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Autore: thirdstar    01/01/2017    0 recensioni
Non mi odiare, John.
"Ti prego", penso. Spero. Anche se so che è immensamente stupido sperare nell’impossibile.
Ti porti una mano davanti alla bocca ed emetti un singhiozzo che mi fa tremare fin dentro le ossa. Sapevo di averti fatto male ma ora mi rendo realmente conto fino a che punto.
- No - mormori.
AU post-reichenbach. Non tiene conto della terza stagione. John potrebbe risultare un po' OOC. Slash of course.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Oltrepasso la porta esitante e sento la mano tremarmi leggermente mentre lascio andare la maniglia.
La prima cosa che mi fermo ad osservare sei tu, la sola cosa che voglio vedere. Non mi importa di Baker Street, non mi interessa nemmeno sapere come è diventata.
Potresti aver buttato ogni cosa, potrebbe esserci solo la tua poltrona in mezzo al nulla. Non farebbe differenza.
Ti vedo voltarti verso di me e mi sento paralizzato, gli occhi che incontrano i miei non sono saldi come li ricordavo, ma incerti, smarriti e si allargano a dismisura dopo una frazione di secondo.
Il blu delle tue iridi mi investe.
Hai sentito il gradino di legno scricchiolare, ovviamente, ma di certo non pensavi potesse essere un fantasma a salire le scale.
Per te sono solo una lapide. Del marmo piantato in terra. Forse una memoria che fa male, oppure una memoria e basta.
Vedo la tazza di ceramica che hai in mano scivolarti fra le dita quasi fosse il tuo stupore concretizzatosi in gesto.
Mi viene l’impulso di buttarmi ai tuoi piedi e afferrare la tazza prima che finisca a terra, come se da questo potesse dipendere la mia vita.
Non voglio lasciarla cadere. Quando le cose cadono si rompono e quando si rompono fa male.
Ovviamente non mi muovo. La ceramica fende l’aria e si schianta al suolo con un fragoroso crack che ci fa sobbalzare simultaneamente mentre il mio cuore perde un battito.
Vedo il tuo sguardo farsi disperato e tremare leggermente. Hai gli occhi lucidi e stravolti, e io mi sento il peggiore degli uomini, il mio cuore si stringe in una morsa fino a farmi pensare che voglia farsi piccolo piccolo per non essere investito dal tuo odio.
Non mi odiare, John.
"Ti prego", penso. Spero. Anche se so che è immensamente stupido sperare nell’impossibile.
Ti porti una mano davanti alla bocca ed emetti un singhiozzo che mi fa tremare fin dentro le ossa. Sapevo di averti fatto male ma ora mi rendo realmente conto fino a che punto.
- No - mormori.
Ti sei piegato sulle ginocchia, la mano ancora sulla bocca, cercando di non urlare, singhiozzare e cedere alla valanga di emozioni che ti assalgono.
Vorrei che almeno una di esse fosse sollievo. Non oso sperarlo. Rabbia e delusione le più probabili.
Temo che vincerà la delusione, sei troppo stanco e amareggiato per provare rabbia.
- No - dici di nuovo, solo un sussurro, scuotendo la testa.
Ti inginocchi davanti alla tazza in frantumi, guardi i vari pezzi mischiati al tè versato ed emetti un altro sospiro tremante, quasi impercettibile, così debole che a stento riesco a udirlo.
Quando alzi di nuovo lo sguardo su di me hai un espressione disorientata, gli occhi enormi, e la rabbia, come pensavo, non è predominante quanto la delusione. Questa volta detesto avere ragione.
Una lacrima rimane impigliata sulle tue ciglia e abbassi di nuovo lo sguardo.
- T-tu – balbetti, rannicchiandoti maggiormente, come se dovessi sostenere il peso dell’universo sulle tue spalle.
Dio, John. Tu che non ti sei mai piegato davanti a nulla… Penso che forse avrei dovuto mandare qualcuno a prepararti. Mycroft, magari. Ma non gli avresti creduto e lo avresti preso a pugni fino a ridurlo a un ammasso sanguignolento.
Mi avvicino lentamente con passo malfermo, ed esito un attimo prima di chinarmi davanti a te, sulle ginocchia, più o meno incurante dei cocci che potrebbero ferirmi.
Adesso hai smesso di parlare e scuoti soltanto la testa, le mani tra i capelli. Sento il tuo respiro spezzarsi e farsi sempre più veloce, prendi boccate avide che sembrano non bastare mai e io non so cosa fare.
Mi sento vacillare all’idea che tutto questo è colpa mia e della mia stupidità.
So di averti deluso. Ti ho ferito in tutti i modi possibili.
Mi tolgo i guanti in fretta e sto per alzare una mano verso la tua spalla ma mi manca il coraggio.
- Tu n-non … – balbetti ancora. La negazione sembra sia l’unica cosa che riesci a concepire in questo momento. Il tuo cervello cerca di aggrapparsi agli schemi mentali che hai seguito nei due anni passati.
Vedo i tuoi occhi fissare nel vuoto e passare in rassegna tutto quello che è successo dopo che mi sono buttato.
Ricordi il battito assente, una incredibile quantità di sangue e i miei occhi vuoti fissi nel nulla e non sai come riuscire a dare un senso a queste evidenze se ora sono vivo e respiro davanti a te. Non sai che pensare.
Finalmente trovo la forza di allungare la mano per toccarti e ti sento tremare sotto il maglione beige che dopo due anni di lavatrici è ancora più brutto di come lo ricordavo.
Ti stringo più forte e sento un nodo serrarmi la gola in una presa spasmodica. Non so cosa potrei dire che non suoni falso e ipocrita.
Tu continui a guardare in basso e rabbrividisci sotto al mio tocco mentre le tue spalle sono scosse da violenti singhiozzi, che mi terrorizzano. Si, il grande Sherlock Holmes ha paura. E non è certo insolito, non da quando ti conosco.
Sento brividi di panico farsi strada sotto la mia pelle ma li ignoro. Di slancio afferro la lana del tuo pullover e ti avvicino a me, finché non riesco a prenderti per entrambe le spalle e ad abbracciarti .
–John. – mormoro tra i tuoi capelli.
E’ davvero strano che questa sia l’ultima parola che ti ho detto  prima di andarmene e la prima che pronuncio adesso che sono tornato.
Tu rimani in silenzio. Il no che avevi sulla punta della lingua ti muore sulle labbra e mi domando se anche tu ti sei accorto che questa sillaba, no, e il mio nome sono in effetti le ultime parole che mi hai detto prima che saltassi.
Stiamo ripetendo quella stessa scena anche adesso? Come se volessimo rifarla per cambiarne il finale?
- Va tutto bene – sussurro, con voce rotta, sentendo che tu non rispondi all’abbraccio.
- Col cazzo – replichi, con voce dura, cercando di riprendere a respirare normalmente e fallendo. Fai un respiro a metà e mi afferri il polso tra le dita per prendermi le pulsazioni.
E’ così. Siamo rimasti per due anni fermi allo stesso punto di una scena finita male.
- Sono qui – dico, preda di un angoscia terribile per quanto dolore c’è in questa stanza e tra di noi. Perché c’è, come un velo impalpabile che ci divide.
Il mio cuore batte così veloce che lo sento rimbombare nelle orecchie e sono sicuro che le tue dita di medico abbiano registrato questa mia debolezza emotiva, ma non ho idea di come l’abbiano interpretata.
- Mi dispiace. – dico, e adesso sono io a tremare – Non riesco a trovare le parole per dirti quanto. – mormoro.
Vorrei tanto poterti entrare nella testa per farti vedere come sono andate le cose. Darti la possibilità di perdonarmi. O se non altro di capirmi.
Nessuno mi ha mai capito tranne te ed è crudele che in questo momento tu non possa farlo.
- Perché? – mi aggredisci con un ringhio. Il sottotesto è evidente, almeno per me. Non mi perdoni, non lo farai mai, ma devi sapere.
Sciolgo lentamente l’abbraccio per poterti guardare. – Moriarty ti avrebbe ucciso altrimenti. – mormoro - Eri nel mirino di un cecchino. Voleva vedermi morto e gli ho dato quello che voleva.
Quando incateni gli occhi ai miei mi sembrano veramente enormi, due pozzi blu. Potrei giurare che siano fatti d’acqua. Oceani di lacrime.
– Due anni. – sibili rabbioso.
- Dovevi credermi morto perché gli altri ci credessero. – mi rendo conto che le parole mi sono uscite troppo brusche e cerco di calmarmi Anche se Jim si era sparato i suoi  non lo sapevano e avrebbero concluso il lavoro se non mi fossi buttato. Non potevo tornare perché non avrebbero mai lasciato le cose a metà sapendomi vivo.  Soprattutto Moran, il suo amante. Ho dovuto scovarli uno ad uno. L’MI6 ha dato una mano ad arrestarli e al resto ha pensato Mycroft. Ho idea che siano a Guantanamo in questo momento.
Tu resti in silenzio qualche secondo, il tuo respiro si è regolarizzato e la cosa non mi stupisce, parlare aiuta sempre. Distrae la mente. Motivo per cui non parlavo per ore quando ero su un caso.
Ti allontani lentamente e sento che spiegarti ogni cosa non è comunque servito a nulla.
Quando finalmente mi guardi hai gli occhi umidi, stanchi e sospettosi e mi fissi con un intensità che è quasi morbosa.
Osservi le mie labbra e il neo sul collo, ostinatamente, come se cercassi di ottenere da loro le risposte che ti servono.
Non ti fidi più delle mie parole, e d'altronde non posso darti torto. Poi senza alcun preavviso ti alzi e te ne vai, fai un imprecazione e sento una porta – il bagno – aprirsi e chiudersi, subito dopo mi giunge alle orecchie il rumore attutito di conati di vomito.
Strizzo gli occhi e sento l’aria abbandonare i miei polmoni. Ti ho ferito di nuovo, e mi sento morire. Poi chino lo sguardo sui resti della ceramica candida, schizzata in alcuni punti di Earl Grey. Quando le cose cadono non si può tornare indietro.
Mi sono fatto cadere e ti ho lasciato cadere a tua volta buttandomi da quel tetto ed è un fatto di cui non mi perdonerò mai.
Mi alzo e mi dirigo verso il corridoio, ne percorro un tratto e mi fermo davanti alla porta del bagno. Non ho il coraggio di aprirla, né di chiamarti. Poso una mano sul legno e rimango a fissarlo mentre sento provenire da dentro il rumore dell’acqua.
Così aspetto. Aspetto che tu esca. Che il tempo passi. Che le nostre vite si ricompongano.
Mi tolgo la sciarpa dal collo ma non il cappotto perché non so se mi permetterai di restare o mi dirai di andarmene.
Dopo una decina di minuti esci dal bagno, quando mi trovi lì fuori sembri sorpreso ma non dici niente, deglutisci e posi lo sguardo altrove.
- Se tu mi chiederai di andarmene, – mormoro, appena udibile, lasciando la frase in sospeso qualche secondo – lo farò. Posso andare da Mycroft. – dentro di me sento che se lo farai non ci saranno più speranze per noi, ma non posso non chiedere.
- E’ casa tua – alzi lo sguardo e lo posi fuggevolmente su di me, come a dimostrare che tu sei migliore e poi ti avvii lungo il corridoio e sali in camera tua, chiudendoti dentro.
Rimango ancora un po’ a fissare il punto in cui eri prima e poi torno in soggiorno, in quello che adesso è diventato un territorio sconosciuto.
Domani dovrò vedere la signora Hudson e ripetere le stesse cose anche a lei e mi sento esausto all’idea.
Mi tolgo il capotto e ho finalmente modo di guardarmi intorno e vedere che davvero non è cambiato molto. C’è ancora il teschio sul camino, e il violino. Non vedo la mia attrezzatura scientifica e penso che devi averla data via o conservata da qualche altra parte, magari in cantina.
Vado in cucina a prendere uno straccio per pulire il disastro in soggiorno. Dopo aver asciugato mi chino a raccogliere i pezzi della tazza.
Quando penso che dovrei buttarli sento un brivido lungo la schiena. Per qualche motivo mi sembra sbagliato. Faceva parte del servizio da thè che ci aveva regalato la signora Hudson il primo Natale dopo che ci siamo trasferiti a Baker Street.
Prendo una piccola scatola di latta posata sul camino, convinto che sia vuota, la dimensione è quella giusta per i cocci, ma in realtà è piena di foto. Una ti ritrae con Lestrade e Molly a Natale. Una seconda con la signora Hudson, mentre in un altra ci sono io che suono il violino di spalle.
Poi un ritaglio di giornale, nella foto ci siamo io e te. Rimango a fissarla per un po’.
Un altro ritaglio di giornale e questa volta è inaspettato. E’ l’articolo che parla del mio suicidio.
C’è una foto scattatami sulla scena di un crimine da qualche giornalista e riesumata per l’occasione, non un gran che, luce pessima e pochissima profondità di campo.
Richiudo la scatola. Poi ci ripenso e tiro fuori dalla tasca dei pantaloni il mio portafoglio e sfilo dal suo interno un'altra foto di giornale mia e tua che avevo stampato da internet prima di partire per la Serbia. La piego e la infilo insieme alle altre.
Vado in cucina a prendere un sacchetto di plastica dalla credenza e lo uso per riporre i cocci. Mi avvicino al davanzale dove è appoggiato il mio violino, pulito e senza un filo di polvere. Sono praticamente certo che sia merito della signora Hudson perché tu sei un amante delle pulizie ma non così meticoloso.
Faccio un sorriso stanco mentre passo le dita sulle corde dello strumento, non avrei mai pensato che  te lo saresti tenuto tutto questo tempo.
Due anni che non suono e non compongo, praticamente una vita, ma ora è l’ultima cosa al mondo che vorrei fare.
In questo momento l’unica cosa che vorrei è salire da te, soltanto per guardarti. Non sono riuscito a registrare tutti i cambiamenti sul tuo volto a parte qualche ruga in più e un paio di capelli bianchi qui e là.
Lascio il violino dov’è e guardo l’orologio, sono le dieci e mezza. Mi dirigo verso la mia camera, chiedendomi come la troverò.
Forse farei meglio a dormire sul divano per stanotte, penso. Scopro che le lenzuola ci sono e anche il copriletto con sopra un telo per riparare il tutto dalla polvere. Sembra il genere di cose che farebbe la signora Hudson.
Sembra che non sia più stata usata da allora.
Appena entrato metto la busta con i cocci in un cassetto del comodino, poi mi tolgo le scarpe e mi stendo sul letto, senza disfarlo e senza svestirmi.
Un bip mi avvisa dell’arrivo di un messaggio… So senza guardare che è Mycroft. Per tutti gli altri sono ancora morto. Avrei voglia di spegnere il telefono senza neanche leggerlo ma alla fine lo apro.
State bene? MH
Faccio un sorriso amaro.
Nessuna guerra da sventare al momento?SH
Non essere infantile, Sherlock MH
Fottiti. SH
Dopo mezz’ora di silenzio penso che ormai non scriverà più, d'altronde Mycroft detesta la volgarità ed ammetto di averlo fatto apposta. Sto per spegnere il cellulare quando arriva la risposta.
Mi dispiace MH
Telegrafico, come sempre. Certo che ti dispiace, in fondo è anche colpa tua. Spengo il cellulare con un senso di fastidio, e mi volto a spegnere l’abatjour.
 
 
Mi sveglio di scatto, improvvisamente all’erta, sentendo una mano calda che mi si chiude intorno al polso.
Mi irrigidisco e cerco di capire dove mi trovo e se mi abbiano catturato, se quella mano intorno al mio polso indica che sono fottuto, che Moran mi ha trovato, che nella migliore delle ipotesi mi torturerà fino alla follia e nella peggiore mi ammazzerà come un cane. Forse mi hanno preso alla sprovvista con un colpo in testa. Forse sono già spacciato.
Cerco di regolare il respiro per non fare capire che mi sono svegliato, ho bisogno di tempo per pensare a un piano. Mi aspetto da un momento all’altro di sentire la canna di un revolver sfiorarmi la tempia.
Ma non succede nulla di ciò e invece alle mie orecchie giunge il suono attutito di singhiozzi a stento trattenuti.
Nella mia mente tutto si ricompone. Sono a Baker Street. Sono a casa. E’ solo la tua mano. Emetto un sospiro di sollievo, poi improvvisamente mi chiedo perché tu sia qui. Cioè immagino di saperlo il motivo ma davvero non mi aspettavo una cosa del genere, John.
Tu nella mia stanza che mi tieni il polso e piangi. Aggrotto le sopracciglia.
A questo punto ti sei reso conto dalla cadenza dei respiri e dal mio irrigidimento che devo essermi svegliato e mi lasci andare quasi bruscamente, come se la mia pelle fosse fatta di lava incandescente, al buio cerchi a tentoni la strada verso la porta e io mi volto ad accendere la luce, veloce ma non abbastanza da poterti impedire la fuga.
Scorgo solo la tua schiena che scompare oltre la porta. Urlo il tuo nome ma tu non rispondi e sali le scale precipitosamente per poi chiuderti in camera tua, a chiave. Mi lascio andare contro la testata del letto ed emetto un sospiro stanco, mentre mi sfrego gli occhi con una mano.
 
 
Il mattino dopo non esco dalla mia camera nonostante mi sia svegliato molto prima di te. Non mi voglio imporre nella tua nuova vita. Non voglio crearti problemi. Interferire. Così decido di aspettare che tu esca di casa per andare a lavoro. Nel frattempo impiego il tempo in modo costruttivo. Apro l’armadio e noto che ci sono ancora tutti i miei completi puliti e stirati. Passo velocemente in rassegna tutto il contenuto notando la mancanza della camicia viola. Mi chiedo vagamente il perché ma non indago ulteriormente e passo a controllare nei cassetti del comodino notando che nulla del ciarpame buttato alla rinfusa con cui li avevo stipati è stato rimosso. Nemmeno lì sembra essere cambiato niente, eppure so che è solo apparenza.
Trovo un pacchetto di sigarette e decido che occuperò il resto del tempo fumando e pensando a come lo dirò alla signora Hudson.
Devo trovare un modo il più indolore possibile e devo trovarlo in fretta, Mycroft sta per iniziare con il suo programma di riabilitazione del mio nome.
Cerco un foglio di carta e ne trovo uno in pessime condizioni e strappato in fondo, ma non ho realmente bisogno di un foglio di pergamena per fare questo e così prendo la penna e cerco di scrivere una riga. La cancello.
Provo a scriverne un'altra. Cancello ancora prima di terminarla.
Il risultato finale è mediocre ma efficace.
 
Carissima Signora Hudson,
Lei è un po’ come una madre per me, si, è sempre stata come una persona di famiglia e mi permetta di dirle che credo di averle voluto bene come un figlio ed è per questo che l’ho fatto.
Gli uomini di Moriarty vi avrebbero uccisi. Tutti voi. John, Lestrade e Lei.
Ho dovuto. Ma mi creda se Le dico che ho cercato fino all’ultimo di trovare una via di uscita.
Fino all’ultimo.
Vorrei non avervi costretti a credermi morto per tutto questo tempo, nemmeno per un solo giorno,  ma purtroppo quello che voglio io non conta. Tanto meno adesso. Mi detesto per avervi coinvolto, mettendovi in pericolo.
L’unica cosa che posso fare è dire che mi dispiace.
Spero che capirà e che sarà così buona da perdonare quel folle del suo inquilino.
 
Suo affezionatissimo,
Sherlock Holmes
 
Ok, può andare bene penso. Scarto l’idea di fargliela passare sotto alla porta perché se dovesse sentirsi male sarebbe sola in casa e nessuno se ne accorgerebbe o potrebbe soccorrerla. Avrei bisogno che ci fosse un medico. Sì, un medico a portata di mano sarebbe la cosa migliore. John. Si, tu saresti perfetto. Come ho fatto a vivere questi anni senza di te?
Decido che l’idea di aspettare che tu esca di casa per uscire dalla stanza è davvero pessima, la signora Hudson ha una copia delle chiavi dell’appartamento e potrebbe salire anche solo semplicemente perché ha finito il sale. Non è mai stato un problema per noi che lei potesse salire sia quando noi eravamo in casa che quando non c’eravamo. Tante volte veniva addirittura a farci il bucato ma solo perché sapeva che tu eri l’unico a sbrigare i lavori di casa per entrambi e ho il sospetto che tentasse di agevolarti il compito.
Esco dalla camera come una furia e vado dritto di filato in cucina dove so di trovarti in base ai rumori che mi giungono alle orecchie.
Sei già vestito e pronto per uscire e stai sorseggiando una tazza di the. Quando mi vedi sobbalzi e deglutisci rumorosamente e resti a fissarmi, solamente a fissarmi.
Nei tuoi occhi leggo l’universo. Un universo burrascoso.
Occhiaie perché non hai dormito tutta la notte, proprio come me. Ti sei tagliato nel rasarti in due punti perché ti tremava la mano. Mano che ancora adesso stringe la tazza col doppio della forza che ci vorrebbe. Hai un residuo di dentifricio sul labbro di cui non ti sei accorto per la stanchezza.
Temo di aver preteso troppo, John.
Mugugno un “ciao” stentato e tu incroci le braccia e sollevi un sopracciglio. Mi stai mettendo alla prova. Non mi vuoi parlare, lasciare entrare nella tua vita di nuovo.
-Ho bisogno del tuo aiuto – dico.
Tu mi guardi perplesso e sollevi anche l’altro sopracciglio.
-Hai pensato come dirlo alla Hudson? – mi chiedi e io quasi scoppio a ridere perché è così assolutamente da te questo. Pensi sempre agli altri prima.
Mi avvicino e allungo la mano destra per passarti il foglio. Tu lo prendi e lo leggi.
Ti soffermi un po’ di più su un punto che rileggi due volte.
-Ho paura che si senta male e sarei più tranquillo se fossi tu a dargliela. Sei un medico e puoi intervenire. Io non potrei fare nulla.
Tu mi guardi come se avessi detto che voglio andare a fare rafting con Anderson ma annuisci e te ne vai lasciandomi lì imbambolato in cucina con i piedi scalzi e i vestiti della sera prima addosso.
 
Dopo un quarto d’ora circa sento cigolare la porta e la signora Hudson, bianca come un lenzuolo, fa qualche passo incerto verso di me. Dopo qualche altro passo le scivola una lacrima sulla guancia e io senza pensare mi avvicino per stringerla tra le braccia, cosa che a parte con te la sera precedente non mi ero mai sognato di fare con nessuno. 
-Mi dispiace – mormoro.
-Maledetto pazzo – dice lei.
Io faccio un sorriso sghembo e senza sciogliere l’abbraccio sollevo lo sguardo e noto che tu ci stai osservando dalle scale. Non pensavo che saresti tornato su, ormai sarai già in ritardo per il lavoro.
Incroci il mio sguardo appena un secondo prima di voltarti e scendere a precipizio le scale. Dopo un po’ sciolgo delicatamente l’abbraccio.
-Sono uno stronzo – mormoro più a me stesso che alla signora Hudson.
-Un po’. Credo tu l’abbia ferito davvero.
-Cosa posso fare?
-Credo che tu abbia già fatto abbastanza, tesoro. – dice lei, amaramente ironica, poi mi guarda come se non potesse credere ai suoi occhi e scuote la testa. Mi sistema una piega della vestaglia e si asciuga gli occhi.
-Va tutto bene, caro?
Io scuoto la testa.
-Sistemeremo tutto con John. Proverò a parlargli. – dice per tirarmi su il morale.
-Certo. – replico, forzando un sorriso, ma in cuor mio sto solo pensando al fatto che ti ho deluso.
-Forse non tornerà tutto come prima ma noi tutti faremo del nostro meglio.
Io annuisco e mi offro di fare del thè.
Cerco il bollitore nel mobile della cucina. Dopo aver aperto la terza anta sbagliata la signora Hudson mi viene in aiuto.
-Faccio io.
Mi vado a sedere al tavolo della cucina e mi prendo la testa tra le mani. Non ho neanche idea di dove siano le stoviglie. Tu sei cambiato, la casa, io, tutto.
Lei mi viene di nuovo vicino e mi mette una mano sulla spalla.
- Non posso ancora crederci – mi dice. E si china a posarmi un bacio tra i capelli.
 

Note: Ciao a tutti e buon inizio anno! Questa cosa l'ho scritta molto tempo fa. Doveva essere una long inizialmente. E poi è rimasta nel pc in stato di abbandono per un tempo imbarazzante e adesso che deve uscire la 4^ stagione, e forse ultima, ho pensato che avrei potuto pubblicarla ugualmente anche se probabilmente rimarrà incompiuta. Quasi certamente, anche perchè fino a ieri avevo deciso di non pubblicare più fanfiction e di fare soltanto la lettrice. Anyway, non sono completamente soddisfatta del risultato perchè scritta appunto qualche annetto fa e con una visione dei personaggi leggermente diversa da quella che ho adesso, ma mi dispiaceva vederla languire nel pc per sempre. Il tema purtroppo non è dei più originali, tanto più che ormai siamo alla 4^ stagione e della reichenbach fall non se ne ricorda più nessuno (più o meno).
Che dire ... mi scuso se risulterà OOC per certi versi, ho una vena scrittoria un' po melodrammatica.

 
 
   
 
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