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Autore: ClaireOwen    08/01/2017    7 recensioni
[Bellarke - AU]
Clarke scappa da una vita in cui non si riconosce più, Bellamy è perseguitato da ricordi amari con i quali non ha mai fatto i conti.
Le vite dei due ragazzi s'incrociano casualmente: uno scontro non desiderato, destinato - fatalmente - a protrarsi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ci siamo.
Argh.
La verità è che sostanzialmente questo è l'ultimo capitolo ed io mi sento molto peggio e meno sicura di quando ho pubblicato il primo.
Avete capito bene, proprio l'ultimo!
Almeno ufficiosamente, mettiamola così perché la verità è che al 99% vi ammorberò con un epilogo che però pubblicherò con un (bel) po' più di calma.
E niente spero che vi piaccia e di non aver rovinato tutto (questo è il mio più grande timore a dirla tutta!)
Per i dialoghi tra Bellamy e Clarke mi sono ispirata - molto lontanamente - alle loro interazioni negli episodi 3x05 e 3x13 ne parlerò meglio in un angolino che mi ritaglierò a fine capitolo!
Nel frattempo vi ringrazio con tuttotuttotutto il mio cuoricino, siete stati meravigliosi e mi sono affezionata ad ognuno di voi che pazientemente mi ha sopportato e sostenuto tramite bellissimi messaggi e recensioni 

Perciò vi mando un bacio gigante colmo di affetto e gratitudine,
vostra Chiara



XVII
 
Il finestrino le mostrava panorami sfuggenti illuminati da una luce quasi irreale, il sole stava tramontando e nell’arco di un’ora sarebbero arrivati a Boston.
Raven, Green e Jordan ridacchiavano da quando il viaggio era iniziato, Clarke aveva provato con tutta se stessa a star dietro a quelle chiacchiere per una buona mezz’ora ma poi si era arresa così aveva finto di addormentarsi.
Ora però se ne stava seduta in quel vagone angusto, le mani sulle ginocchia e le labbra massacrate dai denti che non riuscivano a smettere di morderle, erano cinque minuti buoni che aveva preso a percepire il sapore del sangue ma nonostante ciò smettere era impossibile.
Fuggiva lo sguardo degli altri puntando i suoi occhi fuori il finestrino lercio.
Sapeva che si erano accorti del suo teatrale e mal recitato risveglio ma nessuno aveva osato chiederle nulla.
Fu grata che quei tre si trovassero così bene insieme, parlavano ininterrottamente, la bionda si era abituata perfettamente al loro vociare unito allo stridere delle ruote sulle rotaie e quella strana melodia sembrava cullare i suoi pensieri inquieti, si chiese se quando tutto quello sarebbe finito anche le sue fantasie l’avrebbero abbandonata.
Da quando aveva messo piede su quel treno, controvoglia, non aveva fatto altro che avere un chiodo fisso: Bellamy Blake.
Si ritrovò ad immaginare più volte il loro incontro, mentalmente si preparò perfino un discorso da fare.
Non aveva toccato cibo tutto il giorno tanta era l’agitazione.
Maledisse quella nauseante sensazione, ancora una volta si riconosceva a stento, era sempre riuscita a controllarsi, non aveva mai avuto crisi di panico, mai aveva permesso all’ansia di dominarla in quel modo, nemmeno al capezzale di suo padre.
Eppure quel senso di inquietudine continuava a corroderle lo stomaco e a farle aumentare i battiti cardiaci ogni qual volta nei suoi pensieri appariva quel volto ornato da mille lentiggini.
 
Non era mai stata a casa di Raven.
Appena arrivati avevano preso un taxi e si erano ritrovati in un monolocale con un soppalco, era bello in modo esagerato, ordinato e pulitissimo, sembrava una casa tipo da rivista d’arredamento ma per questo appariva anche dannatamente fredda.
“Fate come se foste a casa vostra.”
Clarke le rivolse l’attenzione.
“Posso usare il bagno?”
La mora annuì.
“Muoviti però, dobbiamo organizzarci con i turni per prepararci, ho promesso a O’ che saremmo andati un po’ prima per darle una mano.”
Clarke non rispose, raggiunse il bagno rapidamente e si chiuse la porta alle spalle.
Aprì il rubinetto facendo scorrere l’acqua, con le mani si porto il liquido limpido al viso, si sciacquò velocemente, quasi con foga poi permise ai suoi occhi di ispezionare la sua figura riflessa nello specchio.
Era pallida.
Le labbra screpolate e martoriate dal freddo e dal suo stesso vizio di mordersele in continuazione.
Due occhiaie descrivevano alla perfezione il suo contorno occhi.
La fronte scoperta, come il resto del viso, era ancora imperlata dall’acqua gelida che alla luce al led del bagno rendeva le goccioline quasi scintillanti.
Respirò a fondo.
Non aveva dormito affatto durante quelle notti ed il suo viso sembrava renderlo manifesto. Aveva passato le nottate a rigirarsi tra le coperte, cercava timidamente di rievocare le immagini di quando in quella stanza con lei c’era stato anche il maggiore dei Blake, si era vergognata quando si era sorpresa ad annusare il cuscino cercando di riconoscere invano il suo odore.
Era sparito, si era dissolto assimilato dal suo e da quello dell’ammorbidente che sua madre utilizzava quando faceva il bucato.
 
Guardare il suo riflesso in quello specchio non faceva altro che confermare il fatto che si fosse piegata ad un sentimento che non era in grado di controllare, per la prima volta in vita sua sentiva la paura impadronirsi di lei.
Essere lì, in quella città, non voleva solo dire fronteggiare Bellamy, voleva dire arrendersi definitivamente a ciò che sarebbe accaduto, la verità è che Clarke si sentiva invasa dai sensi di colpa, non aveva dato alcuna possibilità a Bell, aveva lasciato che un’ampia barriera la avvolgesse allontanandola da lui per sempre.
Si era resa conto di aver fatto esattamente ciò che aveva rimproverato alla madre per troppo tempo, non era stata in grado di combattere per amore.
Non si sarebbe stupita dunque se il maggiore dei Blake non avesse accettato di parlarle dopotutto lei aveva fatto lo stesso e forse questa era la sua paura più grande, se Bell non l’avesse perdonata, sarebbe finito tutto e stavolta per davvero, in modo irreversibile.
Sentì bussare alla porta.
“Hei Clarke tutto okay? E’ un quarto d’ora buono che te ne stai chiusa lì.”
La voce di Monty sembrava davvero preoccupata.
Solo in quel momento la bionda si rese conto che stava tremando, doveva darsi un contegno e recuperare l’autocontrollo.
Inspirò.
“Si…” Si bagnò i polsi con dell’acqua gelida. “Adesso arrivo.”
 
-
 
“Volete muovervi?”
Octavia era su di giri, sembrava davvero agitata come se quella festa fosse una ragione di vita o di morte per lei.
“Andiamo O’, lasciaci almeno il tempo di metterci il cappotto.”
John la canzonò delicatamente.
“Avete preso la lista?”
“Bell dovresti averla in tasca.”
Il biondo gli lanciò un’occhiata che lo smosse  da quella perenne distrazione che lo aveva colpito da quando Clarke era sparita dalle loro vite.
Automaticamente lasciò scorrere la sua mano verso la tasca posteriore dei jeans, afferrò la lista e la sventolò sotto il naso della sorella.
“Sbrigatevi.”
O’ squittì impaziente e il fratello cercò di ignorarla.
Quella situazione lo stava mettendo seriamente a disagio, erano tutti irrequieti, in fibrillazione, sembravano dei ragazzini che entravano in un pub per la prima volta.
 
“Si può sapere che vi prende?”
Sbottò una volta in auto con l’amico.
“Che vuoi dire?”
“Andiamo… Sembrate così eccitati all’idea di questa fantomatica festa.”
“Santo cielo Bellamy, cerchiamo solo un po’ di leggerezza, sai è una scusa come un’altra per distrarsi dalla pesantezza delle nostre insulse vite.”
Bellamy lo guardò poco convinto e mise in moto, avrebbero fatto il rifornimento di alcolici da Joseph che glieli stava vendendo ad un prezzo stracciato.
“Aspettami in macchina”
Fece Murphy.
Bell non oppose resistenza, era stanco.
Per tutti quei giorni si era sentito trattato come una persona a cui era stata diagnosticata una malattia terminale, non facevano altro che tenerlo occupato, fargli più domande del dovuto e così via.
Il più delle volte cercava di non rispondere, di ritagliarsi i suoi spazi ma con quella storia della maledetta festa di fine anno gli era stato praticamente impossibile, casa sua era invasa da quella strana combriccola praticamente ventiquattr’ore su ventiquattro.
Senza rendersene conto uscì dall’auto e cominciò a camminare quasi nevroticamente, avanti e indietro.
Negli ultimi tempi la delusione che con orrore e prudenza cercava di non accostare a una vera e propria definizione di disperazione aveva fatto largo ad un senso di rabbia che stava tentando di reprimere come poteva.
Non sapeva se sarebbe riuscito a resistere ancora per molto, quando aveva iniziato la terapia con Jaha quest’ultimo lo aveva avvertito
“Devi imparare a controllare la rabbia ragazzo, ho letto i tuoi fascicoli scolastici, sembra che la tua testa calda ti abbia portato a partecipare ad un numero un po’ troppo elevato di risse.”
Ricordò di come l’unica cosa positiva che aveva tratto da quegli incontri fosse stato proprio il controllo di se stesso, aveva imparato a gestire le sue emozioni soprattutto le negative, quelle più presenti nella sua vita effettivamente.
Ogni qual volta sentiva di esplodere chiedeva ad Atom di ospitarlo in palestra dopo la chiusura, gli era capitato di passare nottate intere a sfogarsi sul sacco.
Ma quelli erano ricordi che appartenevano a qualche anno prima.
Con il tempo aveva appreso soprattutto come lasciarsi scivolare le cose addosso, forse qualcuno avrebbe azzardato dicendo che era semplicemente maturato.
Eppure percepiva che qualcosa non andava, erano anni che non sentiva il sangue ribollire in quel modo, la frustrazione per essere compatito da chiunque gli rivolgesse la parola (persino il vecchio Joseph) aveva raggiunto livelli esasperanti.
Tutto questo per cosa?
Una ragazza, di cui ormai a fatica riusciva a pronunciare il nome.
Il vuoto che Clarke aveva lasciato in lui era stato rimpiazzato prima dall’amarezza poi da vero e proprio rancore.
Era arrabbiato.
Lo aveva lasciato senza dire nulla, non gli aveva nemmeno concesso di darle la ben che minima spiegazione eppure lui aveva fatto i salti mortali per lei, l’aveva persino accompagnata a quello stupido matrimonio, dov’è che aveva sbagliato?
Quella domanda continuava a perseguitarlo da quando la biondina era sparita nel nulla e il non riuscire a trovare una risposta esaustiva lo aveva ridotto in quello stato penoso.
Continuava ad essere convinto che se avesse avuto davvero bisogno di lui come gli aveva detto, gli avrebbe dato una possibilità, lo avrebbe quantomeno ascoltato, invece se n’era lavata le mani come se niente fosse, lo aveva fatto sentire un pezzente.
Clarke Griffin non lo amava davvero, non c’era altra spiegazione, doveva essere così, quella era la cruda verità.
Ora lui doveva solo capire come accettarla.
Se solo non si fosse lasciato trascinare in quella situazione… Guardò il suo riflesso nel vetro della macchina alla quale sfilava accanto ormai da troppo tempo.
Nonostante la poca luce riconobbe il suo volto livido, la mascella tesa, gli occhi ridotti a fessure.
Sputò a terra, doveva andare avanti e quale migliore occasione dell’anno nuovo?
Rientrò in macchina prima del ritorno di John, sapeva che se lo avesse trovato fuori gli avrebbe rivolto l’ennesimo interrogatorio sul suo stato d’animo e allora sì che sarebbe stata la fine.
 
-
 
Aveva abbondato con il fondotinta e Raven l’aveva aiutata.
Le fu grata, a prescindere da come sarebbero andate le cose, era sempre più convinta che non ce l’avrebbe mai fatta senza di lei, le aveva persino prestato un vestito.
Era un semplice tubino nero, dannatamente attillato per gli standard di Clarke e forse un po’ troppo scollato ma quando si erano ritrovati tutti  insieme di fronte all’armadio di Rav, era stato impossibile smuovere la compagnia dalla scelta che era ricaduta proprio su quell’abito.
“Siete proprio sicuri di questo dresscode?”
Jasper si lamentava mentre si sistemava il papillon dalla dubbia decorazione in tinta con le bretelle che teneva sopra la camicia bianca leggermente sbottonata.
“Assolutamente… O’ è stata irremovibile.”
Disse laconica, quasi scusandosi Raven.
“Stai benissimo Jas.”
Clarke tentò di consolarlo, era il minimo che potesse fare dopo tutto ciò che quei ragazzi avevano fatto e sacrificato per lei, si accorse che Monty la guardò con un sorrisino soddisfatto stampato sulle labbra.
“Se lo dici tu… Peccato che qualcuna sia già impegnata.”
Era sicura che non fosse tra le intenzioni del ragazzo rivelare quel piccolo ed innocuo pensiero ma non poté esimersi dal ridacchiare tra sé e regalare all’amico una pacca sulla spalla.
 
Arrivarono a casa Blake nemmeno un’ora dopo, Clarke non era mai stata così tesa in tutta la sua intera vita, mille domande e paranoie la tormentavano con un’intensità ancora maggiore di quanto non fosse stato fino a quel momento.
Si presentarono alla porta stringendo due bottiglie di spumante, la bionda restò leggermente indietro dal resto dei ragazzi quasi come a volersi coprire dietro i corpi slanciati di Green e Jordan,  in qualche modo era convinta che entrare ed essere vista per ultima le donasse un’illusione di una seppur fragile protezione.
Raven suonò al campanello e Clarke strinse istintivamente la mano di Monty che stava esattamente due passi avanti a lei. Sentì la morbida presa di lui infonderle un barlume di coraggio, sapeva che se non le avesse dato le spalle gli avrebbe sorriso o bisbigliato qualcosa in grado di rafforzarla quel tanto per farle affrontare a testa alta quella situazione colma di interrogativi ai quali era giusto dare delle risposte definitive.
Fu Octavia ad aprire e la bionda non poté fare a meno di tirare un gran sospiro di sollievo, sotto sotto però se lo aspettava, era quasi sicura del fatto che Bellamy non l’avrebbe accolta di persona soprattutto se contornata da altra gente, in particolare se accompagnata proprio da Raven.
Il viso di O’ era adornato da un sorriso raggiante e in quel contesto piuttosto emozionato che sembrava voler risaltare ancor di più i suoi lineamenti delicati.
Indossava un vestito verde smeraldo che faceva perfettamente pendant con i suoi occhi grandi e gioiosi, Clarke pensò che Jas’ doveva aver spalancato la bocca in un espressione del tutto inebetita, la bellezza della minore dei Blake quella sera avrebbe messo a disagio chiunque, rivedere quella figura aprì uno squarcio nel cuore della giovane Griffin che solo in quel momento si rese conto che ciò che stava vivendo era reale e non faceva parte di uno dei tanti sogni tormentati che l’avevano perseguitata durante le notti passate.
“Dio, sono così contenta di vedervi.”
Esclamò riservando poi un abbraccio ad ognuno di loro e assicurandosi che Lincoln e Atom, avendola ormai raggiunta sulla soglia, facessero lo stesso.
Quando fu il suo turno sentì che la piccola Octavia la strinse più del dovuto, aveva una forza incredibile per il suo corpo minuto.
“Temevo non venissi”
Le sussurrò mentre pian piano la scioglieva dalla presa delle sue braccia.
Clarke abbassò leggermente lo sguardo e improvvisò un sorriso che probabilmente però trasudava terrore ed incertezza perché la più piccola le prese le mani e le disse “Andrà tutto bene, vedrai.” Stava per lasciarla entrare quando poi aggiunse “Hai ancora un po’ di tempo per prepararti… Bell e John sono andati a prendere le ultime cose.” Infine le riservò un occhiolino furbo.
Solo in quel momento Clarke si rese conto che il suo respiro si riassestò, l’ansia le aveva ancora una volta fatto perdere il controllo di sé impedendole di rendersi conto che stava boccheggiando.
Il salone di casa Blake era irriconoscibile, i mobili erano stati spostati per lasciare maggiore spazio, un grande abete colmo di addobbi e lucine si stagliava sul lato sinistro e altre luminarie varie adornavano ogni angolo della casa che odorava di buono.
Clarke fu presa da un timido fremito, le era mancato così tanto quel luogo…
 
Era ancora l’unica ad avere ancora indosso il cappotto, doveva essersi persa di nuovo nei suoi pensieri perché gli altri si erano già sparpagliati lungo l’area del salotto, Raven stava aiutando Octavia a disporre le ultime cose sul tavolo mentre i ragazzi si erano accomodati sul divano e sembravano presi da una conversazione fitta.
La bionda si avvicinò alle due ragazze che nell’angolo cottura si accingevano a svuotare pacchi di patatine e cibarie varie in delle scodelle colorate.
“O’, dove posso poggiare il giacchetto?”
Fece agitando le braccia per attirare la sua attenzione, la mora si voltò appena e sovrappensiero le rispose velocemente
“In camera tu…” Si corresse mordendosi un labbro “Nella camera degli ospiti.” Poi ritornò a preparare freneticamente la disposizione del cibo forse leggermente imbarazzata dalla gaffe.
Clarke annuì più a se stessa che alla minore dei Blake, la sua camera era diventata la camera degli ospiti ed era giusto così, in un certo senso provò sollievo nel sapere che nessuno avesse ancora preso il suo posto.
Si diresse velocemente su per le scale, non ci fu nemmeno bisogno di accendere le luci, conosceva così bene quella casa ormai, entrò di soppiatto in quella stanza che le era appartenuta per mesi, come se adesso si sentisse un’intrusa, si sfilò velocemente il giacchetto e la sciarpa, senza nemmeno guardarsi intorno, sapeva che nulla era cambiato.
Lo aveva capito in fretta, i Blake non amavano quel luogo che era appartenuto molto prima di lei ad Aurora, era conscia del fatto che tutto era intatto, uguale a come lo aveva lasciato lei nemmeno un mese fa e perdersi in quella stanza avrebbe voluto dire aumentare a dismisura quel senso di nostalgia che l’aveva attanagliata non appena messo piede nella dimora dei fratelli Blake.
Accostò la porta alle sue spalle, chiuse gli occhi ed espirò, nel buio e nel silenzio di quel piano riusciva a percepire la miriade di sensazioni che la sconvolgevano, sentiva lo stomaco in subbuglio, il cuore palpitare ad una velocità smisurata e la bocca asciutta.
Avrebbe voluto aggrapparsi disperatamente a qualcosa o qualcuno per farsi forza ma si rese conto che ormai non era più in grado di farlo, aveva sempre contato sugli altri per superare le proprie paure primo fra tutti c’era stato Jake, suo padre, l’unica persona che c’era sempre stata per lei, fino agli ultimi istanti, era morto stringendole la mano e forse in quel momento era stato lui a trarre la forza necessaria da lei per abbandonare quel corpo ormai martoriato dalla malattia, quel mondo e quelle persone che avrebbero avuto ancora tanto da offrirgli.
C’erano stati Jasper e Monty poi, per un periodo che ormai sembrava appartenere ad un passato remoto persino Collins era stato un punto fermo, un’ancora.
Ma mai nessuno nella sua vita era stato presente come Bellamy Blake, nessuno le aveva dato le stesse sicurezze senza chiedere assolutamente nulla in cambio e adesso l’ironia della sorte voleva che quel tremore, quella stupida agitazione fosse dovuta proprio al fatto che a momenti se lo sarebbe ritrovato davanti in carne ed ossa senza poter più far affidamento su di lui, lo avrebbe dovuto affrontare, avrebbe dovuto provare a lottare per convincerlo che si era pentita, che si era lasciata sovrastare dal timore di perderlo fino a far sì che quell’immensa paura si tramutasse poi in gelida realtà.
Si ritrovò nella camera del maggiore dei Blake senza nemmeno rendersene conto.
Dal primo momento in cui si era traferita quel posto le era apparso semplicemente off-limits, cercò di provare a ricordare se avesse mai osato metterci piede e alla fine realizzò che l’unica volta in cui si era affacciata da quella porta in modo del tutto fugace era stato quando durante la nevicata aveva dovuto avvertirlo del malfunzionamento dei termosifoni.
Accese la luce e respirò a fondo l’aria nella stanza, finalmente riuscì a percepire il suo odore, quel profumo acre che aveva cercato per tutto quel lasso di tempo in cui era stata lontano da lì senza mai riuscire a ritrovarlo da nessuna parte, addosso a nessuno.
Si guardò intorno cercando di catturare con lo sguardo qualsiasi dettaglio, dopotutto era il mondo di Bellamy e non avendo la sicurezza del suo perdono voleva conservare dentro sé qualcosa che lo riguardasse anche solo per un’ultima volta.
Le pareti rosse scuro emanavano calore ed i mobili in legno rendevano il tutto più accogliente.
Il letto era sfatto da un lato.
La scrivania invasa da vestiti e qualche foto che lo ritraeva in compagnia di Murphy ed Octavia, sfiorò quelle immagini avvicinandosi di soppiatto, dovevano essere di qualche anno fa. Il viso di Bell era più scavato ed insieme alle lentiggini s’intravedeva qualche brufolo tipico dell’adolescenza, Murphy faceva una linguaccia eppure la sue espressione sembrava identica a quella che sfoderava tutti i giorni, O’ invece era semplicemente più paffuta ma il suo sguardo era già maturo, già adulto, doveva essere cresciuta fin troppo in fretta.
Sapeva che avrebbe dovuto raggiungere gli altri, che avrebbe dovuto aiutare O’ e Rav ma non riusciva a staccare gli occhi da quelle fotografie o ad abbandonare quella camera che le faceva sentire Bellamy più vicino in un certo senso.
Era come se restare lì dentro le desse la sensazione che non fosse cambiato nulla, come se fosse tornata indietro nel tempo, era il luogo a cui sentiva di appartenere.
Solo in quel momento sentì la porta che prima si era chiusa alle sue spalle aprirsi, doveva essere Octavia che veniva a cercarla, cercò nella sua mente una scusa credibile da raccontarle, non sapeva come avrebbe potuto reagire vedendola nella stanza del fratello e con un gesto repentino abbandonò sulla scrivania la cornice in cui i volti dei fratelli Blake e il giovane Murphy erano rinchiusi in un alone di nostalgia e vetro impolverato.
Si voltò velocemente ma una frase tagliente le arrivò prima che potesse davvero realizzare
“Clarke… Cosa diamine ci fai nella mia camera?”
La bionda trasalì, sentire quella voce profonda e inconfondibile le squarciò il petto a metà e sentì il panico prenderla alla sprovvista.
Bellamy Blake si stagliava di fronte a lei, chiuso in un cappotto scuro e avvolto da una sciarpa blu, la faccia arrossata dal freddo e gli occhi pieni di risentimento.
 
-
 
Quando Octavia aveva percepito un leggero bussare alla porta sapeva perfettamente che si trattava di Bell e Murphy.
A quel punto infatti gli altri invitati erano arrivati tutti c’erano Miller e Bryan, ormai inseparabili che avevano raggiunto in fretta gli altri ragazzi con i quali stavano discutendo rumorosamente sul campionato di Basket come se non ci fosse un domani.
Emori ed  Harper, sue compagne di corso, invece si erano presentate al volo con Raven e si erano subito rese disponibili per dare una mano alle due ragazze.
Realizzò in quel momento che Clarke non era più scesa, era via da almeno una ventina di minuti buoni e in un certo senso fu contenta, voleva che la sua presenza lì fosse una sorpresa per Bellamy così prima di aprire costrinse Jas e Monty a nascondersi nella sua camera, vederli lì sarebbe stata una prova schiacciante, suo fratello doveva ancora vestirsi a festa e magari salendo sarebbero riusciti a scontrarsi, a quel pensiero si compiacque, tutto sarebbe andato come programmato, si concesse dunque un sorrisino beffardo che probabilmente nessuno notò davvero.
Solo quando trascinò i due al sicuro aprì la porta, fu grata che Bell avesse dimenticato le chiavi dentro o non avrebbe mai fatto in tempo.
“Dio O’ perché ci hai messo così tanto? Stavamo congelando… Quel geniaccio di tuo fratello ha scordato di nuovo le chiavi.”
Fece con enfasi John mentre si guardava intorno attento probabilmente alla ricerca di Clarke.
I due entrarono stringendo due buste di carta colme di bottiglie e salutando gli altri più o meno cordialmente.
 
 
“Dovresti andare a cambiarti”
Sua sorella lo aveva preso per un braccio e trascinato fino all’imbocco delle scale.
“Dai O’… E’ davvero necessario?”
Sapeva che non avrebbe voluto sentire ragioni, era stata particolarmente severa quando aveva parlato di ‘abbigliamento consono alla festa’ ma sperava comunque di poter fare uno strappo a quella insulsa regola.
Scosse il capo come previsto.
“Fila a cambiarti Bell.”
Il ragazzo sospirò e cominciò a salire i gradini a due a due.
Non vedeva l’ora che la festa finisse, realizzò adesso che quelle stupide promesse sull’anno nuovo fatte di obiettivi irraggiungibili e buoni propositi non facevano proprio per lui.
La porta della sua stanza era chiusa ma vide chiaramente dalla fessura che la distaccava leggermente dal pavimento che la luce era rimasta accesa, si rimproverò mentalmente, con tutte quelle dannate lucine che sua sorella aveva sparso per casa sarebbe arrivata una bolletta da brividi, non poteva permettersi di dimenticarsi le luci accese, affrettò il passo verso la camera ed aprì la porta con velocità.
Ci mise una frazione di secondo a riconoscere la figura di spalle che se ne stava proprio di fronte a lui, non era difficile attribuire l’appartenenza di quella chioma bionda e sentì il respiro mancargli per qualche istante quando si sorprese a soffermarsi sulla schiena lasciata scoperta da un vestitino nero che lasciava davvero poco spazio all’immaginazione.
Deglutì e strinse le mani in due pugni, non poteva farsi abbindolare.
La ragazza si stava voltando quando lui con fare inquisitorio e piuttosto aggressivo le chiese
“Clarke… cosa diamine ci fai nella mia camera?”
Non voleva sapere realmente per quale dannato motivo lei fosse lì, voleva solo che sparisse dal suo campo visivo.
O forse no.
Lei lo guardò dritto in viso, un’espressione crucciata e preoccupata sembrava dipinta alla perfezione sul suo volto.
Gli occhi languidi, spalancati di un azzurro intenso che aveva quasi dimenticato.
Le labbra rosee socchiuse ed un leggero imbarazzo che le tingeva di rosso le guance.
Stava provando a dire qualcosa, lo leggeva palesemente nel modo in cui muoveva leggermente la mandibola eppure sembrava non riuscire a dar fiato alle parole.
Non gli importava se fosse uno strano scherzo di Octavia o Murphy o chi per loro, se Clarke era venuta di sua spontanea volontà, se ancora una volta il destino gli stesse tirando un colpo basso, sentiva solo un’incontrollabile rabbia pervaderlo e accalorarlo.
Si tolse la giacca con un gesto secco scaraventandola sul letto, poi incalzò la bionda con un tono determinato e forse un po’ troppo minaccioso.
“Cosa ci fai qui Clarke?”
La ragazza esitò leggermente probabilmente destabilizzata da quel rancore amaro che emergeva da ogni singola parola da lui pronunciata.
“Abbiamo bisogno di parlare…”
Non sembrava convinta.
“Ah quindi hai deciso che dobbiamo farlo proprio ora? Dopo essere scappata, senza darmi nessuna possibilità di chiarimento, ti ripresenti qui come se nulla fosse e adesso vuoi parlarmi?”
Le parole di Bellamy trasudavano delusione, Clarke serrò le labbra e digrignò i denti, il ragazzo riconosceva alla perfezione l’effetto catastrofico che quella frase stava avendo su di lei. La vide fare un respiro profondo probabilmente per non abbandonarsi a quelle emozioni che la stavano cogliendo di sorpresa
“Lo sai, non avevo altra scelta.”
Il maggiore dei Blake sembrò ignorare quella risposta così vaga e approssimativa.
“Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché sei qui Clarke?”
Si morse le labbra.
“Octavia.” Sussurrò, temeva che Bellamy potesse fraintendere perché riprese subito a parlare gesticolando e balbettando come una forsennata “E’ stata una sua idea, si è organizzata con gli altri, mi hanno regalato il biglietto per venire qui e… Bell, avevo pensato che non fosse giusto, che non avessi voglia di vedermi ma non sono riuscita a tirarmi indietro, avevo bisogno di chiarire.”
“Non mi sembra ti stia riuscendo granché bene.”
Clarke si avvicinò leggermente, avrebbe fatto un passo indietro se dietro di lui la porta non fosse stata chiusa ostruendogli così il passaggio.
“Ti prego dimmi che affrontare tutta questa situazione come fosse una guerra non è quello che vuoi.”
La guardò alzando un sopracciglio, con che coraggio gli stava chiedendo una cosa simile? Come poteva arrendersi? Come poteva perdonarla? Sentiva ancora quella morsa di dolore stringergli il petto dal giorno in cui li aveva lasciati senza dargli nemmeno una possibilità.
“E se così fosse? Guardaci, prova a ricordarti di quando ci siamo visti per la prima volta, non sarebbe una novità, siamo sempre stati in guerra io e te.”
Scosse la testa angosciata.
“Sai che non è così, questo non è ciò che sei Bell.”
“Ti sbagli, questo è ciò che sono sempre stato, ho solo lasciato che tu m’illudessi del contrario persino Octavia e Murphy mi hanno spinto a fidarmi di te e guarda com’è andata a finire, non lascerò che gli altri mi dicano più cosa devo fare.”
Disse sfoggiando un ghigno amaro e alzando il tono della voce che ora sovrastava persino la musica e il chiacchiericcio che finora si percepivano dal piano inferiore.
Clarke si strinse le braccia al petto, il suo respiro arrivava alle orecchie del maggiore dei Blake spezzato, sembrava che potesse scoppiare a piangere da un momento all’altro e il ragazzo faticò a trattenersi dal precipitarsi vicino a lei e stringerla a sé, nonostante tutto ciò che aveva passato lontano da lei in quelle giornate infernali, vederla così lo devastava, soprattutto sapendo che erano state le sue parole a ridurla in quello stato.
Una piccola parte di lui però non riusciva a biasimarsi, si sentiva vittima dell’atteggiamento di Clarke, non si era fidata, aveva lasciato che le impressioni prendessero il sopravvento e rovinassero in pochi minuti ciò che avevano condiviso.
“Bellamy, ho bisogno di te.”
Gli occhi della principessa erano lucidi, sembravano due specchi d’acqua cristallina eppure la rabbia continuava a ribollire nel sangue caldo del moro nonostante sentire quella frase lo avesse fatto sussultare appena.
“Ah sì? Hai bisogno di me?”
Il tono beffardo.
“Si. Ho bisogno del ragazzo che non mi ha lasciata sola la notte del matrimonio di mia madre.”
“Mi hai lasciato Clarke. Hai lasciato tutti noi…”
“Bellam…”
“Ne ho abbastanza. Non abiti più qui adesso e non c’è alcun motivo per cui tu te ne stia qui in camera mia. Non ti rendi conto dei danni che hai fatto? Ci hai lasciati senza il minimo preavviso quando sapevi benissimo quanto ci servisse la quota dell’affitto, arrivare a fine mese con O’ che studia e con un solo stipendio è impossibile. Mi hanno trattato come un pezzente per tutti questi giorni, come una bambina a cui è morto il gatto, come se avessi bisogno di essere compatito. Mia sorella ha persino messo in piedi questa maledettissima festa e lo ha fatto per te a quanto pare… Ha speso tutti i risparmi che aveva per comprare degli stupidi addobbi e rendere la casa a prova di principessa, coinvolgendo ogni amico mio e suo.”
“Io… Mi… mi dispiace.”
Le stava rinfacciando cose stupide, lo sapeva in cuor suo ma non riusciva a farne a meno, era stato male, da morire. E vederla lì avvolta in quel vestito maledettamente sexy gli aveva dato l’impressione che lei non avesse sofferto nemmeno la metà di quanto avesse fatto lui, nemmeno quelle scuse sofferte e sincere sembravano convincerlo del tutto.
Ai suoi occhi si era presentata in quella casa di nuovo con una semplicità snervante, aveva solo cercato di farla sentire in colpa perché per un mese lui stesso era stato perseguitato da un senso di colpa colossale: quello di non aver fatto abbastanza e tutti non sembravano far altro che ribadirglielo ad ogni sguardo, ad ogni parola, con ogni gesto. Persino quella messinscena della festa di fine anno lo confermava, andava a coprire in qualche modo quelle che erano state le sue  carenze, senza considerare minimamente che era stata Clarke a lasciarli lì a Boston, soli, di nuovo.
La sentì singhiozzare, tirare su con il naso probabilmente per impedire alle lacrime di fare il loro corso, lui si era già voltato, una mano sulla maniglia, pronto a lasciarla indietro, ad abbandonare quella farsa una volta per tutte eppure stava tentennando, non riusciva a lasciarsi alle spalle quella ragazza, non in quel modo.
La sentì arretrare, lasciarsi cadere sul letto seduta probabilmente, non aveva bisogno di osservarla per prevederne i movimenti, era sicuro che se ne stava con il capo chinato, i capelli che le coprivano parzialmente il viso e le mani sulle ginocchia raccolte verso il petto.
Provò a resistere ancora un po’ all’impulso di precipitarsi da lei, cercò di rielaborare quanto accaduto in quegli ultimi minuti, sapeva di avere esagerato, sapeva che Clarke non aveva avuto potere decisionale che era stata costretta a lasciare Boston e sapeva quanto quelle parole l’avessero ferita ma…
Si rese conto improvvisamente che non c’erano ma.
“Scusami.”
Fu un sussurro flebile, la voce gli arrivò completamente spezzata dal pianto che Clarke sembrava ormai riuscire a trattenere davvero a stento.
Si voltò e la vide lì, sull’angolo del suo letto, minuscola, indifesa e ferita ed era colpa sua, sua e di nessun altro stavolta.
Clarke alzò leggermente il viso ed i suoi occhi si scontrarono con quelli arrossati di lei e resi ancor più scintillanti dalle lacrime salate che non riuscivano ad abbandonarli.
“Mi dispiace di esser andata via, ho fatto un casino Bell, io non potevo sapere…  sono stata un’idiota, non credevo che… Dio. Ero così convinta di ciò che avevo visto che non ci ho più capito nulla.”
Bellamy rimase impalato a guardarla, era bellissima, non riuscì a far niente oltre che permettersi d’indugiare su di lei ancora un po’, sapeva quanto fosse costato a Clarke ammettere di aver sbagliato, lo aveva capito fin da subito, l’orgoglio era radicato in lei almeno quanto lo era in lui.
La vide riabbassare la testa con un gesto sconsolato, probabilmente si aspettava una reazione più repentina da parte sua e quella titubanza doveva averla scoraggiata e condotta fuori strada.
Scosse la testa avvicinandosi a lei piano, non sapeva cosa stava facendo esattamente, sapeva solo che non riusciva più a starle lontano, aveva già sprecato troppo tempo.
S’inginocchiò di fronte a lei prendendole una mano tra le sue, sentì il suo sguardo intenso su di sé e la mano minuscola stringersi alle sue quasi aggrapparsi alla sua carne.
Si sentì vivo per un momento.
Sapeva che l’avrebbe perdonata anche perché se non l’avesse fatto avrebbe dovuto convivere per sempre consapevole di aver commesso l’errore più grande della sua vita, solo non sapeva ancora quando sarebbe stato pronto davvero.
Senza lasciarle la mano si alzò per poi sedersi accanto a lei.
Sentì la testa di Clarke poggiarsi tra la sua spalla e il suo petto, il cuore ricominciò a battere.
“So che potremmo aggiustare tutto questo”
Sospirò la bionda cercandolo con lo sguardo, lui però non ricambiò quel contatto visivo.
 
-
 
Qualcuno aveva alzato il volume della musica, si chiese se la loro discussione avesse raggiunto le orecchie degli altri.
Ma realisticamente doveva essere stato semplicemente Jasper che si era impossessato quasi sicuramente dell’impianto stereo.
Tra lei e Bellamy era piombato un silenzio assordante spezzato solamente da quei rumori che comunque apparivano lontani e confusi.
Non le aveva risposto, avrebbe voluto chiedergli perché ma si limitò a rispettare quella seppur flebile ed incerta quiete.
C’era tensione ma non era qualcosa di irreparabile o astiosa come invece lo era stata poco prima, piuttosto era un silenzio denso, fatto di sfogo, di tentativi, sapeva che quel gesto doveva esser stato tanto per lui, non era il tipo che tornava sui suoi passi facilmente ma stavolta lo aveva fatto, per lei, doveva pur significare qualcosa, anche se ancora non le aveva rivolto né uno sguardo né la parola.
 
La porta si aprì senza che nessuno dei due avesse il tempo di poter far qualcosa prima. La musica proveniente dal piano inferiore aveva attutito ogni altro suono impedendogli di sentire i passi di Octavia avvicinarsi.
La ragazza si sporse con la testa
“Interrompo qualcosa?”
Lo chiese con un tono giocoso e malizioso.
Il maggiore dei Blake con un gesto imbarazzato e rapido lasciò le mani di Clarke e scosse la testa.
“Stavamo solo… parlando.”
Cercò di improvvisare Clarke, si rese conto solo pochi istanti dopo che effettivamente non era che la pura verità.
“E’ pronto ma non volevamo iniziare senza di voi.”
Bell si alzò per primo.
“Eccoci.”
Disse secco.
La bionda rimase ancora un po’ seduta sul bordo del suo letto invece, non riuscì a capire fino in fondo cosa passasse per la testa del ragazzo e questo la frustrava profondamente, cos’era successo tra loro due? E’ così che avevano chiarito? Perché si sentiva ancora incompleta allora?
O’ la stava guardando, forse anche lei stava cercando di capirci qualcosa, si affrettò a raggiungere i fratelli Blake, non voleva più deludere nessuno.
 
Mangiarono quasi fino allo sfinimento, Octavia e gli altri si erano davvero superati, il tavolo era ampio, non lo aveva mai visto così popolato, solitamente lei e i fratelli Blake ne occupavano solo un angolo invece le apparì gremito di gente, sorrise vedendo i suoi migliori amici ridere e scherzare con quelle persone che seppur per un breve periodo avevano significato così tanto per lei, l’avevano accolta come se fosse la cosa più semplice del mondo senza troppi complimenti o domande.
Non aveva mai amato la compagnia, era sempre stata piuttosto solitaria eppure quella situazione le stava donando un calore inedito che non credeva di poter provare anche se ancora non riusciva a sorridere come facevano gli altri.
Il suo sguardo talvolta volava a Bellamy in modo fugace, riprovò quella sensazione che l’aveva scombussolata il giorno del pranzo con Raven e Lincoln, si sentiva inerme, con le spalle al muro, avrebbe voluto prendere il maggiore dei Blake da parte per potergli parlare, per porgli tutte quelle domande che l’avevano assalita da quando O’ li aveva interrotti ed il ragazzo aveva lasciato la stanza come se nulla fosse.
Ma non poteva farlo, non in quel momento.
E vederlo chiacchierare con gli altri, scherzare, la faceva sentire a disagio proprio come quel giorno quando il ragazzo era riuscito a far finta di nulla con una nonchalance disarmante.
La serata andò avanti in quel modo fino a dieci minuti prima della mezzanotte.
 
“Dovremmo uscire per il brindisi!”
Octavia aveva il viso arrossato, era salita in piedi sul divano come una vera regina in procinto di parlare ai suoi sudditi.
I ragazzi sotto di lei si entusiasmarono, sentì qualche commento sullo spumante, i bicchieri e dei presunti fuochi d’artificio.
Clarke non poté far a meno di sorridere di fronte a quella gioia un po’ malsana e banale ma si precipito come gli altri a recuperare il giaccone per uscire.
 
Si erano sparpagliati per tutto il perimetro del piccolo giardino di casa Blake, mancava veramente poco, nonostante molti di loro non si fossero mai visti prima avevano legato tutti piuttosto in fretta, non erano più divisi in piccoli gruppi come all’inizio della serata durante la cena o poco dopo, sembravano una vera famiglia come del resto amava definirla O’.
Si strinse un po’ nella giacca pesante, era stata sicuramente molto meno presente degli altri, il comportamento di Bellamy aveva continuato a turbarla per tutto il tempo, aveva provato a non badarci ma senza ottenere un risultato ottimale.
Adesso lo stava cercando con gli occhi, voleva provare a ristabilire un contatto con lui, sentiva che tra loro c’era ancora qualcosa di lasciato a metà.
Era sicura di aver esaminato ogni metro quadro del giardinetto ma non c’era traccia del maggiore dei Blake.
Istintivamente si allontanò dal gruppo già da tempo in festa nonostante mancassero ancora una manciata di minuti allo scoccare della mezzanotte, c’era solo un luogo dove Bell poteva essersi rifugiato, si intrufolò sul retro con la consapevolezza che nessuno avrebbe notato la sua assenza.
Non si stupì di trovarlo lì, in piedi vicino a quella panchina dove il ragazzo le aveva cominciato a raccontare la sua storia per la prima volta, realizzò velocemente che doveva aver notato la sua presenza perché sentiva i suoi occhi puntati sul suo corpo minuto.
“Fammi indovinare sei qui per aggiustare le cose”
Fece imitando l’ultima frase rimasta in sospeso che gli aveva rivolto qualche ora prima, il tono di nuovo sarcastico al quale Clarke, ancora una volta, non si era preparata del tutto.
Stavolta però sarebbe stata forte, avrebbe combattuto.
“Sono venuta solo per vedere se stessi bene…”
“Non ho bisogno del tuo aiuto.”
Il viso era tirato, sembrava quasi che stesse lottando contro una parte di se stesso.
La bionda abbassò lo sguardo, lo avrebbe rispettato, non poteva pretendere che lui stesse ad ascoltarla, fece qualche passo indietro ma non riuscì a dargli le spalle, si perse invece in quel viso teso e sofferente.
“Clarke, non ce la faccio…”
Disse a fatica quando ormai lei aveva quasi preso in considerazione l’idea di lasciarlo solo, dopotutto non le era sembrato che volesse averla tra i piedi ed in un certo senso era comprensibile, l’aveva messo in conto, stava solo cercando la forza necessaria per lasciarsi alle spalle per sempre Bellamy Blake.
Aveva  avuto l’impressione che una parte di lui volesse a tutti i costi che le cose tornassero a posto mentre un’altra cieca ed egoista non riusciva a perdonarsi per essersi mostrato così debole ai suoi occhi.
Conosceva bene quella sensazione.
Eppure seppur inconsciamente Bell le aveva appena chiesto di restare.
“Prenditi il tempo necessario Bellamy. Tu non hai alcuna colpa in questa storia okay?”
“No. E’ anche colpa mia. Non sono stato in grado di spiegarti, di convincerti, di fermarti, di farti cambiare idea.”
Non lo aveva mai visto così, i suoi occhi erano appannati da quelle che sembravano lacrime, sapeva che le stava trattenendo coraggiosamente, sapeva che odiava profondamente farsi vedere da lei in quello stato e sapeva anche che tuttavia era necessario, doveva sfogarsi, doveva trovare la forza di perdonarsi perché era evidente Bellamy era furioso e più che con lei sembrava esserlo con se stesso.
“Forse ma non ne sono convinta, ci hai provato Bell. Hai tentato di farlo davvero, hai provato a fermarmi ma io ero troppo cieca per rendermi conto di come stessero davvero le cose. A questo punto dovresti solo trovare la forza di perdonare te stesso.”
“Il perdono non è semplice per noi.”
Lo disse senza guardarla, sembrava parlare più a se stesso ma lo capiva, lo capiva forse più di quanto non avesse mai fatto.
Lei annuì impercettibilmente.
Aveva provato le stesse identiche sensazioni dopo aver parlato con Marcus e sua madre qualche settimana prima.
Lo cercò con gli occhi, era l’unica cosa che poteva fare in quel momento, voleva fargli sentire che lei ci sarebbe sempre stata se questo era ciò che voleva, voleva fargli comprendere che lei non vedeva debolezza in quel suo sfogo.
Quando finalmente, dopo qualche secondo, i loro sguardi s’incontrarono Bellamy sembrò ritrovare il coraggio per parlare ancora
“Ero così arrabbiato quando te ne sei andata.”
Clarke sussultò, le parole e gli occhi lucidi di Bellamy l’avevano colpita nel profondo, sprizzavano una violenta sincerità che l’avevano lacerata, solo in quel frangente si rese conto quanto avessero sofferto entrambi, avevano provato lo stesso identico inquantificabile dolore.
“Non voglio sentirmi in quel modo mai più.”
Clarke sorrise appena, quel tanto che quella situazione così delicata le permetteva poi s’inumettò le labbra e cercò le parole adatte
“Sai di non essere l’unico che cerca di perdonare se stesso, vero?”
Il ragazzo deglutì mantenendo labbra ancora serrate.
“Forse un giorno ci riusciremo. Ma abbiamo bisogno l’una dell’altro per farlo Bellamy, sai, sono convinta che l’unico modo che abbiamo per superare tutto questo è insieme.”
Bell si asciugò il viso, una lacrima si era fatta largo tra le sue lentiggini, annuì con una certa enfasi e Clarke si lasciò sfuggire un altro sorriso, meno timido di quelli che gli aveva provato a riservare finora, l’aveva capita ne era certa.
Il maggiore dei Blake si morse un labbro e provò a rispondere alla meno peggio con un ghigno indecifrabile a quel segno di pace, Clarke invece fece scivolare il suo sguardo sul terreno, si sentì leggera ma non abbastanza per fare quello che avrebbe voluto, non era ancora sicura di come Bellamy avrebbe reagito a quella nuova tregua almeno fin quando non si senti tirare per i fianchi, successe tutto in una frazione di secondo, l’ultimo secondo dell’anno, Bell la strinse a sé con prepotenza e posò le labbra sulle sue prima delicatamente poi sempre con maggior trasporto.
Sentirono gli altri urlare di gioia dall'altro lato del giardino poi i fuochi d’artificio rimbombarono nel cielo di Boston, esplodevano senza sosta esattamente come i loro cuori.
Si divisero a fatica, lo fecero sorridendo e lasciando che i loro visi non si allontanassero più del necessario, ripresero fiato finendo di assaporare il gusto che ognuno dei due aveva lasciato sulla lingua dell’altro, lo fecero senza staccarsi mai gli occhi di dosso, stringendosi l’una all’altro ancora, con avidità.
“Credo di amarti Clarke Griffin.”
Quelle parole avvolte in un sussurro la fecero rabbrividire.
Rise.
La gioia le esplose nel petto insieme ad una lacrima.
Affondò le mani nella chioma scura e ribelle di Bellamy e con foga avvicinò il viso del ragazzo al suo ancora di più sino a colmare del tutto la breve distanza che li separava, lo baciò lasciandosi andare completamente a lui, riversando in quell’effusione tutto l’amore che per troppo tempo l’aveva terrorizzata.
Non si sentiva debole, a dir la verità non si era mai sentita così forte, completa.
 
Difficilmente Bellamy Blake e Clarke Griffin avrebbero dimenticato quella notte.
 
Angolo autrice:
Lo so, sono stata un po' smielata con la cosa del Capodanno ma che posso farci? Era praticamente servita su un piatto d'argento e non ho potuto proprio farne a meno...
Per quanto riguarda Bellamy e Clarke oltre al fatto che li amo e sono così contenta di essermi sfogata con questa ff (mannaggia a Jason che ci sta facendo soffrire lentamente) mi sono più o meno attenuta il più possibile ai dialoghi di cui vi parlavo all'inizio.
Ovviamente non ho potuto riportare parola per parola ed ho dovuto fare un lavoro di bricolage tra frasi dette nella serie e altre inventate da me, le situazioni ed i contesti sono molto diversi eppure seppur lontanamente trovavo molto pertinenti alcune loro battute quindi mi sono lasciata prendere un po'.
Poi la Bellarke della 3x13 è praticamente la mia scena preferita in assoluto per cui vi prego abbonatemi questa scelta 

E poi niente la verità è che ci tenevo a dirvi queste due "stronzatine" perché in realtà ero e sono molto insicura riguardo alcune scelte alle quali alla fine non sono riuscita a rinunciare quindi perdonate il (doppio) accollo ahaha.

Ancora un grazie immenso a tutti - nessuno escluso -, non credo avrei mai potuto tirare fuori questa roba qui fino alla fine senza di voi, sul serio.
Per qualunque cosa, sono qui pronta a ricevere ogni consiglio/critica/quello che volete.

   
 
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