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Autore: Chipped Cup    12/02/2017    2 recensioni
[ One Shot | Johnlock | Parentlock ]
E poi, da quando si occupavano dei clienti anche di domenica? Sherlock odiava quel giorno della settimana proprio per quel motivo.
«Lo so», ripeté di nuovo, «ed è per questo che, lo scorso lunedì, ho dato appuntamento al cliente per questa domenica alle 9:15».
«Tu già sapevi che avresti risolto il caso entro oggi?» Domandò John, visibilmente sconvolto. Entrambi ormai si erano alzati leggermente con il busto, le braccia puntate sul materasso per tenersi in equilibrio.
«Sì, esatto», rispose. “Sì, esatto” ripeté l'altro fra sé, dicendosi anche che amava quell'uomo alla follia.
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Boring Sunday, happy Sunday




Che cos'è la felicità? Che cosa sappiamo, noi, a riguardo di questa emozione? In cosa possiamo trovarla? Nella vita di un uomo giunge sempre il momento in cui ci si pone questo tipo di domande e, molte volte, trovare una risposta risulta un'impresa piuttosto ardua, se non addirittura impossibile. Per qualcuno, la felicità, rappresenta una persona amata, altri la individuano in qualche oggetto a loro caro, altri ancora fermano la propria felicità in un ricordo, un'immagine impressa nella mente da custodire gelosamente.
Per John Watson, o meglio per il soldato John Watson, la felicità si limitava nell'arrivare vivo, o perlomeno tutto intero, alla giornata successiva. Non veder morire nessuno dei suoi compagni, sul campo, non esser costretto a dire addio per sempre a ciascuno di loro; ogni giorno senza vittime, in Afghanistan, era stato, per lui, un giorno felice.
Ovviamente niente di tutto questo si avvicinava anche solo lontanamente a quello che definiva come il suo vero momento felice, il ricordo più puro che aveva.
Dentro di sé riconosceva l'obbligo morale, come marito e quindi come vedovo, di parlare del giorno in cui aveva incontrato Mary, la sua Mary, la sua adorata moglie. E, forse, per un certo periodo di tempo lo aveva anche fatto, onestamente, ma poi era riuscito ad andare avanti e una mano gliela aveva data Mary stessa, con la sua benedizione*, nel suo ultimo messaggio, nel cominciare una nuova vita, magari di farlo col suo migliore amico. Dimostrazione del fatto che anche lei era riuscita a vedere ciò che avevano sempre provato l'uno per l'altro, il che, John, lo riteneva incredibile.
E, parlando proprio del suo migliore amico, o meglio, del suo compagno, John sapeva di poter affermare con certezza di essere completamente rinato il giorno in cui aveva conosciuto Sherlock Holmes. Quell'uomo, al quale si era sentito connesso fin dal primo istante, era riuscito a farlo sentire vivo, cosa che non aveva mai pensato possibile una volta tornato dalla guerra. Sherlock lo aveva strappato alla solitudine, alla monotonia, alla depressione. Ricordando il primo incontro con Sherlock Holmes o con Mary Morstan, John sorrideva, appagato. Momenti felici, quelli, certo, ma nessuno di loro si dimostrava essere abbastanza intenso, abbastanza puro.
John Watson era anche e soprattutto un padre. Nella nascita della sua piccola Rosie, il suo piccolo e dolcissimo angelo, nel momento in cui l'aveva presa in braccio per la prima volta, aveva accarezzato le piccole manine e baciato le guance paffute, rivedeva quello che più si avvicinava al suo ricordo più felice. Questo, almeno, prima di quel giorno.
Era una domenica mattina iniziata come tante altre. John aveva preso, già da un po' di tempo, la strana abitudine di aprire gli occhi qualche minuto prima della sveglia, tanto che cominciava a pensare di non averne più bisogno, pur continuando ad impostarla ogni sera, più che altro per abitudine. Amava assaporare quel raro momento di calma e assoluto, quanto insolito, silenzio che si creavano nel 221 b di Baker Street: Rosie ancora dormiva nella culla vicino al letto matrimoniale, stesso discorso valeva per Sherlock, che si concedeva qualche ora in più di riposo, giusto per ricaricare le energie dopo la conclusione di un caso piuttosto importante affidato loro da Mycroft. Solitamente, John si svegliava con il calore di Sherlock stretto tra le sue braccia, i riccioli neri che gli solleticavano piacevolmente la punta del naso, la testa affondata nel suo collo, la mano intrecciata nella sua. Per qualche strano motivo, invece, Sherlock doveva essersi mosso, durante la notte, girandosi sull'altro fianco e interrompendo così quell'abbraccio.
John sbatté più volte le palpebre cercando di mettere a fuoco il suo volto senza essere infastidito dalla luce del sole che entrava dalla finestra. Sherlock dormiva con una mano sotto la testa, la bocca chiusa, il viso straordinariamente rilassato, i capelli schiacciati appena contro il cuscino; John non ricordava neanche quando era stata l'ultima volta che lo aveva visto così sereno - anzi, non ricordava quando era stata l'ultima volta che lo aveva visto dormire, dato che, in genere, il detective era il primo ad alzarsi dal letto, nonché l'ultimo ad andarci. Il dottor Watson sorrise fra sé, esplorando con lo sguardo ogni centimetro del corpo del suo compagno: a cominciare da quel petto nudo che si alzava e abbassava con regolarità, a ritmo col suo respiro; a quegli zigomi che parevano scolpiti, quasi affilati, tanto che, qualche volta e stupidamente, temeva quasi di potersi tagliare, sfiorandolo; a quella particolare incurvatura delle labbra che tanto amava baciare per quanto fossero - oltre che esteticamente perfette - così maledettamente morbide. Riuscì a malapena a contenere l'istinto di mettersi a giocare coi suoi riccioli ribelli, terrorizzato all'idea di svegliarlo e interrompere, in quel modo, quella specie di visione eterea. Ma Sherlock lo fece per lui.
«Smettila di fissarmi», mormorò piano, senza nemmeno degnarsi di aprire gli occhi o di muoversi di un solo millimetro. John pensò che no, proprio non voleva sapere come diamine aveva fatto a indovinare, o meglio a dedurre, che lui fosse sveglio e che lo stesse fissando. Sapeva di non essersi mosso, di non averlo toccato né sfiorato; sapeva di non aver fatto proprio niente per aiutarlo a intuire che si fosse svegliato, niente di niente, figuriamoci se avesse potuto fargli capire che se ne stesse lì a fissarlo. Sherlock, ogni tanto, si beffeggiava di lui o di Lestrade quando non riuscivano ad arrivare ad una spiegazione a lui ovvia, affermando di potercela fare anche ad occhi chiusi, ma loro avevano sempre messo in conto che scherzasse. Ci mancava soltanto quella, pensò.
«Certo che hai un bel coraggio, tu», cominciò a dire per tutta risposta, cercando di farsi sentire offeso, il sorriso ancora stampato in faccia, «fissare la gente dalla testa ai piedi tirando fuori deduzioni. No, non è proprio una cosa da Sherlock Holmes».
«Io non fisso, io osservo», sottolineò pacatamente, notando il suo sarcasmo. John non ribatté, limitandosi a sbuffare divertito; un po' di rossore gli colorò le guance notando gli angoli della bocca di Sherlock incurvarsi verso l'alto. Era così magnificamente bello, aveva sempre cercato di reprimere quel pensiero, fin da quando lo aveva conosciuto, e adesso amava non doverlo più fare. «È ora di alzarsi», sbadigliò, ad un tratto.
«No, non lo è. È ancora presto. Possiamo dormire un altro po', oppure fare altro...», mormorò, allusivo, cominciando ad accarezzargli delicatamente con un dito il braccio sinistro, scoperto.
«John, devo per caso ricordarti della presenza di una bambina nella stanza?» Ribatté ironico, girandosi sulla schiena con un altro sbadiglio e appoggiandosi un braccio sugli occhi, probabilmente infastidito dal sole.
«Idiota, io non intendevo quello», arrossì il dottore, ammettendo, comunque, a se stesso, che un po' di sano sesso mattutino non gli sarebbe dispiaciuto per niente, ma era ovvio che non potevano per via di Rosie. Si avvicinò a Sherlock, scivolando rapido sotto le coperte, poggiando le labbra sulla sua spalla «pensavo a un po' di coccole. Dolci, piacevoli, caste», spiegò, alternando un bacio ad ogni parola, circondandogli la vita con un braccio e stringendolo a sé. Sherlock espirò rumorosamente, godendosi appieno quelle premure; peccato che doveva rinunciarvi di malavoglia.
«Temo che dovremo rimandare», bisbigliò, quasi odiandosi, «fra un minuto e quarantasette secondi esatti la tua sveglia suonerà; noi dovremo alzarci e vestirci, fare colazione e dare da mangiare a Rosie - che si sarà svegliata, nel frattempo; Mrs Hudson salirà per vedere se abbiamo bisogno di qualcosa e poi ci informerà dell'arrivo del nostro cliente», spiegò rapido, con naturalezza. John lo guardò con un mix di sorpresa e di divertimento.
«Un minuto e quarantasette secondi?» Ripeté scettico, senza riuscire a trattenere una risata. Sherlock aprì l'occhio destro per un secondo e lo guardò torvo.
«Un minuto e undici secondi, adesso», ribatté. John aprì la bocca, pronto a dirgli che non poteva pretendere di indovinare una cosa del genere, ma poi la richiuse, decidendo di aspettare e vedere. Tirò fuori dalle coperte il braccio con l'orologio al polso e cominciò a contare aiutato dallo scoccare delle lancette. Dopo un minuto e undici secondi esatti, la sveglia alle sue spalle prese a suonare. Sherlock sorrise tra sé, John si girò per staccarla infastidito; Rosie respirò sonoramente, ma non si svegliò.
«Hai avuto fortuna», gli disse, borbottando a bassa voce. Il moro si tolse il braccio da sopra il volto così da poterlo guardare e mostrargli tutta la sua indignazione. John alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa. «Come potevi sapere con esattezza quanto tempo mancasse?!»
«La imposti sempre allo stesso orario», rispose con semplicità.
«Sì ma -», John si bloccò e sospirò sonoramente. Con Sherlock era sempre così, e dire che dopo tutti quegli anni di conoscenza e convivenza doveva esserci abituato. «Lascia perdere, non ha importanza», mormorò poi, tornando a stenderglisi accanto, il respiro sul suo collo. Sherlock alzò il braccio destro, soddisfatto, e lasciò che poggiasse il capo sul suo petto, prima di stringergli le spalle. «Restiamo ancora un po' così, non c'è nessuna fretta», sussurrò il dottore, socchiudendo appena gli occhi per godersi al meglio quella sensazione di calore e protezione che solo le braccia di Sherlock Holmes sapevano dargli.
«Nessuna fretta», gli fece eco il detective, «tranne per il cliente che sarà qui alle 9:15».
«Non ci sarà nessun cliente, oggi», borbottò l'altro, accoccolandosi meglio.
«Certo che ci sarà».
«No, non verrà nessuno».
«Sì, invece. Alle 9:15».
«Sherlock», lo chiamò John, alzando di scatto la testa per poterlo guardare mentre l'altro la abbassava con la stessa intenzione; i visi separati da pochi centimetri «oggi è domenica», gli fece notare, sperando che quella del suo compagno fosse solamente una dimenticanza.
«Lo so», replicò invece il moro, l'espressione interrogativa sul volto. Non capiva cosa ci fosse di così rilevante in quell'osservazione.
«L'ultimo caso ci ha tenuti impegnati quattro giorni. E lo hai concluso questa notte. Siamo tornati a casa alle 3:00 del mattino», in quella settimana avevano dormito pochissimo: John era riuscito a riposarsi, forse, per tre ore, massimo quattro, a notte, mentre aveva come il sospetto che Sherlock non avesse chiuso occhio per tutta la durata del caso, anche se lui provava a rassicurarlo del contrario. Non poteva credere che fosse già pronto a lanciarsi in un nuovo caso, aveva pensato che avrebbero preso quella giornata per ricaricare le energie. E poi, da quando si occupavano dei clienti anche di domenica? Sherlock odiava quel giorno della settimana proprio per quel motivo.
«Lo so», ripeté di nuovo, «ed è per questo che, lo scorso lunedì, ho dato appuntamento al cliente per questa domenica alle 9:15».
«Tu già sapevi che avresti risolto il caso entro oggi?» Domandò John, visibilmente sconvolto. Entrambi ormai si erano alzati leggermente con il busto, le braccia puntate sul materasso per tenersi in equilibrio.
«Sì, esatto», rispose. “Sì, esatto” ripeté l'altro fra sé, dicendosi anche che amava quell'uomo alla follia.
«Stai dimenticando una cosa soltanto», Sherlock lo guardò aggrottando la fronte in modo pensieroso «oggi - è - domenica». Fu proprio in quel momento che Rosie decise di annunciare loro di essere sveglia, e magari anche affamata, cominciando a piangere all'improvviso. Entrambi si tirarono su, mettendosi seduti sul letto, voltandosi all'unisono verso la culla: la piccolina stringeva ancora una zampetta del suo elefante di peluche.
«Sembra che qualcuno, qui, non sia dello stesso avviso», affermò Sherlock, alzandosi in piedi per primo e prendendola subito in braccio, cominciando a cullarla dolcemente, per calmarla. John scosse la testa, sentendolo, non poteva vincere contro entrambi, pensò, non riuscendo ad impedire ad un sorriso di venire fuori. «Shh, shh piccolina», sussurrava Sherlock, nel frattempo, tornando verso il letto «ora il papà ti cambia il pannolino e poi, tutti e tre, facciamo colazione, d'accordo?» Allungò la bimba verso John, mentre l'altro sbatteva le palpebre.
«Cosa?» Cominciò «Tocca a te, adesso. Ci ho pensato io l'ultima volta, e la volta prima, e quella prima ancora. I patti dicevano una volta ciascuno», constatò alzando l'indice destro con fare autoritario, prima di uscire dal letto e indossare la maglietta del pigiama che si era tolto prima di mettersi a dormire, deciso a non lasciarsi fregare di nuovo.
«È biologicamente tua figlia, è tuo dovere», provò Sherlock, andandogli dietro con Rosie contro il suo petto; si era calmata leggermente, tra le braccia dell'uomo, e ora aspettava che qualcuno prendesse una decisione, così da poter finalmente gustare il suo latte mattutino.
«Non puoi giocare questa carta», ribatté John, dirigendosi in cucina «legalmente, fra poco, sarà anche tua».
«Non ho ancora firmato le carte dell'adozione, quindi -»
«Sherlock», lo ammonì John, spazientito, cercando di non guardarlo negli occhi, sicuro che quello aspettasse soltanto il momento giusto per mettere su la sua migliore espressione supplichevole, con tanto di occhioni dolci.
«Non ci so fare con questa cosa, John. I pannolini», il modo in cui pronunciò quell'ultima parola, un mix tra disgusto e supplica, sinceramente impreparato su tale argomento, fece scoppiare John in una fragorosa risata, guadagnandosi un'occhiataccia da entrambi.
«Okay, scusa», tentò mordendosi le labbra non riuscendo però a togliersi il sorriso divertito dal volto «Sherlock hai solamente bisogno di pratica, ti verrà naturale vedrai», affermò sicuro di quel che diceva. Lasciò un bacio sulla fronte della sua piccolina e un altro veloce sulla guancia sinistra di Sherlock, prima di prenderlo per le spalle e girarlo verso la sua, o meglio la loro, camera «Io sarò qui a preparare il latte per lei e il tè per noi», decise, spingendolo lievemente per incoraggiarlo a muoversi.
Quando si fu allontanato, John si diresse ai fornelli, come aveva annunciato. Mrs Hudson fece capolino, ad un tratto, portandosi dietro un vassoio pieno di biscotti al cioccolato appena sfornati. John la ringraziò, mettendosene subito uno in bocca, sentendosi improvvisamente affamato. Versò il tè nelle tazze andando poi a posarle vicino le loro rispettive poltrone, riempì il biberon e aspettò che Sherlock vestiste Rosie, agguantando un altro biscotto.
«J-John?» Sbuffò, posando il giornale che aveva appena aperto sulla prima pagina, prima di andare incontro a Sherlock, immaginandolo in difficoltà a far indossare la tutina a Rosie, o peggio, a non trovare il modo di venire a capo con il pannolino.
«Sherlock, per l'amor del cielo, te l'avrò mostrato un centinaio di volte», esordì entrando nella stanza «non ci vuole nien-», Sherlock si era appena voltato verso di lui, Rosie cambiata e vestita tra le sue braccia era tranquilla e sorridente, seppur - John lo leggeva dai suoi occhi - impaziente di poter finalmente mangiare. Tuttavia, l'espressione indecifrabile dell'uomo lo spaventò «Cos'è successo?»
«Guarda», disse solamente, la voce bassa. Entrambi abbassarono lo sguardo su Rosie, in attesa. John non sapeva di cosa e ogni tanto alzava gli occhi su Sherlock, che sembrava quasi in apnea, il viso pallido. Lo aveva visto in quelle condizioni soltanto una volta: quando gli aveva chiesto di fargli da testimone, definendolo una delle due persone più importanti della sua vita.
«Sherlock?» Tentò allora, interrompendo quegli istanti di silenzio che si erano creati. Non riusciva a capire cosa fosse successo, Rosie sembrava stare bene, cosa lo aveva turbato a tal punto?
«Guarda», ripeté, senza staccare gli occhi dalla bambina. John fece lo stesso. «Coraggio Rosie, non fare la timida», l'uomo provava a incoraggiarla, ma la bimba sembrava tutta presa a succhiarsi la manina destra. Aveva fame, non sapeva più come dimostrarlo.
«D'accordo, ho capito», esclamò John, a un certo punto, avvicinandosi per prenderla in braccio «non ci dà retta perché vuole mangiare, magari più tardi -»
«Pà - pà».
John poté giurare di percepire il suo cuore sciogliersi come neve al sole. L'aveva appena presa in braccio per portarla in cucina e darle il biberon, ma Rosie si era subito sporta verso Sherlock, le braccine tese e le manine aperte, cercando di manifestare il suo desiderio di tornare tra le sue braccia.
«Papà», ripeté, gli occhi chiari puntati sul detective «papà». La sua prima parola, John non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Stava davvero accadendo, la sua bambina stava davvero parlando, e stava davvero chiamando Sherlock papà.
«Sherlock», esclamò allora, emozionato, la bocca aperta in un sorriso immenso. Prese a riempire la piccola di baci, era così euforico, il cuore esplodeva di gioia. «La tua prima parola, Rosie. Hai detto la tua prima parola», ripeteva, come a temere di potersene dimenticare. Si voltò di nuovo a guardare Sherlock, aspettandosi di vederlo eccitato più di lui, ma quello se ne restava immobile, come pietrificato. John gli fu vicino, riuscendo a calmarsi almeno per un istante, guardandolo con gli occhi che brillavano e gli angoli della bocca incurvati verso l'alto. «Sherlock?» Lo richiamò, intenerito. Il moro sbatté le palpebre e lo guardò intensamente, John diede l'ennesimo bacio sulla testa di Rosie prima di metterla in braccio a Sherlock.
«Mi ha chiamato papà, John. Papà», John rise contento, guardando entrambi con occhi pieni di amore. Era così fortunato ad averli nella sua vita.
«Ho sentito», affermò accarezzando piano la mano di Sherlock «non è bellissimo?» Mormorò, alzando lo sguardo. Sherlock lo guardò per qualche secondo, poi anche la sua espressione si aprì in un sorriso, mentre gli occhi di entrambi cominciarono a luccicare per la commozione. John portò una mano dietro la testa di Sherlock, facendolo abbassare lievemente, e lo baciò piano, dolcemente, percependo poi l'altro schiudere le labbra per lui, per approfondire quel contatto e lasciando in quel modo che le loro emozioni parlassero per loro, esprimendo tutto il loro amore, tutta la loro gioia, tutta la serenità che quella semplice parola, “papà”, aveva donato ad entrambi.
Si staccarono dopo pochi istanti, le fronti appoggiate l'una sull'altra e gli occhi chiusi. John non si era mai sentito così scosso dopo averlo baciato, neanche neanche il loro primo bacio lo aveva scombussolato tanto, ne era certo. Ce ne erano stati di più passionali, di più eccitanti, ma nessuno di loro era mai stato così sconvolgente.
Rosie mormorò emettendo sillabe a caso, indignata di non essere più al centro dell'attenzione. Sherlock sorrise, cullandola, e dirigendosi verso la cucina. John restò qualche passo indietro, immobile, estasiato nel guardarli. Quel bacio lo aveva scosso tanto perché aveva un significato diverso, per entrambi. Quel bacio era sinonimo di famiglia, la loro famiglia. John sapeva come Sherlock continuasse a sentirsi responsabile per la morte di Mary, aveva tra l'altro paura che la bambina non potesse mai vederlo come un vero e proprio famigliare, ma solo come il compagno, o marito magari, di suo padre. Rosie gli aveva dimostrato il contrario, quella mattina. John, con quel bacio, aveva sentito il cuore di Sherlock alleggerirsi e il suo riempirsi d'amore.
E non poteva dirsi più felice.
Quella domenica mattina divenne il suo ricordo più felice, perché sanciva l'inizio di quello che sarebbe stato il loro percorso. Il loro nuovo percorso, insieme. Quello della loro famiglia


* “Ps. I know you two, and if I'm gone I know what you can become” so che sono nate parecchie interpretazioni (e polemiche) sulla base di questo messaggio, io ho deciso di interpretarlo nel miglior modo possibile e di prenderlo come una sorta di "benedizione" da parte di Mary

Angolo dell'autrice:
Okay, questa one shot praticamente si è scritta da sola. Ammetto che la Parentlock era l'ultima cosa che mi aspettavo di vedere in Sherlock, anzi l'ultima cosa che speravo di vedere, eppure è dalla fine di TFP che vado cullandomi tra una fanart e l'altra, una storia e l'altra, tanto che alla fine ho deciso anche io di mettere nero su bianco le piccole immagini che mi erano venute in mente dopo le tre puntate. Non che sia soddisfatta al 100% del risultato, ma spero comunque che quesya piccola storia vi sia piaciuta (personalmente, rileggendo il momento in cui Rosie chiama Sherlock "papà" mi sono commossa), spero di essere riuscita a rendere bene ogni cosa, dai personaggi al rapporto John/Mary, John/Sherlock, Sherlock/Rosie, soprattutto spero di aver fatto un buon lavoro su quest'ultimo punto, il più importante.
Grazie a chiunque leggerà, un grazie particolare a Lidia che sopporta e supporta sempre i miei scleri (la parentlock ci sta distruggendo piano piano la vita). Fatemi sapere cosa ve n'é parso se vi va :) Un bacio,

  
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