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Autore: esse198    16/02/2017    4 recensioni
“L’ultima volta che ho mangiato patatine in giro per le strade di Londra di notte è stata con mia sorella.” Esordì Sherlock.
“Euros” pronunciò Molly. Nel suo tono un lieve accenno di apprensione, era la prima volta che usava un termine di parentela parlando di lei.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Notte insonne.
Le parole tornavano, si alternavano, si susseguivano nella mente. Si accavallavano e si confondevano creando un unico, ridondante frastuono.
Molly si girava e rigirava nel letto, tra il ghiaccio nel cuore e un caldo che le scaturiva dall’agitazione. Da quella strana forma di ansia che scaturisce da situazioni irrisolte, incomprese.
E se dapprima era stato straziante, per un momento si era rivelato liberatorio. Un senso di vuoto, come quando insegui un obiettivo per tutta la vita, o immagini tanto un momento, e una volta raggiunto, una volta avverato, una volta superato, sembra aver perso senso.
La verità era che quella telefonata, quella avvenuta tra lei e Sherlock in quel pomeriggio, di senso non ne aveva alcuno. Lei non riusciva a trovarne uno.
Ripensò ancora a tutte le parole che Sherlock aveva pronunciato, ma soprattutto ripensò al suono di quelle parole, al tono che l’uomo aveva usato. Sherlock sembrava a tratti terrorizzato e aveva ceduto al suo ricatto.
Perché? Perché tanta crudeltà? Non riusciva a spiegarselo. Si era sempre fidata di lui e lui aveva più volte mostrato di ricambiare tale fiducia e rispetto. Aveva preso un abbaglio?
 
Si alzò la mattina dal letto completamente stravolta. Le servivano doppie tazze di caffè e una doccia lunga e rigenerante. La aspettava un lungo turno di lavoro all’obitorio, quel giorno, e poi sarebbe dovuta passare in centrale a consegnare i risultati a Lestrade. Greg le aveva chiesto di portarglieli di persona perché aveva delle domande da farle su alcuni casi e aveva bisogno delle sue risposte chiarificatrici.
 
Il lavoro quel giorno era stato fitto e impegnativo. Ciò permise  a Molly di non pensare. Si buttò con tutta se stessa nelle autopsie e analisi varie. Concentrò tutta la sua attenzione su ciò che amava e svuotò di senso la sua mente.
Quando arrivò in centrale c’era un gran trambusto. Nulla di nuovo, le veniva da pensare. Ma notò una strana agitazione. E capì la gravità della situazione quando intravide Mycroft Holmes entrare in un ufficio in fondo al corridoio. Era stato accompagnato da Lestrade che aveva chiuso la porta alle spalle del maggiore degli Holmes, per restarne fuori. L’ispettore detective percorse a ritroso il corridoio e si fermò davanti la porta aperta del proprio ufficio e accolse Molly con uno sguardo stravolto.
“Cos’è successo?” chiese la donna.
Lestrade iniziò a spiegare quel che era appena successo: accennò a Euros Holmes, la sorella segreta e psicopatica della famiglia, e a Sherrinford, una specie di Alcatraz.
“Abbiamo arrestato la sorella” aveva esordito Greg, con un sospiro, con sofferenza.
Molly aveva sgranato gli occhi e poi inarcato le sopracciglia.
“Non ho ancora capito cos’è successo di preciso, Mycroft deve ancora spiegarmi tutto, ma abbiamo tirato fuori John da un pozzo e… insomma… Sherlock, pur essendo Sherlock, sembrava provato, come Mycroft.”
Molly non riusciva a esprimere in nessun modo il suo sgomento.
Troppe informazione, troppe in una volta. Ma con lui era sempre così. Anche nel caso Magnussen si era ritrovata a dover mettere insieme pezzi di informazioni e cose dette e non dette , di segreti svelati, altri celati. E come sempre, spesso, molti aspetti delle vicende che riguardavano Sherlock, le aveva dedotte o semplicemente colte osservando lui, i suoi silenzi, le sue mezze frasi.
“Adesso sono in riunione di famiglia” disse Greg indicando con un cenno del capo la porta dell’ufficio in cui aveva fatto entrare Mycroft poco prima. E aveva abbassato lo sguardo, stanco. Le vicende degli Holmes lo provavano parecchio e vedere Mycroft in quello stato lo aveva preoccupato. E la raccomandazione del fratello minore gliene aveva dato conferma.
Molly seguì la direzione indicata da Lestrade e si accorse che oltre il vetro della porta poteva scorgere lui: addossato alla parete, nel suo completo nero, le braccia conserte, una mano sotto il mento e lo sguardo truce. Non si aspettava di vedere quel profilo affascinante e rimase pietrificata, immobile a guardarlo, con l’intento di carpirne lo stato d’animo.
E se da subito si rese conto di quanto fosse stupida a preoccuparsi per l’uomo che meno di ventiquattr’ore prima l’aveva umiliata e ferita, si rese conto anche di quanto quella telefonata fosse parte di un gioco più grande e più pericoloso. Qualcuno aveva probabilmente rischiato la vita in quei minuti. Ed ecco perché Sherlock era spaventato, ecco perché lui l’aveva supplicata, implorata di ripetere quelle maledette parole.
Sherlock se ne stava fermo ad osservare la ramanzina che i suoi stavano facendo al fratello. Ogni tanto tentava di difenderlo. Perché lui aveva capito. Aveva capito il peso che Mycroft si era portato sulle spalle per tutti quegli anni, rinunciando a un’infanzia normale, a una vita normale e preparando il fratello ad affrontare la realtà, a proteggerlo da inutili e pericolosi coinvolgimenti sentimentali. Invano. E per Mycroft doveva essere un fallimento disastroso. Distolse per un attimo lo sguardo dalla sua famiglia e piegò il viso verso la sua sinistra, verso la porta. Lo fece distrattamente, come un movimento involontario per spezzare quell’immobilità. E la vide. Oltre il vetro vide la figura minuta di Molly Hooper. Avvolta in un’accozzaglia di colori che solo lei poteva sfoggiare. La vide fissarlo incessantemente. E non c’era attesa nel suo sguardo, forse stupore, ma gli sembrò quasi un frammento di sfida. Di rabbia.
Lo stupore colpì invece proprio lui, l’imperturbabile Sherlock Holmes. Aveva già pensato a Molly, alle scuse che le doveva. Aveva pensato che l’avrebbe fatto con calma, una volta risolto tutto, la famiglia, la casa. Si era ripromesso che avrebbe trovato il modo giusto per farsi perdonare, che avrebbe spiegato tutto quanto. Ma vedendola adesso, oltre quel vetro, si rese conto che aveva messo Molly dopo le altre priorità perché sapeva che sarebbe stato difficile.
Paura.
Sherlock non aveva paura di nulla. Ma di Molly sì.
Sherlock non si curava di ferire le persone, ma di Molly sì.
Perché se lui era capace di dedurre la vita delle persone osservandone l’aspetto e le tracce sui vestiti, Molly era l’unica in grado di dedurre lui guardandolo negli occhi. E poi Molly era per lui qualcosa da maneggiare sempre con cura, per quanto la sapesse forte e coraggiosa, lui riusciva a scalfire quella corazza e a ferirla, in un modo o nell’altro. E la feriva perché il più delle volte non riusciva a trovare altro canale per comunicare con lei, o per non farsi scoprire. Perché lei ci prendeva sempre nelle sue analisi, non si sbagliava mai, ed essere messo a nudo da lei, nel modo così semplice in cui ci riusciva lo destabilizzava, lo disarmava e allora per difendersi colpiva.
“Molly”
Sussurrò.
Sherlock staccò le spalle dalla parete. Si raddrizzò, stirò con le mani la giacca del vestito e ne tirò i lembi verso il basso.
I suoi e Mycroft si voltarono a guardarlo con aria interrogativa. Lui li ignorò e si diresse con una lieve esitazione verso la porta. Attraversato il primo ostacolo, se lo richiuse alle spalle e si fermò. Percorse lentamente il corridoio e la distanza che lo separava da lei. E intanto i ricordi riaffiorarono alla mente. Lei in cucina, le sue lacrime, la voce rotta dal pianto, la voce di Euros che non gli dava tregua, il conto alla rovescia, la paura di perderla.
La bara.
Fu allora che si accorse che Molly era lì: viva. Certo, aveva sempre saputo che stava bene, ma quella bara… gli faceva tornare quella terribile sensazione di perdita. E invece era lì e si avvicinava sempre più e quando le si fermò davanti, a pochi centimetri, il primo impulso, seppur incerto, fu quello di alzare la mano per poterle accarezzare il volto e accertarsi della consistenza di quell’immagine.
Ma Molly indietreggiò.
Quella reazione istintiva sorprese se stessa, ma pur avendo intuito la grandezza di ciò che era stato dietro quella conversazione telefonica, il suo corpo rifiutava ogni contatto fisico con quell’uomo che in ogni caso l’aveva ferita.
Sherlock ripose il suo braccio lungo il fianco e sostenne lo sguardo interrogativo e fiero di Molly.
Restarono a fissarsi alcuni istanti. Dialoghi infiniti e silenziosi.
Poi vide affacciarsi alla porta Mycroft, e alle sue spalle, i signori Holmes.
“State tutti bene?” chiese Molly facendo scattare velocemente lo sguardo verso la porta dell’ufficio da cui era uscito.
“Sì. Più o meno.”
A quel punto la ragazza fece un sospiro, indietreggiò ancora di un passo e abbasso lo sguardo.
“Perdonami.” Disse Sherlock. “Sono stato costretto.” Un breve silenzio, prima di implorare sommessamente: “Credimi.”
Molly rialzò lo sguardo. Gli aveva già creduto prima ancora che parlasse. Non lo aveva mai visto esitare e soffrire così palesemente di fronte a lei. Per lei.
Calde lacrime silenziose cominciarono a sgorgare sulle guance. Lei le lasciò cadere, senza vergogna.
Lui ritentò il contatto fisico, provò ad avvicinare le sue mani al viso di lei, ma lei alzò le mani, quasi a farsi scudo. Lui le prese i polsi e senza alcuno sforzo glieli spostò per farsi largo verso di lei e abbracciarla.
Un’urgenza che invadeva più Sherlock, un’urgenza che non era consolazione, era mero contatto fisico. In quel momento era per lui l’unico modo per espiare alle proprie colpe, anche solo in parte.
Lei si lasciò avvolgere, con le braccia cadenti lungo i fianchi e il capo appoggiato al suo petto.
Lestrade e Mycroft si scambiarono uno sguardo di intesa ed entrambi si ritirarono nei rispettivi uffici.
 
 
 
 
 
Lentamente la vita riprese il suo corso.
Sherlock e John rimisero in sesto Baker Street. Presto tornarono al lavoro e a occuparsi della piccola Rosie. Vi fu anche una piccola festicciola per la ristrutturazione del 221b.
 
Sherlock riprese a frequentare il Bart’s.
 
Molly aveva appreso da più parti ciò che era successo a Sherrinford, aveva saputo dell’esplosione e delle prove cui era stato sottoposto Sherlock in un gioco macabro della sorella. Non conobbe i dettagli, d’altra parte non era molto interessata a conoscerli. Sentiva che il racconto di quei giorni era difficile sia per John che per Sherlock.
 
 
 
 
Quel pomeriggio Sherlock aveva un’aria nuova. Era elettrizzato per un nuovo caso, uno di quelli complicati che piacevano a lui, che lo facevano uscire di casa, andare sulla scena del crimine, raccogliere campioni e poi irrompere nel laboratorio di Molly per poterli analizzare insieme. John era con lui, ma vide che l’aiuto di Molly era più che sufficiente, li vedeva lavorare in perfetta sintonia, gli sembrò così strano vederli così assorti entrambi nelle proprie attività. Così disse che sarebbe tornato da Rosie e nessuno dei due obiettò. John uscì dal laboratorio con un sorriso a fior di labbra. In quei mesi aveva pensato spesso e a lungo a quel che era accaduto a Sherrinford. Aveva osservato Sherlock affrontare e superare quegli eventi. Era stata una guerra ed erano stati degli ottimi soldati, ma il confronto con Molly lo aveva davvero impressionato.
C’era qualcosa che gli sfuggiva, c’era sempre stato. Molly c’era sempre stata e lui non se n’era accorto. Perché Molly era una presenza/assenza, fondamentale nella vita di Sherlock, preziosa. Forse proprio perché così preziosa Sherlock la teneva nascosta, al sicuro. O forse era paura di riconoscere quanto fosse importante a portarlo a tenerla nascosta. Un legame tanto invisibile, quanto forte. Un legame che aveva appena visto affiorare in quel laboratorio, in quel pomeriggio, a lavorare insieme. Si chiese quando le cose avevano subito una svolta, perché sapeva per certo che non era stato Sherrinford a cambiare le cose, il cambiamento era avvenuto prima. Dovette ammettere che quel mistero lo infastidiva e con dolore pensò che Mary probabilmente aveva già capito tutto prima di lui e forse gli avrebbe saputo spiegare tante cose.
Vederli quel pomeriggio insieme gli fece provare una certa tenerezza, come quando vedeva sua figlia sorridere. Si sorprese di quelle sciocche fantasie sentimentali. Anche se ciò a cui aveva appena assistito lasciava ben sperare, non si poteva certo contare ugualmente sulla fantasia di Sherlock.
 
Quando arrivarono alla soluzione del caso Molly aveva già abbondantemente superato l’orario del suo turno di lavoro. Ma non le era pesato, non le era mai pesato. Sia che si trattasse di Sherlock, sia che si trattasse di altri straordinari. Sherlock esultò al suo solito nello scoprire di aver imboccato la strada giusta. Molly allora andò nello spogliatoio a cambiarsi, certa di non trovare più il detective. In realtà Sherlock si era fermato in corridoio a scrivere il messaggio per Lestrade in cui gli comunicava il colpevole. Fecero insieme la strada verso l’uscita, percorsero il corridoio mentre lui le spiegava gli ultimi dettagli che dimostravano la colpevolezza del signor Smith. Una volta fuori inaspettatamente “Patatine?” propose Sherlock.
 
 
 
Un taxi li aveva portati al chioschetto con le patatine migliori di Londra, secondo l’esperto parere di Sherlock. E poi avevano proseguito a piedi per le vie della città, in quella sera di inverno inoltrato, una sera stranamente tiepida. Attraversarono le strade affollate, piene di luci, suoni, rumori, persone, macchine. Era strano per Molly fare una passeggiata con Sherlock in un posto così affollato. E senza alcun motivo apparente.
“L’ultima volta che ho mangiato patatine in giro per le strade di Londra di notte è stata con mia sorella.” Esordì Sherlock.
“Euros” pronunciò Molly. Nel suo tono un lieve accenno di apprensione, era la prima volta che usava un termine di parentela parlando di lei.
“Già”
“È vero che non sapevi della sua esistenza?” Molly ne aveva sentite tante, ma aveva ancora piccoli interrogativi.
“Avevo rimosso” Sherlock camminava tranquillo accanto a lei sul lungo fiume e la sua voce non tradiva alcuna esitazione. Aveva trascorso settimane e mesi a ripensare a quanto era successo. Ma la riconciliazione con Euros aveva dato all’uomo anche pacificazione interiore.
“Lei aveva ucciso il mio migliore amico. Ho sostituito lui con un cane e dimenticato lei.” Completò abbassando lievemente il tono della voce.
Molly raggelò di fronte all’apparente calma con cui Sherlock aveva pronunciato quelle parole. Lo guardò di traverso, dal basso ne scrutava l’espressione sul volto. Leggeri segni di sofferenza.
“Mi dispiace” riuscì solo a dire Molly sinceramente.
Lui ricambiò il suo sguardo e rilassò i muscoli facciali, quasi in un sorriso malinconico.
“Giocavamo ai pirati: lui era Barbarossa, io Barbagialla.”
Molly abbassò lo sguardo e sorrise lievemente immaginando un piccolo Sherlock che giocava a fare il pirata.
“La vai a trovare?”
“Una volta a settimana” fece una pausa per mandar giù l’ultima patatina “Suoniamo insieme il violino.”
A un certo punto Molly si fermò. Una mano sulla ringhiera. Rimase indietro rispetto a Sherlock. Lui se ne accorse e si fermò anche lui, ma rimase lì dov’era. A guardarla da quella distanza. Molly era in forma, aveva ripreso i chili persi, probabilmente a causa sua, sul viso erano sparite alcune rughe, e pur mantenendo una dolce malinconia nello sguardo sembrava serena.
Anche lei lo stava osservando, meno clinicamente. Ma poteva notare la rilassatezza nella sua posa, nella sua camminata, nell’atteggiamento di tutto il pomeriggio trascorso insieme. Era uno Sherlock nuovo che però conservava la sicurezza e l’entusiasmo del vecchio. Fece un paio di passi verso di lui. Lo guardò dritto negli occhi.
“Stai bene, Sherlock?”
Anche lui fece un paio di passi verso di lei, sostenendo lo sguardo.
“Tu che dici, dottoressa Hooper?” le aveva quasi sussurrato.
“Sì, mi sembra che tu stia bene. Tutto sommato.” Aveva risposto lei con una punta di incertezza.
“E tu, Molly? Stai bene?” chiese di rimando.
Lei sorrise e annuì.
Lui stava per dire qualcosa, lo vide boccheggiare, ma non gli diede il tempo di parlare, Molly lo superò, gli passò a fianco.
“Oh, lo so. Questo è per farti perdonare.” Gli disse voltandosi a guardarlo con un sorriso sicuro. Nei suoi occhi un chiaro riferimento a quando invece l’aveva portata con sé a seguire i casi per ringraziarla per averlo aiutato con il finto suicidio. “Ma non era necessario.”
“Sì, che lo è!” ribattè lui con veemenza. E in un attimo quella calma di prima sparì.
“Io ho superato tutto quanto, ho visto degli uomini morire, sono stato sottoposto a stress inusitati, ma quel momento… “ non riuscì a continuare, la frase gli morì tra le labbra. Fu lui a distogliere lo sguardo mentre gli occhi di lei gli penetravano l’anima.
“Ho rischiato la vita?”
“Sì” fu il sussurro sofferto dell’uomo.
Molly poggiò una mano su quella di Sherlock. L’uomo rimase immobile. Sentiva che stava per accadere qualcosa che non avrebbe saputo prevedere o gestire. Guardò le due mani: quella di Molly, piccola, morbida e gelata; vide la propria muoversi lentamente dando il proprio palmo a quello di lei. Si chiusero in una stretta, come se quelle mani fossero consapevoli di quel gesto, consapevoli da sempre.
Poi tornarono a guardarsi e lui si mosse verso di lei, verso il suo viso, verso le sue labbra. Un bacio. Un bacio morbido, delicato.
“Io… devo ancora lavorarci, su questa questione… dei sentimenti e tutto quanto… pensi di riuscire a pazientare ancora un po’?” confessò Sherlock quasi sulle sue labbra.
Molly non rispose. Si limitò a baciarlo, con una punta di disperazione, affondò le mani nei suoi capelli, mentre la stretta di Sherlock attorno alla vita si faceva più forte.
 
 
 
 
 
 
 
NdA: Salve a tutti. La mia versione non aggiunge nulla a quelle già lette, lo so. Ma la mia è stata un’urgenza che mi ha spinto a scrivere. Non scrivo da molto tempo, l’ho sempre fatto di rado e si sente. C’è un piccolo what if: ho spostato la riunione familiare in un ufficio della centrale di polizia, invece dell’ufficio di Mycroft.
Spero vi sia gradita.
Un bacio
A presto
Silvia   
  
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