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Autore: Facy    01/06/2009    9 recensioni
" Lui sorrise gentile. -Vogliamo andare?- Sarah annuì. Non aveva più paura. -Sì. Sì, andiamo- Prese la mano di Jareth e insieme attraversarono la portafinestra spalancata. Uscirono nella notte. " Quasi ottant'anni dopo il viaggio nel Labirinto. Sarah e Jareth insieme, un'ultima volta.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Senza rimpianti

 

Senza rimpianti

 

 

 

“Torna... torna da me.”

 

Ian McEwan, Espiazione.

 

***

 

La vecchia signora posò il libro sul comodino con un piccolo rumore sordo.

Doveva essere molto tardi: lei non aveva mai sonno e invece in quel momento si sentiva come sul punto di assopirsi.

Gemendo per il dolore alla schiena, si alzò a fatica dalla poltrona e risistemò la fodera a motivi scozzesi: un gesto abituale. Avrebbe preferito sbarrare le imposte ma si sentiva davvero troppo stanca. E comunque, quando il sole sarebbe sorto, lei sarebbe stata in piedi già da tempo.

Stando ben attenda a non incespicare nelle pantofole di panno, entrò in camera da letto. La sua camicia da notte stava sotto il cuscino, ben piegata come al solito: la prese, distendendola in uno sfarfallio di tessuto.

Era lunga fino ai piedi, con le maniche larghe e diafane. La seta candida, ornata da ricami delicati e ricchi, era bordata di trine. Lei era una signora molto anziana e assai riservata... eppure a volte si concedeva qualche stravaganza, come quella bella camicia. Lo faceva con un brivido addosso, con un sorriso segreto dipinto sulle labbra appassite.

Solitamente quei vezzi da fanciulla romantica le ricordavano la sua gioventù e la rendevano felice. Ma quella sera si sentì stranamente malinconica.

Il tempo era passato impietoso, le foglie della sua estate erano cadute ormai da tempo. E non riusciva quasi a ricordare il colore dei fiori della sua primavera.

Un sospiro.

Eppure c’era qualcosa che rammentava perfettamente...

Si riscosse prima di essere catturata dal vortice conturbante e pericoloso dei ricordi.

-Coraggio...- sussurrò a se stessa, scuotendo la testa bianca. -Non ti far prendere da vecchie fantasticherie. Domani devi accompagnare Jenny e Paul a scuola, ricordi?-

Si preparò per la notte, pensando ai suoi nipotini, quelle due pesti che le riempivano di gioia il cuore.

Gemendo ancora (quella vecchia, malandata schiena!) si inginocchiò e recitò le sue preghiere. Poi si mise sotto le coperte e spense la luce.

Dopo qualche minuto dormiva già.

 

***

 

La svegliò un suono vellutato ma tuttavia come... pesante.

Aprì gli occhi.

Al buio non riusciva a distinguere molto ma ai piedi del suo letto vide qualcosa, qualcosa di bianco. Doveva essere la luce della luna, si disse.

Eppure c’era quel rumore continuo e strano... e quel bianco si muoveva!

Si raddrizzò a fatica, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Afferrò gli occhiali che teneva sempre sul comodino, accanto alla lampada dal paralume a nappe, e li inforcò.

Un gufo bianco svolazzava a pochi metri da lei. La grande portafinestra era aperta e le lunghe tende chiare ondeggiavano nel vento della notte.

Il rumore era provocato dal battito di ali nell’oscurità.

Quando la donna vide il gufo ci fu qualcosa che nel suo vecchio cuore si accese. Ora sapeva che cos’era quel senso di malinconia che prima l’aveva colta.

-Jareth- sussurrò con voce colma di emozione.

Il gufo si posò su uno dei pomi d’ottone ai piedi del letto. La fissò per un attimo con i suoi grandi occhi rotondi, simili a cristalli scuri.

Infine, in un frullo d’ali simile a un sussurro arcano, si alzò dal suo trespolo e svanì nel buio.

La donna si alzò di scatto, incurante del dolore alla schiena, con gli occhi pieni di lacrime incredule.

Fece qualche passo alla cieca verso la porta, non avendo visto l’uccello volare via dalla finestra.

In quel momento il vento notturno si fermò e una voce la richiamò indietro.

-Sarah-

Lei sospirò: ricordava quella voce. Poi si voltò lentamente.

Le tende bianche avevano smesso di fluttuare e lui stava lì, incorniciato dall’arco della portafinestra.

La luna versava luce argentea sui suoi capelli biondi, sul suo mantello nero.

-Sei quì...- mormorò Sarah.

Lui non rispose ma annuì leggermente, con espressione compita.

Per Jareth non era passato un giorno: era ancora giovane e affascinante.

Oltre al mantello portava una camicia bianca dalle maniche larghe fermate da polsini, un gilet nero attillato. Stivali e guanti neri completavano il suo abbigliamento, un pendaglio d’oro a forma di falcetto gli brillava sul petto e in mano aveva uno scettro.

La vecchia donna lo guardava e non riusciva a saziarsi di quella vista. Era esttamente come lo ricordava, era persino vestito come lei l’aveva visto per la prima volta... quasi ottant’anni prima.

-Ti ho aspettato così a lungo...- riuscì finalmente a dire con un fil di voce.

-Perdonami di averti fatto attendere- rispose Jareth con un piccolo inchino.

Lei scosse la testa.

-Ho sempre saputo che un giorno saresti tornato. Me lo sentivo nel cuore. Era facile dimenticarmi di te ma non del fatto che saresti ritornato-

L’espressione sul bel volto di Jareth era cortese ma impenetrabile.

-E proprio questa sera ti ho pensato, dopo tanti anni...- continuò Sarah, ormai rivolta più a se stessa che a lui. -Come ho desiderato poterti rivedere. E ora sei quì-

-Sì- convenne lui.

La guardava senza emozione. Sarah percepì il suo sguardo scivolarle sul volto solcato da una ragnatela di rughe, sulle spalle nude e avvizzite, sul corpo curvo e magro, avvolto nei veli eterei della camicia da notte.

Si vergognò e arrossì: lui era ancora splendido, mentre lei...

Finalmente un sentimento animò gli occhi di due colori diversi del Re dei Goblin.

-Saresti potuta rimanere giovane e bella anche tu, se solo lo avessi voluto- disse Jareth.

A quanto pare non gli sfuggiva niente.

-Forse- ribattè Sarah, rianimata. -Ma questo avrebbe significato anche un’altra cosa: che non sarei mai cambiata. Che sarei rimasta un’eterna fanciulla-

-E sarebbe stato così tremendo?- le domandò lui, in un sussurro.

-Sì!- rispose lei con forza. -Tu non... non puoi capire quello che si incontra in una vita. Con la tua immortalità non lo potrai mai sapere- gli disse poi, più gentilmente.

Jareth chinò il capo. I capelli brillarono al chiaro di luna.

-E’ vero- ammise. -Io non so che cosa vuol dire vivere. Avrei voluto...-

Si interruppe.

Quando alzò la testa i suoi occhi erano pieni di lacrime.

-Non sapevo che tu potessi piangere...- sussurrò Sarah.

Jareth fece una piccola smorfia.

-Non potevo, infatti. Ma poi ti ho vista, nel mio reame, mentre piangevi. Mi hai insegnato a farlo. Avrei voluto che tu mi insegnassi anche altre cose-

L’anziana donna chiuse gli occhi, sopraffatta dall’emozione. Quando li riaprì le lacrime erano già svanite dal volto del Re.

-Ma ora è tardi, non è vero?- gli chiese lei.

Fece un gesto con le mani, come a mostrargli il suo vecchio corpo.

-Sì- disse lui. -Ora non c’è più tempo-

Sarah annuì.

Per tutta la vita aveva tentato di allontanare il ricordo di Jareth. Aveva combattuto quella battaglia già persa con silenziosa tenacia, come le donne arabe che, nel deserto, respingono la sabbia dalle loro case: certi giorni meglio di altri, certe volte meglio di altre.

Ora se lo trovava di nuovo davanti e moriva dal desiderio di gettargli le braccia al collo, di stringersi a lui, di baciarlo e poi di raccontargli ogni singolo giorno che aveva trascorso senza di lui, ogni tacito e palpitante pensiero che gli aveva rivolto nei lunghi anni della sua esistenza.

Desiderava tanto ma era vecchia e il tempo era così poco...

-Mi dispiace- riuscì solo a sussurrare.

Jareth non parlò ma fece due passi verso di lei. Due dita guantate di nero le sfiorarono delicatemente una guancia avvizzita.

-Hai ancora degli occhi bellissimi- mormorò.

-Ma ora sono quasi ciechi- disse lei. -Il mio tempo è finito-

-Lo so- rispose lui. -E’ per questo che sono tornato. Sono venuto per portarti via-

Sarah tremò leggermente.

-Sei l’angelo della morte?- gli chiese con paura infantile.

-Sssh- la zittì Jareth. -Silenzio. E’ ora di andare, Sarah-

Le tese la mano ma lei non la prese.

Invece si voltò e abbracciò con lo sguardo la stanza.

Sul cassettone dal piano marmoreo accanto al letto, assieme agli oggetti di toeletta, c’erano foto in cornici d’argento: molte la ritraevano in vari costumi, in diverse parti. C’erano Giulietta, Porzia, Ofelia, c’era Titania e c’era Lady Macbeth. C’era Salomè e c’era Ermione de Il racconto di Inverno.

Altre invece la rappresentavano accanto a un ragazzo che le assomigliava moltissimo, alla festa di laurea o ai compleanni. In una, un uomo, alto e sorridente le cingeva le spalle con un braccio, un lago al tramonto sullo sfondo. In un’altra indossava una vestaglia bianca e allattava un neonato. Altre ancora la raffiguravano vecchia e circondata da due bambini dagli occhi azzurri.

Dopo aver salutato con le sguardo tutte le foto, ad una ad una, Sarah si voltò di nuovo.

Jareth stava lì ad aspettarla con la luna tra i capelli, una mano ancora tesa. Lui l’aveva resa donna per vivere una lunga vita felice e ora veniva a rapirle l’anima nel bacio estremo della morte.

-Ti amo- gli sussurrò, sgomenta.

Lui sorrise gentile.

-Vogliamo andare?-

Sarah annuì. Non aveva più paura.

-Sì. Sì, andiamo-

Prese la mano di Jareth e insieme attraversarono la portafinestra spalancata. Uscirono nella notte.

Il Labirinto si offriva alla loro vista, intricato a perdita d’occhio. Ma il Castello di Jareth, sulla collina, risplendeva sotto la luna e questa volta lo avrebbero raggiunto insieme.

 

***

 

Quella mattina Anne Miller aprì la porta dell’appartamento con i duplicati delle chiavi.

Sua madre era vecchia e distratta, tendeva a dimenticarsi le cose nei luoghi più disparati ma non aveva mai mancato a un appuntamento e quella mattina doveva accompagnare i nipoti a scuola, si erano messe d’accordo...

Quando la donna entrò si rese conto che c’era qualcos’altro di strano: gli scuri erano spalancati e cascate di luce mattutina si riversavano nelle vecchie stanze piene di soprammobili e di ricordi.

Anne attraversò l’appartamento in preda a una strana ansia.

Trovò sua madre in camera da letto, morta.

Stava sdraiata sul letto, sotto le coltri ben ordinate, con indosso la sua bella camicia di pizzo e seta. La lunga treccia bianca le ricadeva su una spalla, le mani fragili riposavano sul petto e gli occhi erano chiusi. Il volto sfiorito era sereno, come se si beasse della luce che entrava a fiotti dalla portafinestra aperta.

Lo sguardo di Anne cadde sul comodino accanto al letto. Sotto il paralume con le piccole nappe, vicino agli occhiali di sua madre, c’era anche il suo vecchio carillon.

Dal cofanetto scaturiva argentino il motivo di Greensleeves.

Il carillon continuava a suonare benchè nessuno l’avesse caricato. Non una ma due figurine, una ragazza vestita di bianco con il suo cavaliere in redingote blu notte, volteggiavano come il vento.

Anne rinunciò a porsi domande.

Con le lacrime che le scivolavano giù per le guance, si sorprese nel recitare a bassa voce i versi di una poesia che le aveva insegnato sua madre.

 

“Oh, corpo abbandonato alla musica. Oh, sguardo che illumina. Come distinguere la ballerina dal ballo?”

 

E seppe che Sarah se ne era andata senza rimpianti.

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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