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Autore: Deirbhile    01/02/2017    0 recensioni
Carlotta, Emilia ed Anna sono figlie di un'importante editrice toscana, madre affettuosa, donna forte e dalla vigorosa passione per la letteratura inglese. Il loro rapporto è sempre stato intenso, nutrito delle parole delle poesie lette insieme, dalle idee espresse liberamente nelle serate di fronte al camino di casa, ma nessuna delle tre è mai davvero riuscita a penetrare la cortina di imperturbabile equilibrio della donna, nemmeno dopo il divorzio dei genitori.
Quando, per l'ennesimo anno di fila, Virginia parte inaspettatamente per un misterioso convegno, le tre sorelle cominciano a notare dettagli inquietanti: il primo dicembre, assieme alla vecchia fotografia di una giovane ragazza che tiene chiusa nel suo studio, diventano simbolo di qualcosa di oscuro. Qual è il segreto di quelle fughe? Chi è quella donna?
In un breve viaggio per i paesini toscani, le tre sorelle riusciranno a collegare i tutti i tasselli, facendo un salto nel passato di Virginia e imparando a conoscere i dettagli più intimi della sua anima.
Dalla storia:
«Chi l’ha scritta è una donna. E si firma V., come Valentina. Valentina come la donna della foto che mamma tiene nel suo studio e che fa di tutto per nasconderci!»
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La luce estiva, che filtrava con difficoltà dalle fessure sottili delle imposte di legno, si incrociava con la penombra fresca della stanza, intessendo con essa una fitta rete di trame soffuse che si proiettavano con pigrizia sulle lenzuola candide. Due figure femminili, armoniose nei loro lineamenti e curve giovanili, se ne stavano lì sdraiate, abbandonate al piacevole ozio del pomeriggio, con mani e capelli intrecciati, nude e coi corpi levigati dal chiaroscuro, placide e appagate come in un ritratto della felicità suprema. La struttura in legno scricchiolò leggermente quando una delle due, la più minuta e coi capelli color della sabbia del deserto, più lucenti di una scintilla appena sfregata via da un acciarino, si girò sul fianco per rivolgersi completamente all’altra. Sui cuscini sgualciti una matassa di capelli boccolosi e castani come l’autunno ondeggiò, nel tentativo di andarle in contro. Sul comodino un orologio digitale segnava le cinque e mezzo e, qua e là sparsi per la stanza, c’erano molti libri, spartiti, fotografie e matite e, sul pavimento in mattonelle bianche, diversi capi di biancheria.

«Virginia»

Fu la più bassa a parlare per prima, con lo sguardo liquido e una vocina strascicata e morbida. L’altra ragazza, coi lineamenti soffici del viso che le rendevano le guance paffutelle e rotonde e incorniciavano i suoi occhi grandi e scuri, le rivolse un sorriso carezzevole e le passò, col tocco leggero di una piuma, la mano sul braccio nudo.

«Vale, amore mio» mormorò. I fruscii delle lenzuola spiegazzarono l’aria, creando qualche nota di tensione e rompendo per un attimo l’atmosfera eterea della stanza. Poco più in là, su di una scrivania di legno pesante e di fattura abbastanza antica (Valentina Provenzale aveva ricevuto in eredità dall’anziana bisnonna quella casa dalla struttura tipica degli anni quaranta) un cellulare, di quelli appena messi in commercio, emise un piccolo scampanellio prima di spegnersi definitivamente , rubando alla situazione quell’anacronismo che Virginia tanto amava.

«Com’è che riesci a farmi sentire così bene? Non ci ho ancora fatto l’abitudine»

Valentina prese anche lei a giocherellare con le dita sottili sulla pelle abbronzata dell’altra, piegando le labbra piccole e piene in un sorriso quasi infantile tanto era rilassato e privo di malizia. Virginia represse una risatina, scoprendo così una fila di denti bianchi e perfettamente regolari e , lasciando ancora una volta Valentina senza fiato, si accoccolò a lei ancora di più.

«Mi chiedo lo stesso anche io. Sei perfetta per me» sospirò, per poi lasciarle un bacio sotto l’orecchio.

«Io ti amo tanto»

Virginia si spostò una ciocca scura che le ricadeva dispettosamente sul viso e rispose con un lungo bacio, perché anche se era una giovane studentessa di lettere moderne in quel momento le mancavano le parole. Paradossale come la sua parlantina l’avesse più volte salvata da situazioni sconvenienti, ma ora che necessitava di esprimere in sintagmi le palpitazioni del suo cuore, la trovasse un’operazione quanto mai difficile.

«Ti amo tanto anche io » alla fine si arrese alla semplicità di quel sentimento, senza usare paroloni o rime, senza figure retoriche. Un sentimento puro e sobrio, spoglio di qualsiasi artificio, senza nient’altro da offrire che una ristretta gamma di parole attraverso cui rendersi manifesto, accontentandosi, nella sua totale assolutezza, di un ovvio predicato. Virginia aveva pensato molte volte a come, però, il soggetto a cui si rivolgeva fosse totalmente fuori da ogni schema. Valentina, studentessa di giornalismo ventitreenne, appassionata violoncellista,  più grande di lei di un anno, minuta e energica nelle sue spalle sottili, con gli occhi color delle fronde al tramonto, coi capelli lunghi e morbidi, come un letto di foglie per chi vaga senza pace nel buio di un bosco. Piena di vita, di ambizioni, eppure così piccola e bisognosa di protezione lì rannicchiata fra le sue braccia sottili, piena di sentimenti vigorosi e intensi esattamente come lei. Virginia, lì sepolta nei suoi capelli, trovava davvero pace. Una luce, meglio identificata come il suo sorriso, di intensità misurabile attraverso i battiti del suo cuore, squarciava in due la cortina di buio che in tempi passati aveva spesso rischiato di farla soffocare.

«Come Catherine ama Heathcliff?»

Esattamente a questo si riferiva Virginia, quando definiva Valentina uno strano soggetto. Lei si perdeva nei meandri di riflessioni malinconiche e insidiose, sperduta fra il suo forte istinto di conoscenza e la sua eterna sete di verità, domandandosi il perché della vita, delle cose. E poi Valentina faceva quelle uscite, frasi dette magari lì per lì, ma buttate mai a caso (sapeva infatti che con la sua empatia riusciva esattamente a capire quando fosse necessario un suo intervento) che le sbattevano in faccia quanto in realtà le cose fossero più semplici e lineari che non nella sua testa.

«Come Catherine ama Heathcliff, forse anche di più» rise più serena, poi si alzò a sedere e l’altra la seguì di riflesso, col viso poggiato sempre alla sua spalla.

« Ti va di leggere un po’ prima del tè?» propose vivace Valentina, alzandosi subito dopo per raccattare dalla libreria stracolma un volumetto piccolo e rovinato, rilegato in stoffa blu coi ghirigori dorati che avevano acquistato insieme ad un mercatino a Firenze, l’ultima volta che ci erano state per una piccola pausa dai rispettivi studi universitari. Virginia era rimasta interdetta, quando la ragazza le aveva chiesto di acquistarne una copia tutta per loro da condividere, perché entrambe ne avevano una propria, con le pagine ormai consunte tanto erano state sfogliate, in preda alla smania sentimentale di due quindicenni.

«Cime Tempestose?» chiese, con in volto l’espressione più rapita delle espressioni umane, seguendo con lo sguardo le curve armoniose della sua ragazza che si allungava, dal basso del suo metro e sessanta, verso la cima della libreria in legno massello. Era diventato il loro libro da quando, appena conosciute, avevano scoperto di avere la stessa passione per quel romanzo e per le sue ambientazioni ventose e rustiche, facendo di Catherine e Heathcliff due personaggi quasi reali, da tirar fuori in ogni occasione, come si parla di un fratello o di una cara amica.

«Cime Tempestose, si… ti leggo la tua parte preferita, vuoi?»

Virginia fece di si con la testa, per poi lasciarla cadere all’indietro sui cuscini e rilassarsi, mentre la voce fluida e melodiosa di Valentina cominciava a declamare e sentendo una lieve brezza calda provenire da fuori, carezzandole la pelle col suo aroma fruttato ed estivo.

«A che scopo esisterei, se fossi tutta contenuta in me stessa? I miei grandi dolori, in questo mondo, sono stati i dolori di Heathcliff, io li ho tutti indovinati e sentiti fin dal principio. Il mio gran pensiero, nella vita, è lui. Se tutto il resto perisse e lui restasse, io potrei continuare ad esistere; ma se tutto il resto durasse e lui fosse annientato, il mondo diverrebbe, per me, qualche cosa di immensamente estraneo: avrei l'impressione di non farne più parte. Il mio amore per Linton è come il fogliame dei boschi: il tempo lo trasformerà, ne sono sicura, come l'inverno trasforma le piante. Ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce nascoste ed immutabili; dà poca gioia apparente ma è necessario. Nelly: io sono Heathcliff! Egli è stato sempre, sempre nel mio spirito»

 

                                                                                                       ***

 

 

Il salotto di casa, così caldo e accogliente negli arredamenti rustici che la stessa Virginia Trovarello aveva scelto quindici anni prima, controbattendo alla proposta del suo allora marito Michelangelo Brunetti di optare per mobili più moderni, era animato dagli schiamazzi di Carlotta ed Emilia che, sedute sul divano di pelle marrone, disputavano rumorosamente su quale fosse, fra “Il ritratto di Dorian Gray” e “ Madame Bovary”, il romanzo più rappresentativo del dramma esistenziale decadente. Anna, loro sorella minore , stava invece seduta a gambe incrociate di fronte a loro, accostata al camino e con un mazzo di carte francesi con cui spesso si divertiva a giocare a solitario nelle sere d’autunno.

«Anna, diglielo che ho ragione, lo sanno tutti che Wilde è decisamente più importante!» esclamò esasperata Emilia, la sorella di mezzo, scostandosi dal viso i lunghi capelli castani e ondulati e sventolandosi una mano davanti al viso pallido.

«Ma non-… sei davvero insopportabile quando fai così, sei troppo saputella» borbottò Carlotta, la diciannovenne, sistemandosi meglio gli occhiali squadrati che, in quello scatto d’ira, erano leggermente scivolati lungo il suo piccolo naso. Capitava spesso che le due sorelle, Emilia col suo carattere a tratti burbero e scontroso e Carlotta col suo modo di fare caparbio, si perdessero in piccole discussioni del genere, ma Anna, di indole calma e riappacificante, risolveva sempre le loro futili controversie con un pronto intervento. Le occasioni però, da quando la maggiore si era trasferita a Siena per gli studi universitari, erano notevolmente diminuite, procurando una strana malinconia ad entrambe. Ora che Virginia, loro madre, era in viaggio a Roma per un summit di case editrici, Carlotta era tornata a stare nella cittadina natale per far compagnia alle sorelle, prendendosi un po’ di respiro dall’Università.

«Su, non litigate, sono pareri. Piuttosto, aiutatemi a costruire una piramide» disse Anna, per poi cercare di accostare due carte consunte fra di loro, con la lingua fra i denti. Emilia si alzò per attizzare il fuoco nel camino che, in quella sera di fine novembre, avevano acceso non tanto per necessità (nel loro paesino, sperduto fra le colline toscane, non faceva particolarmente freddo d’autunno) quanto per il calore familiare che le infondeva, quando fuori al buio il vento frusciava fra le foglie e si ritrovavano sole in casa, con la madre in viaggio di lavoro. Carlotta rimase rannicchiata sul divano, appoggiata sonnacchiosamente ad un cuscino spugnoso, guardando le sue sorelline ridere divertite ogni qual volta le carte rovinavano a terra sul tappeto color amaranto.

«Quando hai detto che torna la mamma?» domandò ad un certo punto la più piccola,coi capelli biondi che le ricadevano a ciocche sottili sugli occhi concentrati, lasciando per un attimo perdere il suo piccolo ma ambizioso progetto architettonico.

«Prima che tornassi a casa mi ha detto che sarebbe tornata dopo due, al massimo tre giorni. Sapete com’è la mamma, da quand’è stata promossa a direttrice della sede di Firenze è così impegnata… ha detto che ci avrebbe chiamato lei, appena arrivata» rispose Carlotta, giocherellando pigramente coi suoi capelli color bronzo, fra il castano di Emilia e il biondo camomilla di Anna, esattamente come suo padre. Emilia alzò lo sguardo dal tappeto, esprimendo il suo disappunto con uno sguardo bieco.

«Avrebbe potuto avvisarci! Ti abbiamo visto sulla porta così, mi sono presa un bello spavento. E poi, lasciarci solo un bigliettino… » borbottò inquieta, stroncando con una manata stizzita l’ultimo tentativo di Anna di metter su una piramide decente. La biondina la rimbrottò con uno schiaffetto sul braccio, con in volto un’espressione di infantile dispiacere che, nonostante avesse già quindici anni, persisteva nei suoi lineamenti dolci e proporzionati.

«L’aereo partiva alle due, voi tornate dal liceo alle due e mezzo, non ha potuto fare altrimenti» la giustificò Carlotta, ma lasciò perdere la posizione a difesa della madre non appena fu nuovamente incenerita dagli occhi color ghiaccio di Emilia.

«Andiamo, non ricominciate ora, per favore. Siamo insieme dopo quattro settimane, tutte e tre… non sprecate il tempo a litigare» le ammonì Anna, per poi alzarsi dal pavimento e andarsi a raggomitolare vicino alla sorella più grande, tirando su col naso perché il vento umido degli ultimi giorni le aveva portato un bel raffreddore. L’altra sorella rimase di fronte al fuoco, sedendosi a terra e allungando di tanto in tanto la mano per acchiappare le scintille che fuoriuscivano, nel tentativo di calmare gli spiriti. Emilia, di diciassette anni e mezzo e gran personalità battagliera, era forse la più criptica e solitaria delle tre, riprendendo per certi versi i modi di fare riservati e controversi della madre, silenziosa e riflessiva. Quando si infervorava, il che accadeva ogni qual volta qualcuno metteva in dubbio ciò che diceva o le cose non andavano come esattamente previsto, diveniva intrattabile e si chiudeva in un sordo mutismo e nemmeno le sue sorelle osavano distoglierla da quelli che sembravano pensieri tremendamente ermetici.

«Emi, su, vieni qui» la richiamò Carlotta, con tono carezzevole, invitandola con un gesto della mano a sedersi accanto a loro. Emilia si voltò, sorrise impercettibilmente, ma rimase dov’era a guardare il fuoco. Le due, comodamente stese, cominciarono a parlottare fra loro e ridere per chissà cosa. Poi, ad un tratto, Emilia parlò di nuovo, questa volta in tono meno greve e più vellutato.

«Che data è oggi?» chiese. Carlotta le mormorò che era il trenta novembre. Annuì, pensierosa, puntando di nuovo gli occhi grigi sul fuoco che moriva a poco a poco, lasciando la stanza nella penombra. Anna le fissava, dubbiosa.

«Trenta. Non vi sembra strano?»

Tutte e tre si guardarono in sincrono, poi Emilia sbatté le palpebre corrucciata, come se cercasse di capire come esprimersi.

«Mamma è sempre in viaggio, sempre da qualche parte, intorno a questo periodo» sussurrò, tremando leggermente perché aveva cominciato a far freddo. Carlotta si alzò per accendere l’impianto di riscaldamento, Anna rimase lì ferma a cercare di capire a cosa volesse alludere l’altra sorella.

«No, no-non è vero. E poi cosa dovrebbe esserci di strano?» la più piccola batté i denti, passandosi le mani sulle braccia coperte da un semplice cardigan di cotone grigio nell’intento di scaldarsi un po’. Carlotta tornò qualche minuto dopo, riprendendo il suo posto e guardando Emilia, esortandola a continuare.

«Ricordate? L’anno scorso, il trenta novembre, mamma restò fuori città per un giorno o due» spiegò concitata, rigirandosi fra le mani il mazzo di carte francesi che giaceva abbandonato sul tappeto.

«E l’anno prima ancora, hai ragione» confermò con uno sbadiglio la maggiore, gettando un’occhiata all’orologio da polso e rendendosi conto che erano già le undici e mezzo di sera. Il viaggio in macchina da Siena l’aveva proprio fiaccata e non vedeva l’ora di mettersi a letto nella sua vecchia cameretta, che condivideva con le sorelle. Emilia annuì, poi lasciò perdere le carte e si abbracciò le ginocchia. Il loro salotto dava, attraverso una grande portafinestra, sul giardinetto, un fazzoletto di prato inglese ben curato con ai lati un albero di mele e diverse siepi, qualche cespuglio di rose e gelsomini. In autunno, le foglie del melo si accumulavano tutte sui fili d’erba rinsecchiti e pieni di brina e Virginia, quando aveva un momento libero, era solita rastrellarle via lei stessa, accatastandole in un angolo al lato della portafinestra, così che ora, alla luce fioca del camino e del lampadario del corridoio adiacente, appariva come un catasto di legno al rogo e Emilia, ad un ululato particolarmente forte del vento, ebbe un tremito.

 «A voi non sembra strano?» chiese ancora. Anna si fece scura in volto e si appoggiò col capo alle gambe di Carlotta, seria e rigida.

«Non c’è nulla di strano, Emi, la mamma ha sempre molti summit, riunioni, congressi aziendali» sminuì quella,fissando intensamente il fuoco. Il silenzio scese per un attimo su di loro, con la sua soffocante cappa di sospetti.

«Si, è vero. Mamma ha sempre molti congressi aziendali» ribadì con più sicurezza Anna. Emilia alzò le spalle, come se non gliene importasse più di tanto, ma oramai il dado era lanciato e bisognava aspettare gli esiti del turno.

«Eppure, quando si avvicina l’inizio di dicembre, non ci avvisa mai, non-»

«Adesso smettila, stai dicendo stupidaggini» la fermò Carlotta, in tono perentorio. Le due sorelle minori si guardarono, poi Emilia lasciò cadere il discorso e presero a parlare dei libri che ciascuna di loro stava leggendo in quel periodo. La loro era una passione comune, ereditata, forse come unico segno distintivo, dalla madre. Accadeva spesso, da quando erano bambine, che Virginia le riunisse tutte le sere d’inverno di fronte al fuoco, mentre suo marito era ancora nel suo studio informatico a lavorare, per leggerle qualche favola o brano di un libro, o semplicemente parlare con loro di un personaggio particolarmente piaciuto o di un autore. Con gli anni, in quelle loro serate erano stati aggiunti progressivamente anche poeti come Byron e Saffo, commediografi come Goldoni e Shakespeare, autori come le sorelle Brontë e Virginia Woolf, Honoré de Balzac e Alexander Puskin.

«Io sto rileggendo per la milionesima volta Il giovane Holden, temo che non smetterà mai di piacermi» affermò Emilia, ora illuminandosi per la prima volta con un sorrisino impercettibile.

«Nah, Salinger è troppo… Beat Generation per me, sto provando a leggere l’Ulisse di Joyce»

«E che mi dite di Emma? Andiamo, sto amando ogni singola parola» intervenne appassionatamente Anna, intavolando con le sorelle maggiori una lunga discussione sui rispettivi gusti letterari, al termine della quale, visto che nessuna delle tre aveva davvero voglia di andare a letto e il calore del camino le avrebbe tenuto compagnia almeno per un’altra mezz’oretta, decisero di leggere insieme qualcosa.

«Fate le vostre proposte» sbadigliò la sorella di mezzo, per poi distendersi a pancia in su sul tappeto, con le mani placidamente giunte dietro la testa.

«Ovviamente leggi tu, Carlotta» continuò. Il fuoco morente gettava ombre scure e dense sui suoi occhi, già grigi e glaciali di natura, e smussava coi suoi riflessi fumosi le sue gote pronunciate e le sopracciglia dal taglio brusco.

«Che ne dite di qualche commedia latina? Devo portarle ai prossimi esami» azzardò la più grande, per essere subito stizzosamente zittita e contrariata dalle altre due, che ritenevano le commedie di Plauto eccessivamente grossolane.

«Voglio qualcosa di romantico» sospirò Anna, portandosi le mani ad incorniciarsi il volto piccolo e serico.

«Non dirmi che ti sei innamorata di nuovo» sghignazzò Emilia ai piedi del divano, alzando ancora di più il volume delle sue risate all’imporporarsi delle gote della sorella.

«Sei incredibile. Proprio non puoi far a meno di amare qualcuno alla follia, eh?»

«Parli proprio tu, Emi, tu che, lo sappiamo tutti, hai una relazione clandestina con quel tipo, il musicista, com’è che si chiama?»

«Prima cosa, non abbiamo una relazione, ho diciassette anni, diamine. Seconda, si chiama Alessandro ed è proprio figo!» ribatté quella, non senza un luccichio negli occhi e le guancie leggermente più accaldate.

«Direi che è proprio il caso di leggere Cime Tempestose, il tempo lì fuori è perfetto» disse Anna, per sviare il discorso dalla sua vita amorosa.

«Vado a prenderlo» si offrì.

Anna si alzò dal pavimento, camminando a piedi nudi verso il corridoio e poi su per la scala, diretta alla loro stanza. Entrò, senza neanche accendere la luce, conosceva la disposizione dei libri a memoria nella loro piccola libreria, e si arrampicò nella penombra su una sedia per arrivare all’ultima mensola. Cercò per dieci minuti, scorrendo con gli occhi stretti in due fessure fra i titoli sul dorso, ma poi scese con uno sbuffo, dicendo alle sorelle che “Cime Tempestose” proprio non si trovava.         

«Ah, si… dimenticavo, l’ho portata con me a Siena l’ultima volta» mormorò delusa Carlotta, ma Emilia intervenne.

«Mamma dovrebbe averne una copia nel suo studio» disse concitata, ammettendo di essere andata a spulciare fra i numerosissimi libri della madre nel suo studio personale, che era gelosamente custodito.

«Lo sai che mamma non vuole che ci entriamo» la rimproverò la sorella minore, ma fu fermata con un gesto della mano.

«Mamma non c’è e poi non c’è niente di male a prendere in prestito un suo libro. Cavolo, neanche fosse la Camera dei Segreti» sbottò infastidita e, vedendo che nessuna delle altre due aveva intenzione di fermarla, si diresse a passo spedito verso un altro corridoio, opposto al primo, in fondo al quale, di fianco al ripostiglio, c’era una piccola stanza, chiusa da una porta di legno verde smeraldo laccato e con un pomello dorato di foggia antiquata. Virginia era molto gelosa della sua stanza personale, adibita ad ufficio dove riceveva i clienti della casa editrice e dove trascorreva il tempo a rilassarsi quando le figlie studiavano, ascoltando la musica di Chopin con un piccolo impianto stereo e bevendo il suo amato caffè amaro. Aprì la porta, che scricchiolò rumorosamente echeggiando per tutto il corridoio, e vi si infilò dentro, accendendo la luce. Oltrepassò la scrivania in mogano e saltellò sul tappeto verde in velluto per poi allungarsi, dall’alto del suo metro e settantacinque, ad afferrare un volume dalla libreria, dalla copertina blu polvere e ghirigori dorati con su scritto a lettere tondeggianti “Cime Tempestose- E. Brontë”.

«Trovato» mormorò con un ghigno soddisfatto, ma, tirandolo giù, capitolò per terra, trascinandosi dietro un po’ di libri. Emilia si alzò frastornata, con una mano sulla testa, un libro l’aveva colpita proprio sulla fronte e ora, sparsi sul pavimento, c’erano vecchi volumi aperti e qua e là qualche foglio si era staccato. Si avvicinò con cautela, valutando i danni fatti e, nella speranza che le sorelle non l’avessero seguita sentendo quei tonfi, mise tutto disordinatamente apposto. Afferrò il libro in questione e fece per tornare dritta dritta in salotto, ma prima di uscire gettò un’occhiata ad una fotografia sulla scrivania. Le era capitato spesso di sgattaiolare lì e prendere illecitamente qualche libro, magari le poesie di Keats o Byron, e da quand’era bambina, uscendo, si fermava a guardarla. Era la fotografia di una giovane donna, incorniciata da una sobria cornice d’argento ormai ossidato, dai lineamenti dolci e armoniosi e due occhi castani luminosi e contornati da folte ciglia, col naso coperto di lentiggini. I capelli, di un colore simile alla sabbia o alla terra sassosa dei viottoli di campagna, le ricadevano lunghi e in piccole onde sulle spalle e, insieme al sorriso smagliante e caloroso, davano al volto un’aura di infinita serenità. Emilia deglutì, quella fotografia le faceva sempre uno strano effetto, forse perché sua madre non aveva mai voluto dirle chi fosse, e camminò a passò svelto giù per le scale. 

«Ecco qui»

Emilia passò il libro alla sorella maggiore e si accomodò vicino ad Anna, in attesa che cominciasse a leggere.

«Questa copia è proprio vecchia, avrà almeno quarant’anni. Penso che mamma l’abbia presa di seconda mano»

Anna si sporse per dare un’occhiata, poi, attirata dalla copertina ruvida e indurita dal tempo, lo aprì e cominciò a sfogliarne le pagine. Dopo qualche minuto di silenzio, la biondina esclamò sorpresa:

«Ragazze, guardate, c’è scritto qualcosa!»

Emilia afferrò immediatamente il libro, togliendolo rudemente di mano alla sorella. Lesse attentamente la grafia appuntita e sottile di sua madre e assunse un’espressione interrogativa.

«Sono tre nomi. Virginia Trovarello, Virginia Brunetti e… Virgina Provenzale» concluse in un soffio e, alzando lo sguardo, vide che anche le sue sorelle avevano in volto la sua stessa espressione dubbiosa.

«Virginia… Provenzale? Sicura sia scritto così?» chiese scettica Carlotta, senza scomporsi. Anna aveva invece un luccichio negli occhi degno della più incallita dei ficcanaso.

«Provenzale, si… che strano anche questo» affermò Emilia. Si lasciò cadere vicino alle altre due e insieme guardarono il frontespizio del libro.

«Ma non è così che Catherine firma la sua Bibbia, in Cime Tempestose? Con tre cognomi» saltò su la più piccola, che lo aveva letto per la seconda volta da poco. Emilia annuì, pietrificata.

«Come mai quella faccia?» le chiesero, ma lei deglutì e si prese alcuni secondi per elaborare ciò che aveva da dire, in silenzio.

«Catherine scrive prima il suo cognome, poi quello di Edgar e poi quello di…»

«… Heathcliff» conclusero in coro la prima e l’ultima sorella, sgomentandosi anche loro. Il vento fischiava forte e tagliava come lame affilate la vegetazione del giardinetto e, sfiorando le foglie, emetteva un mormorio terrificante.

«Secondo voi, insomma… significa qualcosa?» domandò timorosa Anna, rigirandosi di nuovo le pagine del libro fra le dita. Emilia annuì mesta.

«Mamma è sempre stata un tipo strano, non significherà nulla» alzò le spalle Carlotta, ma il viso di Emilia non cessò di essere teso.

«Si, Charlie ha ragione. Probabilmente mamma l’avrà comprato ai tempi dell’università, quando lei e papà non erano ancora granché felici assieme e c’era un altro. Poi ha cambiato idea» mormorò Anna.

«No, io dico che l’ha scritto proprio poco prima del matrimonio. Guardate, c’è una data» quasi singhiozzò la mora, indicando un’annotazione a piè di pagina.

C’era scritta una data, primo dicembre millenovecentonovantasette.

«Primo dicembre. E’ domani» ripeté funerea Emilia, ma Carlotta la bloccò con un gesto secco.

«So a cosa stai pensando. Non è così. Non c’entra niente col fatto che mamma è via per lavoro, leggi troppi romanzi gotici» l’ammonì acidamente,ma Emilia continuò a parlare.

«Continui a dire che non c’entra niente. Ma allora perché mamma ogni anno intorno al primo dicembre sparisce? Dov’è che va? Io non ci credo che va ai suoi stupidi summit, quando c’era papà nemmeno lui osava fare storie e si inventava una scusa dopo l’altra, ma dopo il divorzio la cosa è continuata. C’è qualcosa sotto e questo ne è la conferma! Ma dico, l’avete mai vista quella fotografia, lì nel suo studio? Non ci fa mai entrare e quando ci da il permesso la nasconde, chi è quella donna?» quasi urlò e le sue sorelle la guardarono come se fosse pazza.

«Adesso calmati, su» le intimò con calma Carlotta, così quella si sedette nuovamente, ansimando ancora. Quando anche il vento cessò di ululare e del fuoco non rimase che un pallido tizzone violaceo, ripresero a parlare.

«Quindi dici che… c’entra qualcosa anche lei?» sussurrò Anna, quasi impaurita che qualcuno potesse sentirla far riferimento a quella che oramai era per loro la donna della fotografia. Emilia distorse le labbra sottili, nel tentativo di trovare le parole adatte. Alla fine annuì solo, lasciando la scena a Carlotta che, dal viso contrito, sembrava stesse pensando ad una soluzione plausibile.

«O è una mera coincidenza, o dobbiamo pensare che il tale Heathcliff c’entri qualcosa con la data di domani e con la donna e che per questo mamma non sia a casa» disse, con lo sguardo rivolto al camino, fredda e irraggiungibile come ogni volta che cercava di vederci chiaro fra le trame intessute dalle sorelle con le loro fantasie.

«Io dico che mamma non è ad un summit»

Anna confermò con un cenno del capo che era d’accordo con Emilia, dopo averci pensato su.

«Allora facciamo qualche ricerca» concesse a quel punto Carlotta, vedendo che l’aria era elettrica e che per smontare gli assurdi castelli delle due c’era bisogno di molto di più che la sua parola.

«Da dove si comincia?» domandò eccitata Anna, l’unica che non sembrava affatto turbata da quelle misteriose supposizioni, anzi, che si mostrava la più rilassata e determinata delle tre, col suo sorrisetto da poco più che bambina e gli occhi luccicanti. Emilia e Carlotta si guardarono preoccupate, come sempre quando si accennava al passato della madre.

«Dalla data. Millenovecentonovantasette, è l’anno prima del matrimonio. Significa che mamma l’ha scritta mentre era fidanzata con papà… » contò sulle dita Carlotta.

«E significa anche che mamma non ne era felice. Altrimenti non avrebbe scritto questo cognome, Provenzale. Io dico che in realtà è lui l’uomo che ama, ma per qualche motivo la loro relazione è stata impedita, come fra Catherine e Heathcliff» aggiunse mogia Emilia.

«No, io dico invece che mamma amava papà, perché in fondo anche Catherine ama Linton, solo non quanto Heathcliff. Magari lui è partito e non è più tornato o fra le loro famiglie qualcosa non andava, così ha deciso di andare avanti» suggerì Anna.

«Mamma non l’avrebbe mai fatto. Sappiamo tutti quant’è caparbia, se amava qualcun altro non si sarebbe mai lasciata tutto alle spalle. Mamma ama papà, su questo non ci piove. Questo Heathcliff magari è solo un amorazzo giovanile che mamma ha voluto simbolicamente ricordare» ribadì la più grande. Emilia poi, annunciandosi con un colpo di tosse, porse la domanda che più la inquietava.

«Ma in tutto questo… cosa c’entra quella donna?»

Il silenzio calò nel salottino e le tre sorelle si guardarono il volto, sconsolate. Le domande portavano tutte ad una sola persona, sulla quale non avevano altre informazioni se non una foto scattata quasi trent’anni prima. Si alzarono, una ad una, per andare a dormire, cariche di dubbi e di incertezze su dove la madre effettivamente si trovasse in quel momento, se ad una riunione o fra le braccia di un uomo, decise a far visita alla loro prozia Pasqua che la conosceva quasi meglio di tutti il giorno dopo, per chiarirsi almeno qualcosa sulla vita passata di Virginia Trovarello.

 

                                                                                                                 ***

Quando, il mattino dopo, Carlotta, Emilia e Anna si trovarono tutte e tre in cucina a far colazione l’atmosfera era ancora tesa come una corda di violino, col rischio di spezzarsi per un silenzio o una parola di troppo. Emilia infatti, non riuscendo a chiudere occhi per tutta la notte, era addirittura arrivata a pensare che la sorella maggiore sapesse qualcosa di quella faccenda, come aveva già intuito dalle sue risposte evasive e dai suoi gesti nervosi. Anna, d’altra parte, si era addormentata subito, convinta, nel suo placido romanticismo, che la madre amava ancora il tizio che portava quel cognome a loro sconosciuto e che per questo si vedeva con lui ogni primo dicembre, per vivere in segreto la loro relazione malvoluta da tutti. Carlotta infine aveva riflettuto su quanto Emilia sembrava scossa dalla faccenda, cosa strana a detta sua, in quanto la sorella era sempre stata di sangue freddo e un po’ menefreghista, e alla fine aveva attribuito la sua preoccupazione al suo profondo rapporto con Virginia. Le due, infatti, avendo un carattere per certi versi simili erano parecchio empatiche e benché Virginia le amasse tutte e tre allo stesso modo, col quell’ affetto viscerale tipico della sua indole appassionata, era palese che considerasse Emilia la figlia più vicina a lei.

«Emi, hai due occhiaie orribili» mormorò Anna avvicinandosi a lei e facendole una carezza sul volto cereo.

«Non ho dormito molto» gracchiò, sistemandosi con un gesto stanco i capelli dietro le orecchie. I suoi occhi grigi erano fissi sul caffè e di tanto in tanto giocherellava con cucchiaino rimestando la bevanda bollente.

«Andiamo dalla zia Pasqua oggi, no? Sarà contenta di vederci tutte e tre» esclamò Carlotta, cercando di infondere un po’ di allegria. Far visita alla prozia era sempre motivo di euforia, quella donnina di poco più di ottant’anni era arzilla e spiritosa come una loro coetanea e, accompagnata dall’anziano marito Paolino, con le sue battute sagaci riusciva a tirar su persino Emilia nei suoi momenti di cupo pessimismo. Senza contare che la sua casa, situata nella campagna vicina, era circondata da un ambiente così suggestivo, coi suoi ruscelli e le piantagioni di viti, da calmare l’animo più infervorato.

Dopo che ebbero finito di mangiare e si furono tutte e tre preparate a dovere, la prozia ironizzava spesso anche sul loro modo di vestire eccessivamente moderno, salirono sull’auto di Carlotta e si diressero verso il suo piccolo podere, attraversando quasi in silenzio la campagna e le colline circostanti. Furono lì in un quarto d’ora e, davanti al cancello di ferro dalle alte punte, suonarono il campanello, per poi essere subito accolte dall’anziana donna in camicia da notte e pantofole.

«Care! Siete proprio voi? E quella lì, quella spilungona dagli occhi accattivanti è davvero Emi? Come siete cresciute!» così le accolse Pasqua, stringendosi sulle spalle il suo scialle di lana al primo sbuffo di vento e ciabattando dentro casa, trascinandosi dietro le tre nipoti e stropicciandole le guance. Entrarono in casa passando per lo studio dello zio Paolino, medico di base in pensione, che stava leggendo il giornale chino sulla sua vecchia scrivania da lavoro, e si sedettero al tavolo della cucina, un ambiente caldo e accogliente con le finestre che davano sul giardino esterno. La prozia prese a parlare di quanto quel tempaccio stesse rovinando le sue piante di limoni.

«Con questo vento prima o poi vedremo gli alberi volare» borbottò, mentre metteva sul fuoco il bollitore per il tè. Anna, seduta all’estremità del tavolo rettangolare, prese in braccio il gattone grigio degli zii, Mr. Kafka, per poi accarezzarlo e parlottargli in tono dolce. Emilia e Carlotta si scrutavano, indecise su come affrontare il discorso senza sembrare eccessivamente sospettose e gettare i due in allarme. L’acqua bollente prese a fischiare e la piccola cucina si riempì di vapore acqueo, andando ad appannare ancora di più le finestre adiacenti.

«Vi piace sempre amaro il tè?» chiese Pasqua e, ad un loro cenno di assenso, continuò dicendo: «D’altronde siete degne figlie di vostra madre».

Carlotta versò dalla teiera in ceramica il tè nelle quattro tazzine, che tintinnarono acutamente quando ognuna di loro se le portò alle labbra per bere.

«Non fraintendetemi, mi fa un piacere immenso vedervi, ma per quale motivo siete tutte e tre qui? Non mi venite a trovare molto spesso, soprattutto senza vostra madre» chiese cauta la prozia, sempre molto perspicace nonostante l’età avanzata. Emilia si schiarì la voce, posando la tazza sul piattino con un gesto deciso.

«In effetti un motivo in particolare c’è» iniziò, per poi essere subito sostituita da Carlotta, che forse temeva che la sorella di mezzo potesse esprimersi in modo troppo accalorato.

«Volevamo chiederti un paio di cose… su nostra madre» spiegò quella, mentre Anna ancora giocherellava col gatto senza curarsi del discorso.

«Su Virginia? Ah, è sempre stata la mia nipote preferita. Insomma, anche Agnese mi è carissima, ma lei ha quel qualcosa in più della sorella, un carisma particolare. Si, decisamente è la mia nipote preferita» affermò la donnina, finendo di sorseggiare il tè con calma. Dall’altro lato dello stretto corridoio si sentì il gracchiare metallico di una vecchia radio che riportava le ultime notizie di cronaca e i borbottii di dissenso dello zio Paolino. Anna alzò gli occhi dal pavimento e fece per intervenire.

«Volevamo chiederti qualcosa sul suo passato, sai… la mamma è così misteriosa» mormorò timidamente alla zia, che le diede un buffetto sulle guance rosate d’imbarazzo. Pasqua non sembrò scomporsi a quella richiesta, anzi riprese a parlare con più calore.

«Virginia è sempre stata una donna tutta d’un pezzo, sapete. Già da piccola era come ora, decisa, forte, indipendente. Senza contare che è sempre stata fuori dal comune, con quelle sue piccole manie sui libri e la sua continua smania di stare al centro dell’attenzione. Ma questo lo sapete già» disse con un sorriso malinconico, guardando per un momento Emilia. Carlotta la esortò a continuare, mettendosi comoda sulla sedia imbottita di paglia.

«Ma, ditemi, cos’è che volete sapere in particolare? Su di lei ci sono così tante cose da dire!» esclamò ridendo Pasqua, tutta imbacuccata nel suo scialle bianco. Con un fischio chiamò a sé Mr. Kafka e se lo portò sulle ginocchia, alimentando le sue fusa.

«Parlaci delle sue amiche» propose allora Emilia, nella segreta speranza che facesse riferimento alla donna della fotografia. L’anziana prozia, dopo aver intimato con voce grossa a Paolino di smetterla di inveire appresso alle notizie di politica, sembrò pensarci su un momento.

«Le sue amiche, vediamo… io le conosco tutte, sapete? Sono state tutte mie alunne, alle scuole medie. Virginia aveva due amiche in particolare, fin dalla prima adolescenza. Crocetta e Prisca, le due gemelle figlie del ferroviere. Due ragazze a modo, devo dire. Spesso venivano qui a trovare vostra madre, passava molto tempo nello studio di zio Paolino quando vostra nonna era a lavoro in ospedale e prendevano il tè tutte insieme e Prisca, quella riccia, mi chiedeva sempre con imbarazzo una delle mie stecche di liquirizia, ci andava pazza» raccontò, bevendo un ultimo sorso e poggiando definitivamente la tazza sul piattino. Le tre sorelle ascoltavano senza dir una parola.

«Ma voi le conoscete, credo. Quando eravate piccole erano sempre da voi, vi hanno riempite di regali e per di più Crocetta è la tua madrina» disse rivolta a Carlotta, che annuì ricordandosi delle due simpatiche donne.

«E poi? All’Università ne aveva altre?» chiese ansiosa Emilia, ricordando nei minimi particolari il volto della donna della fotografia.

«Ah, si. C’è Alessandro, che ora lavora con vostra madre nella casa editrice, che aveva una sorella, Alice. Vostra madre le era parecchio legata, condividevano un appartamento vicino Siena, quando studiavano alla facoltà di lettere» aggiunse, ma le tre nipoti ancora non parvero soddisfatte. Emilia allora decise di essere più diretta. Aveva, di nascosto dalle altre due, portato la foto misteriosa con lei, nascosta nella tasca della borsa. La tirò fuori e la mise sul tavolo, allungandola alla prozia. La donnina sembrò accigliarsi nell’intento di capire chi fosse la ragazza ritratta in foto, poi si lasciò andare ad un lungo e rumoroso sospiro, al termine del quale si alzò per riporre le tazze nel lavello.

«Chi è lei, invece?»

La prozia si sedette di nuovo, con calma, come se volesse rimandare ancora il discorso. Carlotta lanciò uno sguardo sorpreso alla sorella, incredula che avesse osato portare con sé quella fotografia e chiedendosi perché mai Emilia fosse così convita che quella donna c’entrasse con la questione della data e del libro.

«Io non l’ho mai vista, ma mi è familiare» sussurrò Pasqua, avvicinandosi agli occhi stanchi la fotografia e inforcando gli occhiali.

«Si, mi è familiare. Forse si chiama Valentina, ma non ricordo. Vostra madre avrà accennato a lei un paio di volte, credo fosse una sua conoscenza» si limitò a dire, seriamente in dubbio. Emilia, delusa, ritirò la fotografia e la ripose sul fondo della sua borsa. Si riprese a parlare dei tempi universitari di Virginia, di come si trovasse bene lì a Firenze e come fosse stata difficile la decisione di iscriversi a lettere moderne, opposta ai desideri di nonna Eleonora di vedere la sua geniale primogenita iscritta come lei a medicina.

«A proposito, ora che siete qui vi mostro tutti i libri che mi ha lasciato vostra madre prima di trasferirsi, visto che i vostri nonni erano sempre impegnati col lavoro considerava questa come la sua seconda casa. E poi sapete che non erano in buoni rapporti, quindi è qui che preferiva tornare quando era all’Università. Magari se vi interessano potete prenderli» propose allegramente Pasqua, per poi scortarle al piano di sopra, lungo una scala di legno scricchiolante e mal messa. Le portò in una stanza rettangolare, dove due poltrone in pelle ormai allentata occupavano gran parte dello spazio, stagliandosi col loro colore scuro contro le pareti coperte da carta da parati a righe gialla e bianca. Si avvicinò ad una piccola libreria e tirò fuori un paio di volumi rovinati di classici che loro già avevano, ma, chiamata lamentosamente da Paolino, le lasciò sole dicendo con una risatina che voleva chiudere la boccaccia a suo marito una volta per tutte.

«Non sappiamo ancora di chi è il misterioso terzo cognome» borbottò abbattuta Anna, spulciando distrattamente fra i libri.

«Né che cosa c’entri in tutto questo la fotografia» aggiunse Emilia. Carlotta d’altro canto era troppo occupata ad esaminare certi libri che potevano esserle utili per gli esami per parlare.

«Ed è già il primo dicembre e mamma non si è fatta sentire» concluse quella dopo un po’.

«Aspettate, qui c’è una scatola…»

Emilia indicò un punto dietro la libreria nel quale era ben nascosta una scatola di cartone, forse da scarpe, con su scritto il nome della madre.

L’aprì, tutta carica di aspettative, e guardandovi dentro la trovò piena zeppa di fogli.

«Sono lettere!»

Carlotta ed Anna lasciarono subito perdere i volumi che stavano esaminando, correndo vicino alla sorella. Emilia ne tirò fuori un paio, lesse la data e le allungò alle altre due.

«Millenovecentonovanta. Il mittente è la donna della fotografia, c’è scritto V.!»

  
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