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Autore: Kea Lilith    05/02/2017    1 recensioni
Lettera di un ragazzo al proprio amico, interpretabile anche come elogio funerario, in cui sfoga la rabbia e il dolore per la rottura con la propria ex-ragazza e la sua successiva morte causata da un incidente stradale. Il giovane è ancora profondamente innamorato della sua ex e nella lettera parla di lei, della vita che ha condotto e di come i suoi problemi personali hanno portato a un brusca fine della relazione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Non lo so fratello, non so che cosa dire. Il fatto è che è successo tutto all'improvviso e allo stesso tempo con con tanto preannuncio... Avrei dovuto starci più attento, prendermene più cura... So che non dovrei incolparmene, ma diamine, ero tutto ciò che aveva... C'ero solo io per lei... Ahah... È ironico, mi sto comportando proprio come lei... È che non riesco a togliermelo dalla testa, so che è passato poco tempo ma so anche già da adesso che sarà difficilissimo. Non smetto di vedere il suo volto quando chiudo gli occhi. Vorrei tanto che mi avesse dato ascolto una volta, una volta sola. Ma lei faceva sempre così... Dio, lei, lei era un casino enorme. Distruggeva qualsiasi cosa toccasse, appena lo sfiorava, mandava tutto in frantumi intorno a lei. Soprattutto sé stessa. E non si lasciava aiutare; non voleva sentire parole di conforto, odiava gli abbracci, non si fidava, non permetteva a nessuno di sorreggerla o di risollevarla. Credeva di non meritare amore, e così non voleva che nessuno si avvicinasse a lei per non deludere le aspettative. Ma se qualcuno entrava nel suo cuore - e ce ne voleva, bisognava farsi strada a forza con calci e spintoni - beh, se qualcuno entrava in quel ghetto buio lei faceva di tutto per evitargli i danni che vi subiva: era capace di tutto, pur di salvaguardare chi amava, anche di annichilirsi. Si stava lentamente annullando, e lo sapeva: era colpa del tempo, della tristezza, della feccia che vedeva per strada e nei cuori delle altre persone; colpa del caso, del destino, delle stelle; colpa delle vie deserte che percorreva ogni giorno, colpa del profumo delle orchidee che lasciava appassire in camera. Stava scomparendo, risucchiata da un vortice che non era più malinconia, né dolore, né tristezza: era solo un grande vuoto, al posto della poesia che prima suonava nella sua mente e muoveva il suo corpo. Tutte quelle emozioni velenose, quei ricordi o pensieri o chissà che che aveva un tempo, l'avevano trasformata in polvere, in un'ombra, e lei si era lasciata marcire, a un certo punto. Si era arresa; e anche se non l'avesse fatto, quel buco nero avrebbe portato via tutto ciò che era, prima o poi. E così te la trovavi lì, una di quelle bellezze spezzate e spente; io me la immagino ancora, come doveva essere prima. Aveva quel sapore... sai, quel sapore di qualcosa che potrebbe essere magnifico, ma ha chiuso i sipari e spento le luci. A lei poi che poteva importare di splendere? Lei non credeva nemmeno di brillare leggermente, figuriamoci se poteva vedere quanto bella fosse la sua luce. Una di quelle luci che vorresti proteggere, anche se bruciano, come le stelle, o forse proprio perché bruciano; forse perché pur di non lasciare che si riducano in cenere da sole, sei capace di farti consumare tu. Ecco, lei si consumava; e ti consumava, se provavi a guardarle dentro. La guardavi, e il cervello ti diventava un foglio bianco; ti mandava in confusione, tutto dentro ti andava in subbuglio, ti stravolgeva gli organi interni. Guardarla era destabilizzante. L'unica cosa che ti rimaneva era stupore, e domande, e un senso di tristezza che inevitabilmente ti trasmetteva, se solo riuscivi a capire. E le domande erano, come può distruggersi qualcosa di tanto ameno, e perché nessuno la sta salvando? Come fai a vedere una cosa così venire guastata nel tempo? Non puoi, non puoi tirarti indietro, non puoi voltarti, non puoi... lasciar perdere. Lei non era cosa da lasciar perdere. Eppure... eppure tante persone l'hanno fatto, vedendola spegnersi. Si sono voltati; lasciandola bruciare. Io mi chiedo come si faccia. Che poi, dico, non è che non avesse amici, non è che nessuno tenesse a lei o vedesse quanto armoniosa fosse. Per carità, probabilmente nessun paio di occhi al mondo avrebbe mai potuto guardarla nel modo in cui meritava, ma... nemmeno le chiedevano cosa non andava. Perché che qualcosa non andava si vedeva, anche se era bravissima a nasconderlo quando voleva. Ti faceva di quei sorrisi... Per un attimo tutte le note delle ninnananne e delle serenate del mondo si suonavano nei suoi occhi, e ogni arte possibile faceva capolino dal taglio delle sue labbra. Però quando si spegnevano, dio, quando si spegnevano era come se il mondo diventasse buio ed estraneo, minaccioso. E lo capivi, che qualcosa non andava, c'era qualcosa di dannatamente e follemente sbagliato nella sua bocca piegata verso il basso, come appesantita da bagagli troppo imponenti per lei, minuta seppur impetuosa; qualcosa di visceralmente cupo nei suoi occhi vacui e opachi, ma allo stesso tempo sempre lucidi. Non potevi fare a meno di correre verso di lei e salvarla, impedirle di cadere in quel burrone che, ci giurerei, ho visto migliaia di volte nelle sue pupille, un limbo sconfinato e mortale. Chissà come ci era arrivata, al bordo di quel baratro. Glielo chiedevano, spesso. "Sicura che va tutto bene?", "Come mai sei così stanca?" "Che hai?". A che serve, mi chiedevo; le risposte erano sempre le stesse, lei non cedeva, dio, non cedeva mai, non dava segno di resa neanche una volta. Dio solo sa quante volte gliele ho fatte io, quelle domande. Non c'era modo di smuoverla. Ecco, lei era così: ti teneva fuori dai guai del suo ghetto, ti bendava gli occhi per non farti vedere gli orrori e le brutalità che erano gli spettacoli di ogni giorno, ti copriva le orecchie per silenziare le urla. A nessuno era permesso assistere. Nemmeno a me fu dato il consenso, ma io sentivo le eco delle sue grida e vedevo il massacro nei suoi occhi. La gente dice che ognuno combatte una guerra dentro di sé, per alcuni privata, per altri meno; ma quella non si poteva definire una guerra, quella era violenza pura, violenza gratuita. Lei non si dibatteva, non replicava, non opponeva resistenza. Era come la mutilazione delle statue per rivolta o per terrorismo; un eccidio contro l'arte. L'arte è innocente, non può far male a nessuno, e perciò non ha difese, non può schermirsi e non può denunciare la strage. Lei era così, in tutti i sensi.
E non si è mai lamentata. Ero costretto a farla parlare di queste cose con la forza, coi ricatti, prendendole le braccia e obbligandola quando vedevo che quell'inferno dentro di lei si stava propagando troppo. Vorrei non aver mai dovuto farlo, ma cosa puoi fare quando ciò che vuoi proteggere di più al mondo non fa niente per difendersi? Se almeno mi avesse mai detto cosa c'era, cos'era che la stava divorando in quel modo, avrei potuto fare qualcosa. Invece ogni volta che riuscivo a tirarle fuori qualcosa, sapevo bene che era una minuscola parte di ciò che si agitava in lei. Non mi diede mai un'ottica completa: aveva paura di farmi stare male. Certo, non poteva capire che la mia più grande dannazione era non poter fare niente per fermare quel suo incubo, anche se significava doverci entrare anch'io. Come poteva capirlo? Si era insegnata da sola - dio, sbagliando - che non valeva la pena di preoccuparsi o darsi da fare per lei. Come avrebbe potuto pensare che io ci sarei stato male? Però aveva paura che fossi pazzo e mi importasse davvero, di farmi stare male sul serio, e non voleva spargere altro sangue oltre al suo. Un sacrificio continuo; del suo, di sangue, ne è stato sparso per ettari. Gli altri, li ha quasi tutti allontanati, a volte per paura di sentirsi una delusione, altre perché non voleva che avessero paura, o addiruttura disgusto di lei, per quel mostro che aveva dentro, o altre volte ancora perché quello non causasse feriti. Quasi mai era per paura di rimanere delusa: non aveva grandi aspettative, non pretendeva affetto. Era un po' un disastro, lei. A volte maldestra, non molto brava a mostrare sentimenti, distratta, un poco invidiosa, incasinata, testarda in modo malsano, e faceva questo grande, enorme errore di ritenersi causa di terrore, scherno e disgusto. La realtà era che lei era pura, poetica, un'armonia splendida che lasciava senza fiato, a metà tra un battito e l'altro, in bilico; il suo essere non aveva regole né limiti, ma un pizzico di scioltezza selvaggia, era come un mare irruente senza lidi, che ti travolgeva e ti trascinava in fondo. C'era un non so che di quasi sacro in lei: era luce abbagliante, e la tenebra doveva invidiarla così tanto che l'ha inghiottita.
Alcuni la definivano fredda o egoista per questo suo modo di fare, di tenersi tutto dentro e impedire a chiunque di aiutarla, ma io so che lei era tutt'altro che fredda. Riguardo al comportamento, intendo; era calda, confortevole, ti faceva sentire accettato e benvenuto, anche se quando le persone si affezionavano anche un poco, diveniva più distaccata, per non farli avvicinare troppo. Dentro però sì, dentro era fredda, gelida come il girone del Diavolo secondo Dante. Ma in fondo cosa vuoi fare, quando tutto ciò che hai dentro crolla? Puoi solo eliminare ogni sensazione, ogni percezione, per sopravvivere, per non venire danneggiato. E il freddo elimina le percezioni.
La verità è che credo - e forse, in qualche modo, lo spero - di essere stato la persona a lei più vicina. Non ho potuto fare niente di più di quanto abbiano fatto altri, per lei, e questa è una colpa che aleggerà su di me come la spada di Damocle ogni giorno della mia vita. Ma io ho visto; ho visto ciò che aveva dentro, seppure in minima parte, e ho realizzato quanto fosse orribile, e prima ancora ho visto ciò che era lei, e mi sono reso conto di quanto fosse meravigliosa. E ho provato... ho provato a salvarla. Dio solo sa quanto ci ho provato. Altre persone... altre persone non l'hanno fatto. Io non so cosa ci sia nel cervello di altri uomini, o nei loro cuori, ma non so se possono essere definiti tali, se non cercano di salvare qualcosa di così... di così. Non so come sia possibile rimanere impassibili davanti alla lenta crocifissione di un tale splendore... È... SBAGLIATO. Lei pensava di essere disgustosa, ma disgustoso invece era non salvarla. Quindi l'unica opzione plausibile è che gli altri non riuscissero a VEDERE come ho visto io, e di conseguenza non facevano nulla, dato che personalmente mi ostino ancora a credere che l'umanità non sia solo un mucchio di corpi senza sentimenti. Però io mi chiedo come hanno fatto a non vedere. Ci dovrà pur essere qualcosa di sbagliato nel loro cervello, o di non funzionante nei loro occhi, o un nervo rotto tra quelli e il lobo preposto alla vista, per non vedere qualcosa di così lucente o di così terribile. Certo, lei si nascondeva, non voleva farsi vedere, forse pochi l'hanno guardata negli occhi nella sua vita, forse ha evitato di essere guardata, ma... Dio, lo sentivi quel profumo di lei quando passava. Lo sapevi che stavi al cospetto di un piccolo miracolo. Ma nessuno ha mai visto. Oppure, forse non hanno capito. Il che mi è ancora più straniante: quando la bellezza ce l'hai davanti, come fai a non riconoscerla? Quando stai per mutilare una statua e la guardi per un attimo, come fai a non fermarti istintivamente e pensare "Dio, quanto è bella"? Io non me lo spiego. Sapevo che questo mondo è una buffonata, ma dobbiamo veramente essere tutti degli enormi cretini per non realizzare che stiamo guardando arte. Però, ecco, io non sono stato niente nella sua storia, e ha cercato di distanziarsi da me come ha fatto con tutti gli altri, però io ho combattuto per lei... ho fatto schifo come combattente e mi sono preso forse la più grande batosta della mia vita quando si è allontanata da me e ho perso la guerra, però ci ho dato il sangue a ogni battaglia... Ho provato in tutti i modi a salvarla... Ma lei non voleva essere salvata. Pensava di non valerne la pena. Mi chiedo solo ora perché diavolo avesse scelto me, perché stesse con me, se tanto sapeva che non potevo curarla, o se non voleva che lo facessi. Non me l'ha permesso; in due, in due bisogna scendere a compromessi, bisogna aiutarsi l'un l'altro. Questo però significa prendersi cura anche di sé stessi, perché nel momento in cui l'altro cerca di salvarti, tu devi almeno... collaborare. A volte la odio per non aver collaborato, per non avermi aiutato a salvarla, per avermi preso con sé pur sapendo che lei era destinata a scomparire, e per non aver mai preferito avere me che stavo facendo di tutto per lei, piuttosto che lasciarsi divorare. So che è uno sforzo immane, salvarsi da un baratro così alto, però... speravo che per avere me, avrebbe provato a non farsi annichilire, almeno un po'. Speravo che avrebbe fatto questo sacrificio per vivere una vita... normale, insieme all'unico uomo che aveva visto tutto il suo incanto, e che l'aveva salvato. A volte la odio, per non aver lasciato da parte quel rifiuto di sé stessa in cambio di un amore felice, un amore che meritava e che le avrei dato ogni secondo della mia vita. A volte la odio, ma mai quanto odio me per non essere stato in grado, per non essere stato abbastanza, per farle prendere questa decisione. Quando le dicevo che era bella, o quando davo di matto e mi incazzavo perché non si faceva aiutare, mi dava del pazzo; mi spiegava che solo un pazzo avrebbe potuto vedere qualcosa di bello in lei, solo un pazzo avrebbe potuto dire le cose che io dicevo di lei. Ora mi rendo conto che mi chiamava così anche perché, secondo lei, non aveva senso perdere il sonno e la fame perché non riuscivo a fare niente per lei, occuparsi con tanto zelo di qualcosa che tanto si cancellerà dal mondo da solo. Ero pazzo perché la ammiravo, perché per me era stupenda, perché la amavo, perché volevo proteggerla.
Inutile. Ora come ora, penso che ci fosse qualcosa di rotto in lei, ma non una crepa: un enorme muro caduto in pezzi. Immaginatevi la muraglia cinese distrutta mattone per mattone. Non so come, non so perché; ma lei era distrutta. Rotta, profondamente, visceralmente rotta, rotta alla radice. Come pensi di aggiustare qualcosa che ha le fondamenta marce? E che ci vuoi fare con tutti i mattoni della muraglia cinese? Puoi ricostruirla, ma dopo il primo crollo, ha perso la sua perfezione. Non potrai mai rimettere il tassello giusto nel posto giusto quando i pezzi sono migliaia di migliaia, non la rifarai mai alta uguale, non sarà mai lineare com'era un tempo; e le fondamenta non reggeranno mai più, in qualunque modo. E poi le pietre, quelle mica ti aiutano a rimetterle a posto: stanno lì, inermi e abbattute, a lasciarti fare tutta la fatica. Ma con le persone è diverso che con dei mattoni: i mattoni li muovi tu, ci fai quello che ti pare, con le persone non è mica così. Se vuoi rimettere un pezzo di una persona al posto giusto mica puoi farlo tu; deve lasciartelo fare lei. E lei non voleva. Non ce la faceva. Forse non avrebbe retto di riaffrontare lo stesso crollo più e più volte, lasciandosi ricostruire ogni volta. Non era debole, ma la sua purezza soffriva del contatto con quel mondo invece infetto e tanto amaro. Era il tipo di creatura che desta un interesse malsano nelle menti dei maliziosi e dei subdoli, ma che solo certi occhi possono leggere e capire. Scommetto che se esiste davvero l'inferno e se il Diavolo ci regna, e se lei avesse meritato di finire lì, a quest'ora lui starebbe ballando con lei, fino alla fine dei giorni, innamorandosi a ogni tramonto di più del pezzo di tartaro che lui sicuramente può vedere negli occhi di lei, e anche dell'involucro senza peccati che lo contiene. Povero Diavolo, non potrà mai averla. Ma dopotutto non credo che lei appartenga a qualcuno, o a qualcosa, o a un qualche luogo; lei non appartiene a niente, nessuno può possederla. Forse è per questo che è stata consumata dalla vita, perché non ha mai avuto un luogo o una persona da cui andare, nessun posto da chiamare casa. Non puoi mica girare il mondo per sempre, se non hai un posto in cui tornare. Forse era lei, forse era lei che era talmente fragile da non poter sopportare questo mondo, o questa vita. Tutte le cose belle sono fragili, e in proporzione, lei si sarebbe dovuta frantumare con uno sguardo. Dio... Credo di essermici perso, in quel girone d'inferno.
Era fottutamente difficile stare con lei, quasi quanto era facile amarla. Ti rendeva la vita impossibile, sapendo che lei in quel mondo stava marcendo, e che non potevi fare niente; ti faceva andare fuori di testa, roba che tiravi le madonne più potenti della tua vita. Però allo stesso tempo quella vita te la addolciva, coi suoi sorrisi, con la sua poesia, coi suoi occhi così belli; rendendoti conto che lei esisteva, e allora il mondo era un posto migliore, e tu eri lì e potevi assistere al suo fenomenale spettacolo di meraviglie e fuochi d'artificio, e ti sentivi grato con per nient'altro. Vorrei averle dato una possibilità, una salvezza, vorrei essere STATO la sua salvezza; la sua casa, il posto in cui sarebbe tornata ogni volta dopo aver perso la strada, anche se probabilmente sarei dovuto andarla a prendere io, perché lei, la strada, non aveva forze per ritrovarla. Però la casa è anche il posto in cui sei amato, protetto, in cui ti aspettano, no?.... Vorrei essere stato un altro cuore in cui non ci fosse quel ghetto a distruggerla e in cui lei potesse vivere tranquillamente, felice. Che sciocchezza. Una persona così distrutta non può vivere felice, nemmeno dopo essere uscita dal suo labirinto. Forse nemmeno ora è felice, forse sta riempiendo il paradiso, o qualunque sia il posto felice in cui è ora, con le sue eco di tristezza. Dico paradiso, e posto felice perché Diavolo, lei si meritava di vivere in un posto felice.
Ad ogni modo, ora non tornerà più a casa. Non ha mai combattuto per la sua vita, nemmeno nella morte imminente. Amico, io non so perché lei non abbia sterzato su quella strada di campagna del cazzo, o perché non abbia lottato dopo, in ospedale, prima per uscire viva dall'intervento e poi per svegliarsi. Forse ha lottato, rendendosi conto che era veramente la fine e che non voleva morire, ma non è stato abbastanza, forse c'erano troppo danni... Forse è stato tutto intenzionale, ed è per questo che mi aveva lasciato, per farmi meno male, forse  era tutto pianificato e... E se non era pianificato, chissene frega se mi aveva lasciato, sapeva che la amavo... sapeva che esisteva qualcuno che sarebbe morto per lei, che pensava che fosse stupenda, glielo dicevo ogni giorno... perché questo non l'ha spinta a reagire?... l'ha sempre rifiutato... quando le telefonavo senza motivo, quando la chiamavo "splendore", quando le dimostravo... tutto quanto... non l'ha mai voluto... non è bastato niente, NIENTE... Dio. Non so darmi pace. È difficile vivere, è difficile respirare. Me la sento dentro, capisci? Ce l'ho incastrata tra le costole, nei polmoni, nel cervello, dietro agli occhi, tra le dita, nello stomaco, in bocca, ovunque. Non ha voluto vivere. E lo capisco, davvero, lei non poteva salvarsi, ma... perché... le ho dato le mie radici, le mie non erano rotte, erano sane, potevo essere il suo posto, potevo proteggerla da qualsiasi cosa... tranne che da lei stessa...
Dio. 
DIO CANE, DIO CANE, DIO CANE.
Io la amavo boia d'un mondo ladro
che cazzo faccio ora
non ha senso niente
mi sento come se lei e questa cazzo di storia mi avessero infettato le radici
 
io la amo...
   
 
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