i suoi occhi ad osservare il palco. «Sei un coglione ma ti voglio bene, lo sai. E nonostante tutto so che anche tu me ne vuoi tanto, so che posso contare su di te e che a volte hai bisogno dei tuoi spazi. Ora, però, il tuo quasi-ragazzo sta per esibirsi sul palco, perché non presti un po’ di attenzione a lui? Su questo discorso possiamo ritornarci quando vuoi.»
«Eh?» domandai, voltandomi velocemente verso il palco giusto in tempo per vedere Nico essere presentato al pubblico. Tutti lo applaudirono e lui in risposta fece un mezzo sorriso. Dava quasi l’impressione di essere calmo, se non fosse stato per i suoi occhi che correvano tra la gente sotto il palco alla ricerca di qualcuno. Appena il suo sguardo trovò il mio abbozzò un sorriso leggermente più ampio del primo e un saluto con la mano, e così fece anche con Vincenzo, quando questo si avvicinò a passo lento alla zona in cui mi trovavo io. Cercai di non guardarlo, di fare finta di nulla. Mi voltai verso Peppe intenzionato a fingere di non averlo visto, solo per ritrovarmi Peppe già in procinto di camminare proprio verso Vincenzo. «Vieni un po’» mi fece a gran voce, qualche passo avanti a me. Quando non gli risposi, Peppe si voltò a guardarmi scettico. «Ti ho detto di venire un po’» ripeté ancora, e quando vide che non sembravo affatto intenzionato a muovermi ritornò indietro. Mi prese il braccio con una mano, trascinandomi di peso verso Vincenzo.
«Hey» fece Peppe una volta arrivati vicino al migliore amico di Nico.
«Oi» rispose Vincenzo, i suoi occhi più freddi di quanto mi ricordassi.
«Tano, questo è Vincenzo. Vincenzo, Tano» disse Peppe, beccandosi poi un’occhiataccia sia da me che da Vincenzo.
«Secondo te non lo conosco?» fece il ragazzo che avevo davanti. Cercai di non dare importanza al tono di voce quasi seccato e per certi versi schifato che aveva appena usato. Peppe sorrise di rimando.
«Benissimo. Abbiamo finito le presentazioni, quindi ora vi lascio il vostro spazio, così potete parlare da soli.» Io e Vincenzo ci voltammo verso di lui, le nostre espressioni incredule. Era diventato pazzo. Voleva lasciare me e Vincenzo a parlare da soli? Era pazzo, non c’era altra spiegazione.
«Che hai detto?» esclamai, mentre Vincenzo gli diceva qualche parolaccia appresso, ma Peppe non rispose perché ormai si era già disperso tra la mischia di persone che circondavano il palco.
Io e Vincenzo rimanemmo per qualche momento immobili, senza sapere che fare e come comportarci, i nostri occhi puntati sul palco che avevamo davanti. Presi un grande respiro per poi «Hey» dire. Una parte di me si aspettava persino che Vincenzo non mi rispondesse. Lui continuò a guardare Nico cantare sul palco per qualche secondo, per poi voltarsi verso di me. «Ciao» disse solo.
Deglutii. «Come va?»
«Hai davvero preso alla lettera quello che Peppe ha detto e vuoi seriamente parlarmi?» fece lui, l’espressione a metà tra l’incredulo e lo scocciato.
«Forse» mormorai, i miei occhi su di lui. Era cambiato, era ovviamente cresciuto. Sembrava un’altra persona, probabilmente lo era davvero. I tratti del suo viso sembravano più duri, i baffi e la barbetta che si era fatto crescere gli conferivano un’aria più adulta, troppo adulta rispetto all’immagine che avevo di lui nei miei ricordi. Nei miei ricordi era quasi un bambino, soprattutto se confrontato al Vincenzo che mi ritrovavo davanti. Il Vincenzo che avevo conosciuto io guardava gli altri con curiosità, li osservava sempre, cercando di arrivare a conoscere anche le loro più piccole sfaccettature. Si interessava a tutti, ma allo stesso tempo non sembrava davvero interessato da nessuno. Il Vincenzo di cui erano pieni i miei ricordi era quello con cui, tra i banchi di scuola, avevo fatto casualmente amicizia.
Ciao. Scusami, è libero questo banco?” 
Sì, non si siederà nessuno. È il primo giorno di scuola, non ho ancora amici in questa classe.” 
Oh. Nemmeno io conosco qualcuno qua. Posso sedermi?”
“Certo! Qual è il tuo nome?”

Io mi chiamo Vincenzo. E tu?”
A quei tempi, i tempi delle medie, era più facile parlargli. Parlargli del tutto e del niente. Raccontargli della scuola, dei compiti di francese che non riuscivo a fare perché il francese mi faceva schifo, raccontargli della ragazzina di terza media che mi piaceva perché era bellissima e sembrava quasi una dea, raccontargli della mia passione per l’informatica che qualche anno dopo sarebbe andata scemando, raccontargli della situazione che stavo vivendo in famiglia, raccontargli del fatto che da grande avrei voluto fare un lavoro importante, che mi avrebbe reso conosciuto in tutti il mondo, e che allo stesso tempo mi avrebbe dato l’opportunità di aiutare la gente in difficoltà, aiutare chiunque ne avesse il bisogno. Anche promettergli che sarei rimasto, a quel tempo, era più semplice. Era più semplice solamente perché ci credevamo entrambi, non avevamo alcun motivo per non farlo. La nostra amicizia era iniziata per la necessità di non stare soli in una nuova classe e con il tempo nessuno dei due aveva avanzato grandi pretese nei confronti dell’altro. Eravamo solamente rimasti amici, nessuno dei due si era nemmeno mai riferito all’altro come ad un migliore amico, ma andava bene così. Tutto questo aveva funzionato fino ai primi anni delle superiori, fino a che non c’era stato il bisogno di avere la prima fidanzatina, di uscire con la prima vera comitiva di persone. Era stato lì, per quell’ultimo motivo, che tutto era crollato.
Oi Tano, stasera esci? Sono due sabati che non ci vediamo.”
No no Vi’, rimango a casa.”
“Che si fa oggi? È sabato, hai tempo per uscire?”
“No, mi dispiace, per lunedì ho troppo da studiare.”
Allora ci sei tu per stasera?”
“No, scusami, non posso.”

“E’ una vita che non ci vediamo, puoi uscire? Almeno per dire due chiacchiere.”
“Mi dispiace, non posso…”
“Come non detto.”
Peppe mi ha detto che sei uscito con loro sabato scorso. E pure il sabato prima ancora. E tutti i sabati in cui a me hai detto che non saresti uscito anche. L’ha fatto per sbaglio, non lo avrebbe fatto se avesse saputo che non era tua intenzione dirmelo. Se non ti andava più di essere mio amico me lo avresti potuto dire mesi fa, quando hai iniziato ad inventare scuse, la cosa si sarebbe risolta più velocemente e avresti anche risparmiato un po’ della tua penosa fantasia per fare altro. Penosa perché le scuse avevano smesso di essere credibili tempo fa. Studiare di sabato, tu? Ma ti sei scordato che abbiamo fatto le scuole medie insieme e so bene che non passeresti mai un sabato sera sui libri? Comunque è finita. Non voglio scuse né stronzate varie, è andata così e va be’. La prossima volta abbi il coraggio di dire le cose in faccia alla gente, se proprio non vuoi più aver a che fare con qualcuno, che così fai più bella figura. Non mi scrivere più, per piacere, non voglio più aver nulla a che fare con te. In ogni caso divertiti con i tuoi nuovi amici, spero siano quelli giusti.”
“Mi dispiace.”
“Anche a me, sicuramente più di quanto dispiaccia a te.”

Mi voltai verso Vincenzo quasi di scatto, la mente annebbiata da tutti i ricordi e i discorsi e le parole e i sentimenti.
«Sì. Sì, ti voglio davvero parlare.» Vincenzo si girò verso di me, un sopracciglio alzato e l’espressione interdetta.
«Eh? Sei stato zitto per minuti interi, pensavo te ne fossi dimenticato.»
«No.»
«Okay.»
Lo fissai per qualche secondo. «Allora? Com’è che stai?»
«Come al solito.»
«E cosa intendi per “come al solito”?»
«Senti ma devi continuare per molto?»
«Eh? Sto solo cercando di parlarti, no?»
«L’ho notato, ma ti sei chiesto se io avevo voglia di parlare con te?»
«No.»
«Ho notato anche questo.»
Rimasi in silenzio, non c’era più niente da dire. Non voleva parlarmi e aveva tutte le ragioni del mondo per farlo. Sapevo, da quando avevo letto quel non mi scrivere più, per piacere, non voglio più aver nulla a che fare con te che fosse tutto finito, che non ci sarebbero state seconde possibilità da parte sua, perché di possibilità me ne aveva date già troppe per com’era lui. Riportai semplicemente l’attenzione al palco, dove Nico aveva appena finito di cantare la sua terza canzone. Feci un sospiro, era andata così.
«Volevo comunque ringraziare un paio di persone, gli altri anni è sempre successo che il discorsone strappalacrime lo facessero gli altri e non io quindi adesso dovete sorbirmi, mi dispiace per voi» fece Nico, la sua voce amplificata dal microfono. «Volevo ringraziare innanzitutto ‘sta scuola, i professori, tutti voi perché mi conoscete ormai da cinque anni, chi più e chi meno, e m’avete sempre sopportato nonostante tutto. Va be’, non è che avreste potuto fare diversamente, comunque. Poi volevo ringraziare Vincenzo, che molti di voi probabilmente manco conosco, perché io e lui sappiamo quanto è importante quel ragazzo per me. Avete presente una barca senza la sua bussola? Ecco, è esattamente quello che sono io senza di lui. Senza quel ragazzo là io sarei da tempo perso tra le onde del mare, solo. Poi volevo ringraziare Peppe, e va be’ a lui lo conoscete quasi tutti sicuramente. Cosa farei io senza quel coglione, mi chiedo. Le ore di matematica non finirebbero mai senza una persona con cui giocare all’impiccato. Mado’ oh, sembra un po’ uno di quei post che scrive Tano alla fine dell’anno per ringraziare tutte le persone che hanno fatto parte della sua vita da quando è nato a quando morirà, non vi pare? Quel ragazzo mi sta proprio portando sulla cattiva strada. E visto che l’ho nominato, mi prendo due secondi per ringraziare anche lui, perché è uno stupido ma senza di lui quest’anno non sarebbe stato lo stesso. Nemmeno questa assemblea, a dire la verità. Quindi grazie pure a te Tano, grazie davvero per tutto. E ovviamente devo citare pure Domenico, Ilaria, l’altro Peppe e… e me ne vado, okay ragazzi, me ne vado. Niente, me ne devo andare perché ‘sti qua si sono scocciati di sentirmi parlare. E va be’, ‘sti adolescenti di oggi. Quindi i ringraziamenti alla fine li trovate su Facebook, li posto il 31 di dicembre se v’interessa. Grazie ancora a tutti, e vi auguro buon fine anno con ‘sta canzone che secondo me vale la pena ascoltare almeno una volta nella vita. Si intitola Buon anno (il guastafeste)

«Buon anno amici, buon anno a tutti voi, siate contenti e felici con chi volete voi, stringete forte chi vi ama, non lo lasciate mai, basta distrarsi che poi… che poi…»

[Tano]

Lo guardai sul palco per prendere l’ultima manciata di forza di cui avevo bisogno per cercare di affrontare di nuovo una conversazione con Vincenzo. Quando lo vidi lì, sorridere mentre cantava la sua ultima canzone, decisi che per lui ne sarebbe valsa la pena. Almeno, alla fine, avrei saputo che non c’era stato più niente da fare, che avevo usato tutte le mie possibilità. Mi mossi di qualche passo, avvicinandomi al gruppo di ragazzi con cui Vincenzo stava parlando in quel momento. «Scusatemi, ve lo devo rubare un attimo» feci veloce, una mano sul suo braccio. I suoi occhi corsero a fulminarmi, ma di rimando gli sorrisi solamente. Tutti i suoi amici mi guardarono perplessi, come se fossi una specie di alieno, quasi mi avessero riconosciuto e sapessero tutti del mio passato con Vincenzo. Decisi di fregarmene, non era quello il momento delle spiegazioni.
«Ma si può sapere che vuoi?» fece lui, appena fummo in un angolo del cortile, abbastanza lontani da tutte le altre persone.
«Senti, non sono venuto qua per litigare. Lo so che sono stata una persona di merda nel passato, so che sono ancora una persona di merda, e mi va bene. So che mi odiavi e so che mi odi tutt’ora, non è questo il punto-»
«Non ti odio» mi interruppe lui.
I miei occhi corsero sui suoi. «Eh?»
«Non ti odio, non ti ho mai odiato.»
«Davvero?»
«Questo non significa però che t’ho perdonato.»
«Sì, penso di averlo notato.»
«Che stavi dicendo, comunque?»
«Oh, sì. Stavo dicendo che non m’importa nulla del se mi odi, se non mi odi, se mi puoi vedere o meno. Volevo solo chiederti, per piacere, se possiamo convivere civilmente? Come… come amici? Anche non essendo veri e propri amici.»
«Ma che stai dicendo?»
«Sto dicendo… io vorrei solo che avessimo un normale rapporto, quasi da conoscenti. Che ci parlassimo ogni tanto, che scherzassimo, che andassimo d’accordo. Non mi fraintendere, lo so come sei e so che non avrò probabilmente mai una chance per diventare un’altra volta un tuo vero amico, ma ora come ora non è quello che mi interessa. Quello che mi interessa è che Nico stia bene, che sia felice e non si faccia problemi su niente. Penso che vederci avere un rapporto sano lo renderebbe felice, lo rilasserebbe. Credo di aver cominciato a capire come funziona la sua testa almeno un po’, ed è un macello, soprattutto in quest’ultimo periodo, nonostante lui non voglia darlo a vedere. Fa sempre finta di nulla, come se tutto va bene, però vedere che noi due possiamo convivere, possiamo andare d’accordo, possiamo parlarci e scherzare, non gli farà altro che bene. Proviamoci, per piacere. Vederlo stare bene è una delle cose a cui più ambisco, e so per certo che anche tu vuoi che il tuo migliore amico sia felice. Questa scelta non riguarda noi, ci riguarda solo in parte, questa scelta riguarda soprattutto lui. Puoi fare una cosa del genere per la persona più importante della tua vita, non è vero?»
Lo vidi deglutire. Socchiuse per pochi secondi gli occhi, quasi per calmarsi e ponderare bene la mia proposta, e quando li riaprì il suo sguardo era puntato sul palco. Osservò la figura di Nicola, un piccolo sorriso affezionato sulle sue labbra.
«Hai detto bene: mi conosci, almeno in parte. È stato coraggioso da parte tua venire qua e chiedermi di essere tuo amico, qualcun altro avrebbe avuto troppa paura per affrontarmi. In ogni caso, va bene, proviamoci. Facciamolo, però lo sto facendo solo ed esclusivamente per Nico, ricordatelo.»
«Quindi siamo… amici?» domandai, le parole a suonare strane alle mie stesse orecchie. Non avrei mai pensato di poter avere una conversazione del genere con Vincenzo, dopo quello che era successo. Non avevo mai pensato di poter avere una conversazione con Vincenzo in generale, a dire il vero.
Mi guardò scettico, ma il divertimento era visibile nei suoi occhi. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo, sembrava quasi più soffice, più dolce. Ridacchiò anche leggermente, prima di «Se ti fa piacere così tanto piacere dirlo».
Rimanemmo in silenzio qualche minuto, Nico a dire le ultime cose da sopra al palco prima di scendere. L’assemblea sarebbe finita tra una quindicina di minuti, avevo quindi solo poco tempo per fare a Vincenzo una domanda che sembrava tormentarmi da quando l’avevo visto quella stessa mattina. Presi un respiro profondo, prima di «Che ne pensi di me e lui insieme?» chiedere ad alta voce, attirando nuovamente l’attenzione del ragazzo che avevo accanto su di me. Mi osservò per pochi secondi, quasi preso alla sprovvista. «Di te e di Nico?» Annuii. «Come preferisci che io risponda?» fece poi.
«Con la verità?» provai. «Voglio sentirmi dire cosa pensi davvero di me e Nicola, di noi due come coppia.»
Silenzio. «Non so cosa penso di voi. Non sono nessuno per sputare delle sentenze a caso, per dire se andate bene o meno, se durerete oppure no. Non ho nemmeno voglia di prendermi una responsabilità tale, so solo che fin quando lui è felice va tutto bene. E Nico ora è felice, lo è con te, lo è quando parla di te, nonostante tutti i problemi che avete avuto, nonostante il modo in cui la vostra quasi-relazione ha influito sull’amicizia che ha con me. Per ora va tutto bene, voi andate bene. Ma, Tano, te lo giuro, se solo provi a fargli del male sei un uomo morto. Io t’ho avvisato.»
«Lo so.»
«Comportati bene, mi raccomando.»
Annuii. «Posso abbracciarti?» gli chiesi, la mia voce piccola nonostante non lo volessi. Vincenzo odiava il contatto fisico inaspettato, quando questo avveniva con persone con cui non aveva un forte legame.
«Ma sei serio?»
Annuii e basta, aprendo le mie braccia e avvicinandomi lento a lui, quasi ad avvertirlo che lo avrei abbracciato e a dargli la possibilità di scansarsi, se avesse voluto. Non si scansò. Sorrise, nonostante stesse cercando in tutti i modi di non farlo.
«Mi stai sul cazzo comunque, lo sai?» fece, le mie braccia ad avvolgerlo forte, forse più forte di quanto sarebbe servito. Il suo odore era così familiare e allo stesso tempo così nuovo. Abbracciarlo era come tornare a casa dopo una vita fuori, lui era casa ma allo stesso tempo un territorio straniero, diverso, cambiato.
«In realtà non ho mai pensato il contrario.» Rise. Risentii la sua risata dopo anni, non era cambiata di una sola virgola. Vincenzo era decisamente ritornare a casa.

«Non c'è rimedio logico alla tristezza e la libertà non mi dà gioia a volte ma solo insicurezza. Quindi mi tengo tutte quante le mie dipendenze per vivere meglio, per vivere meno peggio, siamo fatti di sale di sole di sabbia di mare, ed io sono fatto di te.»

 
Ero sceso dal palco da pochi minuti quando lo vidi correre verso di me. Mi voltai per qualche secondo nella direzione opposta alla sua dato che Peppe mi aveva chiamato, ma appena Tano mi arrivò vicino trovò comunque il modo di rendermi nota la sua presenza, abbracciandomi forte da dietro. Il suo petto ampio, ricoperto da strati e strati di vestiti, a combaciare con la mia schiena. Con le sue braccia mi strinse a sé come se non ci fossimo visti da tempo, come se gli fossi mancato.
«Hey» mormorò al mio orecchio, la sua voce quasi un sussurro. Passai le ultime cose a Peppe, per poi voltarmi verso Tano nell’abbraccio in cui mi teneva racchiuso.
«Ciao» sussurrai di rimando. Vari occhi delle persone che avevamo intorno erano puntati su di noi, ma decisi di non dar loro importanza, non avevo mai dato importanza a quel tipo di cose. Le mie mani andarono a posarsi sui fianchi di Tano, dentro al pesante giubbotto che indossava quel giorno. Cercai con le dita di arrivare alla sua pelle, superando il maglione e un’altra maglietta che aveva addosso, e lo vidi rabbrividire al contatto delle mie dita fredde con la sua pelle calda. Sorrisi leggermente alla reazione che aveva avuto.
«Hai un’espressione stanca, è successo qualcosa?» gli domandai, i suoi occhi socchiusi per qualche secondo. Scosse la testa in risposta. «Tra un po’ ti dico. Mo, appena finisce l’assemblea e abbiamo un po’ di tempo per noi.»
«Va bene.» Tano rimase in silenzio per ancora qualche minuto, le mie mani a quel punto ficcate nelle tasche calde del suo giubbotto, a tenere il suo corpo più vicino al mio di quanto fosse necessario. «Comunque, perché prima sei venuto qui correndo?»
«Eh?» fece, l’espressione confusa. Subito dopo sembrò capire ciò che avevo detto, quindi «Perché… non lo so. Non so, non c’è stato un vero e proprio motivo, avevo solo visto che eri finalmente sceso dal palco e sono venuto ad abbracciarti. Era da prima, da quando stavi cantando, che volevo abbracciarti, però non potevo farlo» fece, il tono troppo basso affinché io potessi capire ogni singola parola che aveva detto, date le grandi casse che avevamo vicino.
«Romanticone» borbottai poi, spostando i miei occhi sul palco per osservare le ultime due ragazze che si sarebbero esibite quel giorno. Una di loro mi stava fissando.
«Nah, il romanticone sei tu» fece Tano, e di nuovo la mia attenzione fu completamente su di lui.
«Prova a ripeterlo, avanti.»
«Perché, se lo ripeto che fai?» Rise guardando la mia espressione allibita.
«Non ti bacio per una settimana.»
«Non riusciresti a resistere dal baciarmi per così tanto tempo.»
«Vuoi scommettere?»
«No.»
«Sei troppo debole» mormorai allora, sorridendo vittorioso.
«Debole per te? Sì.»
«Chi me l’avrebbe mai detto che sarei finito con uno scemo del genere, dio mio.»
«Lo ami a questo scemo.»
Aprii la bocca per rispondere solo per richiuderla appena il suono della campana ci comunicò che l’assemblea era finita. Mi voltai verso il palco, dal quale un’altra rappresentante stava invogliando gli studenti e ritornare alle proprie aule.
«Vieni un attimo con me» fece Tano, le sue dita ad intrecciarsi con le mie mentre si incamminava a passo veloce nella direzione opposta a quella in cui la gente si stava dirigendo. Stavano tutti tornando andando verso il portone d’ingresso secondario dell’edificio, mentre Tano mi stava portando verso un’altra parte più grande del cortile.
«Dove stiamo andando?» gli chiesi quando mi lasciò la mano per scavalcare una transenna che segnava lo spazio fin dove potevamo andare noi studenti. Nel pezzo di cortile in cui era appena entrato lui erano da mesi in corso dei lavori di ristrutturazione dell’edificio. Tano si allungò per afferrare una delle mie mani, tirandomi verso di sé.
«Vieni, muoviti, andiamo dall’altra parte del cortile così possiamo stare un po’ da soli. Ora sono tutti nelle classi e nei bagni, non abbiamo un solo centimetro di scuola tutta per noi.»
Lo guardai scettico, e al mio sguardo rispose con un piccolo sorrisetto. Una volta scavalcata anch’io la transenna, riafferrò la mia mano e cominciò a correre, costeggiando tutto il perimetro esterno della palestra fino ad arrivare al secondo grande piazzale della scuola. I due piazzali erano divisi dal lungo corridoio che portava alla palestra, e il cortile in cui ci trovavamo in quel momento era vuoto, diversamente dall’altro, poiché inagibile.
«Che ci facciamo qua, quindi?» gli domandai, osservando da lontano tutte le attrezzature inutilizzate.
«È da prima che ho voglia di baciarti.» Il mio sguardo corse veloce sul volto di Tano. «Però devo dirti delle cose prima di poterlo fare.»
Annuii piano, l’espressione curiosa. «Che devi dirmi?»
«Ho parlato con Vincenzo.» Spalancai gli occhi, preso alla provvista. Aveva fatto cosa?
«Che cosa?»
Tano allungò una sua mano per accarezzarmi la guancia, il suo tocco leggero sulla mia pelle. «Stai calmo» fece soltanto, prima di «È andato tutto bene».
Rimasi in silenzio. Andava davvero tutto bene? «Che è successo?»
«Gli ho chiesto di essere… amici? Di essere almeno conoscenti, di chiacchierare e parlare e scherzare, quando capita. Gli ho chiesto di farlo soprattutto per te, e lui ha accettato la mia proposta, mi ha detto che gli andava bene. Sembrava quasi felice, a tratti.»
«Non era felice, Vinci ha paura.»
«Che intendi?»
«Vinci ha paura, paura di… non lo so, essere tradito, penso. Ce l’ha perché i suoi amici lo prendevano in giro dietro le sue spalle, nonostante davanti a lui facessero finta di essere i suoi migliori amici. Poi lui li ha scoperti, si è allontanato e alle medie ha incontrato te. Mi ha detto che ci ha messo un po’ per fidarsi veramente, dato com’era andata con i suoi vecchi amici, ma poi alla fine c’è riuscito: si fidava di te quasi completamente. Ti giuro che è tanto per lui, dato che non si fida completamente manco di me. Vinci si fidava un sacco di te e poi alla fine anche tu l’hai tradito, quindi ora ha paura che questo succeda anche con me, che finirò col tradirlo anche io, che me ne andrò perché preferirò te a lui.»
«Non… non è sembrato niente di tutto ciò. Non mi ha proprio parlato di queste cose, all’inizio sembrava solo provato, un po’ antipatico, scazzato, ma sembrava stare okay. Nel senso… tranquillo con tutto, con il fatto che io e te stiamo insieme, non sembrava impaurito da niente.»
«Vinci dà a vedere solo ciò che vuole, quando vuole e soprattutto a chi vuole.»
«Non… ma quindi le cose che mi ha detto erano delle cazzate? Mi ha mentito tutto il tempo?»
«No. Ti ha detto ciò che pensa, avrà solo omesso qualche considerazione per lui troppo personale qua e là, e alla fine è sembrato persino felice. Non penso fosse così estasiato, in realtà, ma è okay.»
«Mi ha detto che finché sei felice tu gli va bene che stiamo insieme.» Sorrisi. «Mi ha anche detto che se ti faccio del male mi ammazza.»
«Prevedibile» feci, ridacchiando.
«E alla fine l’ho abbracciato.»
«Che hai fatto?»
«L’ho abbracciato.»
«Ma sei pazzo?»
«No, solo… volevo abbracciarlo.»
«E cosa ha fatto lui?»
«Mi ha abbracciato di rimando.»
«Non ci credo.»
«Fallo, invece.»
«Ma allora sei proprio quello giusto per me.»
«Eh?»
«Vincenzo si rifiuta di abbracciare tutti, odia il contatto fisico. Il fatto che ti abbia abbracciato è… wow, davvero, non ci credo.»
«Nessuno può resistere al mio charme, tu ne sei la prova vivente» fece, il tono serio.
Lo fissai, per poi scoppiare a ridergli in faccia. «Credici amore.»
Il sorriso che aveva sul volto sembrò quasi svanire, la sua espressione diventò di colpo più seria. Lo guardai accigliato. «Come mi hai chiamato?» Cazzo. Non ci avevo pensato mentre lo stavo dicendo. «È ora di andare a mettere il palco a posto» borbottai, voltandomi velocemente verso la mia destra e cominciando a camminare a grandi passi. Tano fu velocemente dietro di me, una sua mano attaccata al mio braccio. Mi fermò, facendomi girare quasi con la forza verso di lui. Io tenni gli occhi basi, continuando a cercare di convincermi mentalmente che non l’avevo davvero chiamato in quel modo. Non l’avevo fatto. Non l’avevo sicuramente fatto.
«Allora, com’è che mi hai chiamato?» fece ancora una volta, una nota felice nella sua voce. Pezzo di merda.
«In nessun modo, hai sentito male.»
«Come vuoi. Ripetimi la cosa che ho sentito io, però.» Scossi la testa, un broncio sulle mie labbra. In risposta Tano si avvicinò a me, il suo corpo troppo vicino al mio per poterlo ignorare, la sua bocca distante qualche centimetro dalla mia. Mi feci in avanti, cercando di catturare il suo labbro inferiore tra i miei denti, ma appena mi mossi lui si tirò indietro, un sorriso divertito sulle sue labbra.
«Mi potrai baciare solo quando mi ripeterai il modo in cui mi hai chiamato.»
«Ti ripeto che hai sentito male, io ho detto “coglione”.»
«Va be’, allora ti bacerò solo se mi ripeti la cosa che hai detto nel modo in cui l’ho sentita io.»
«No.»
«Dai.» Le sue labbra scesero sul mio collo, a mordere piano la pelle. «Dai» ripeté leggero, prima di baciare la pelle che aveva precedentemente morso.
«Ti ho chiamato…» La sua bocca era arrivata a baciarmi piano la mascella, e nonostante cercassi di resistere alla voglia di riavere le sue labbra sulle mie, nonostante non volessi dargliela vinta, sapevo che avrebbe vinto lui dal principio. «Ti ho chiamato amore.»
Le sue labbra si aprirono subito in un sorriso e prima che io potessi dirgli che mi era scappato, che non volevo, che probabilmente non lo avrei mai più chiamato così, la sua bocca era finalmente ancora una volta sulla mia. Ci baciammo per quelli che sembrarono minuti, ci baciammo come se avessimo a disposizione tutto il tempo del mondo, come se non dovessimo preoccuparci di niente se non l’uno dell’altro.
«Lo so» cominciò subito dopo essersi staccato da me. «Lo so che sembra stupido chiedertelo ora, in realtà credo proprio che lo sia. Stupido, intendo. Lo so, quindi non provare nemmeno a ridermi in faccia. Però, insomma, noi… siamo fidanzati? Intendo, noi stiamo insieme?» Lo fissai per qualche secondo, quasi preso in contropiede dalla domanda che mi aveva fatto. Mi sarei aspettato di tutto, ma non una domanda del genere.
«Teoricamente no.»
«Ah no?»
«Nope. Quindi… che ne dici se da oggi mi riferisco a te come al mio ragazzo?»
Lo osservai in silenzio, guardando prima i suoi occhi per poi spostare la mia attenzione alle sue labbra. La sua mano sembrava quasi tremare leggermente nella mia. Gli sorrisi. Era così diverso da tutto quello che mi sarei mai aspettato mi potesse piacere, così diverso da tutto quello che mi era piaciuto fino ad allora. Era strano.
«Ovviamente mi va benissimo» esclamò colto alla sprovvista, il suo sorriso enorme e la presa del suo braccio intorno al mio bacino più forte di quanto fosse in realtà necessario. Lo guardai essere felice, davvero felice, per quella che mi parve essere la prima volta. Se tutti i ripensamenti, gli errori, le discussioni, i giorni passati ad ignorarci, le volte in cui se n’era andato erano serviti a quello, a farlo essere così sinceramene felice, allora ne era valsa la pena aspettare, stare male, essere confuso tutto quel tempo. Ne era valsa completamente la pena. Continuò a sorridere anche mentre lo trascinavo nell’altro piazzale, in cui ad aspettarci trovammo Peppe e Vincenzo.
«Ma che c’ha quel cretino?» fece Peppe, un sorriso affezionato sul suo volto mentre lo osservava curioso.
«Questo cretino ora è il mio ragazzo» mormorai io, senza riuscire a trattenere una risata alle espressioni che fecero i due davanti a noi. Si guardarono l’un l’altro per qualche secondo, prima di battersi il cinque a vicenda. «Ce l’avete fatta, finalmente. Era pure ora, coglioni.»
Sorridemmo in risposta senza però dire nulla. Vincenzo e Peppe ricambiarono i nostri sorrisi.

«Anno più, anno meno che sia un anno sereno meglio di quello passato, non guardatevi indietro, che stronzata colossale dover sempre migliorare e soffrire per amore come fosse naturale.»
Fine
  
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