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Autore: Emrys_____    03/01/2017    9 recensioni
Lui non voleva cancellare Artù. Se per riavere la vita di un tempo avrebbe dovuto disfarsi del suo tocco, che lo sfiorasse, allora, che lo distruggesse.
Distruggimi, pensò, ad occhi serrati e labbra strette. Fammi a pezzi perché intero, ma da solo, io non esisto.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessuna stagione
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L'erba cattiva non muore mai! *risata malvagia*
Era da un po' che non scrivevo della mia OTP suprema e il fandom mi mancava! In questi giorni di inizio anno ho beccato un episodio di Merlin, una replica della terza stagione e mi è venuto in mente che avevo questa one shot nell'hard disk che arrivò terza in un contest indetto dalla pagina facebook Slash radio. Non avevo mai partecipato ad un contest per cui mi sono divertita molto! Spero che vi faccia piacere leggerla, magari sarete felici di tornare nel fandom <3
Che il nuovo anno vi porti tanta gioia e felicità e il merthur sia con voi! Un bacio!
Emrys_____

 

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Distruggimi



 
Finiva sempre così: quando cercava di compiere un’azione diversa dal solito sacrificio stoico a cui ormai era votato, le conseguenze erano disastrose.
Come tutta la sua esistenza da quando era arrivato lì. Camelot avrebbe dovuto rimettere insieme ciò che di lui non aveva un senso, le parti che non funzionavano bene, quelle senza uno scopo e invece niente.
Si sentiva più sfatto e disgregato di prima.
Artù aveva sparpagliato i suoi pezzi in un raggio d’azione che per quanto largo, cominciava a soffocarlo. Non lo avrebbe mai detto.
Chiuse gli occhi, godendosi il profumo del vento notturno, diverso dagli altri. Quello diurno sapeva di sole mentre quello serale, di giorno bruciato. Quando chiudeva gli occhi, la fronte contro i vetri della finestra dello studio, semiaperti, sentiva l’odore di qualcosa che muore. I campi che si riposavano, i fuochi che venivano spenti, le parole che scemavano abbandonandosi al silenzio della notte.
A lui piaceva la notte, perché spesso, nel posto in cui si rifugiava, sui bastioni deserti, Artù non poteva seguirlo.
O almeno, non sempre.
Non gli si avvicinava ma lo osservava dalla finestra della sua stanza nella torre e quegli occhi scavano sotto la sua pelle, scarnificandola di tutte le bugie che gli diceva, tutte le menzogne e gli sguardi mancati e le parole non dette. Quelle, erano le più pericolose.
Perché quando Artù non parlava di solito il corpo lo faceva per lui e lo toccava ovunque, anche se era a metri di distanza, anche se li separava una sala piena di gente e il peso delle convenzioni e quello di un destino che non si poteva cambiare.
Merlino sollevò lo sguardo verso la luce, dietro le tende scostate: i vetri piombati gli restituirono un volto spezzato, le fiamme morenti lo chiazzavano appena. Ma non gli occorrevano quelle per vedere i suoi occhi gelidi e la furia impressa dietro ogni lineamento. Aveva imparato a conoscere Artù più in una stanza buia che alla luce del giorno. Le labbra serrate lo trafissero. Si chiudevano su parole che Merlino avrebbe preferito non sentire. Perché poteva sentirle anche se Artù non parlava.
Era quella la sua maledizione non un destino che lo avrebbe tenuto avvinto fino alla fine.
Poteva sentire sempre, Artù.
Avvertiva i suoi lineamenti anche se era immobile e percepiva la sua voce anche se non parlava. Era una presenza di cui non riusciva a liberarsi, talmente radicata dentro di lui da combaciare perfettamente con ogni passo, con ogni decisione, con ogni briciolo di volontà che non poteva più nulla contro ciò che li aveva travolti.
E ancora non riusciva a capire di chi era la colpa.
Perché in fin dei conti, non si trattava di colpa. Si trattava di capire quando avessero cominciato a collidere, quale fosse stato il momento preciso in cui aveva capito che era penetrato in ogni fibra di sé, che a conti fatti, era Artù ciò che lo teneva in vita. E non c’entrava niente il fato che condividevano o la missione per cui era nato. Quello era soltanto il fine.
Prima del fine, c’erano tante cose.
Così tante che non sapeva più come metterle a tacere.
Si voltò, continuando a osservare la città addormentata sotto nuvole gonfie di stelle. Tutte le case immobili, i campi pieni di fiori e le spighe dietro le quali tante volte si era rifugiato, sembravano un unico corpo, abbandonato al sonno come una persona che si lascia cadere fra le coltri.
Lui non riusciva a dormire. Erano giorni che non ci riusciva, tutti gli sforzi che aveva fatto si erano cristallizzati in occhi sgranati e una voglia immane, rannicchiata fra le dita, un desiderio che quel viso dietro i vetri alimentava senza bisogno delle candele. Si sarebbe lasciato spegnere addosso quella cera bollente, tanto era già pieno di cicatrici. Una in più, non avrebbe cambiato niente.
 
**
 
Artù lo osservò tagliarlo fuori mentre si voltava e gli dava le spalle. Quel gesto fu un’incrinatura sul vetro che stava toccando, gli si formò sotto le dita e la ferita che si era procurato alla mano durante l’allenamento si riaprì, quando chiuse il pugno, come un pezzo di legno che si sgretola.
Non avrebbe dovuto muoverla, erano saltati i punti di sutura.
Soffiò sulla fiamma e continuò a osservarlo.
Faceva male, come quella pelle lacerata. Il suo silenzio era stato il gesto che aveva fatto saltare i punti, ciò che li aveva tenuti insieme si era incrinato. Erano stati gli sguardi prolungati e i gesti e il prendersi furioso in luoghi in cui nemmeno il buio riusciva ad arrivare. Luoghi dove aveva desiderato liberare la voce, nei quali erano rimasti in silenzio, il respiro spezzato e il piacere liquefatto lungo le vertebre. Posti sparsi in giro per un luogo che lo aveva visto crescere, che avevano celato il loro segreto, il suo sbaglio.
Perché Merlino lo era stato, uno sbaglio.
Non poteva comportarsi da eroe e difendere allo stremo qualcosa che era destinato a fare male e non perché stesse distruggendo lui ma perché faceva del male a ciò che aveva intorno. A Gwen e ai suoi silenzi consapevoli, alle decine di corpi che aveva straziato quando era andato a combattere, al ricordo che aveva di Camelot e del loro legame prima di diventare ciò che era, di sgretolarsi.
Merlino era stato lo sbaglio più grosso della sua esistenza, lo scalino che aveva saltato mettendo un piede in fallo, il segreto sussurrato alla persona sbagliata, l’orgoglio messo da parte di fronte alle tante bugie che gli aveva raccontato. Lui aveva dilaniato il suo amor proprio, lo aveva fatto a brandelli, morso e messo all’angolo. La scoperta della sua magia era stata solo un tassello, avrebbe dovuto essere il culmine dell’errore, la rabbia per tutte le volte in cui gli aveva mentito e invece niente.
O meglio, le urla, le recriminazioni, il silenzio ostinato in cui si era chiuso, avevano rappresentato un preludio, l’inizio. La magia era stata l’inizio di un sentimento che lo stava conducendo sul baratro della sopportazione, spingendolo sempre più verso un punto di non ritorno. Ma non voleva toccarlo.
Aveva bisogno di lui.
Bisogno del suo contatto, di osservarlo camminare a pochi passi, di riconoscere le forme del suo corpo in un campo visivo sempre affollato.
Gli serviva la sua voce, il suo fiato spezzato lungo il collo. Tutto di lui lo chiamava, tutto ciò che faceva di lui Artù Pendragon. Non era niente senza quei punti di sutura, la ferita avrebbe continuato a sanguinare e si sarebbe infettata. Non poteva sopravvivere senza Merlino, non era un eroe. Aveva sbagliato.
Quello sbaglio però, lo aveva fatto sentire vivo come mai niente, in tutta la sua vita.
Il tempo di voltarsi, di decidere che era il momento di cercare il sonno e un brivido di terrore lo scosse perché udì uno schianto tremendo che si propagò lungo i vetri e li fece tremare.
Artù avvertì perfino la pietra sotto i piedi muoversi, come se il castello assorbisse l’urto. Si voltò verso i bastioni ma non c’era più: erano crollati e al loro posto, polvere e macerie si sgretolavano come un albero colpito da un fulmine. Sgranò gli occhi e prima ancora di riuscire a ragionare corse via dalla stanza, a prendersi quel tremito faccia a faccia.
Pregò di trovarlo vivo.
Altrimenti sarebbe crollato, come ciò che gli stava morendo davanti.
 
**


Non era riuscito a prevedere l’attacco in tempo, l’incantesimo era arrivato come un dardo e gli si era schiantato contro e lui si era lasciato colpire, le difese basse, le ali tarpate. Si rifugiò contro la parete, circondato da polvere che saliva come nebbia, diradata lentamente dal vento. I bastioni si sbriciolavano, scrocchiando come pane raffermo e le macerie cadevano giù, senza quasi fare rumore.
Era stordito, realizzò di essere stato scaraventato a diversi metri di distanza e di essere vivo soltanto grazie alla sua magia.
Poi arrivò il dolore.
E contemporaneamente la consapevolezza che lì, al confine della città le difese che aveva eretto minacciavano di crollare.
Combatté con entrambe le cose, cercando di mantenere la concentrazione e incapace di girarsi per capire dove lo avessero colpito. Poi le ferite si cristallizzarono un punto preciso: la spalla sinistra. Sentiva il cado fiotto del sangue inondargli la casacca e la vista cominciare a sfocarsi mentre un senso di nausea lo assaliva. Non erano semplici pulsazioni, era in assoluto il dolore più forte che avesse mai provato. Era un bruciore lancinante  e lunghe fitte si propagavano fino alla clavicola. Credette che lo avrebbero stroncato.
Poi qualcuno gli si accovacciò accanto, strappando la casacca azzurra  e il fazzoletto dal collo. Lo sfilarono via con una destrezza tale che non gli bastò altro per capire chi era.
-Maledizione… che diavolo succede?-
La voce di Artù era incrinata dalla paura, l’aveva sentita raramente così. Strinse il fazzoletto attorno alla ferita così tanto da farlo urlare. Non si scusò. Per le cose necessarie non lo faceva mai.
-Ti porto da Gaius-
Merlino non riuscì a replicare, se avesse aperto bocca avrebbe vomitato.
Si aggrappò alla sua spalla col braccio sano e camminò fino allo studio del medico di corte, superando soldati che si facevano largo verso l’esterno, serve terrorizzate e dame pallide come cenci.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Artù parlò prima che lui avesse il coraggio di raccogliere la voce.
-Gwen è con Gaius-
Sapeva che il suo senso di colpa andava rassicurato, come un animale che si lecca le ferite.
Trovarono il vecchio intento a radunare le medicine e il necessario per curare eventuali feriti. Insieme a lui c’era Gwen che si era legata i lunghi capelli in una crocchia disordinata e scorciata le maniche. Sistemava erbe e puliva mortai, riponeva nella sacca il libricino dei rimedi e delle bende pulite. Sapeva come muoversi, dove mettere le mani. Il risultato di lunghi pomeriggi passati cercare di tenersi impegnata. Non appena vide Artù si avvicinò per accertarsi che stesse bene poi lo guardò. Merlino aveva la vista sfocata per il tentativo di mantenere la concentrazione sull’incantesimo che copriva le mura esterne. Sperò che bastasse. Se uno era riuscito a penetrare le sue difese e raggiungere i bastioni prima che lui se ne accorgesse, significava che le streghe avevano fatto un lavoro solerte.
Non fosse stato per l’ironia della cosa, si sarebbe complimentato con Morgana.
-Merlino!-
Gaius si precipitò verso di loro  e controllò il bendaggio di fortuna applicato da Artù. Non gli chiese stesse bene, non faceva mai domande inutili. Lo fecero sedere, su una sedia girata al contrario, però. Quando Gaius voltava una sedia, significava che voleva ci si appoggiasse e che la medicazione sarebbe stata alquanto dolorosa.
-Si può sapere che sta succedendo?- sbottò Gwen, rivolgendosi ad Artù -Le guardie mi hanno portata qui in fretta e furia-
Si voltò verso la finestra, dalla quale non si vedeva che un intenso via vai. Se le difese fossero state travolte, la cacofonia sarebbe stata molto più grande. E poi lui, Merlino, lo avrebbe saputo.
-Morgana- ringhiò mentre Gaius scioglieva il nodo al fazzoletto, il sangue che ricominciava a scorrere ripristinato di botto.
-Puoi controllarla, ragazzo?-
Lui annuì, sudava freddo.
-Lo sto facendo, abbiate fede-
-Non puoi curarti con la magia?-
La domanda di Artù quasi morì nel silenzio.
Merlino scosse il capo.
-Devo mantenere alte le difese. Il tempo di permettere ai soldati di allontanare l’esercito-
Anche Morgana era una donna lungimirante, lei non si affidava solo alla magia ma sapeva che combinandola alla spada avrebbe potuto avere qualche possibilità in più contro  Camelot.
La voce di Artù s’incrinò per la rabbia.
-Gaius, cosa dite?-
Il vecchio intanto aveva tirato fuori l’artiglieria pesante poi aveva lanciato uno sguardo alla sua mano, dove i punti di sutura erano saltati. Non lo rimproverò, sapeva riconoscere una priorità quando ne vedeva una.
-Datevi da fare- esclamò Merlino, afferrandogli il polso col braccio sano, poi strinse i denti e guardò dritto davanti a sé. -Tu pensa a tornare vivo-
 
**
 
Quello non era stoicismo, non era spirito di sacrificio.
Gli stava intimando di andarsene, gli stava dicendo indirettamente che non lo voleva lì, a osservare la sua sofferenza e conoscendolo non lo faceva per orgoglio. Entrambi lo avevano messo da parte per arrivare dov’erano. No, lo faceva per allontanarlo perché sentiva di dover sopportare da solo il dolore, per una volta. Voleva sopportarlo da solo.
Gaius gli passò una benda.
-Mordi-
Merlino la ficcò fra i denti e poggiò il braccio sullo schienale della sedia, poi la fronte. In quel piccolo incavo buio, non riuscì a celare la paura che gli fece sgranare gli occhi.
Quando Gaius iniziò a disinfettare la ferita lanciò un tale grido che la benda gli scivolò dalla bocca. Gwen lo tenne giù con quanta forza poteva, per non permettergli di muoversi. Nella linea delle sue labbra c’era pietà e determinazione e forse, un briciolo di rabbia per tutte le cose che le avevano taciuto. Intanto le grida di Merlino salivano di tono.
Gaius era impassibile, per lui avrebbe anche potuto perdere i sensi, non si sarebbe mosso e così doveva essere nel suo mestiere.
-Sire, andate pure, qui ci pensiamo noi- disse, lo sguardo concentrato sul lavoro. Fece per rispondere quando la voce di Merlino s’incrinò, diventando un sibilo fra i denti.
-Maledizione Artù, va!-
Lui fece un passo indietro, assorbendo il colpo che con quel tono aveva voluto infliggergli. Erano mesi che incassava, non riusciva a fare altro. Si lasciò la sua figura alle spalle e il suo dolore dietro la porta e percorse i corridoi ordinando al primo scudiero che vide di aiutarlo nell’indossare l’armatura.
Ogni pezzo andò al suo posto, lo scricchiolio dell’acciaio suturò le varie parti. Sperò che lo facessero anche con la sua pelle. Guardò la ferita alla mano sanguinare leggermente ma ne aveva sopportate di peggiori. Strinse il pugno, qualche goccia di sangue scivolò lungo l’elsa, macchiandone l’oro. Sarebbe tornato indietro. Non poteva immaginare di morire senza aver scritto la parola fine su quel relitto che era diventato il suo cuore.
 
**
 
-Abbiamo affrontato minacce ben peggiori- disse Gwen, mettendosi comoda sulla sedia -Ci riprenderemo-
Merlino stava ad occhi chiusi, disteso sul giaciglio di Gaius e a pancia in giù, in modo da non caricare il peso sulla ferita. Faceva male, pulsava e quel dolore offuscava la sua lucidità, tanto che non sopportava nemmeno la luce della candela, sebbene fosse tiepida. Non poteva neppure usare la magia per curarsi e Gaius aveva potuto aiutarlo solo marginalmente. Si stava infettando. L’incantesimo, unito all’urto e ad alcune schegge di pietre penetrate nella carne, lo stava corrodendo dall’interno. Erano passate almeno cinque ore da quando Artù era andato via e lui stava spendendo ogni briciolo di energia fisica per rendere impenetrabili le barriere. Era il solo modo che aveva per vegliare su di lui. Indirettamente, come aveva sempre fatto. Tanti anni prima, quando aveva bevuto del veleno al suo posto, era riuscito, nonostante la febbre, a guidarlo nella ricerca del fiore che lo avrebbe salvato se usato come antidoto. Ma per qualche ragione, da quando il loro legame si era intensificato, non ci riusciva più. Non riusciva a individuarlo, né a sentirlo. Dicevano tutti che quando ci si lega ad una persona si crea una connessione quasi sovrumana. Lui di sovrumano vedeva solo il danno che erano riusciti a creare. Che delle parole, il tocco di due labbra e tutto ciò che era venuto dopo, erano riusciti a creare. Il dolore che avevano causato stava facendo marcire ciò che di prezioso condividevano.
Come quella ferita al braccio che lentamente, lo stava erodendo.
-Lo so che sei sveglio-
Merlino tenne gli occhi chiusi: Gaius era uscito e nemmeno se n’era accorto.
-Merlino-
Non sopportava quel tono ammonitore. Puntò su di lei uno sguardo seccato. Non voleva e per lungo tempo non si era nemmeno creduto capace di farlo ma negli ultimi tempi, Gwen aveva lentamente sfiancato le sue difese, dimostrandosi molto meno fragile di quanto avrebbe immaginato.
Probabilmente perché dalla sua c’era un amore corrisposto e altrettanto segreto. Almeno lei e Lancillotto avevano il diritto di vivere la loro vita, poteva quasi essere una ripicca la loro e sarebbe stata legittima.
Si domandò quando diavolo avesse cominciato a ragionare in termini di legittimità e vendetta.
Gwen gli rivolse un’occhiata soddisfatta ma pensierosa.
-Riesci a percepirlo?-
-No-
Merlino non si mosse, restò col viso su una mano e il braccio fasciato abbandonato sull’orlo del giaciglio. Pendeva così tanto che probabilmente si sarebbe intorpidito e allora, forse, non avrebbe più sentito dolore. Ma non si poteva spegnere il dolore. Se ne avesse avuto la possibilità, non era certo che l’avrebbe fatto.
-Non puoi nemmeno provarci?-
-E’ un tono d’accusa quello che stai usando?-
-E’ una domanda retorica?-
Tacquero.
Gwen portò una mano al viso.
-Perdonami, sono solo stanca-
Merlino si sollevò sul braccio sano.
-Tu mi stai chiedendo di… perdonarti?-
-Merlino, non voglio più detestarti. Non m’interessa provare rancore, voglio soltanto… essere felice-
Era un desiderio semplice, non c’era niente di complicato.
-Dopo tanti mesi sono stanca- sbottò, sulle labbra una piega irritata.
Alla fine, Gwen non era perfetta e nessuno avrebbe potuto recriminare su quello. Merlino si rivedeva in lei, un animo pacato, bistrattato a tal punto da aver sviluppato aculei come un animale braccato dall’evoluzione. Era cambiata. La dolcezza che la contraddistingueva, non c’era più o comunque, nei momenti in cui aveva a che fare con lei, non riusciva a vederla. Mesi di convivenza forzata nel laboratorio, giornate in cui aveva cercato di evitarla, gli avevano mostrato tutte le sfaccettature del suo carattere. Era stata rancorosa, irritante, pungente e silenziosa. Lo aveva ignorato, fulminato con lo sguardo ed era certo che se avesse avuto in sé la furia per una tale malvagità, lo avrebbe colpito. Magari a sangue. O a morte.
-Non mi interessa se anche tu sarai felice- continuò, prima di alzarsi e dirigersi verso la porta, il pesante abito di broccato che frusciava nel silenzio. -La felicità non ci è dovuta: bisogna prendersela-
 
**
 
Lo scenario che gli si parò davanti era assurdo e dire che da quando era morto suo padre ne aveva viste di cose legate alla magia.
Ma Morgana… Morgana era potente.
I confini di Camelot erano sprofondati in un baratro di distruzione. Il suo esercito era estremamente preparato, gli uomini colpivano e scattavano rapidamente, scagliavano frecce e usavano la spada come fossero prolungamenti dei loro corpi. Parecchi erano giovani. Artù riuscì a scorgerne i volti mentre li trapassava, spegnendo loro la vita su occhi di fanciulli e cercando di ignorare anche il minimo rimorso. Non doveva pensare, se voleva restare vivo. Scollegarsi completamente da se stesso era fondamentale, non poteva permettersi alcuna distrazione. Perché doveva tornare indietro.
Il sangue gli colava lungo il viso insieme al sudore, le mani spingevano e i pugni colpivano e la lama trapassava la carne come se fosse aria. Cercò di immaginare solo quello: aria, non organi.
Era pericoloso per l’anima avvertire la consistenza di un cuore che si spaccava.
Le difese erette dall’esercito di Cenred, col quale Morgana si era alleata, erano forti. Ma Camelot era di gran lunga più forte.
Dopo essere crollato sotto il peso dell’ennesimo cadavere, si piegò sulle ginocchia, la spada conficcata nella terra macchiata di sangue. Era morbida, si sarebbe nutrita delle viscere di chi ci sarebbe morto sopra.
E davanti a lui gli stendardi di Cenred crollavano mentre un alone dorato li faceva a pezzi, loro e numerosi uomini che si piegarono emettendo rantoli di dolore.
Vederli cadere come fiori spezzati, era quasi più mostruoso che guardarli perire soffocando nel loro stesso sangue.
Conosceva la potenza di Merlino, l’aveva sperimentata come e più di quanto avrebbe dovuto.
Ma sapeva anche riconoscere quando cominciava a indebolirsi e quell’alone, iniziò a diventare fioco fino a che si spense, lasciandosi attorno un buio intriso di morte e macerie.
Artù osservò il cielo ad occhi sgranati. Le stelle, oscurate per un attimo, ricominciarono a brillare. Quasi gli sembrò ingiusto: anche il mondo doveva implodere se lui era ferito.
E Merlino era ferito. Da mesi. Forse più che in quel momento, dove la fine di quell’incantesimo gli parve l’arrendersi di cui aveva sentore da settimane.
Si era fermato. Forse stava troppo male o aveva smesso di combattere. Mentre altri uomini si avvicinavano si alzò, vacillante ed estrasse la spada dalla terra. Non si sarebbe arreso, non avrebbe mai smesso di combattere. Anche quando a pochi passi da lui si stagliò uno sguardo familiare e il suo corpo lo notò prima di tutto il resto. Pure in quel momento, mentre lei si avvicinava, stanca e piegata da qualcosa di più forte del dolore, decise che non si sarebbe fermato. Morgana aveva deciso di non lottare contro i propri demoni.
Lui li aveva accolti. Doveva, se voleva tornare indietro.
Sollevò la lama. Niente rimpianti.
 
**
 
Balzò a sedere su giaciglio, un grido di dolore lancinante spezzò il silenzio nel laboratorio. Gaius si destò all’improvviso. Anche Gwen si spaventò, chissà quando era tornata. Stava curando le ferite di Lancillotto con tocco delicato e mano ferma. Merlino riuscì a registrare quei dettagli in un lasso di tempo infinitesimale perché non appena riaprì gli occhi, lo scenario di morte nel quale si era calato nei sogni svanì.
Perse il contatto con Artù.
E dire che per trovarlo aveva impiegato ogni briciolo di forza rimasta.
Gaius gli ordinò di calmarsi e provò a farlo distendere di nuovo ma lui si divincolò, urlando che doveva tornare indietro, serrando gli occhi e provando a ritrovare la concentrazione.
-È il dolore che te lo impedisce- obbiettò il vecchio, sempre cercando di spingerlo sul giaciglio ma lui disse di no, che non era quello, era…
Si piegò in due, colto da una terribile fitta alla spalla: guardò la benda, piena di sangue.
-Sono saltati i punti- esclamò Gwen, dirigendosi verso di lui per toglierla ma Merlino la guardò come un animale impaurito. Non si rendeva conto di cosa stava accadendo, non riusciva a focalizzare l’attenzione su niente, aver perduto il contatto con Artù gli aveva frantumato l’autocontrollo. Senza contare che le sue risorse erano finite. Era troppo debole per continuare a mantenere alte le difese attorno Camelot, non riusciva più a gestirle, la ferita infetta gli stava risucchiando ogni rimasuglio di forza.
-Come ti senti?-
Quella domanda veniva da Lancillotto ed era familiare perché gliel’aveva rivolta spesso negli ultimi mesi. Si erano chiesti cose a vicenda, erano inaciditi in un silenzio che non era mai stata di conforto, non quanto la compagnia reciproca, lo starsi accanto senza dire una parola. Lasciando che i segreti si velassero di altre menzogne ma riuscendo a leggersi a vicenda in una maniera che gli sarebbe mancata. Era certo che presto o tardi, gli sarebbe mancata perché loro sarebbero andati via, avrebbero inseguito ciò che non si poteva realizzare. In quel senso erano più liberi, quasi personaggi secondari.
Merlino lo guardò ma non rispose. Con lui non c’era mai stato bisogno di farlo e quando gli poneva domande retoriche come quella, fra le lettere ce n’erano sempre altre ma in quel momento non aveva la forza di leggerci in mezzo.
Doveva tornare indietro.
Si alzò dal giaciglio ma gli girò la testa e si aggrappò a Gwen per istinto.
Gaius cercò di trattenerlo.
-Non hai le forze per compiere un nuovo incantesimo-
-Devo andare-
Il medico sbiancò.
-Merlino ragiona, non sei in condizione di farlo, stenditi immediatamente!-
Ma lui stava già rattoppando la benda, ignorando i conati di vomito per il dolore e la fronte sudata. S’infilò la casacca e ignorò le loro proteste, perfino lo sguardo preoccupato ma fiducioso di Gwen che in un altro momento gli avrebbe trasmesso una sensazione strana. Scostò malamente le mani di Gaius e caracollò verso la porta, dove quasi si appoggiò alla maniglia. Poi, uscì.
I confini dove Morgana si era spinta non erano troppo lontani. Ed era vicina ad Artù, troppo.
Mentre montava sul suo cavallo color carbone e il vento cominciava a fischiare nelle orecchie, assieme al sangue che defluiva dalla testa pensò, che se lo avesse toccato, quella silenziosa notte stellata sarebbe stata il tumulo in cui l’avrebbe scaraventata.
 
**
 
Aveva pensato che il dolore alla mano sarebbe stato il più lieve. Invece il lieve non esisteva nel suo corpo, non in quel momento, non quando mille piccole ferite lo trafiggevano rendendolo un ammasso di tagli e stille di sangue.
Ed era assai più doloroso di un colpo letale, proprio perché non lo era. Non lo sarebbe stato per un po’.
Sollevò gli occhi: due pupille verdi come acque all’alba e familiari come un passato che non era mai riuscito a mettere da parte, si specchiarono nei suoi. Quella non era la prima volta che la vedeva da vicino e cercava sempre di trovare qualcosa sul suo viso, qualcosa che gli suggerisse la sua presenza.
Un elemento che gli desse speranza, che gli permettesse di scorgere la sorella, l’amante, la metà di un legame che si era spezzato troppo presto.
-Per quanto dovrei lasciarti in vita…- sussurrò, chinandosi davanti a lui.
Era cambiata, i capelli erano sporchi e scarmigliati ma sempre lunghissimi e la pelle non più come perla ma sbiadita, come se l’incarnato avesse assorbito tutto ciò che di maligno aveva toccato.
Artù strinse i denti per non gridare, i polsi imprigionati fra le catene facevano male ad ogni minimo movimento, anche il più insulso. Era un ammasso di ossa doloranti. Gli faceva male tutto, dentro e fuori.
-Mi lasci vivere sempre più di quanto dovresti…- mormorò, un sorriso beffardo in faccia.
Morgana incurvò un angolo delle labbra.
-Potrei darti ragione ma ho i miei motivi- le sue dita gli sfiorarono il mento, erano fredde. La sua pelle era sempre stata come gelido alabastro, morta prima di perdere la vita ma per qualche ragione, sempre capace di attirarlo, di farlo sentire a casa, un tempo.
-Lui sta arrivando- gli sussurrò all’orecchio.
Intorno a loro, la battaglia che nel frattempo era ripresa, si zittì.
Artù sgranò gli occhi e i corpi cessarono di cadere e le grida di schiantarglisi addosso. Tutto tacque mentre un’orrenda consapevolezza si faceva strada dentro di lui e vanificava ogni sforzo fatto fino a quel momento.
Il sorriso di Morgana fu più tagliente del clangore delle lame.
-Mi sei mancato, Artù-
Una folgore.
Una folata di vento che per un momento gli annebbiò la vista e poi la oscurò: Morgana fu allontanata di colpo da lui, sbalzata via come la scheggia di una corteccia quando una lama la colpisce.
Eppure, nell’istante immediatamente precedente a quel colpo, Artù fu sicuro di aver avvertito una sorta di resa da parte sua, come se lo sapesse. Ma non sarebbe riuscito a descrivere tutto con più lucidità perché in quel momento davanti ai suoi occhi fu ingaggiata una lotta strenua, alla quale non aveva mai assistito e che aveva sperato di non vedere mai perché avrebbe significato la fine di una delle cose più belle che avevano avuto.
Merlino avanzava lentamente sui corpi caduti, una mano sul braccio ferito, sanguinante, le iridi d’ambra e una furia in viso alla quale si era fin troppo abituato negli ultimi mesi. Per quanto fosse ingiusto ed egoistico, fu felice di averlo accanto. Doveva scrivercela lui la parola fin sul suo cuore, seppellendolo, se necessario. Lui soltanto ne aveva il diritto perché rappresentava la faccia di una medaglia che ormai, si era tutta incrinata.
Morgana si alzò a fatica, zoppicava, sulle labbra un sorriso tirato. Merlino non sorrideva affatto, non aveva alcuna emozione in viso e quando succedeva significava che il suo io interiore si era spento del tutto.
Artù cercò di liberarsi dalle catene ma fu inutile.
Guardò impotente la battaglia che imperversava intorno a lui mentre tremendi bagliori lo accecavano e la sua soglia di coscienza veniva colpita, permettendogli di distinguere solo il corpo di Merlino, il suo crollo nella terra umida di sangue.
Non ebbe nemmeno il tempo di provare dolore perché fu quello a levargli il fiato, a spegnerlo dentro: guardarlo cadere.
Come ultima cosa prima del buio.
 
Si svegliò. O forse era solo l’oscurità dall’altra parte. Per un istante non ebbe coscienza di niente, tanto che fu convinto di essere morto. Poi la notte riprese consistenza e le stelle e il fetore dei cadaveri e il vento che faceva ondulare piano gli stendardi spezzati sulla collina. Artù si mise a sedere con lentezza, quasi non ricordava di avere gli arti e come usarli. Prima sulle braccia, poi in piedi, le catene intorno a lui erano spezzate, solo i polsi erano ancora prigionieri dell’acciaio.
Spostò lo sguardo intorno a sé poi, come un flash, come la sensazione di incamerare aria nei polmoni, un gesto condizionato che era sempre stato lì, la sua immagine che si sgretolava mentre cadeva a terra gli si parò davanti agli occhi. Lo cercò, le lacrime che minacciavano di scivolare fuori dagli occhi.
Era a pochi metri, un ammasso di pelle pallide e membra ferite e mentre Artù si precipitava verso di lui, cadde. Continuò a strisciare nella terra, scostando corpi come se fossero meri ostacoli e nient’altro. lo raggiunse, lo fece voltare e gli ascoltò il cuore: debole.
Si alzò e usò ogni briciolo di energia rimasta per caricarselo in spalla. Ogni osso del corpo reclamava riposo, le ferite che Morgana gli aveva procurato chiedevano di essere curate ma non le ascoltò. Ignorò il proprio corpo e mise un piede davanti all’altro. Calpestò volti e nomi come fossero fiori, tante vite recise e, cosa terribile ma vera, solo una che gli importasse veramente salvare.
 
**
 
Quando Merlino riaprì gli occhi, avvertì una sensazione familiare: tepore. E fiamme di candele e odore di erba, di cera e di casa. E poi una figura a pochi metri da lui, seduta su una sedia a braccia incrociate, le gambe allungate davanti a sé, gli occhi stanchi e gli sembrò, velati di disperazione, fissi su di lui.
-Non muoverti- gli ordinò Artù.
Era ferito, il suo viso era pieno di graffi e anche il collo. Si ricordò che i punti di sutura sulla mano erano saltati. Poi, assieme a quel ricordo ne vennero altri: la battaglia, Morgana, la sensazione di cadere e non doversi più rialzare.
-La vittoria è nostra- disse Artù, come al solito anticipando i suoi pensieri -o almeno, l’esercito di Morgana era decimato. Credo che tu l’abbia sconfitta ma non saprei dire. Ti ho visto solo cadere e quando ho ripreso i sensi, lei non c’era  più-
-Mi hai… riportato tu, qui?-
Artù annuì.
-Non potevo lasciarti indietro-
Merlino si mise lentamente a sedere. Si rese conto che su una cassa di legno accanto al letto c’erano numerose boccette e bende pulite e una bacinella piena d’acqua rosata, sporca di sangue. Si guardò il braccio dove la fasciatura era stata cambiata.
-Hai sofferto la febbre per tre giorni, la ferita era infetta. La stanchezza per aver sfruttato la magia ha fatto il resto-
-Mi stai vegliando da… tre giorni?-
Artù portò le dita sugli occhi. Quel gesto era così suo. Gli era mancato. Improvvisamente tutto si ripristinò e la sua mancanza fu riconosciuta dal corpo come una sensazione cui era assuefatto. L’aveva scordata per poco, sepolta sotto la soglia del dolore ma mai veramente dimenticata.
Le sue iridi lo trafissero.
-A dispetto di quanto è successo, non vorrei mai che tu morissi- disse lui, quasi con rabbia. -E poi, avresti fatto lo stesso per me-
Ormai quella frase aveva un fondo di verità così radicato che perfino pronunciarla era un’azione vuota. Merlino abbassò lo sguardo.
-Mi dispiace Artù, per tutto. Mi dispiace veramente-
Sentì lo sguardo dell’altro sulla pelle martoriata e se lo prese tutto, si lasciò colpire. Poi Artù si alzò e andò a sederglisi accanto: quando gl’imponeva la sua presenza, Merlino sentiva il corpo reagire, non poteva farci nulla. La pelle diventava ipersensibile come a contatto con il gelo, il cuore accelerava e in generale, tutto ciò che faceva di lui la persona che era, si muoveva. Artù appoggiò la fronte alla sua schiena. Era tanto che non avvertiva il suo calore, il suo abbandonarsi. Era meraviglioso quando cedeva, più che in ogni altro momento perché scopriva un lato di sé che era difficile vedere ma che gli faceva male scorgere poiché significava che era stanco, che aveva abbandonato remore e orgoglio e di solito, gli costava.
-Sono così stanco- mormorò, -non voglio più combattere-
Le sue dita gli sfiorarono la pelle, il respiro era caldo.
-Possiamo smettere di combattere? Per favore- la voce gli uscì rigata da un ringhio -Fermiamoci qui-
Merlino seppe che con quelle parole non si sarebbero fermati. Non lo avrebbero fatto mai. Potevano cessare di combattere, di provare a cancellare lo sbaglio da ciò che li univa. Ma uno sbaglio, quando ha qualcosa di così distruttivo, non si cancella.
Lui non voleva cancellare Artù. Se per riavere la vita di un tempo avrebbe dovuto disfarsi del suo tocco, che lo sfiorasse, allora, che lo distruggesse.
Distruggimi, pensò, ad occhi serrati e labbra strette. Fammi a pezzi perché intero, ma da solo, io non esisto.
 
 

Di solito a questo punto salgo sulla mia Volvo e mi dileguo. Potevo cominciare l'anno con una vecchia abitudine?
Naaah, cioè, voi mi volete bene, anche se dite che mi correrete dietro per picchiarmi visto che sguazzo nell'angst.
Vero? VERO?
*Nel dubbio mette in moto*
 
   
 
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