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Autore: Blablia87    11/01/2017    8 recensioni
[SPOILER ALERT PER “THE LYING DETECTIVE” - 4X02]
 
«Non è quello che si scrive… È quello che si prova mentre lo si fa.»
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Quindi perché mi scanso invece di scontrarti?
E tu perché mi guardi se puoi reclamarmi?
 
 

 
 
«No... ma è ciò che è.»
 
 
 
Sospira, Sherlock, e rimane immobile qualche secondo prima di abbassare con cautela la testa verso quella di John, nascosta tra le pieghe della sua camicia sgualcita.
 
Il respiro stretto tra i capelli dell’altro, si domanda come abbiano fatto le sue mani a trovare la forza, il coraggio, di sfiorare quell’uomo che ora trema tra le sue braccia, fragile al punto da sembrare un vetro sottile che si incrina ad ogni singhiozzo trattenuto, venandosi di un dolore sordo e aguzzo.
 
Abituato a agire, a muoversi, a farsi e fare scudo con un’arma in pugno - gesti rapidi e pensieri veloci - Sherlock non sa come riuscire a tenere al sicuro qualcuno con silenzio e immobilità.
 
Non è nemmeno sicuro che si possa fare.
 
Che si possa salvare qualcuno dalla propria disperazione.
Lenire la sofferenza con la sola presenza.
 
Ha paura di sbagliare qualcosa. Di rovinare tutto.
 
Ha il terrore irrazionale, cieco, che John lo spinga via. Che scelga di non tornare, il giorno seguente.
 
Sorprendentemente, però, il medico continua a muovere la propria fronte contro il suo sterno. Freme, e il detective si domanda con timore se – oltre le dita che coprono gli occhi e celano le lacrime – John riesca a sentire il suo cuore che batte così veloce da sembrare sul punto di fermarsi.
 
“Non voglio morire” pensa, disperato, gli occhi non più fissi su due iridi scure, folli, ma immersi in un mare dorato che si vena d’argento ad ogni movimento della testa di John.
 
“Non voglio morire” ripete, realizzando solo in quel momento come al suo respiro occorra sentire il richiamo di quello dell’altro, per potersi dire davvero vivo.
 
John si muove appena ed a Sherlock, per un attimo, sembra che vibri di una musica muta, un violino di carne e cuore.
 
Un pensiero gli attraverso la mente, veloce, lasciando una scia triste dietro di sé.
 
 
Saprebbe come proteggerlo, se fosse fatto di legno e corde.
 
Saprebbe come toccarlo, senza mandarlo in frantumi.
 
Potrebbe tenerlo con sé fino ad addormentarsi, le dita stanche a pizzicare le corde.
 
 
«Sherlock…?» lo chiama John, la voce poco più di un sussurro ovattato tra la stoffa.
 
«John.» Risponde lui, sollevando il viso con fatica dalla massa di capelli del medico.
 
Il momento è arrivato. Lo sa.
 
Con uno sforzo doloroso, allenta la presa sull’altro, aspettando che si allontani da lui.
 
«Non ti ho detto tutto…» geme invece il medico, abbassando ancor più la testa fino a nascondere del tutto il volto alla vista del detective.
«Non posso dirti tutto.»
 
Trema di nuovo, John, e ha la sensazione di essere lui, adesso, in bilico sul cornicione di un palazzo.
 
«Non importa.» Sherlock resta immobile, le dita sollevate appena dal corpo dell’altro e un calore innaturale ad avvolgere le tempie.
 
«Sì, invece. Importa. È fondamentale.» Insiste John, scuotendo la testa contro il petto del detective.
 
«Dovresti davvero, davvero, scrivere ad Irene Adler.» Sussurra e, per un attimo, sembra spengersi, crollando sotto il suo stesso peso.
 
«Le rispondo già. Ogni tanto. Non dovrei, ma sai…» Mente Sherlock, sperando che serva. A cosa, non sarebbe in grado di dirlo.
 
«Bene.» Risponde il medico, staccandosi con un passo strascicato. «Bene.» Ripete, alzando uno sguardo stanco ed un sorriso tirato verso l’uomo di fronte a sé. «È importante.»
 
Sherlock aggrotta la fronte, confuso. Si riporta le braccia lungo i fianchi, le iridi arrossate a ballare irrequiete sul volto di John.
 
«Perché? Perché dovrebbe essere importante? Sono solo messaggi.» Domanda, con voce arrochita. «Le persone si scrivono messaggi, ogni tanto. Non significa nulla. Assolutamente niente. Come non ha importanza che tu abbia scritto a quella donna.»
 
John apre un po’ di più gli occhi, sorpreso, prima che una risata triste gli trafigga le labbra, riversandosi tra di loro.
 
«Non è quello che si scrive, Sherlock. È… È quello che si prova mentre lo si fa.» Il medico si passa stancamente la mano sinistra sul viso. La fede scompare, per un attimo, tra le luci morbide del salotto di Baker Street. «Sono contento che vi sentiate. Che… che tu abbia… qualcuno. Davvero.» Termina, riapparendo oltre il velo delle proprie dita. «Dovremmo proprio festeggiare. Il tuo compleanno, intendo. Che ne dici?» Propone, stremato, e il detective si trova ad annuire ancora prima di aver compreso cosa l’altro abbia detto.
 
“Qualsiasi cosa tu voglia, John.”
 
«Chiamo Molly. Vediamo se riesce a trovare una torta, venendo qui.» John si allontana verso la cucina. Sherlock, gli occhi bassi e il passo pesante, torna verso la propria poltrona.
 
 
 
 
John appoggia il cellulare sul letto, lo schermo rivolto verso la coperta. Si alza, diretto al bicchiere di whisky che ha abbandonato poco prima sul comodino.
 
“Il blog non è più bello come una volta, non è vero?” Aveva domandato quella donna.
 
John capisce il senso di quelle parole solo in quel momento, dopo più di un’ora passata a rileggerlo. Lo comprende mentre il liquido ambrato gli brucia la gola ancora una volta, offuscando rabbia e paura e lasciandolo libero di vedere la verità prendere forma davanti ai propri occhi.
 
No, non è più bello come una volta, il suo blog. Il loro blog.
 
Perché John ha smesso di amare quella vita, di trovare gioia nel raccontarla agli altri.
 
Alza la testa, trovando Mary seduta di fianco al telefono abbandonato.
 
“Oh no, non provarci nemmeno.” Lo ammonisce lei, scuotendo la testa. “Non provare a dare la colpa a me, per questo.”
 
«Non ti do la colpa.» Risponde lui, dando un’altra sorsata. «Lo sai.»
 
“Invece sì. Continui a pensare che se non fossi morta, le cose sarebbero state diverse.” La donna si alza, un sorriso dolce sul viso. “Ma tu sai quale morte ti ha portato a questo, vero?” Domanda, la voce rassicurante. “Non sono io la tua occasione mancata, John Watson.”
 
John la supera, scuotendo la testa.
 
“Non è quello che si scrive, Sherlock. È quello che si prova mentre lo si fa.” Lo canzona Mary, seguendolo in corridoio. “E tu lo sai, lo sai, quando è stata l’ultima volta che il tuo stomaco si è contorto per l’emozione di ricevere un messaggio.”
 
John esplode in una risata stridula, alta. La donna inclina la testa, guardandolo con rammarico.
 
«Si sente con Irene Adler. Ma questo già lo sai, immagino… visto che sei nel mia testa!» Esplode l’uomo, tornando nuovamente verso la camera da letto, le mani strette con forza attorno al bicchiere.
 
Tu lo hai costretto a dire che la sente, John. E solo per poter avere una buona scusa per non dirgli tutto.” Gli ricorda lei, comparendo al suo fianco, un dito puntato in direzione del cellulare. “Te l’ho già detto a Baker Street: resta. Parla. Digli il resto, John, o nessuno di voi sarà mai felice.”
 
«Non ha bisogno di questo.» Risponde piccato il medico, afferrando comunque il telefono con un gesto stizzito.
 
“Sei tu a sperare che non ne abbia bisogno. Che ami Irene Adler, che per voi davvero non ci sia speranza. Sarebbe più facile, non è vero?” Mary sorride, stringendo una mano attorno a quella di John. Solo in quel momento, sentendo la propria epidermide non reagire a quel contatto, John realizza che lei non è davvero lì.
 
“Digli il resto, John. Tutto.”
 
John sospira, ingoiando una lacrima assieme alla paura che sente serrargli la gola.
 
Posa il bicchiere a terra di fronte al letto, lasciandosi cadere sul pavimento a sua volta.
La schiena premuta contro il materasso sblocca il cellulare, cercando il numero di Sherlock.
 
In pochi secondi l’elenco dei loro messaggi si apre, illuminandogli il viso. Socchiude gli occhi, rileggendo gli ultimi.
 
Li ha spediti tutti lui. Comunicazioni riguardanti il matrimonio, poi la gravidanza. Infine, il battesimo di Rosie.
 
Non c’è una sola risposta, da parte di Sherlock.
 
Il medico inspira, tirando indietro la testa. Si batte un paio di volte il pugno contro la fronte, cercando di trovare le parole per raccontare. Per spiegare.
 
Per chiedere scusa.
 
 
Non avrei dovuto colpirti così forte, in quell’obitorio.
 
 
Rilegge il messaggio un paio di volte. Lo invia in fretta, prima che la paura lo costringa a cambiare idea. Prima che l’istinto di fuggire abbia la meglio rendendolo, ancora una volta, un disertore divorato dalla sua stessa codardia.
 
 
Non avrei dovuto colpirti affatto.
 
 
Si corregge poco dopo, lo stomaco contratto in una stretta che risale fino alla gola, un fiotto di disperazione bollente.
 
«È inutile. Lo vedi?» Butta fuori, le parole soffocate da un gemito, girandosi in cerca di Mary.
 
“Dagli tempo.” La sente rispondere senza, però, riuscire a vederla.
 
Dopo qualche secondo, il telefono vibra tra le sue dita.
John, colto di sorpresa, rischia che gli sfugga dalle mani.
 
Chiude gli occhi fino a sentire dolore, una scarica elettrica ad attraversargli il petto come una lama.
 
“Avanti John. Leggi.” Lo spinge lei, poco più di  un’ombra oltre la barriera buia delle sue palpebre serrate.
 
Il medico si porta il labbro inferiore tra i denti, stringendo con forza.
 
Alla fine, in un gesto scomposto, tremante, fa scivolare il polpastrello sullo schermo, aprendo il messaggio.
 
 
Non importa. SH
 
 
Il petto di John sobbalza sotto la spinta dei singhiozzi.
Lascia vagare lo sguardo per la stanza immersa nella penombra, perso.
 
Per un attimo, non riesce più a ricordare.
 
Non ricorda chi fosse prima di incontrare Sherlock Holmes sul suo cammino fatto di passi strascicati appoggiati ad un bastone.
Chi fosse diventato poi, dopo la sua morte.
Cosa avesse sentito, vedendolo ricomparire in un ristorante con occhi allegri ed un paio di baffi finti disegnati.
 
È tutto confuso, come quelle lettere nere che vede sfocarsi oltre il velo delle lacrime.
 
 
Sta andando tutto in pezzi.
 
 
Digita, e i tremori sono divenuti spasmi.
 
 
Ho perso la ragione, ho perso il motivo.
 
 
Riesce a inviare, ma non è più certo di cosa stia realmente facendo.
 
 
Ho perso me stesso, Sherlock. Non so più chi sono.
 
 
“Non ricordo un solo attimo della mia vita nel quale il tuo pensiero non mi abbia accompagnato.” Si sente dire, la propria voce a mescolarsi a quella di Mary.
 
 
Non importa. Io so chi sei. SH
 
 
John rilegge un paio di volte il messaggio. Scuote la testa, un sorriso amaro ad emergere dalle lacrime.
 
 
No, non lo sai.
 
 
Ribatte, stremato, la testa bollente e il corpo in fiamme.
 
“Digli il resto, John.” Si ripete, questa volta solo nei propri pensieri.
 
 
E so dove trovarti. SH
 
 
Il medico aggrotta le sopracciglia, confuso. Si sposta distrattamente di lato, irrequieto, facendo rovesciare il bicchiere sulla moquette bianca.
 
 
Davvero? Dove?
 
 
Domanda, il cuore serrato tra i respiri.
 
 
Sei ancora qui. A Baker Street, seduto davanti a me. SH

 
Legge poco dopo.
 
La nausea lo costringe a piegarsi in avanti, la mano libera stretta tra i capelli con foga.
 
 
Sei sempre qui. SH
 
 
Termina Sherlock, un volto sfocato ed una voce atona persi oltre i caratteri di un messaggio che non potrà mai ricreare le sfumature dei suoi occhi. Che non potrà mai essere abbastanza.
 
“Avanti, John. Dillo.”
 
 
Tu non sai chi sono.
 
 
Ripete invece, ostinato, un ringhio di frustrazione sorda a solcargli le labbra.
 
 
Sì, che lo so. Sei John Watson. L’uomo che mi ha salvato la vita in così tanti modi, da averla fatta sua. SH
 
 
John spalanca gli occhi, la bocca socchiusa per lo stupore. I conati sono divenuti, adesso, scariche elettriche di una paura satura di emozione. La sente muoversi, calda, in ogni direzione del suo essere.
 
Con gesti febbrili compone il numero del detective, portandosi il cellulare all’orecchio.
 
“Non risponderà mai, lo sai. Ha sempre preferito i messaggi.”
 
Sorride, sentendo la segreteria scattare poco dopo.
 
 
Vengo a Baker Street.
 
 
Invia, alzandosi a fatica dal pavimento. Per un attimo tutto sembra girare, attorno a lui.
 
 
Non sei in condizione per uscire di casa. Lo capisco dal tempo che impieghi per rispondere ai messaggi.  SH
 
 
Lo blocca il detective mentre, passo ondeggiante, esce dalla stanza diretto al piano di sotto.
 
 
Qualunque cosa sia, puoi dirmela domani, mentre mi tieni d’occhio durante il tuo turno. SH
 
 
“Diglielo, John. Digli tutto il resto.” Quasi urla a se stesso, un piede sul primo gradino della scala. “Non avrai altre occasioni come questa, lo sai.”
 
Il viso congestionato e il cuore bloccato in gola, il medico si lascia scivolare sul secondo scalino.
 
La bocca secca e gli occhi lucidi, compone i suoi ultimi messaggi senza darsi tempo di pensare.
 
 
 
Le luci cangianti del caminetto in festa sulla sua pelle candida, Sherlock sbatte un paio di volte le palpebre, cercando di allontanare le lacrime che sente bruciare ai lati degli occhi.
 
Rilegge i messaggi ancora una volta, portandosi una mano tremante alle labbra.
 
 
Ti odio, Sherlock. Per tutto quello che mi hai fatto… Che ci hai fatto in questi anni.
 
 E mi odio così tanto, per non essere mai riuscito ad odiarti davvero, che…
 
 
…che credo di non aver mai amato nessuno, in tutta la vita, quanto amo te.
 
 
Si alza, veloce, l’orlo della vestaglia come un mare in tempesta che ondeggia rapido dietro di lui.
 
Dopo qualche attimo torna in salotto, il cappotto indossato frettolosamente sopra la veste da camera.
 

Avevi ragione, su Irene. Non è quello che si scrive, ma quello che si prova mentre lo si fa. SH
 

Digita, le dita frementi, prima di uscire dall’appartamento.
 
 
 
 
John chiude gli occhi. Sbatte piano la testa contro il muro delle scale, il calore delle tempie contro il ruvido freddo della parete.
 
Lascia cadere il telefono di fianco a sé, serrando le mani con gesti spasmodici.
 
La vibrazione prolungata del telefono lo coglie quasi di sorpresa. Decide di rimanere immobile, tentando di ignorare il dolore che sente premere contro lo sterno.
 
Il telefono freme nuovamente, in bilico sul gradino. Il medico lo cerca a tentoni, senza voltarsi.
 
Lo afferra e lo porta al petto, cercando un pensare a cosa fare.
 
Alla fine, dopo qualche minuto, un nuovo messaggio fa tremare la cassa dell’apparecchio contro il suo maglione, spingendolo a riaprire gli occhi e a mettere a fuoco lo schermo.
 
John aggrotta la fronte, un singhiozzo a mischiarsi ad un sorriso incredulo.
 
Aiutandosi con il muro, cerca di tornare in posizione eretta per terminare la sua discesa verso il piano terra.
 
Sa che dovrà aspettare, ma non gli importa. Una volta arrivato alla porta d’ingresso la spalanca, rapido, trascinandosi nel piccolo patio immerso nel buio.
 
Immobile, il respiro a condensarsi in piccole volute di fumo lattiginoso, capisce che aveva davvero ragione.
 
Non è quello che si scrive. È quello che si prova mentre lo si fa.
 
Ma non solo.
 
È anche quello che si prova mentre si legge.
 
Lo realizza in quel momento, John, il sorriso soddisfatto di Mary ad accarezzarlo, prima di scomparire nella notte.
 
Lo sente in quel momento, gli occhi attenti nella notte e tre messaggi a rincorrersi sullo schermo del telefono che stringe tra le dita, incredulo.
 
 
In realtà non so cosa si provi, a risponderle: non l’ho mai fatto. SH
 
Ma so cosa si prova a rispondere alla persona che possiede la tua stessa anima: i messaggi non bastano. SH
 
 
 
 Sto arrivando. SH
 
 
 
  
 
Angolo dell’autrice:
 
A volte ritornano, si potrebbe dire. XD
 
Nonostante non mi sia ancora ripresa dalla prima puntata e debba metabolizzare bene un paio di accadimenti della seconda (soprattutto legati alla persona di John che, almeno ai miei occhi, è praticamente irriconoscibile), la scena dell’abbraccio e quanto “Mary” dice al medico prima del suo sfogo nel salotto di Baker Street sono state due immagini che hanno rimbalzato nella mia mente con così tanta insistenza che, alla fine, ho dovuto cedere.
 
E pensare che, all’inizio, quell’abbraccio l’ho letteralmente odiato.
Misteri della mia psiche. XD
 
Spero che questa piccola sciocchezza estemporanea possa esservi piaciuta.
 
Adesso, con sommo dolore e grande angoscia, torno ad aspettare nel mio angolino la “mazzata finale” del “Problema Finale”. XD
 
Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui. ^_^
 
A presto,
B.
 
 
P.S.: vi lascio con una sequenza stupenda della bravissima Kelley, che potete reperire su Tumblr con il nick “anotherwellkeptsecret”.
 
Gatiss, Moffat, era COSÌ che sarebbe dovuta andare, sappiatelo!

 
 
   
 
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