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Autore: Stella Dark Star    09/02/2017    0 recensioni
Delfina, figlia del banchiere Andrea de' Pazzi, ha solo quindici anni e nessuna vita sociale quando viene incaricata dal padre di entrare nelle grazie di Rinaldo degli Albizzi per scoprire ogni suo segreto e sapere in anticipo ogni mossa che farà in campo politico. Lei accetta con riluttanza la missione, ma ancora non sa che il destino ha in serbo per lei molto di più. Quella che doveva essere una semplice e innocente conoscenza, diventa ben presto un'appassionata storia d'amore in cui non mancano gelosie, sofferenze e punizioni. Nonostante possa contare sull'aiuto della madre Caterina (donna dal doppio volto) e della fedele serva Isabella (innamorata senza speranze di Ormanno), Delfina si ritroverà lei stessa vittima dell'inganno architettato da suo padre e vedrà i propri sogni frantumarsi uno dopo l'altro.
PS: se volete un lieto fine per i protagonisti, non dimenticate di leggere il Finale Alternativo che ho aggiunto!
Consiglio dell'autrice: leggete anche "Andrea&Lucrezia - Folle amore (da Pazzi, proprio!)" per vivere assieme ai protagonisti un amore impossibile.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo trenta
Le sorti degli innocenti
 
Gli ultimi giorni d’estate passarono senza che io me ne accorgessi. Distesa sul mio letto, con la testa abbandonata sul cuscino e gli occhi sempre persi nel vuoto, era come se la notte ed il giorno fossero una cosa sola. Vedevo la realtà attorno a me come se si trattasse di un sogno, immagini scollegate e talvolta sfocate, frammenti di frasi e voci che si confondevano nella mia mente. E fra tante, a volte mi sembrava di udire la voce di Rinaldo e di scorgere la sua figura all’interno di un raggio di sole o attraverso un’ombra, anche se sapevo essere irreale. Mia madre fu la persona che vidi più spesso al mio capezzale, quando veniva a darmi conforto e a carezzarmi i capelli con affetto. Poi anche Isabella cominciò a farsi vedere, però la sua presenza sinistra m’inquietava, coi suoi occhi sempre arrossati e cerchiati e le parole taglienti.
“Almeno voi sapevate che Rinaldo vi amava.” Disse una volta, piena di risentimento nei miei confronti e incapace di capire perché non riuscivo a reagire al lutto.
Persino mio padre venne spesso da me. Sedeva sul bordo del letto, mi guardava e poi mi raccontava le sue giornate, i suoi trionfi e i suoi crucci. Era entrato a far parte della cerchia ristretta della Signoria, ma per farlo aveva dovuto uccidere un uomo innocente. Era riuscito a convincere il Papa ad affidarsi al Banco dei Pazzi, ma poi i Medici se lo erano ripreso. L’unica novità che attirò davvero la mia attenzione fu quella riguardante una visita di Madonna Alessandra, venuta a parlare con me e con la mia famiglia di un argomento delicato. A quanto detto da mio padre, prima della partenza, Rinaldo le aveva rivelato ogni cosa riguardo la nostra relazione, nostro figlio -e forse del figlio che presto sarebbe arrivato- e, dopo quanto accaduto, lei si dichiarava favorevole a riconoscere Levante come nuovo erede degli Albizzi. In poche parole, quella povera donna disperata aveva smesso di lottare. A tale notizia, però, io reagii alla stessa maniera, ovvero restando in silenzio e con lo sguardo vuoto a rigirarmi tra le dita le perle nere del rosario che non mi ero più sfilata dal collo. Era come se il mio cuore fosse sepolto da una coltre di neve, talmente fredda e gelata da impedirmi di provare alcuna emozione. Stavo diventando il fantasma di me stessa.
Fino a quando, un mattino di sole, ritrovai la forza di scostare le lenzuola e scendere da quel letto che avrebbe potuto diventare la mia bara. Indossai l’abito verde con ricami in argento, adattato dopo la gravidanza affinché potessi ancora indossarlo, nel quale mi sentivo bella e a mio agio. Ancora a piedi nudi, camminai sul freddo pavimento di marmo, passo lento e sguardo acceso su qualcosa che avevo disperatamente bisogno di toccare. Posto su di un piccolo tavolo decorativo accanto allo specchio, giaceva solitario il mio portagioie. Un cofanetto di legno di rose, dalla forma rettangolare, su cui vi erano incisi intrecci di foglie d’edera lungo i lati e due angeli bambini su sfondo di rose sul coperchio. Sollevai lentamente il coperchio, permettendo alla luce del giorno di illuminarne gradualmente i tesori che conteneva. Dapprima sfiorai la pergamena sigillata con lo stemma degli Albizzi. Il documento di legittimità di Levante che Rinaldo mi aveva consegnato in gran segreto mentre era in prigione. Per lui era così importante che, pur non sapendo che quella sera sarebbe stato arrestato, lo aveva cucito all’interno del collo di pelliccia del suo cappotto, per timore che gli venisse sottratto prima di consegnarlo nelle mie mani. Una simile precauzione doveva essere stata dettata da un oscuro presentimento che si era poi rivelato vero. Le mie dita attraversarono tutta la lunghezza della pergamena e poi discesero fino agli orecchini. Due fili dorati da cui pendevano due singole pietre di ametista a forma di goccia. Incantevoli nella loro semplicità, sembrava trascorso un secolo da quando li avevo ricevuti, invece si trattava appena di un anno e mezzo, ovvero dalla sera in cui avevo festeggiato i miei sedici anni. Accanto agli orecchini giaceva un piccolo foglio spiegazzato. Con la punta dell’indice ne sollevai un lembo, rivelando così le parole scritte da Rinaldo la sera in cui mi aveva restituito il velo. Scritto in calligrafia affrettata, era l’invito in cui mi chiedeva di accompagnare mio padre ad un incontro nel suo palazzo. Ero ancora così ingenua, così bambina, ancora lo chiamavo Messere anche se era chiaro che lui ricambiava i miei sentimenti. Lasciai ricadere il lembo del foglio e sollevai la mano. L’ultimo ricordo tangibile che avevo di Rinaldo era il rosario in pietra onice che indossavo. Toccai la croce, calda per essere stata costantemente a contatto col mio corpo. Usando entrambe le mani, mi sfilai il rosario da sopra il capo e lo riposi con cura all’interno del cofanetto. Il mio sguardo percorse un’ultima volta quegli oggetti che sembravano gridare il nome dell’uomo che amavo. La vita era stata una spietata puttana con me, aveva giocato col mio cuore e poi mi aveva strappato tutto, mi aveva riso in faccia sadica. A cosa era servito amare? In quale vento si erano disperse tutte le parole d’amore e i giuramenti? Che cosa avevo fatto di male per meritare un dolore simile? Richiusi il coperchio con violenza.
Fu in quello stato che mi trovò mia madre, entrando dalla porta di comunicazione tra la mia stanza e quella di Isabella, con Levante in braccio.
“Delfina! Piccola mia, ti sei alzata!” Il suo tono gioioso era leggermente incrinato dalla commozione.
Mi voltai verso di lei con apparente tranquillità, quando invece sentivo il sangue corrermi nelle vene con potenza in un ritrovato impulso di vita. La vista del mio bel bimbo biondo e ricciolino e dei suoi occhi azzurri dai riflessi grigi mi fece alterare, mi fece arrabbiare, pensando a tutto ciò che non avrebbe più potuto avere. In primo luogo, l’amore di un padre.
“Devo parlare con mio padre.” Fu tutto ciò che riuscii a dire, il pugno stretto per smorzare quel furore improvviso.
“Lui…è nel suo studio. Ma prima faresti bene ad indossare delle scarpette, rischi di prendere freddo.”
Le sue premure non mi toccarono, tanto più che l’autunno non era ancora arrivato perciò parlare di freddo era alquanto fuori luogo. Le voltai le spalle e m’incamminai con passo deciso verso la mia destinazione.
“Delfina, aspetta.” Mi richiamò mia madre, per poi seguirmi con la sua camminata ansiosa che non fece che irritarmi ancor più.
Spalancai la porta dello studio ed entrai senza esitazione. Non mi curai dello sguardo sorpreso di mio padre nel vedermi lì in piedi di fronte a lui. Posai le mani sul tavolo e mi sporsi in avanti per essere faccia a faccia con lui: “Nessuno dovrà mai sapere che Levante è un Albizzi. Chiederemo a Madonna Alessandra di mantenere il segreto.”
Superato il momento di sorpresa, mio padre riassunse il suo tipico atteggiamento.
“E cosa pensi di fare di lui?” Chiese tranquillamente, riponendo la penna nel calamaio.
“Se si sapesse che è un Albizzi non avrebbe più un futuro. Perciò… Padre, ti chiedo di dargli il nome dei Pazzi e dichiarare che è figlio tuo e di mia madre.”
Il suo sguardo attonito precedette un giustificato: “Ti ha dato di volte al cervello?”
Insistetti con più convinzione: “Se lo battezzerai come figlio tuo non dovrai più preoccuparti dell’eredità della nostra famiglia. Avrai un erede. Il nostro patrimonio sarà salvo e  non dovrai lasciarlo a nessun altro.”
Ci fu qualche istante di silenzio, che poi venne infranto dalla risata di mio padre: “Certo! Dunque tua madre, alla sua età, avrebbe avuto un figlio! E chi ci crederà, secondo te?”
“Non offendermi in questo modo, Andrea.”
Non ebbi bisogno di voltarmi, sapevo che mia madre dopo avermi seguita fin lì era rimasta sulla soglia ad ascoltare. Entrò e si affiancò a me, il piccolo Levante era tranquillo tra le sue braccia.
“So che non mi hai mai perdonata per non essere stata in grado di darti un figlio maschio. Ma ti rammento che sono ancora abbastanza giovane, non sarebbe così insolito se io restassi incinta.” Il suo sguardo era fermo su mio padre in segno di sfida.
Lui sfoggiò un’espressione beffarda: “Bene, allora! E dimmi, quand’è che avresti partorito? Nessuno ti ha vista gravida. E come vorresti giustificare il fatto di aver tenuto nascosto il bambino per un anno intero?”
“Sono stata in campagna con nostra figlia, non ricordi? Tutti sono convinti che Delfina sia partita per motivi di salute e che io mi sia presa cura di lei. Basterà aggiungere che in realtà io sono partita per affrontare una gravidanza difficile e che, dopo il parto, le condizioni del neonato erano così disperate che temevamo non sarebbe sopravvissuto e così abbiamo taciuto la cosa. Ma poi...” Spostò lo sguardo su Levante e gli sfiorò una guancia con dolcezza, quindi terminò: “…le nostre preghiere sono state esaudite e la sua salute si è ristabilita. E così abbiamo infine deciso di annunciare la sua nascita e di battezzarlo.”
Mio padre commentò acido: “E’ una storia assurda. Non ci crederà nessuno.”
“E poi, durante il banchetto renderete pubblica la notizia del prossimo arrivo di un altro Pazzi. Sempre figlio vostro, ovviamente.” Aggiunsi, facendo affidamento su un briciolo di coraggio ritrovato per confessare la mia condizione a loro ancora oscura.
“Vuoi dire che..?” Mio padre non riuscì a terminare la frase, allora lo feci io: “Aspetto un altro figlio da Rinaldo e, per le stesse ragioni, dovrò nascondere il mio stato di gravidanza.”
Mia madre mi appoggiò con trasporto: “Io sono pronta a recitare la parte. Sono anche disposta a portare un cuscino sotto il vestito se si rivelasse necessario.”
La ringraziai con lo sguardo.
Stordito da quell’ultima notizia e dai progetti incredibili che avevamo architettato, mio padre sentì il bisogni di ricorrere all’aiuto dell’alcol. Riempì un calice di vino fino all’orlo e lo trangugiò tutto d’un fiato.  Una volta riposto il calice, non mi sorpresi di vederlo appoggiare la fronte ad una mano e chiudere gli occhi, la testa doveva girargli come una trottola. Io e mia madre rimanemmo mute e immobili, in attesa della sua successiva reazione. Levante invece trovò diletto nel giocare con il velo di mia madre, stropicciandone un lembo tra le manine e talvolta portandoselo alla bocca per succhiarlo come un frutto succoso.
Dopo un tempo non ben definito in cui eravamo rimaste sulle spine, finalmente mio padre riaprì gli occhi e parlò: “Accetto, ma ad una condizione. Non ti opporrai alle mie decisioni riguardo alla loro educazione e il loro futuro. Tu sarai solo la sorella maggiore e rispetterai la mia volontà.”
Accennai frettolosamente con il capo: “Sì. Non mi intrometterò in alcun modo, te lo prometto.”
“Inoltre…” Si stropicciò gli occhi con la mano per sfuggire all’intorpidimento dell’alcol: “Ho saputo che la nuora di Cosimo de’ Medici è gravida e dice a destra e a manca che partorirà un maschio. Se è vero e se tu partorirai una bambina, chissà, magari un giorno potrei combinare un matrimonio. Un’alleanza con i miei acerrimi nemici sarebbe il modo migliore per distruggerli dall’interno della loro stessa famiglia.”
“Sono pienamente d’accordo, padre.” Per la prima volta in vita mia, riuscivo a capire il disegno che aveva in mente. Lui lo faceva per amore del potere, lo sapevo, ma almeno così un giorno avrei ottenuto vendetta. Se era vero che era stato Cosimo a far uccidere Rinaldo, non mi sarei data pace fino a quando non lo avessi visto crepare sotto ai miei stessi occhi.
“Aspettate, stiamo dimenticando una cosa.” La voce di mia madre richiamò la nostra attenzione: “E riguardo Gioia? Che ne sarà di lei? Dobbiamo decidere anche questo.”
“Giusto. Un altro bastardo Albizzi da sistemare.” Sottolineò amaro mio padre.
“La situazione è più complicata.” Ragionai a voce alta: “Non possiamo rivelare la sua identità altrimenti questo fatto verrà associato alla mia relazione con Rinaldo e nessuno crederà più alla storia pensata per Levante. D’altra parte però, non possiamo nemmeno rendere nota la maternità di Isabella. Non essendo sposata la notizia getterebbe fango sul nostro nome. Cosa direbbe la gente sapendo che non abbiamo il controllo dei nostri stessi servi?”
Un rumore dall’ingresso ci fece voltare tutti. Era Isabella. Ma perché non mi ero curata di richiudere quella dannata porta? Nei suoi occhi lessi un profondo disprezzo rivolto a tutti noi, era evidente che aveva sentito ogni cosa. Entrò con passo lento, le mani le tremavano per la rabbia.
“Voi. Voi siete dei mostri.” Disse tra i denti, come se stesse masticando veleno.
Mio padre si sollevò dalla poltrona, la sua voce tuonò: “Non ti permettere, ragazza.”
Mia madre intervenne: “Forse è il caso di parlarne con calma e…”
“Caterina, esci.” Le ordinò lui.
“Ma io…”
“Esci!” Le gridò, puntando il dito indice verso la porta.
Mia madre ingoiò il proprio orgoglio e obbedì, ci lasciò soli nello studio ed ebbe l’accortezza di chiudere finalmente la porta.
Ora la faccenda riguardava noi tre. Dovevamo risolvere il problema ma, come si usava dire, era più facile  a dirsi che a farsi. Isabella ribolliva di rabbia e non sarebbe stato facile farla ragionare.
  
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