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Autore: Vanya Imyarek    23/02/2017    11 recensioni
Yoshiro Akasaka non è un ragazzo come gli altri. Lui è un libero pensatore, uno spirito libero che odia più di ogni cosa la società soffocante e corrotta in cui è costretto a vivere, e non desidererebbe altro che abbatterla, aiutare qualcun altro a sfuggire alla sua gabbia.
Ed ecco che l'occasione di porgere questo aiuto si presenta, sotto forma di una ragazza insicura ossessionata dalla propria bellezza: Yoshiro sarà all'altezza della sua auto-imposta missione?
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Clockwork Society's Files'
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Yoshiro Akasaka odiava quando i suoi amici si mettevano a parlare di donne.

 “Per la miseria, che figa

 “Lo dici solo perché è in tv. Là fuori ce ne sono di meglio: ieri al lavoro è arrivata una con certe tette …”

 “Beato te. Io al lavoro trovo solo cinquantenni obese con culi inguardabili …”

 “La piantate di sparare cazzate?” questo fu il contributo di Yoshiro in quell’occasione particolare.

 Avevano deciso di pranzare tutti insieme da Akio, giusto per prendersi una pausa e trovarsi un po’ dopo aver lavorato o studiato come muli per sei giorni; erano fermamente piantati lì da tre ore. Hajime mezz’ora prima si era ricordato che a quell’ora davano una trasmissione stupidissima, piena di gossip assurdo, una buona occasione per farsi due risate, e tutto era andato bene, finché non era comparsa la valletta, suscitando le reazioni di cui sopra. Ma questa non era l’unica occasione in cui simili conversazioni erano state tenute, come illustrato dalle reazioni degli altri quattro amici.

 “Auff!”

 “Akasaka-kun, che palle, non si può mai fare un commento che –“

“E poi sei single. Com’è che tutta la tua lode delle donne forti non te ne ha procurata manco una?”

 “Pfff … sei un poco represso, o sbaglio?”

 “Neanche una donna fosse una proprietà, o un premio” replicò Yoshiro, per nulla divertito. Era possibile che quella mandria di imbecilli, che per qualche caso la maggior parte del tempo gli stavano simpatici, riuscissero ad essere improponibilmente cafoni non appena l’argomento ‘donna’ passava per l’anticamera dei loro piccoli cervelli?

 “Davvero non siete capaci di considerarle esseri umani vostri pari, vero?”

 “Eddai … è ovvio che sono esseri umani, però se sono cesse sono cesse”

 “E voi avete mai provato a mettervi nei panni di una di queste ‘cesse’? Avete mai pensato a cosa voglia dire essere giudicata ogni volta che metti piede fuori dalla porta di casa, solo perché gli uomini si arrogano il diritto di decidere chi è bella e chi no, e ne fanno il punto di partenza per giudicare tutta la tua persona? Tu che ti sei lamentato delle ‘cinquantenni coi culi grassi’: hai mai provato a immaginare cosa voglia dire andare al lavoro ed essere giudicato per il tuo aspetto invece che per le tue capacità?”

 “No, non lo sappiamo, e non lo sai neanche tu, a meno che non abbia fatto un’operazione di cambio di sesso prima di conoscerci”

“Stiamo solo commentando la bellezza. Non è niente di che, è solo l’opinione dei nostri occhi”

 “Per dirla come la direbbe il Buddha, i vostri occhi sono scemi, e i vostri cervelli non li superano. Non state facendo né lo sforzo di immaginazione necessario a capire come debba essere la vita di una donna, né quello intellettivo necessario a capire che la vostra ‘innocente opinione’ è manipolata apposta”

“Manipolata? Da chi? Da una cospirazione del governo? La società corrotta?”

“Io voto per la cospirazione giudaico-massonica-“

“Vi garberebbe dedicare i neuroni a elaborare qualcosa che possa non essere definito ‘puttanata’? Quello che sto dicendo, è che la ‘vostra opinione’ è la stessa con cui giornali e tv ci martellano ogni santo giorno. Non è davvero ciò che voi ritenete bello, è ciò che la società dice che sia bello. E cosa sarebbe, poi, questo ‘bello’? La donna magra ma con curve abbondanti nei posti giusti. Ma vi rendete conto di che immagine dannosa sia? È praticamente impossibile raggiungere quelle proporzioni senza chirurgia, le tipe in tv sono ritoccate, le donne ci provano lo stesso a raggiungere quei livelli, perché non possono fare due passi senza che il loro corpo sia giudicato da un uomo, e muoiono di disturbi alimentari”

“Sì, però –“

 “È una manipolazione crudele del corpo femminile, lo riduce al compito di ‘sedurre’ e basta. Gli nega la sua naturalezza e creatività, lo riduce a una dimensione di se –“

 “È davvero necessario che tu stia qui a insultarci?” ribatté Hajime.

Yoshiro capì che quella davvero non era giornata. I suoi amici erano in piena modalità di idiozia. Non sarebbe servito a nulla parlare con loro. Per quanto ci fosse affezionato, semplicemente non erano abbastanza intelligenti da poter afferrare certi argomenti.

“Ho solo pensato che visto che voi state qui a insultare le donne, qualcuno dovrebbe fare un minimo la loro parte-“ risatine. “Ma se siete troppo sensibili per poter ascoltare un’opinione contraria, faccio un favore a tutti quanti. Ci si sente”

 Fuori c’era una nebbia spaventosa per quell’ora del giorno. Che giornata deprimente. A Yoshiro non piaceva litigare a quel modo con i suoi amici, ma certe cose che dicevano … non facevano altro che lasciarsi controllare, seguire tutto quello che imponeva il gregge e non pensare nemmeno che forse ogni questione aveva diverse sfaccettature.

 “Mi scusi” mormorò una voce femminile alle sue spalle. Lui si voltò a guardarla: era una ragazza che i suoi amici non avrebbero esitato a definire ‘figa pazzesca’.

 Era piuttosto esile, probabilmente non troppo abbondante nel seno o nel sedere come la società avrebbe voluto, ma lei cercava di enfatizzare quel che aveva con un paio di shorts di jeans e una camicetta decisamente attillata e scollata. Aveva la pelle davvero molto chiara, da bambola, i capelli lunghi e neri in un taglio a hime, gli occhi sorprendentemente chiari e i lineamenti del volto delicati (anche se portava uno strato di trucco decisamente abbondante). Almeno, i lineamenti che si potevano vedere: tutta la zona del viso sotto al naso era coperta da una mascherina per il raffreddore.

La ragazza continuò a parlare, rivolgendogli una domanda: “Lei pensa che io sia bella?”

Yoshiro sentì una pietà infinita crollargli addosso, come se qualcuno gli avesse gettato un peso sulle spalle. A questo punto si era arrivati? La società aveva martellato le sue immagini di seduttività forzata in testa a quella povera ragazza fino a quei livelli, rendendola tanto insicura e ossessionata dal suo aspetto da mandarla in giro a chiedere a perfetti estranei la loro opinione in merito?

 No, era inaccettabile, crudele. Yoshiro doveva fare qualcosa. Doveva ridare un minimo di autostima a quella poverina, insegnarle a pensare bene di sé. Era finalmente la sua occasione di poter fare qualcosa, di aiutare qualcuno.

“È davvero così importante?” le chiese di rimando.

 “Come, prego?” replicò lei, confusa. Era la prima volta che qualcuno le diceva che la bellezza non era importante? Che tutte le potenze celesti li aiutassero.

“È davvero così importante che ti guarda ti giudichi bella? Perché non ti guardi tu stessa, e decidi tu la tua bellezza personale?”

Lei sembrò ancora più confusa, ma, e questo gli dava una scintilla di speranza, anche un pochino incuriosita. “Ma lei cosa pensa di preciso?”

 “Penso che il mondo ti abbia trattata male. Penso che ti abbiano dato un’immagine sbagliata di come dovresti essere. Guardati adesso: sei qui, in paramenti più seduttivi possibile, a elemosinare l’approvazione di un perfetto estraneo. È davvero questo che pensi di meritare?”

La ragazza sgranò appena gli occhi e lo fissò per diversi secondi, in assoluto silenzio. Poi, non poteva esserne sicuro a causa della bocca nascosta, ma gli occhi parvero dirgli che lei avesse sorriso.

 “È la prima volta che sento una risposta simile” mormorò.

“Fai spesso questo genere di cose?” chiese Yoshiro, mentre un’altra ondata di pietà lo assaliva, insieme ad altre emozioni: orgoglio di aver fatto qualcosa di buono, e appena un pizzico di felicità, per aver ricevuto quel sorriso.

 “Abbastanza, sì” rispose lei. “Non va molto bene, vero?”

“Hm, non per offenderti, ma no, direi proprio di no” Un accenno di idea fece capolino nella mente di Yoshiro, magari non completamente appropriata, ma se proprio voleva aiutare gli serviva tempo.

 “Senti, se non hai altri impegni, ti va di parlarne davanti a un aperitivo?”

 

Lei si chiamava Akemi Hojo e due mesi dopo quella prima conversazione era la sua fidanzata. Sotto tutto quello strato di insicurezza, sapeva essere una persona incredibilmente dolce e gentile, un qualcosa che toccava direttamente il cuore di Yoshiro; una deliziosa persona che la società aveva abbattuto e represso, ma sarebbe potuta tornare a fiorire; e il ragazzo si entusiasmava a sognare di questa prospettiva, come si entusiasmava per la sua risata leggera, i suoi gesti gentili e quel luccichio negli occhi che, anche se non poteva vedere la bocca di lei, gli diceva che gli stava sorridendo.

 Yoshiro aveva subito avuto modo di notare un paio di cose a proposito di lei: che malgrado il suo abbigliamento provocante, era una persona molto tradizionalista, e che non si toglieva mai quella mascherina. Mai: nemmeno in casa, come aveva scoperto quando si era trasferita a vivere da lui, nemmeno per baciarlo, nemmeno a letto.

Era stato presto abbastanza chiaro che non era per il raffreddore: lei si era limitata a dire che era a causa di un problema alla bocca, senza elaborare troppo. Yoshiro per il momento lasciava correre, ma era chiaro che avrebbe dovuto presto affrontare quella faccenda. Doveva scoprire se si trattava solo di una delle fisse di bellezza della ragazza, perché era convinta di avere delle brutte labbra (e in quel caso la mascherina doveva sparire) oppure c’era un problema vero, come una cicatrice o una deformazione; in quel caso doveva insegnarle a non avere vergogna del proprio aspetto, anche se non voleva mostrarlo a tutti. Fino a quel momento, si sarebbe adattato a baciare della stoffa.

Il problema più grosso era l’atteggiamento tradizionalista. Akemi era sempre molto remissiva, non alzava mai la voce, neppure quando discutevano, e aveva ammesso di non lavorare: si impegnava a tenere la casa, da quando si era trasferita da lui, e anche se adesso l’appartamento era sempre impeccabile, non era esattamente il comportamento di una donna forte. E ne sembrava contenta, delle sue capacità a pulire così bene, anche!

Inoltre, i suoi hobby erano troppo stereotipatamente femminili per essere genuini: amava cucinare e cucire. Davvero, ma chi era quel pazzo che l’aveva tirata su? Yoshiro doveva mettere giù una lista di nuove attività da illustrarle al più presto possibile.

E poi, ovviamente, c’era la vecchia ossessione per la bellezza. Con suo enorme disappunto, anche se Akemi aveva fortunatamente smesso di vagare per le strade chiedendo a tutti opinioni sul suo aspetto, continuava a curarsi in modo maniacale. Gli abiti che indossava, per dirne una, anche se meno provocanti della mise in cui l’aveva incontrata, erano ancora piuttosto vistosi; si truccava ogni mattina; ed era a dieta stretta. Quello era l’aspetto più sconcertante: non mangiava davvero poco, era che mangiava solo frutta. Niente carboidrati, pesce o carne: solo ed esclusivamente frutta.

 La situazione doveva cambiare, doveva adottare un’alimentazione vera. Era una bella cosa che non fosse anoressica, ma se mangiava a quel modo, una qualche ossessione con la linea c’era. Lui amava Akemi, questo era certo; ma le cose non potevano andare avanti così, era per il suo bene.

 “Dovresti cercarti un lavoro” le aveva detto a circa un mese da quando si era trasferita lì. “Saresti indipendente, e avresti una vita molto più ricca di gratificazioni. Saresti davvero forte, invece di dipendere da me per tutte le tue spese. Anche perché siamo in due, e l’unico che porta qui lo stipendio sono io; se poi aggiungiamo tutti i tuoi trucchi e vestiti vari -”

 “Scusami” si affrettò a mormorare lei. Sembrava genuinamente imbarazzata e a disagio. “Sono stata egoista. Mi dispiace, non volevo ferirti. Mi accompagni tu a una di quelle agenzie o …?”

 “Perché mi chiedi sempre aiuto o di accompagnarti da qualche parte? Dovresti farcela da sola” replicò Yoshiro. Le parole gli sfuggirono un po’ più brusche di quanto avesse voluto, ma Akemi non sembrò prenderne nota; quindi lasciò correre.

La sua ragazza fu di parola: oltre che nelle solite pulizie, passò i giorni successivi a consultare agenzie di collocazione, e alfine, quando lui tornò al suo impeccabile appartamento una sera, lei gli diede trionfalmente la notizia della sua occupazione. Impiego: cameriera.

“Non sei davvero riuscita a trovare niente di meglio?!” le chiese lui esterrefatto.

Lei fece un mezzo passo indietro, parve imbarazzata, se anche arrossì non si notò per via della mascherina. “A me va bene, non sembra male. E poi non ho una laurea”

“Te ne procuri una” replicò Yoshiro. “Puoi farlo anche mentre lavori. Lo so che il test di ammissione è un inferno, ma se ti impegni e ti organizzi bene -”

 “Ma a me va bene questo lavoro” mormorò lei. “Non sono molto il tipo della studiosa, e poi tra studio e lavoro avrei poco tempo per la casa -”

“Ma cosa c’entra la casa!” esclamò Yoshiro, allibito. “Qui stiamo parlando del tuo futuro, di una carriera redditizia e soddisfacente, che ti faccia guardare con ammirazione dal pubblico! Davvero vuoi buttare via tutto questo e limitarti a servire ai tavoli, solo per tenere una cazzo di casa pulita?”

 Akemi annuì in modo impercettibile, probabilmente inconsapevole.

 “Ma cosa c’è che non va in te?!”

 Lei guardò a terra, e Yoshiro si sentì un po’ in colpa.

 “Senti, Akemi, io ti amo. È per questo che voglio vederti pienamente felice e realizzata. Tu ti sei imprigionata in queste costruzioni mentali che la donna dovrebbe accontentarsi di poco, dedicarsi alla casa e valutare il proprio aspetto come unica cosa importante di sé. Non è così che dovresti essere. Tu dovresti essere sicura di te, forte, per nulla spaventata di provare a fare qualcosa che dicono che solo gli uomini possono fare. E abbiamo già parlato a lungo della bellezza, vero? Basta voler piacere ad ogni costo. E non mangiare più tutta quella frutta, hai preparato la tenpura, perché non ne mangi anche tu?”

“Ma a me la frutta piace” obiettò lei.

 “Non è questione che ti piaccia o meno, è che non devi essere fissata così tanto sulla magrezza! Le forme delle donne sono un simbolo di fertilità: perché negarle? Bisognerebbe tornare al Paleolitico, lì si che la creatività delle donne era rappresentata bene …”

 Akemi si limitò a fissarlo senza dire nulla; quando si mise davanti il solito piatto di frutta senza proferire verbo, Yoshiro dovette lottare contro l’impulso di scagliarle il piatto contro la parete.

 

Quella serata fu come una premonizione: il lavoro di Akemi non migliorò affatto le cose, se non nel senso prettamente economico.

 Certo, il ragazzo non doveva più spendere per due, e questa era già una gran cosa, ma la sua fidanzata non aveva fatto un passo verso la ricerca di un’università. Continuava a mangiare frutta. Continuava a comprare vestiti vistosi, trucchi e trattamenti di bellezza, e Yoshiro si rendeva conto che in quel frangente il nuovo lavoro di Akemi era stato uno svantaggio: non pagava granché, ma dividendo le spese domestiche con lui, gliene restava abbastanza da spendere, e poteva comprare le sue cose senza dover chiedere a lui.

Era dannatamente frustrante. Lui si era impegnato fin dall’inizio di quella relazione a farla diventare più forte e sicura di sé, e lei perché non accettava di diventarlo, in cambio? Perché era così ostinata a restare debole? Non si rendeva conto che ci rimetteva e basta?

“Ma chi te lo fa fare?” provò a chiederle una mattina.

 Lei si stava stendendo l’ombretto sulle palpebre, e non si voltò neppure a guardarlo, rispondendo con un semplice “Uh?”

“Truccarti, intendo” replicò lui. “Non puoi farmi davvero credere che a te piaccia passare mezz’ora tutti i giorni a districarti tra polveri e creme e matite varie, trovare sempre e assolutamente la giusta sfumatura in tutto, non voler uscire se non sei assolutamente impeccabile … perché questa tortura? Non crollerà il mondo se esci come sei. È il tuo vero aspetto naturale quello che conta”

 “Ma a me piace-”

 “Truccarti?!

 “Sì. E’ divertente alterare il mio aspetto-”

“E perché devi farlo? Perché non puoi piacerti così come sei?”

 “Perché mi trovo meglio con il trucco”

“Sei davvero patetica” mormorò lui. Lei si fermò, immobile, la mano con il pennellino a mezz’aria. “Sei talmente ossessionata con la bellezza, che non riesci neanche ad accettare il tuo aspetto naturale”

 “Non ho detto che-”

“E se ti piaci, allora è anche peggio, perché significa che lo stai facendo per qualcun altro. Perché te lo dice la società, e tu la segui come una pecora, senza neppure provare a pensare con la tua testa. Davvero, non riesco a immaginare esseri più miserabili di quelli come te”

Akemi rimase immobile per qualche istante ancora, la mano con il pennellino che tremava leggermente (forse l’avrebbe messo giù … forza, puoi ancora farcela, abbassa la mano …) e poi riprese a passarlo sulle palpebre, come se Yoshiro non avesse detto nulla, e prese la matita per gli occhi subito dopo.

 Yoshiro uscì dalla stanza, andò in bagno, cincischiò per far credere che avesse avuto un qualche contrattempo, aspettò che Akemi uscisse per il turno di lavoro, poi tornò nella loro stanza, prese i trucchi e li buttò nella spazzatura. Come si dice, la parola è un suono, l’azione è un tuono: forse Akemi avrebbe finalmente recepito il messaggio.

Uscì aspettandosi pienamente la sfuriata per il suo ritorno a casa, e preparandosi intanto le risposte più argute possibili. Tornò a casa, e Akemi non disse nulla di diverso dal solito.

 Lo salutò come tutti i giorni, gli chiese come fosse andata al lavoro, ascoltò le sue storie sulle imprese di amici e colleghi, e servì la cena (ancora quella maledettissima frutta!). Probabilmente non era ancora entrata nella stanza, non era possibile che lei fosse così calma dopo quello che lui aveva fatto.

E invece era possibilissimo: quando lui stesso entrò nella stanza, per prendere i vestiti per stare in casa, trovò un nuovo set di trucchi sulla mensola dello specchio. Yoshiro li fissò immobile per qualche istante, poi gli sfuggì una risatina.

 Quella? Quella era la soluzione che Akemi aveva trovato? Assurdamente patetico, ridicolo … che donna debole. Certo, lui le voleva bene. Stava male anche lui nel vederla così. Ma anche questo suo rifiuto di rispettare sé stessa … diamine, era la legge più antica del mondo: se tu non rispetti te stesso, perché dovrebbero farlo gli altri? La sua ragazza, per quanto fosse una persona indubbiamente dolce, gentile e affettuosa, aveva bisogno di una spina dorsale, e di un cervello suo. E se erano necessari metodi più rudi per farla svegliare fuori, ben arrivassero.

All’inizio l’operazione non gli riuscì così bene. Era, ironicamente, troppo premuroso con lei. A volte entrava con le scarpe ancora sporche sul suo bel pavimento lucido, ma faceva dietrofront e metteva le ciabatte subito dopo; non riusciva a criticare la sua cucina e i suoi lavori di cucito più che con qualche mugugno. Era solo sporadicamente che faceva ‘per sbaglio’ rovesciare le sue varie creme per il corpo e i suoi altri trattamenti.

Se la cavava molto meglio quando si arrivava al lavoro di lei, o all’aspetto fisico, probabilmente perché lì c’era davvero da criticare parecchio.

 “Un mio amico si sposa tra qualche giorno, la moglie è preside di un’università nel Kanto. Ha fatto proprio un bel colpo, fortunato lui!” Silenzio, a questa.

“Certo che, quando guardo quei tizi in tv con le loro fidanzate in carriera, fianco a fianco come dei veri pari … mi chiedo come dev’essere. Probabilmente è una sensazione fantastica, povero me!” Lieve movimento di mascherina, come se Akemi si stesse mordendo il labbro lì sotto.

“Sai, alcuni amici mi hanno invitato fuori a cena. Vorrebbero rincontrare anche te, gli hai fatto una buona impressione quelle prime volte … però non gli ho detto che fai la cameriera, ecco. E alcuni di loro porteranno le fidanzate … poverette, non vorrei davvero essere nei loro panni, a confrontarsi con un’altra donna dalla mentalità così ristretta” Altro movimento di mascherina … idea. “Inoltre, sono tutte ragazze molto alla mano: belle floride, e casual. Non credo che saresti il tipo di compagnia adatta a loro” Nessuna reazione.

Col tempo, imparò che doveva partire da questo tipo di critica per sferrare attacchi più diretti e avere una qualche reazione. Certo che quel sushi era proprio insipido … qual era il problema, era troppo occupata a pensare a che nuovo vestito prendere per controllare la cottura ...? E non serviva che gli passasse la salsa di soia, non avrebbe migliorato granché.

Il suo cucito … eheheh … quel disegno era piuttosto ridicolo. Da che rivista l’aveva copiato? Seriamente, stava iniziando a perdere anche in creatività. E anche il suo lavoro in casa era abbastanza scadente che le impronte infangate o piene di terra non avrebbero alterato molto. E poi quei suoi prodotti, lasciati sempre così in giro, ormai non ci si accorgeva più nemmeno di rompere il barattolo.

Certo che, anche se prima c’era qualcosa in cui era proprio bravina, stava peggiorando visibilmente. L’ossessione per il proprio aspetto si stava facendo sentire, eh? Del resto, lei non era abbastanza intelligente e creativa da fare qualcosa di diverso da quello che la società le ordinava, figurarsi se sapeva realizzare qualcosa per conto suo. Stava iniziando a perdere tutto il suo valore come persona … cioè, sempre che qualche valore ce l’avesse fin dall’inizio, s’intendeva.

Recentemente, stava davvero iniziando a dubitarne. Forse lui si era fatto accecare troppo da quell’atteggiamento tenero e patetico, e si era trovato con un perfetto ideale consumistico attaccato addosso. Proprio lui, che aveva sempre amato la libertà del pensiero! Che destino ironico, eh? Un amante della vita, che andava a mettersi con qualcuno la cui esistenza era talmente legata a ogni singola legge sociale che, se le avessero tolto questi elementi stereotipati, lei sarebbe potuta essere morta e non avrebbe fatto nessuna differenza.

Lui però non era un bastardo: capiva che ogni tanto la vita non va sempre bene, e accettava quel che si era ritrovato: un modellino economico di tutto quello che non andava nelle donne, senza alcun valore come persona.

 

E poi ci fu la sera in cui Akemi comprò un nuovo kimono.

 Yoshiro non ci poteva credere. Dopo tutto quello che si era ingegnato di dirle, tutto quel tempo a elucubrare nuovi modi di attaccare la sua ossessione per l’aspetto fisico, lei continuava a comprarsi vestiti? Adesso basta.

La parola è un suono e l’azione è un tuono, si era detto; ma in realtà aveva parlato più che agito. Adesso era il momento di dare ad Akemi una sveglia pratica. Aspettò che la sua ragazza fosse andata in cucina a controllare lo stato di cottura degli spaghetti e dei condimenti, e poi prese le forbici per il lavoro di manutenzione, il kimono nuovo ancora nel sacchetto del negozio, e andò nella loro stanza. Riip, riip, pianissimo, il kimono fu a brandelli nel giro di una manciata di minuti.

 Poi aprì l’armadio. Un foulard: riip, riiip. Una maglietta: riiip, riiip. Una gonna lunga con lo spacco: riip. Gli shorts che indossava quando si erano incontrati per la prima volta … riip, riiiiip, strak. Una giacca di seta: riiiip, riiiip. Un’altra gonna di jeans … era difficile da tagliare … oho.

 Akemi stava sulla porta, gli occhi fissi su di lui. Lui fece un sorrisetto.

“Era proprio necessario?” mormorò lei.

“Mi andava” replicò lui. “Tu ti impegni a non valere nulla. Perché dovrei avere una qualsiasi considerazione di te?”

 “È il mio modo di essere. Non c’è nessun impegno a fare qualsiasi cosa”

 “Sei così stupida che non ti accorgi neanche che non è il tuo modo di essere. È quello che tutti gli altri ti dicono che deve essere te. Ma immagino che questa sia la naturale conseguenza del non avere un cervello: imitare quelli che ce l’hanno”

Akemi lo fissò ancora, qualcosa che Yoshiro non capì bene le passò negli occhi, guardò a terra un istante, poi ritornò lo sguardo su di lui. “Te lo chiedo di nuovo. Pensi che io sia bella?”

 Yoshiro scoppiò a ridere. Seriamente? Dopo tutto il suo discorso, quello di cui Akemi si preoccupava era di essere trovata bella? Ridicolo.

Sì, c’era da ridere, e anche un po’ da piangere. Tutti i suoi sforzi, buttati via così! Ma forse era una prova necessaria. Forse Akemi davvero non valeva nulla.

Lui si alzò, guardandola dritto negli occhi, cercando di convertirvi tutto il suo disprezzo. “Come vuoi” praticamente le sputò in faccia. “Eccoti il tuo indispensabile giudizio altrui. Sei bella. Contenta?”

Akemi si portò la mano al volto e si abbassò la mascherina.

Non aveva una bocca. Aveva un gigantesco squarcio simile a un immenso sorriso folle, che le raggiungeva entrambe le orecchie. I bordi erano frastagliati e insanguinati, tutta l’arcata dentale e i muscoli del volto chiaramente visibili.

Yoshiro non fu capace di altro che di fissarla, mentre si sentiva come se tutto il sangue gli fosse estratto dalle vene. Non riuscì a registrare neppure le forbici che ora Akemi teneva in mano.

 “E adesso, sono ancora bella?” chiese lei.

Yoshiro urlò.

 

Lei ripulì le forbici dal sangue e si riaggiustò la mascherina sul volto. Tutto aveva pensato, durante quel primo aperitivo, tranne che sarebbe andata a finire così.

Di tutti quelli che le avevano dato la ‘risposta confondente’, Yoshiro era stato quello che più l’aveva impressionata. Assenza di giudizio non per ingannarla (non aveva chiaramente capito chi lei fosse), ma per principio. Le aveva offerto una prospettiva cui lei non aveva mai pensato.

E poi se n’era innamorata. Certo che l’amore sembrava davvero non portarle altro che guai! Yoshiro poi … lei non sognava da tanto tempo, ormai, ma ricordava ancora certi sogni che faceva: all’inizio erano piacevoli, poi all’improvviso, o gradualmente, succedeva qualcosa di orribile, e diventavano incubi da lei si risvegliava urlando.

Quegli otto mesi di relazione, di vivere con quell’uomo e di fermare la sua eterna domanda, erano stati come uno di quei sogni. Ma adesso non stava urlando. Al contrario, si sentiva completamente svuotata ed apatica. Probabilmente, in quegli ultimi tempi di sentirsi ripetere che non valeva nulla, si era accorta, inconsciamente, che le cose non sarebbero andate a finire bene, che l’epilogo, anche se posticipato, sarebbe stato uno dei soliti.

Adesso voleva solo uscire, e per carità, lasciar perdere quella faccenda. L’autunno si stava riavvicinando, presto le giornate nebbiose si sarebbero fatte più frequenti; chissà cosa le avrebbe risposto il prossimo.

 

 

 

 

 

 

Ladies & Gentlemen,

e per festeggiare la fine degli esami universitari di questo semestre, una storia dell’orrore! Cosa c’è di più consono?

Ironie a parte, un paio di crediti alle due fonti di ispirazione della storia: la leggenda giapponese della kuchisake-onna, e le lezioni di antropologia culturale cui ho assistito, durante le quali ho imparato molte cose, nessuna delle quali aveva a che vedere con l’antropologia culturale. Ora, spero che vogliate recensire: muoio dalla curiosità di sapere cosa ne pensiate della storia. Ma in ogni caso, grazie anche solo per averla letta, e spero davvero che vi sia piaciuta.

 

 

  
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