Bakura
“Al risveglio mi ritrovai solo, come nella vita di ogni
giorno” (Angel
Sanctuary).
Si
diceva che Kul-Elna fosse stato un villaggio fiorente.
Si diceva anche che i piccoli altari innalzati in onore della Triade
Tebana
fossero in puro alabastro, intarsiati d’oro e che non avessero nulla da
invidiare a quelli nei grandi templi delle città maggiori.
Ma si vociferava anche che questa ricchezza fosse impura e sacrilega,
poiché
frutto delle razzie nelle tombe dei vecchi sovrani e dei nobili
disseminate nelle
antiche necropoli.
Forse era questa l’unica voce che correva ancora su quel villaggio da
anni
ormai distrutto.
C’era chi sosteneva con forza che fosse per via di colpe orribili che
Kul-Elna
e i suoi abitanti erano stati annientati.
Nessuno ricordava che Kul-Elna, in realtà, era stato solo un semplice
villaggio
di pescatori e contadini, una cittadina come tante altre che sorgeva
nei
sobborghi del Regno, coi suoi funzionari corrotti che estorcevano ai
poveri
abitanti imposte più salate di quelle che avrebbero dovuto riscuotere
normalmente, coi suoi sacerdoti vecchi e avidi, e coi suoi ladri,
nient’altro
che morti di fame con mogli e figli da mantenere e che, per tirare a
campare,
rubavano.
Sì, rubavano nei mercati delle città limitrofe, quelle ricche,
affacciate sul
Nilo e meta delle carovane dei mercanti stranieri. E, ogni tanto, nei
loro
viaggi nel deserto, s’addentravano in quelle tombe dimenticate dagli
dèi e
dagli uomini, con le porte di granito sbriciolate – erose dal khamsin e
dal
tempo, e infossate nella sabbia rovente. Erano complessi ipogei
piuttosto
rudimentali, se paragonate alle grandi piramidi di Cheope e Micerino o
alla
nuova necropoli che s’apriva in una enorme valle, quella dei Re.
Accadeva che trovassero una porta sfondata, affreschi scrostati dalle
pareti,
sarcofagi polverosi da cui si sollevava ancora l’olezzo della morte
antica e
canopi, giare piene di dhurra, bauli, e oggetti personali, tavolette e
papiri.
Portavano via l’oro, i gioielli, gli amuleti e piccole statuette di
bronzo.
Non pensavano di far niente di male, visto che si trattava di
sopravvivere. No.
Eppure, si dice che furono puniti tutti – dal primo uomo all’ultimo
bambino –
per quei furti e gli assalti alle carovane.
Vennero i soldati con le loro lance aguzze, le spade ricurve, montando
su carri
veloci e leggeri, trainati da una pariglia di cavalli ciascuno. E
fecero una
carneficina.
Bruciarono le case basse, di legno e paglia tenute su dal
fango e
ammassarono gli abitanti al centro della piazzetta, dove s’apriva
l’imboccatura
di un pozzo, incatenati e in ginocchio sotto il sole rovente.
La popolazione fu giustiziata dinanzi gli occhi del Sommo Sacerdote
Akunadin
che – raccontavano – fosse lì per purificare Kul-Elna dalla sozzura
delle
azioni dei profanatori di tombe.
La cosa strana è che nessuno, negli anni a venire, abbia mai collegato
la
cosiddetta “Punizione di Kul-Elna” con la comparsa improvvisa degli
Oggetti del
Millennio.
Tuttavia, fu nel giorno esatto in cui le cento anime di quella
cittadina
spirarono, che il potere dei Sette Oggetti venne rivelato. Sembrava un
racconto
leggendario, quello secondo cui la comparsa di tali manufatti sarebbe
coincisa
con un momento di grande pericolo per l’Egitto e avrebbe significato la
salvezza e una nuova prosperità.
Cento anime perirono e i Sette Oggetti vennero alla luce, forgiati in
oro
massiccio, il metallo degli dèi.
Si trattava di alchimia e
la sua legge
fondamentale venne rispettata alla lettera: il Principio dello Scambio
Equivalente.
In una coppa oscura furono gettate le cento anime strappate con la
forza,
mescolate col sangue di colui che compì la trasmutazione: Akunadin si
ritrovò
senza un occhio, perché gli fu strappato in cambio di uno nuovo, con
tutto il
potere che racchiudeva: quello,
cioè, di
poter leggere nella mente altrui.
Erano sette Oggetti:
l’Occhio,
Ma Akunadin – che aveva eseguito l’Opera Alchemica per il bene della
sua
Ta-Meri – non poté far nulla per sigillare l’oscurità sprigionata dopo
l’incanto e che si nutriva dell’odio e del dolore delle vittime del
sacrificio.
Non ebbe il potere di ricacciare indietro l’Entità o, forse, non si
accorse
della sua presenza.
Riportò a corte i Sette Oggetti in dono al Faraone, ch’era del tutto
ignaro
della strage compiuta, e cercò di mettere a tacere la propria
coscienza, rosa
dalla consapevolezza di avere estirpato cento e più vite.
Kul-Elna era scomoda, una spina nel fianco dell’Egitto. Kul-Elna fu il
capro
espiatorio e il sacrificio, nel nome del bene del Paese. Kul-Elna, da
allora,
venne additata come una città di malfattori giustamente puniti, e
spogliata
della ricchezza dei suoi altari.
Ma nessuno seppe che a Kul-Elna erano state mietute vittime innocenti e
il loro
sangue versato a profusione. Nessuno seppe mai la verità.
Kul-Elna era infestata.
Nelle rovine di pietra e legno carbonizzato, tra cocci di terracotta e
cumuli
di povere e sabbia, si aggiravano gli spiriti dei morti, i demoni del
deserto
che gridavano vendetta. Sembrava che quegli spiriti fossero gli unici
testimoni
della verità; in realtà, un’anima era sfuggita alla carneficina.
Era un bambino ed era anche l’unico che osasse aggirarsi tra le strade
devastate; un bambino dai capelli imbiancati anzitempo, per il terrore.
Si
chiamava Bakura.
Aveva grandi occhi scuri che, però, avevano perso la lucentezza e la
spensieratezza dell’infanzia. Era un corpicino magro e smunto, con la
pelle brunita
dal sole e col visetto pieno di graffi che un tempo doveva essere stato
paffuto
e allegro, ma ora era affilato, con le labbra incurvate perennemente in
giù a
conferirgli un’aria triste e corrucciata.
Viveva da solo tra i detriti del villaggio, mangiava poco e male,
doveva
lottare coi pidocchi e la calura. Eppure viveva, unico sopravvissuto
alla
strage. A undici anni, si mostrava taciturno e aggressivo, un solitario
fuso
dalla pelle scura vestito di stracci.
Quando riusciva, rubava gli avanzi della cena dei carovanieri, se li
litigava
coi cani e razziava le bancarelle dei mercati delle città vicine.
Rubava per
necessità. Era l’unica cosa che aveva imparato a fare per cavarsela in
quel
mondo ostile.
Non aveva neppure paura d’infilarsi nelle tombe nel bel mezzo del
deserto,
poteva passare ore e ora a cercare il modo di forzare le porte e
trafugava i
tesori per rivenderli al mercato nero.
Però tornava sempre a Kul-Elna, alla sua casa bruciata, agli spiriti
che tempo
addietro erano stati i bambini con cui giocava, i contadini che aravano
un
campetto vicino alla sua casa, i suoi genitori. Solo così non si
sentiva solo e
abbandonato a sé stesso, come un relitto della società, ancor più
insignificante degli schiavi, perché nessuno era al corrente della sua
esistenza,
quasi anche lui fosse un fantasma.
Odiava i Sacerdoti, i soldati, il Faraone.
«Un giorno lo ucciderò! Ucciderò il traditore del suo popolo!»,
proclamava
nelle notti fredde, ruggendo al cielo la sua minaccia.
Rinnegò gli dèi, perché si sentiva beffato da loro e li malediceva per
la
siccità e la fame.
A quattordici anni era un adulto intrappolato in un corpo
adolescenziale, col
cuore duro, gli occhi affilati e vacui, un randagio che vagava senza
sosta, che
non aveva paura degli animali selvatici e disprezzava gli altri esseri
umani.
Fu quando venne la stagione dell’inondazione nel suo sedicesimo anno di
vita,
che scorse una fiumana di carovane dirette nella capitale del Regno e
scoprì
che la festa di Osiride era alle porte. Lì, in quel momento, mentre era
accovacciato su uno spuntone di roccia e osservava la pista che si
snodava tra
le dune, prese la sua decisione: si sarebbe recato alla corte del
Faraone.
Preparò
la partenza con estrema cura e con largo anticipo. Rubò vestiti nuovi e
puliti
ai beduini, smettendo i suoi ormai vecchi e logori, e attese al
villaggio che
scendesse la sera, prima d’affrontare il viaggio.
Aveva arrostito un pesce di fiume su un fuocherello ormai ridotto a
pigre
braci, tra cui spuntavano le lische e brandelli di pelle scagliosa
bruciacchiata.
Su una stuoia, Bakura sonnecchiava per trascorrere le ore più calde del
pomeriggio. Poteva apparire disattento ma, in realtà, ai suoi occhi
socchiusi
non sfuggiva nulla, dalla spirale di fumo che saliva
pigramente nell’aria
allo zampettare d’un insetto sul terreno secco. All’ombra di un
porticato
diroccato, fissava l’apertura del pozzo ormai quasi del tutto asciutto.
Il
sonno gli gravava sulle palpebre.
Improvvisamente, avvertì un ronzio lontano, indistinto, come uno sciame
di
mosche che s’avvicinassero attratte dalla zaffata putrida che s’era
mischiata all’aria
torrida. Era disgustoso, come aver scoperchiato una tomba dove
marcivano i
cadaveri. Il ronzio era sempre più vicino, sempre più insistente.
Un’ombra aleggiava nei vicoli assolati, si estendeva e allungava le sue
dita
rapaci, a macchiare la luce del sole.
Bakura parve non accorgersene, sospeso tra la veglia e il sonno,
pensando si
trattasse semplicemente di uno dei fantasmi di Kul-Elna.
E poi… oh, le palpebre erano così pesanti! Il corpo intero pareva di
pietra, e
lui si sentiva improvvisamente troppo stanco. L’ombra che strisciava
verso di
lui era una fonte di refrigerio così invitante, nel caldo torrido!
L’olezzo aveva ceduto il passo a una fragranza piacevole, di fiori e
mirra.
L’ombra che lo avvolse era come una carezza gentile, lo cullava come
avevano
fatto le braccia di sua madre quand’era bambino.
Dita fredde gli sfiorarono le tempie, come volessero affondare nella
scatola
cranica, fino alla massa gelatinosa del cervello. Ma Bakura si spostò,
strusciando la guancia sulla stuoia, gemendo contrariato e ribelle.
«Lasciami entrare.», sussurrò una voce bassa, baritonale e suadente.
Bakura non rispose e lottò per riaprire gli occhi, mentre la voce gli
rumoreggiava nelle orecchie. Tante frasi mute, fatte solo d’immagini,
gli
venivano istillate direttamente nella mente: Bakura che correva nel
cortile
assieme agli altri bambini; Bakura che rientrava in casa per cenare,
accolto
dalla madre; Bakura nascosto in quella stessa casa, mentre i soldati
irrompevano per passare a fil di spada chiunque incrociassero. Bakura
era stato
nascosto da sua madre e non s’era mosso – preda della paura – fino a
quando il
fuoco non s’era levato dall’abitazione per divorarla e lui era
strisciato
fuori, tra i detriti e il fasciame carbonizzato. Aveva visto il
massacro, aveva
sentito l’odore acre del sangue, aveva guardato con orrore i cadaveri
ammonticchiati, s’era tappato le orecchie per non sentire le urla e i
pianti
strazianti e s’era morso le labbra così forte da farle sanguinare, pur
di non
urlare.
«Basta!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola, dibattendosi per
scacciare quelle visioni odiose.
La voce tornò, come un medicamento, un sollievo che scacciò le
immagini: «Sai
chi è il colpevole di tutto ciò? Sì, lo sai. Sono stati il Faraone e il
suo
Sacerdote. Gli spiriti di Kul-Elna implorano vendetta, tu vuoi vendetta
e io
posso procurartela.»
«Come? Non capisco. Chi sei?», Bakura si afferrò la gola bruciante,
stretta da
invisibili dita, troppo forti per lui, ma provò a lottare.
«Lasciami entrare e ti darò il potere.», fu la pacata risposta, ma che
pareva
una sentenza ineluttabile e che attendeva una e una sola risposta.
“In che modo? Cosa vuoi veramente da me?”, era solo un pensiero
nebuloso,
formulato dalla mente di Bakura mentre si sentiva soffocare. Ma la
risposta
arrivò comunque al suo orecchio, nitida, come se quella cosa che lo
avviluppata avesse avuto il potere di
leggergli nella mente.
«Ti darò gli Oggetti del Millennio. Su di essi c’è l’orma della mia
mano e sono
legati a me. Col loro potere e il mio aiuto potrai compiere la tua
vendetta. In
cambio, voglio il tuo corpo, la tua anima e il tuo cuore. Con la tua
giovinezza
e la tua forza, assieme alla mia conoscenza e al mio potere,
trionferemo.»
Il corpo di Bakura era in preda alla sofferenza: soffocava e la forza
invisibile voleva che aprisse la bocca. La sua mente e il suo spirito,
però,
erano leggeri e indugiavano in una singolare beatitudine.
Va tutto bene, è tutto sotto controllo, è tutto normale.
Poi il ladro venne assediato da altre immagini, quelle dei giorni di
futuro
trionfo: il trono d’Egitto era vacante. Il Faraone era disteso su una
lastra di
diorite intaccata da scanalature, su cui scorreva il sangue e i fluidi
interstiziali quando i sacerdoti praticavano le incisioni rituali per
estrarre
gli organi interni, avvolti in bende di lino e deposti nei canopi. Il
cervello
veniva tirato via attraverso le narici da una lama uncinata e gettato
via. La
salma veniva lavata e profumata, riempita di batuffoli di lino
fragranti e
ricucita.
Il corpo veniva immerso in un bagno di sali di natron e lasciato
asciugare ai
venti caldi del deserto, disteso nella sala d’imbalsamazione, e poi
bendato da
mani ossequiose che infilavano nelle garze talismani e amuleti sacri.
Il Faraone era morto. “Possa egli vivere mille anni!”, pensò
beffardamente
Bakura.
Il Sommo Sacerdote di Osiride attraversava a passi concitati la sala,
seguito
da uno sciame di altre persone. Attraverso i suoi occhi, Bakura vide
gli
affreschi squisiti ed espressivi che ornavano le pareti dell’enorme
sala. I
dipinti mostravano Maat che spiegava la sua Bilancia e la passava a
Thot dalla
testa di ibis, ponendo poi la sua candida piuma su uno dei due piatti.
Sullo
sfondo, assisi sui loro troni, stavano Iside e Osiride.
Dietro
Tutti quei particolari parvero a Bakura d’importanza capitale, senza
che
capisse esattamente il perché. Gli occhi di Iside gl’ispiravano una
pace
assoluta, al contrario della Divoratrice che lo faceva rabbrividire.
Tuttavia, il Sommo Sacerdote si fermò davanti al corpo del Faraone
mummificato,
a cui solo la testa era stata lasciata libera dalle bende e dall’azione
del
natron. Il viso pareva animato, perché gli occhi finti di diorite e
onice
brillavano al lume delle lampade, la pelle delle guance era stata
truccata e
pareva rosea, così come le labbra. Quindi si voltò e tese un cucchiaio
d’oro a
una presenza che Bakura non aveva scorto prima e che si faceva largo
nel corteo
funebre, vestita con le insegne regali e ornato d’oro.
Era un ragazzo slanciato, con una muscolatura compatta e un viso
piacevole;
aveva dei capelli davvero inusuali, per un egizio. Anche se si sforzava
di
mantenere un regale e dignitoso distacco, gli occhi colmi di dolore lo
tradivano;
guardava il padre e si sforzava di credere che fosse veramente nel
consesso
divino, adesso. Afferrò il cucchiaio d’oro e lo accostò alla bocca del
defunto,
accompagnato dal salmodiare dei Sacerdoti.
«Io apro la tua bocca affinché tu possa parlare ancora una
volta.»
Con lentezza, il Principe posò il cucchiaio sul naso e sugli occhi del
Faraone,
aggiungendo gli altri versi della formula rituale: «Io apro
le tue narici
affinché possa tornare a respirare. Io apro i tuoi occhi perché tu
possa
contemplare ancora una volta lo splendore di questo mondo e di quello
che
verrà.»
Era il rituale dell’Apertura della Bocca.
Sì, apri la bocca al morto, così che lo spirito si libri, così che il
Ka
fluisca e raggiunga il Duat.
«Sì, apri la bocca, Bakura!»
Il ladro spalancò di colpo la bocca, in cerca disperatamente d’aria,
con un
bisogno selvaggio di sentire il fiato fluire in gola. Bevve l’aria in
sorsi
avidi, col corpo che si contorceva. Risucchiò anche l’Ombra scura che
si faceva
largo a forza nel suo naso e nelle labbra, fino ai polmoni, diffondendo
in ogni
capillare, in ogni anfratto dell’organismo. Attecchì al cuore, al
cervello, ai
visceri, ai muscoli, ovunque, come un parassita in attesa di diventare
maturo e
forte. Il suo nutrimento sarebbe stato quel cuore gonfio d’odio,
quell’anima
sola e disperata.
Bakura aprì gli occhi e continuò a contorcersi e a gemere, rilassandosi
di
colpo a languire sulla stuoia, svuotato di ogni energia. Il rombo del
sangue
che correva nelle arterie, il battito cardiaco impazzito che martellava
le
tempie, il respiro affannoso erano tutti suoni che lo assordavano e lo
stordivano.
Tornò la voce suadente a soverchiare ogni altro rumore, e stavolta
proveniva
dai recessi del suo corpo. Prima di sprofondare in un sonno fatto di
sogni
turbinati, Bakura fu certo di averle sentito dire: «Io sono Zork.»
Al
risveglio si ritrovò solo, come nella vita di ogni giorno.
Gli parve che tutto quello che aveva visto qualche ora prima, tutte le
visioni,
tutte le voci, persino Zork, fossero solo sogni strani, inconsistenti e
privi
di logica. Non aveva nessuna importanza indugiare a rifletterci su.
«Mpf, maledetto pesce schifoso!», calciò via la cenere del fuoco spento
e i
resti del suo pasto – secondo lui – andato a male.
Spiegò la tunica rossa dal taglio beduino che aveva sgraffignato e la
indossò
sul torace nudo, solcato da cicatrici, al di sopra di un semplice
gonnellino
stretto ai fianchi da una cintura di cuoio liso.
Era ormai scesa la sera: il sole calava oltre l’orlo dell’orizzonte e i
suoi
raggi rossi e arancioni incendiavano il cielo e sfioravano le prime
stelle.
Radunò la bisaccia e la borraccia con l’acqua; s’infilò alla cintola il
vecchio
pugnale di bronzo e s’incamminò lungo le vie della cittadina diroccata.
Kul-Elna era buia e spettrale, malinconica mentre guardava come
un’immobile obelisco
l’unico suo abitante sfilare nei viottoli e lasciarla, in silenzio.
Bakura scese la stradina che l’avrebbe portato lungo la via carovaniera
fino
alla capitale del Regno e ignorava che Zork fosse dentro di lui, come
un
maligno seme in attesa di far attecchire le proprie radici.
Davanti alla sua figura longilinea e solitaria, lambito dai raggi
argentei
della luna, si aprì il deserto.
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Note dell’autrice e
glossario:
Prompt utilizzato: “Al
risveglio mi ritrovai solo, come nella vita di ogni giorno” (Angel
Sanctuary).
E’ stato
riadattato, declinandolo in terza persona.
Dunque, dunque!
Dopo tutto questo sproloquio, vi lascio al “glossarietto egittoso”, se
avete
voglia.
Ta-Meri: è uno dei nomi antichi
con cui gli egiziani chiamavano
la loro terra. Significa “Terra amata”.