Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Ricorda la storia  |      
Autore: Stray cat Eyes     02/06/2009    2 recensioni
[England, young America]
Non fu necessario voltarsi, per sapere che il piccolo si era accorto di lui.
(Chi era stato scoperto, allora?)
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

[Your] Silence Sounds Good






There’s a wild wind blowing
Down the corner of my street
Every night there, the headlights are glowing
There’s a cold war coming
On the radio I heard
Baby, it’s a violent world

(Coldplay - Life in Technicolor II)



Era un bambino piuttosto insolito, quello che si ritrovava davanti.
Tanto per cominciare, non tutti i bambini che aveva visto nella sua lunga vita sedevano tranquillamente in cima ad una rupe, con le ginocchia affacciate oltre lo strapiombo e i piedi sospesi a decine di metri sul mare.
Che sciocco, lo canzonò fra sé, avrebbe potuto farsi male.
Pochi degli infanti che incontrava da qualche secolo a quella parte potevano vantare un’intera, apparentemente sconfinata foresta vergine alle proprie spalle.
Nulla, comparato agli intricati labirinti di edifici che conosceva la sua gente, pensò.
Ancora pochi giocavano con un’espressione tanto triste e persa, impilando a mo’ di torre dei tocchetti di legno intagliati grossolanamente, forse a rappresentare un qualche animale selvatico.
Lui avrebbe potuto fare di meglio, si disse.
Decisamente nessuno, ma proprio nessun bambino che avesse mai incontrato (o nutrito, o generato, o visto crescere e poi perire) aveva marchiate sulla propria pelle tragedie di popoli sconosciuti - incivili, aggiunse - e scoperte, culti, arti, miti e parole che un uomo civilizzato come lui non avrebbe mai avuto, probabilmente, voglia od occasione di ascoltare.
Intanto, il bambino sembrava non far caso a lui, così pensò di continuare ad osservarlo. Carpire i suoi segreti.
Sarebbe stato un gioco da ragazzi. In fondo, quanti segreti poteva avere mai un essere così piccolo?

*

Diversi giorni erano trascorsi, eppure ancora non era riuscito a stancarsene. Di quel bambino.
Piccolo, a tratti insignificante, dall’alto della sua postazione - sempre a strapiombo sul mare calmo, sempre triste, sempre solo e addolorato - pareva impartirgli lezioni di continuo. E, di tanto in tanto, Arthur era riuscito a cogliere nella sua figura minuta l’immensità che andava cercando da tre o quattro secoli almeno.
Ogni tanto, teso nel suo nascondiglio, si chiedeva come sarebbe stato avvicinarsi a lui e parlargli, scoprire se al mondo era possibile che due estranei, un bambino immenso e un adulto che giocava a nascondino, un uomo civilizzato ed un selvaggio, potessero capirsi. Con un linguaggio universale, magari - ma fatto apposta per loro. Per quell’uomo e quel bambino.

“Ah...”

Non fu necessario voltarsi, per sapere che il piccolo si era accorto di lui.
(Chi era stato scoperto, allora?)

*

Totem. Finalmente era riuscito a dare un nome all’instabile torre di legno.
Gliel’aveva detto il bambino, in un linguaggio sfortunatamente non universale come aveva sperato (quella parola, lui non l’aveva mai sentita prima), ma semplicemente indicandogliela con un dito meno paffuto e uno sguardo molto meno allegro di quelli di un tipico bimbo della sua terra.
E così, aveva potuto ascoltare la voce dell’immensità, senza nemmeno dover chiedere.

Ma c’erano altre cose che doveva ancora comprendere, altri arcani che non vedeva l’ora di svelare.
Perché era così triste? Perché, anche mentre giocava, improvvisamente calde lacrime gli solcavano le guance? Arthur non capiva. Forse si era stancato del suo totem (quante eternità erano che impilava quei feticci mal fatti?); forse avrebbe voluto un gioco nuovo. Allora lui gli aveva detto che un giorno gli avrebbe intagliato un cavallino di legno, o magari dei soldatini.
Ma niente linguaggio universale, quindi il bambino non aveva capito, e lui era stato costretto a rispedire i buoni propositi infondo alla mente, in attesa di tempi migliori.

*

Giù dallo strapiombo, nella baia, qualche volta si vedevano apparire delle navi in lontananza: dapprima apparivano le vele, come strane, sottili nuvole sgualcite dal vento e dalle piogge; poi era la volta degli scafi scuri, che solcavano le onde (come le lacrime sul viso del bambino, iniziava a pensare Arthur) e, se erano fortunati, potevano avvistare anche le bandiere che ondeggiavano in cima all’albero maestro.

Volta dopo volta, piano piano, l’inglese aveva potuto apprendere dal bambino - oltre che i mille, diversi tipi di silenzio e di parole non dette che premevano contro la gola per poterne uscire - il perché della sua tristezza.
Non gliel’aveva detto, però: al contrario. Arthur aveva dovuto dedurlo da solo. Dal modo in cui si ritraeva quando una nave veleggiava verso quelle coste; dal fremito nella curva dolce delle sue spalle quando uomini in armature scintillanti calpestavano il suolo fresco e compatto - intatto - delle sue terre.
Il bambino, immenso come ogni bambino che si rispetti, cominciava a piangere in silenzio, abbandonando il totem e i suoi discorsi con l’inglese, fatti di vento, di ore trascorse davanti, sotto, oltre il sole, di migliaia e migliaia di frasi che lui non sarebbe riuscito a ricordare (perché non le aveva mai ascoltate, ma solo sentite sulla pelle).
Piangeva tante lacrime, il piccolo, stringendosi forte a se stesso e tremando.
Un pianto che nulla aveva di tenero e dolce, ma che sapeva di doloroso e di una pura, genuina, primitiva sofferenza.

Primitiva. Non incivile.

*

I giorni scorrevano come lacrime imperterrite sul visino dell’immensità, e lui iniziava a capire davvero.
Più il tempo passava, meno aveva voglia di emulare i sordidi Conquistadores che terrorizzavano il suo angolino d’immenso. Lentamente, aveva cominciato a maturare una nuova consapevolezza. La sua volontà gli suggeriva di portare via il bambino dalla scogliera a strapiombo sul mare che, tranquillo, portava fin lì orde di soldati agguerriti e chili di polvere da sparo (così che non corresse il rischio di farsi del male); fantasticava, fra sé e sé, su quanto sarebbe stato divertente vivere sotto lo stesso tetto ed insegnargli il proprio linguaggio (che non era universale, ma che a loro due sarebbe sicuramente bastato); pensava, sragionando, a quanti totem nuovi e più belli sarebbe stato in grado di scolpire per lui nel legno (affinché il piccolo potesse giocare e non annoiarsi mai).

Prima, però, c’era qualcos’altro che l’immensità doveva insegnare a lui.

*

Hey.” Disse, prima parola nata dalle sue corde vocali dopo settimane trascorse a parlare in silenzio.
Il bimbo si voltò, fissandolo con i suoi occhi ancora irrimediabilmente tristi.
Arthur sapeva che non avrebbe capito, ma sperava potesse almeno intuire. Perciò si decise a farlo.
Will you be my little brother?
Come previsto, il bambino non rispose. Abbassò lo sguardo al terreno, dove giacevano i suoi legnetti logori.
Hey,” Ripeté lui. Poi l’intuì.
Non conosceva ancora il suo nome. E se lui poteva fidarsi dell’immensità, come poteva quella ricambiare la fiducia, vedendolo adulto, estraneo e senza nome?
I’m Arthur.” Borbottò allora, sentendosi un po’ sciocco. Il bimbo, però, tornò a guardarlo, un’aria dispiaciuta; e lui seppe che doveva, doveva tentare ugualmente. Ancora. Ancora e ancora, finché avesse potuto. “Arthur.” S’indicò, mani sul torace. “Arthur.” Ripeté. Il bambino lo guardò, gli occhi (tristi) sgranati come se avesse appena scoperto un nuovo mondo.
“Arthur...” Sussurrò, tentennante.
Lui annuì, sentendo uno strano calore salire su dallo stomaco verso il cuore. “Arthur. But you can call me big brother.
“Big... bro...?” Tintinnò la voce dell’immensità, come campanellini d’oro e d’argento nelle sue orecchie.
Arthur sorrise, e il bambino sorrise di riflesso, senza troppa tristezza.
Yeah.” Senza troppa tristezza, e con un briciolo di fiducia in più.
“Arthur... Big... bro...”
Il giovane chiuse gli occhi, lasciandosi carezzare da quella voce che, per tanto, aveva solo percepito, mentre risuonava nella sua mente. “Hmm. Sounds good.

*

Nome.
Un nome mancava ancora, ed era strano che non se ne fosse accorto prima.
“Arthur...” La voce del bambino pigolò nei pressi della sua manica, le manine serrate attorno alla stoffa candida della camicia.
Mancava un nome. E lui di nomi non ne aveva mai dati.
Nuovo Mondo, sentiva dire dai fanatici e dai Conquistadores. In Europa, intanto, si stava diffondendo il termine America.
Ad Arthur però non piaceva: era troppo grande, per un bambino così fragile e piccolo. Era troppo diverso da quel che gli occhi del suo immenso sembravano chiedergli.
Ma fra tanti nomi, sceglierne uno...
What day is it today?” Si chiese, sottovoce. 14 Agosto, rispose la sua mente. Sant’Alfredo, se non ricordava male.
“... Alfred...?” Un sorriso spuntò sulle sue labbra, chissà come. Suonava bene.
Beh, avrebbe potuto risolverla così. Visto che suonava così bene.
“Alfred...?” Soprattutto dal momento che il suo bambino sembrava apprezzare.



Oh, love, don’t let me go
Won’t you take me where the street lights glow?
I can hear it coming
I can hear the silent sound
Now my feet won’t touch the ground

(Coldplay - Life in Technicolor II)



.End




Woah. La prima fanfiction che abbia scritto in... quattro mesi? Onestamente, mi sembra sia passata un’eternità. Mi sento anche più insicura del solito, ma ho voluto provarci lo stesso, a rompere il ghiaccio. Mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa di più comico, ma non ero (e non sono) decisamente dell’umore giusto, per cui beccatevi il polpettone qui presente, scritto con amore e tanta, tanta depressione (XD).
Avrei voluto dipingere un bel quadretto idillico, ma sappiamo tutti che ogni nazione (come ogni essere umano, d’altra parte) possiede dei lati negativi e positivi, per cui non ho potuto fare a meno di sottolineare come (almeno in una fase iniziale) Inghilterra considerasse - al pari del resto d’Europa - i nativi americani alla stregua di selvaggi; ma, siccome sono un’amante appassionata dei lieto fine e simili, ho cercato di far notare anche come, gradualmente, la sua opinione del piccolo America mutasse, fino a trasformarsi in quell’affetto (pur sempre connotato da una certa possessività) che vediamo in alcuni spezzoni dell’anime (e del manga, naturalmente) e che sotto sotto ancora li tiene legati l’uno all’altro.
Ho scelto di utilizzare l’inglese per un mio vezzo (a proposito, spero sia tutto corretto); le parole di America non sono in corsivo per differenziarle da quelle del vecchio England, sia onde evitare confusioni varie, sia perché, in effetti, il bambino non sta proprio parlando in inglese, ma si sta limitando a ripetere sprazzi delle frasi dell’altro. E poi, diciamolo, l’inglese degli States non è esattamente identico a quello britannico. Mettiamola così: è un’anticipazione di quello che sarà, un mezzo flash-forward, eh? XD
Per quanto riguarda il nome di Alfred... è una parte che ho inventato di sana pianta (non ne ho trovato tracce nell’anime, finora, e nelle strip neppure); l’espediente del quattordici agosto, poi, è sbucato fuori per un semplice motivo: la pagina dell’agenda su cui stavo scrivendo la bozza di tutto ciò riportava quella data e, quando ho dato un’occhiata a monte della pagina, ho trovato la dicitura s. Alfredo. Allora, sapete com’è, mi sono detta “è un segno del destino”, “doveva andare così” e chi più ne ha più ne metta.
Insomma, per farla breve, se volete picchiarmi picchiatemi, altrimenti resistete all’impulso e scrivetemi tutto ciò che vi passa per la mente, ok?
Grazie mille per la coraggiosa lettura!


  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Stray cat Eyes