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Autore: Melian    30/05/2009    5 recensioni
"Si chiamava Bakura.
Aveva grandi occhi scuri che, però, avevano perso la lucentezza e la spensieratezza dell’infanzia. Era un corpicino magro e smunto, con la pelle brunita dal sole e col visetto pieno di graffi che un tempo doveva essere stato paffuto e allegro, ma ora era affilato, con le labbra incurvate perennemente in giù a conferirgli un’aria triste e corrucciata."
[Terza classificata al contest "Come to the dark side" di Elisaherm indetto sul forum di EFP)
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Touzoku-ou Bakura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bakura


“Al risveglio mi ritrovai solo, come nella vita di ogni giorno” (Angel Sanctuary).

Si diceva che Kul-Elna fosse stato un villaggio fiorente.
Si diceva anche che i piccoli altari innalzati in onore della Triade Tebana fossero in puro alabastro, intarsiati d’oro e che non avessero nulla da invidiare a quelli nei grandi templi delle città maggiori.
Ma si vociferava anche che questa ricchezza fosse impura e sacrilega, poiché frutto delle razzie nelle tombe dei vecchi sovrani e dei nobili disseminate nelle antiche necropoli.
Forse era questa l’unica voce che correva ancora su quel villaggio da anni ormai distrutto.
C’era chi sosteneva con forza che fosse per via di colpe orribili che Kul-Elna e i suoi abitanti erano stati annientati.
Nessuno ricordava che Kul-Elna, in realtà, era stato solo un semplice villaggio di pescatori e contadini, una cittadina come tante altre che sorgeva nei sobborghi del Regno, coi suoi funzionari corrotti che estorcevano ai poveri abitanti imposte più salate di quelle che avrebbero dovuto riscuotere normalmente, coi suoi sacerdoti vecchi e avidi, e coi suoi ladri, nient’altro che morti di fame con mogli e figli da mantenere e che, per tirare a campare, rubavano.
Sì, rubavano nei mercati delle città limitrofe, quelle ricche, affacciate sul Nilo e meta delle carovane dei mercanti stranieri. E, ogni tanto, nei loro viaggi nel deserto, s’addentravano in quelle tombe dimenticate dagli dèi e dagli uomini, con le porte di granito sbriciolate – erose dal khamsin e dal tempo, e infossate nella sabbia rovente. Erano complessi ipogei piuttosto rudimentali, se paragonate alle grandi piramidi di Cheope e Micerino o alla nuova necropoli che s’apriva in una enorme valle, quella dei Re.
Accadeva che trovassero una porta sfondata, affreschi scrostati dalle pareti, sarcofagi polverosi da cui si sollevava ancora l’olezzo della morte antica e canopi, giare piene di dhurra, bauli, e oggetti personali, tavolette e papiri. Portavano via l’oro, i gioielli, gli amuleti e piccole statuette di bronzo.
Non pensavano di far niente di male, visto che si trattava di sopravvivere. No.
Eppure, si dice che furono puniti tutti – dal primo uomo all’ultimo bambino – per quei furti e gli assalti alle carovane.
Vennero i soldati con le loro lance aguzze, le spade ricurve, montando su carri veloci e leggeri, trainati da una pariglia di cavalli ciascuno. E fecero una carneficina.
Bruciarono le case basse, di legno e paglia tenute su dal fango e ammassarono gli abitanti al centro della piazzetta, dove s’apriva l’imboccatura di un pozzo, incatenati e in ginocchio sotto il sole rovente.
La popolazione fu giustiziata dinanzi gli occhi del Sommo Sacerdote Akunadin che – raccontavano – fosse lì per purificare Kul-Elna dalla sozzura delle azioni dei profanatori di tombe.
La cosa strana è che nessuno, negli anni a venire, abbia mai collegato la cosiddetta “Punizione di Kul-Elna” con la comparsa improvvisa degli Oggetti del Millennio.
Tuttavia, fu nel giorno esatto in cui le cento anime di quella cittadina spirarono, che il potere dei Sette Oggetti venne rivelato. Sembrava un racconto leggendario, quello secondo cui la comparsa di tali manufatti sarebbe coincisa con un momento di grande pericolo per l’Egitto e avrebbe significato la salvezza e una nuova prosperità.
Cento anime perirono e i Sette Oggetti vennero alla luce, forgiati in oro massiccio, il metallo degli dèi.
Si trattava di alchimia e la sua legge fondamentale venne rispettata alla lettera: il Principio dello Scambio Equivalente.
In una coppa oscura furono gettate le cento anime strappate con la forza, mescolate col sangue di colui che compì la trasmutazione: Akunadin si ritrovò senza un occhio, perché gli fu strappato in cambio di uno nuovo, con tutto il potere che racchiudeva:  quello, cioè, di poter leggere nella mente altrui.
Erano sette Oggetti: l’Occhio, la Chiave, la Collana, lo Scettro, l’Anello, la Bilancia e, in ultimo, il Rompicapo e che deteneva il nucleo del potere centrale, quello che in epoca moderna venne chiamato Puzzle.
Ma Akunadin – che aveva eseguito l’Opera Alchemica per il bene della sua Ta-Meri – non poté far nulla per sigillare l’oscurità sprigionata dopo l’incanto e che si nutriva dell’odio e del dolore delle vittime del sacrificio. Non ebbe il potere di ricacciare indietro l’Entità o, forse, non si accorse della sua presenza.
Riportò a corte i Sette Oggetti in dono al Faraone, ch’era del tutto ignaro della strage compiuta, e cercò di mettere a tacere la propria coscienza, rosa dalla consapevolezza di avere estirpato cento e più vite.
Kul-Elna era scomoda, una spina nel fianco dell’Egitto. Kul-Elna fu il capro espiatorio e il sacrificio, nel nome del bene del Paese. Kul-Elna, da allora, venne additata come una città di malfattori giustamente puniti, e spogliata della ricchezza dei suoi altari.
Ma nessuno seppe che a Kul-Elna erano state mietute vittime innocenti e il loro sangue versato a profusione. Nessuno seppe mai la verità.
Kul-Elna era infestata.
Nelle rovine di pietra e legno carbonizzato, tra cocci di terracotta e cumuli di povere e sabbia, si aggiravano gli spiriti dei morti, i demoni del deserto che gridavano vendetta. Sembrava che quegli spiriti fossero gli unici testimoni della verità; in realtà, un’anima era sfuggita alla carneficina.
Era un bambino ed era anche l’unico che osasse aggirarsi tra le strade devastate; un bambino dai capelli imbiancati anzitempo, per il terrore.

Si chiamava Bakura.
Aveva grandi occhi scuri che, però, avevano perso la lucentezza e la spensieratezza dell’infanzia. Era un corpicino magro e smunto, con la pelle brunita dal sole e col visetto pieno di graffi che un tempo doveva essere stato paffuto e allegro, ma ora era affilato, con le labbra incurvate perennemente in giù a conferirgli un’aria triste e corrucciata.
Viveva da solo tra i detriti del villaggio, mangiava poco e male, doveva lottare coi pidocchi e la calura. Eppure viveva, unico sopravvissuto alla strage. A undici anni, si mostrava taciturno e aggressivo, un solitario fuso dalla pelle scura vestito di stracci.
Quando riusciva, rubava gli avanzi della cena dei carovanieri, se li litigava coi cani e razziava le bancarelle dei mercati delle città vicine. Rubava per necessità. Era l’unica cosa che aveva imparato a fare per cavarsela in quel mondo ostile.
Non aveva neppure paura d’infilarsi nelle tombe nel bel mezzo del deserto, poteva passare ore e ora a cercare il modo di forzare le porte e trafugava i tesori per rivenderli al mercato nero.
Però tornava sempre a Kul-Elna, alla sua casa bruciata, agli spiriti che tempo addietro erano stati i bambini con cui giocava, i contadini che aravano un campetto vicino alla sua casa, i suoi genitori. Solo così non si sentiva solo e abbandonato a sé stesso, come un relitto della società, ancor più insignificante degli schiavi, perché nessuno era al corrente della sua esistenza, quasi anche lui fosse un fantasma.
Odiava i Sacerdoti, i soldati, il Faraone.
«Un giorno lo ucciderò! Ucciderò il traditore del suo popolo!», proclamava nelle notti fredde, ruggendo al cielo la sua minaccia.
Rinnegò gli dèi, perché si sentiva beffato da loro e li malediceva per la siccità e la fame.
A quattordici anni era un adulto intrappolato in un corpo adolescenziale, col cuore duro, gli occhi affilati e vacui, un randagio che vagava senza sosta, che non aveva paura degli animali selvatici e disprezzava gli altri esseri umani.
Fu quando venne la stagione dell’inondazione nel suo sedicesimo anno di vita, che scorse una fiumana di carovane dirette nella capitale del Regno e scoprì che la festa di Osiride era alle porte. Lì, in quel momento, mentre era accovacciato su uno spuntone di roccia e osservava la pista che si snodava tra le dune, prese la sua decisione: si sarebbe recato alla corte del Faraone.

Preparò la partenza con estrema cura e con largo anticipo. Rubò vestiti nuovi e puliti ai beduini, smettendo i suoi ormai vecchi e logori, e attese al villaggio che scendesse la sera, prima d’affrontare il viaggio.
Aveva arrostito un pesce di fiume su un fuocherello ormai ridotto a pigre braci, tra cui spuntavano le lische e brandelli di pelle scagliosa bruciacchiata.
Su una stuoia, Bakura sonnecchiava per trascorrere le ore più calde del pomeriggio. Poteva apparire disattento ma, in realtà, ai suoi occhi socchiusi non sfuggiva nulla, dalla spirale di fumo che saliva pigramente nell’aria allo zampettare d’un insetto sul terreno secco. All’ombra di un porticato diroccato, fissava l’apertura del pozzo ormai quasi del tutto asciutto. Il sonno gli gravava sulle palpebre.
Improvvisamente, avvertì un ronzio lontano, indistinto, come uno sciame di mosche che s’avvicinassero attratte dalla zaffata putrida che s’era mischiata all’aria torrida. Era disgustoso, come aver scoperchiato una tomba dove marcivano i cadaveri. Il ronzio era sempre più vicino, sempre più insistente.
Un’ombra aleggiava nei vicoli assolati, si estendeva e allungava le sue dita rapaci, a macchiare la luce del sole.
Bakura parve non accorgersene, sospeso tra la veglia e il sonno, pensando si trattasse semplicemente di uno dei fantasmi di Kul-Elna.
E poi… oh, le palpebre erano così pesanti! Il corpo intero pareva di pietra, e lui si sentiva improvvisamente troppo stanco. L’ombra che strisciava verso di lui era una fonte di refrigerio così invitante, nel caldo torrido!
L’olezzo aveva ceduto il passo a una fragranza piacevole, di fiori e mirra. L’ombra che lo avvolse era come una carezza gentile, lo cullava come avevano fatto le braccia di sua madre quand’era bambino.
Dita fredde gli sfiorarono le tempie, come volessero affondare nella scatola cranica, fino alla massa gelatinosa del cervello. Ma Bakura si spostò, strusciando la guancia sulla stuoia, gemendo contrariato e ribelle.
«Lasciami entrare.», sussurrò una voce bassa, baritonale e suadente.
Bakura non rispose e lottò per riaprire gli occhi, mentre la voce gli rumoreggiava nelle orecchie. Tante frasi mute, fatte solo d’immagini, gli venivano istillate direttamente nella mente: Bakura che correva nel cortile assieme agli altri bambini; Bakura che rientrava in casa per cenare, accolto dalla madre; Bakura nascosto in quella stessa casa, mentre i soldati irrompevano per passare a fil di spada chiunque incrociassero. Bakura era stato nascosto da sua madre e non s’era mosso – preda della paura – fino a quando il fuoco non s’era levato dall’abitazione per divorarla e lui era strisciato fuori, tra i detriti e il fasciame carbonizzato. Aveva visto il massacro, aveva sentito l’odore acre del sangue, aveva guardato con orrore i cadaveri ammonticchiati, s’era tappato le orecchie per non sentire le urla e i pianti strazianti e s’era morso le labbra così forte da farle sanguinare, pur di non urlare.
«Basta!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola, dibattendosi per scacciare quelle visioni odiose.
La voce tornò, come un medicamento, un sollievo che scacciò le immagini: «Sai chi è il colpevole di tutto ciò? Sì, lo sai. Sono stati il Faraone e il suo Sacerdote. Gli spiriti di Kul-Elna implorano vendetta, tu vuoi vendetta e io posso procurartela.»
«Come? Non capisco. Chi sei?», Bakura si afferrò la gola bruciante, stretta da invisibili dita, troppo forti per lui, ma provò a lottare.
«Lasciami entrare e ti darò il potere.», fu la pacata risposta, ma che pareva una sentenza ineluttabile e che attendeva una e una sola risposta.
“In che modo? Cosa vuoi veramente da me?”, era solo un pensiero nebuloso, formulato dalla mente di Bakura mentre si sentiva soffocare. Ma la risposta arrivò comunque al suo orecchio, nitida, come se quella cosa che lo avviluppata avesse avuto il potere di leggergli nella mente.
«Ti darò gli Oggetti del Millennio. Su di essi c’è l’orma della mia mano e sono legati a me. Col loro potere e il mio aiuto potrai compiere la tua vendetta. In cambio, voglio il tuo corpo, la tua anima e il tuo cuore. Con la tua giovinezza e la tua forza, assieme alla mia conoscenza e al mio potere, trionferemo.»
Il corpo di Bakura era in preda alla sofferenza: soffocava e la forza invisibile voleva che aprisse la bocca. La sua mente e il suo spirito, però, erano leggeri e indugiavano in una singolare beatitudine.
Va tutto bene, è tutto sotto controllo, è tutto normale.
Poi il ladro venne assediato da altre immagini, quelle dei giorni di futuro trionfo: il trono d’Egitto era vacante. Il Faraone era disteso su una lastra di diorite intaccata da scanalature, su cui scorreva il sangue e i fluidi interstiziali quando i sacerdoti praticavano le incisioni rituali per estrarre gli organi interni, avvolti in bende di lino e deposti nei canopi. Il cervello veniva tirato via attraverso le narici da una lama uncinata e gettato via. La salma veniva lavata e profumata, riempita di batuffoli di lino fragranti e ricucita.
Il corpo veniva immerso in un bagno di sali di natron e lasciato asciugare ai venti caldi del deserto, disteso nella sala d’imbalsamazione, e poi bendato da mani ossequiose che infilavano nelle garze talismani e amuleti sacri.
Il Faraone era morto. “Possa egli vivere mille anni!”, pensò beffardamente Bakura.
Il Sommo Sacerdote di Osiride attraversava a passi concitati la sala, seguito da uno sciame di altre persone. Attraverso i suoi occhi, Bakura vide gli affreschi squisiti ed espressivi che ornavano le pareti dell’enorme sala. I dipinti mostravano Maat che spiegava la sua Bilancia e la passava a Thot dalla testa di ibis, ponendo poi la sua candida piuma su uno dei due piatti. Sullo sfondo, assisi sui loro troni, stavano Iside e Osiride. La Grande Madre era bellissima, con la bocca carnosa e sensuale atteggiata in un sorriso benevolo, gli occhi che comunicavano l’assoluta serenità che l’accomunava allo Sposo dalla pelle verde, avvolto in bende e col pastorale e il flagello tra le mani. Accanto a loro, stava Horus dalla testa di falco, con l’Ankh nella mano destra.
Dietro la Bilancia del Giudizio, però, incombeva l’inquietante presenza della Divoratrice di Anime dalle ibride fattezze, con le fauci spalancate per sbranare l’anima dell’impuro, dell’assassino, e distruggerla per sempre.
Tutti quei particolari parvero a Bakura d’importanza capitale, senza che capisse esattamente il perché. Gli occhi di Iside gl’ispiravano una pace assoluta, al contrario della Divoratrice che lo faceva rabbrividire.
Tuttavia, il Sommo Sacerdote si fermò davanti al corpo del Faraone mummificato, a cui solo la testa era stata lasciata libera dalle bende e dall’azione del natron. Il viso pareva animato, perché gli occhi finti di diorite e onice brillavano al lume delle lampade, la pelle delle guance era stata truccata e pareva rosea, così come le labbra. Quindi si voltò e tese un cucchiaio d’oro a una presenza che Bakura non aveva scorto prima e che si faceva largo nel corteo funebre, vestita con le insegne regali e ornato d’oro.
Era un ragazzo slanciato, con una muscolatura compatta e un viso piacevole; aveva dei capelli davvero inusuali, per un egizio. Anche se si sforzava di mantenere un regale e dignitoso distacco, gli occhi colmi di dolore lo tradivano; guardava il padre e si sforzava di credere che fosse veramente nel consesso divino, adesso. Afferrò il cucchiaio d’oro e lo accostò alla bocca del defunto, accompagnato dal salmodiare dei Sacerdoti.
«Io apro la tua bocca affinché tu possa parlare ancora una volta.»
Con lentezza, il Principe posò il cucchiaio sul naso e sugli occhi del Faraone, aggiungendo gli altri versi della formula rituale: «Io apro le tue narici affinché possa tornare a respirare. Io apro i tuoi occhi perché tu possa contemplare ancora una volta lo splendore di questo mondo e di quello che verrà.»
Era il rituale dell’Apertura della Bocca.
Sì, apri la bocca al morto, così che lo spirito si libri, così che il Ka fluisca e raggiunga il Duat.
«Sì, apri la bocca, Bakura!»
Il ladro spalancò di colpo la bocca, in cerca disperatamente d’aria, con un bisogno selvaggio di sentire il fiato fluire in gola. Bevve l’aria in sorsi avidi, col corpo che si contorceva. Risucchiò anche l’Ombra scura che si faceva largo a forza nel suo naso e nelle labbra, fino ai polmoni, diffondendo in ogni capillare, in ogni anfratto dell’organismo. Attecchì al cuore, al cervello, ai visceri, ai muscoli, ovunque, come un parassita in attesa di diventare maturo e forte. Il suo nutrimento sarebbe stato quel cuore gonfio d’odio, quell’anima sola e disperata.
Bakura aprì gli occhi e continuò a contorcersi e a gemere, rilassandosi di colpo a languire sulla stuoia, svuotato di ogni energia. Il rombo del sangue che correva nelle arterie, il battito cardiaco impazzito che martellava le tempie, il respiro affannoso erano tutti suoni che lo assordavano e lo stordivano.
Tornò la voce suadente a soverchiare ogni altro rumore, e stavolta proveniva dai recessi del suo corpo. Prima di sprofondare in un sonno fatto di sogni turbinati, Bakura fu certo di averle sentito dire: «Io sono Zork.»

Al risveglio si ritrovò solo, come nella vita di ogni giorno.
Gli parve che tutto quello che aveva visto qualche ora prima, tutte le visioni, tutte le voci, persino Zork, fossero solo sogni strani, inconsistenti e privi di logica. Non aveva nessuna importanza indugiare a rifletterci su.
«Mpf, maledetto pesce schifoso!», calciò via la cenere del fuoco spento e i resti del suo pasto – secondo lui – andato a male.
Spiegò la tunica rossa dal taglio beduino che aveva sgraffignato e la indossò sul torace nudo, solcato da cicatrici, al di sopra di un semplice gonnellino stretto ai fianchi da una cintura di cuoio liso.
Era ormai scesa la sera: il sole calava oltre l’orlo dell’orizzonte e i suoi raggi rossi e arancioni incendiavano il cielo e sfioravano le prime stelle.
Radunò la bisaccia e la borraccia con l’acqua; s’infilò alla cintola il vecchio pugnale di bronzo e s’incamminò lungo le vie della cittadina diroccata.
Kul-Elna era buia e spettrale, malinconica mentre guardava come un’immobile obelisco l’unico suo abitante sfilare nei viottoli e lasciarla, in silenzio.
Bakura scese la stradina che l’avrebbe portato lungo la via carovaniera fino alla capitale del Regno e ignorava che Zork fosse dentro di lui, come un maligno seme in attesa di far attecchire le proprie radici.
Davanti alla sua figura longilinea e solitaria, lambito dai raggi argentei della luna, si aprì il deserto.






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Note dell’autrice e glossario:

 

Prompt utilizzato: “Al risveglio mi ritrovai solo, come nella vita di ogni giorno” (Angel Sanctuary).

E’ stato riadattato, declinandolo in terza persona.

La storia partecipa al contest di Criticoni “Temporal-mente”, e può essere considerata – benché sia stata pensata principalmente come racconto a sé stante – uno spin-off (o un’anticipazione bella e buona, a dirla tutta) della mia long-fiction “The Shadow of the past”. (Sì, se qualche vecchio lettore è passato di qui e se lo stesse chiedendo, è ancora in lavorazione, nonostante ci siano lavori in corso da quattro anni. XD)

Dunque, dunque! Dopo tutto questo sproloquio, vi lascio al “glossarietto egittoso”, se avete voglia.


Melian

 
Triade tebana: è formata dai tre dèi adorati a Tebe e protettori della città. Si tratta di Amon, della sua sposa Mut e del loro figlio Khonsu.

Dhurra: si tratta della forma ormai scomparsa del sorgo (Sorghum vulgare).

Ta-Meri: è uno dei nomi antichi con cui gli egiziani chiamavano la loro terra. Significa “Terra amata”.

Festa di Osiride: celebrata per festeggiare le inondazioni benefiche del Nilo e la fertilizzazione dei campi. Prende vita dalla leggenda che vuole Osiride ucciso dal fratello Seth e resuscitato dalla moglie Iside, e poi sovrano dell’Aldilà e delle messi. Simboleggia il ciclo delle stagioni, della nascita e della morte

“Possa egli vivere mille anni!”
: è uno dei saluti rituali rivolti al Faraone. Una delle varianti è: “Possa egli vivere in eterno!”.

Ka: esprime plurimi concetti all’interno della cultura egizia, era l’essere, la persona, l’individualità, il dio protettore di vivi e morti; il doppio spirituale – che riproduceva in ogni particolare l’individuo o l’oggetto che proteggeva – la forza generatrice e sessuale, la forza assimilata tramite il nutrimento, da cui deriva il suo nome. E’, soprattutto, la forza vitale dell’uomo, a cui tutti dovevano tendere. Assieme al Ba e all’Akh, costituisce l’anima dell’egizio.

Duat: era l’Aldilà egizio. Chiamato Amduat col significato di “Tenebra-Notte”, o semplicemente Duat nella sua forma abbreviata.

Pastorale e Flagello: il primo simboleggiava il Sovrano che guidava il suo popolo come un pastore fa con il suo gregge, mentre il secondo era il simbolo della protezione che il Faraone assicurava ai suoi sudditi.

 

 

   
 
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