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Autore: Paper Girl    27/02/2017    3 recensioni
John incastra la lingua tra le labbra un istante soltanto, cominciando a respirare pianissimo, poi. “Volevo regalarti un mazzo di giacinti, ma sono certo che li avresti trovati assolutamente inappropriati. Né li avresti mai accettati” esala. La voce bassa, più roca del solito. Le membra tese, il mare dei suoi occhi pronto a farsi corrompere dalla tempesta. Le sue pupille sono dilatate, le guance un po’ più scure del solito, e i suoi polpastrelli pizzicano nel ricordare la dolce sensazione del suo polso accelerato sotto le dita.
“E sarebbe stato imbarazzante, così..” le sue parole si spengono lievi mentre solleva il mento, esponendo la colonna invitante del collo al suo sguardo. “Questa è la mia seconda opzione migliore” le sue guance sono deliziosamente arrossate, accese da una punta d’imbarazzo. [...]
Aggrotta le sopracciglia, mentre qualcosa nel suo petto si muove fastidiosamente. “Lo avrai scoperto in un patetico tentativo di farti perdonare da una delle tue scialbe ed insipide, nonché numerose, ex. ”
Quel fiume di parole abbandona la sua bocca prima che abbia il tempo di mordersi a sangue la lingua, porre una museruola sulle fauci della sua gelosia.
[Death!Fic][Sherlock/John]
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il suono sordo della sua schiena che urta contro la terra dura spezza per un istante soltanto la quiete notturna.
I suoi ricci, con il loro tono scuro simile a quello della terra umida, contrastano con il manto erboso che fa da materasso al corpo vuoto e stanco.
La lapide nera , lucidissima, lo sovrasta.
Il nome inciso con cura su quella superficie levigata è un promemoria fastidioso, una scheggia dura, dolorosamente incastrata tra la carne viva e la pelle sottile. Simbolo e monito di una colpa imperdonabile che gli sta smantellando l’anima pezzo  dopo pezzo. Intonaco che si stacca dai muri, dita frenetiche nello smembrare vecchie parole d’amore.  L’odore dei crisantemi inquina l’aria ad avvolgerlo,  solleticandogli il naso, il fondo dello stomaco in modo fastidioso dandogli la nausea, graffia le pareti fragili della gola come una tosse convulsa.  Serra la presa intorno ai corpi sottili dei giacinti pallidi come la sua epidermide, mentre il loro profumo si perde, si confonde a quello dei crisantemi portati ormai una settimana fa dalla signora Hudson.

Vorrebbe rimproverarla per quella banalità dolorosa.

Nell’osservare quelle foglioline inermi e sciupate si chiede, ancora una volta, non troppo distrattamente, se  quella spessa coltre che l’avvolge con tanta forza da rischiare di soffocarlo si sarebbe mai dissolta. Se quel sentimento capace di destare tanta meraviglia, ispirare artisti e vagabondi sarebbe mai appassito così come quei crisantemi. Avrebbe un giorno smesso di torturarlo, distrarre la sua  intelligenza, dare ragione a Mycroft ed ai suoi avvertimenti.

Non sa esattamente quando sia successo.
Quale sia con precisione il  momento in cui quell’insieme assurdo di reazioni chimiche, punto d’origine dei sentimenti, abbia preso il sopravvento sulla ragione  fredda e pura che ha sempre posto sopra ogni cosa. Amato e venerato al pari di una divinità sacra.

Forse è accaduto lo stesso giorno in cui le sue iridi cerulee hanno incontrato i mari glaciali, invitanti e tentatori, custoditi dalle ciglia scurissime e fragili di Irene. La sua bocca rossa e le curve perfette del suo corpo.  Il suo sguardo predatore e il sorriso accattivante, fauci di una trappola perfetta. Eppure ogni molecola del suo corpo vibra in modo convulso, protesta contro quella verità fittizia.
La crepa  infinita e dolorosa, artefice della sua rovina, ha origini ancora più antiche. Ha il suono di un nome più comune, timido, così  banale da rischiare quasi di passare inosservato.
La Donna, con quel suo titolo altisonante,  è stata forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Ma quello stesso  vaso era stato pian piano riempito ancor prima del loro incontro,  sino al suo limite ultimo, da qualcuno completamente differente, inaspettato, che magnificamente veste quel nome silenzioso e quieto.

Cela lo sguardo alla volta stellata, accostando l’orecchio destro alla terra umida.
Le ciglia sfarfallando contro gli zigomi affilati, le dita s’insinuano nel terreno ferendolo senza pietà alcuna. Il cuore continua a battere, a tenerlo in vita con appena un po’ più di esuberanza.  
Gli ultimi residui della cocaina che gli corre nelle vene non riescono a mitigare il dolore che lento e crudele gli corrode il petto, a rendere meno fastidioso ogni respiro, ma. È sufficiente a convincere la ragione asettica e spietata a lasciare andare le redini del suo corpo, abbattere per qualche ora soltanto il rigore di cui è da sempre prigioniero consenziente. Quell’ammasso d’ossa e muscoli ha ora un nuovo padrone. Un padrone cattivo, spietato che lo condurrà alla distruzione.  

Le sopracciglia scure si aggrottano in segno di concentrazione.
I suoi sensi offuscati non riescono a cogliere quel suono meraviglio che n’è il suo genio n’è il suo violino saranno mai capaci di riprodurre. La rabbia, seppellita a forza in fondo allo stomaco, si libera dalla sua tomba. Risale ustionando l’esofago, graffiando le  pareti fragili  della  sua gola riarsa. Torna indietro insieme alla bile che, come un’amabile damigella con le dita dolcemente avvolte intorno al velo, ha accompagnato la sua risalita.  Nel petto trova la sua stasi per qualche istante soltanto, poi esplode in mille pezzi  come un prezioso oggetto di vetro in collisione con un’asettica parete. Le sue schegge rimbalzano ovunque, gli si conficcano dentro strappandogli un singhiozzo straziato. Serra le palpebre, mentre il profumo dei giacinti ancora gli solletica il naso, sottofondo prefetto per quel susseguirsi d’immagini sfuggite alla morsa crudele della mente.
 
Sherlock calpesta il marciapiede umido di pioggia quasi svogliatamente.
Il corpo abile a mentire, il cuore attore magnifico nel fingersi un semplice organo schiavo della mente. Ma se c’è qualcosa in cui John Hamish Watson è sempre stato abilissimo, è quella di lasciare gli attori del suo teatro privi di maschere. Spogliarli dei loro costumi di scena, costringerli ad avvicinarsi almeno un po’ a ciò che realmente sono. Con lui nessuno dei suoi spettacoli è  mai campione d’incassi al botteghino.

Dunque  non si stupisce quando la curiosità pizzica, con le sue dita lunghe ed affusolate, bianchissime,  le sue corde vocali costringendo la bocca a piegarsi, a liberare suoni inattesi. Violoncellista e violoncello. 

Arresta la sua avanzata. Le mani affondate nelle tasche del suo cappotto pesante, scuro come il mondo da cui tenta tanto disperatemene di prendere le distanze.
La figura davanti a lui, distante solo di pochi passi, si ferma a sua volta. Il suo sguardo esita sulle spalle strette  e solide dell’altro uomo, avvolte in quella vecchia giacca di pelle da cui sembra non riuscire a separarsi.

Finalmente si volta ed i loro occhi sono così liberi di cercarsi a vicenda.

Sherlock gli rivolge uno dei suoi sguardi e John come sempre riesce a leggervi dentro con sconvolgente facilità.
Le sue iridi sono pagine pallide perfettamente ordinate, le piccole pagliuzze che le abbelliscono sono righe tracciate con estrema accuratezza. Ed in esse è l’unico in grado di legge frasi ordinatissime, chiare, tracciate da una scrittura impeccabile, elegantissima. Inclina il capo  nella sua posa stoica e quella domanda  malamente celata rimbalza tra loro.
John nasconde le mani dietro la schiena. Le sue labbra si arricciano e Sherlock sa già, dirà qualcosa che lo imbarazza profondamente, lo fa sentire nudo e vulnerabile. Un fragile oggetto di vetro tra le mani dell’uomo più sbadato al mondo. Così resta in silenzio,  contando le piccole rughe sulla fronte del dottore.

John incastra la lingua tra le labbra un istante soltanto, cominciando a respirare pianissimo, poi.  “Volevo regalarti un mazzo di giacinti, ma sono certo che li avresti trovati assolutamente inappropriati.  Né li avresti mai accettati” esala. La voce bassa, più roca del solito. Le membra tese, il mare quieto dei suoi occhi pronto a farsi corrompere dalla tempesta. Le sue pupille sono dilatate, le guance un po’ più  pallide del solito; suoi polpastrelli pizzicano nel ricordare la dolce sensazione del suo polso accelerato sotto le dita.
“E sarebbe stato imbarazzante, così..” le sue parole si spengono lievi mentre solleva il mento, esponendo la colonna invitante del collo al suo sguardo. “Questa è  la mia seconda opzione migliore” le sue guance sono deliziosamente arrossate, accese da una punta d’imbarazzo.
Solo allora Sherlock solleva gli occhi sul suo viso per portarli nel punto esattamente sopra la sua testa, lo stesso che John sta fissando in quel momento. Ad accoglierlo trova un manto di piccoli fiori pallidi, di una tenue sfumatura rosa, saldamente ancorati ai rami degli alberi che si protendono oltre la loro prigione di cemento e ferro battuto. 
La sua bocca si schiude appena incapace di trattenere un gemito di genuino stupore. Il suo genio corre veloce, quasi inconsapevole della bellezza proiettata dalla sua retina,  ricercando abilmente la risposta nascosta tra il tremolio impercettibile delle labbra di John, il legame tra i giacinti e le sue parole. Il cuore quasi incespica quando la mente, un secondo dopo, risolve l’enigma  e gli rivela la sua soluzione.
Quando tornano a guardarsi, l’imbarazzo ha completamente abbandonato il volto di John. Lo sta osservando rapito, gli occhi blu grandi e luminosi, desiderosi di mettersi alla prova, come sempre.  E forse, è proprio quel dettaglio a confonderlo.
 “Il Hyacinthus prende il suo nome  da un personaggio mitologico Giacinto, il giovane che Apollo tanto amava. La gelosia di Zefiro fece sì che Apollo stesso ferisse a morte il giovane e poiché non poteva risparmiargli quell’atroce sorte,  decise di trasformarlo in un fiore. Metafora interessante.”
“Bene Wikipidia, vedo che a casa fai i compiti” soffia John, le labbra strette tra i denti nell’attimo immediatamente successivo, nel tentativo di nascondere un sorriso. Non riesce ad impedirsi di prestare più attenzione del dovuto a quel piccolo gesto, all’avorio premuto contro la carne rossa, lucidissima.
Deve fraintendere quella sua esitazione, perché sta già ricominciando a parlare. “Ho letto in un blog sul giardinaggio prima di entrare nell’esercito. Pare siano i fiori ideali per chiedere perdono.”
Aggrotta le sopracciglia, mentre qualcosa nel suo petto si muove fastidiosamente. “Lo avrai scoperto in un patetico tentativo di farti perdonare da una delle tue scialbe ed insipide, nonché numerose, ex. ”  
Quel fiume di parole abbandona la sua bocca prima che abbia il tempo di mordersi a sangue la lingua, porre una museruola sulle fauci della sua gelosia.
John rotea gli occhi al cielo, ma questa volta non impedisce alle sue labbra di piegarsi in quella curva bellissima e rossa.
“Perché dovrebbe funzionare con me?” chiede allora, nascondendo l’assenza di un battito sotto un lenzuolo di scetticismo e ragione. Peccato abbia dimenticato l’esistenza degli squarci sulla sua superficie.
“Perché questa volta mi dispiace davvero.”
Il sorriso sulle labbra di John muore e così fa anche qualcosa nel petto di Sherlock. L’osserva nascondere le iridi sotto le palpebre mentre un dolore sottile, ormai familiare, prende a strisciare sotto l’epidermide, la fa formicolare in modo fastidioso.
“Di cosa ti dispiace?” si ritrova a chiedere prima di pensare d’impedirselo. Asseconda quell’ennesima follia che non fa altro se non avvicinarlo all’orlo di quel baratro in cui è impaziente di precipitare.
John si muove lentamente verso di lui annullando così l’esile distanza a separarli. E solo quando i respiro dolce di Sherlock gli solletica il viso, dà risposta alla sua domanda.
“Di averti spezzato il cuore”  soffia. La sua mano  risale sino a sfiorargli i capelli, le dita s’insinuano tra i ricci del ciuffo, scoprendogli la fronte. Sherlock chiude gli occhi a quel tocco, abbandonandosi contro il palmo della sua mano. Le sopracciglia corrugate in una smorfia di dolore, il cuore a rimpicciolirsi per permettere alle ossa della cassa toracica di proteggerlo meglio.
“Le tue scuse sono inutili. Ho saputo da fonti attendibili di non averne uno” mormora impassibile, mentre nella conchiglia vuota del suo corpo ,  la sua anima crolla pezzo dopo pezzo,  viene strappata via lembo dopo lembo.
“Tutti sappiamo che non è così. E se  anche fosse vero, in quel caso tu non saresti strafatto ed io non sarei qui” nasconde quelle parole dentro un sussurro appena udibile, mentre le sue dita corrono lungo la sua guancia, continuano a scendere per andare a solleticargli il collo.
Restano in silenzio. Sherlock nascosto dietro le palpebre chiuse, non può impedirsi di pensare che sia ormai  troppo tardi per smettere di tentare di scomporre molecola dopo molecola quei sentimenti apparsi all’improvviso. È troppo tardi persino per farsi ferire, ferirlo, crollare in pezzi e trascinarlo con sé.
I polpastrelli di John smettono di vezzeggiare la sua cute e lui si ritrova ad aprire gli occhi all’improvviso. Il respiro fermo in gola, il cuore immobile nel petto, completamente fuori dal suo sogno.
“Non voglio tornare ad essere l’unico consulente investigativo al mondo” dice, leggendovi in quella pausa un finale inevitabile, inatteso quanto indesiderato. Ma non lo guarda negli occhi mentre pronuncia quelle parole all’apparenza fuori contesto. Il cuore batte così forte nel petto da fargli male, lacrime non versate formano un manicotto intorno alla sua trachea impedendo al respiro di rincasare. Le braccia restano immobili lungo il tronco, l’organo cavo spera di riuscire a seguirne l’esempio.
“Non ce n’è mai stato un altro” mormora il dottore. La sua voce è ancora un sussurro, le sue mani sono tornate a vezzeggiare la pelle sottile del suo viso smunto.  C’è un sorriso mesto nascosto tra quelle sillabe.
Sotto quel tocco gentile il corpo di Sherlock vibra, incapace di restare entro i limiti imposti del suo costume di scena. Così senza aria, non può far altro che aggrapparsi a John.
“Ci sei stato tu” si sente dire, ormai completamente fuori dal suo personaggio. Le sue dita da violinista stringono  il maglione con forza, tormentano la lana pallida sino a deformare il perfetto intreccio dei fili usurati dal tempo. L’intonaco spesso si stacca dalle pareti della sua anima, lo lascia spoglio ed esposto.
“Certo che no, Sherlock. Immagina che disastro sarebbe stato.” Gli preme un sorriso ilare contro la sua guancia ispida, e  l suo fiato caldo gli solletica la pelle. “Le prigioni si sarebbero riempite di gemelli innocenti.”
Il vento si porta via quell’ammasso di consonanti e vocali. Le sue dita abbandonano la lana morbida del maglione, mentre le sue braccia si chiudono intorno alla vita di John. E c’è un “Non voglio lasciarti” nascosto in quel groviglio d’arti. Una supplica che non riesce a pronunciare, dolorosamente incastrata tra le pareti erose del suo esofago.
“Non devi farlo.”
John ancora una volta coglie il suono muto e le protegge dall’oblio che, affamato ed ingordo, vorrebbe inghiottirle. 
“Io sono con te sempre, ma. Devi smetterla con questa tua vena autodistruttiva, Sherlock.  Non risolverà nulla, non gioverà mai a nessuno.”
Torna a chiudere gli occhi, pensando distrattamente a quanto strani siano i meccanismi di autodifesa messi in atto da una mente spezzata.   Strano fenomeno quello dell’autoconservazione.
John strattona dolcemente i suoi ricci. Poi le sue dita scivolano al lato della tempia, tamburellando dolcemente contro la cute. Sherlock non si sottrae al suo tocco. Lascia che si prenda gioco di lui, si arrovelli per smantellare le sue convinzioni. Gode di ogni più piccolo tocco, se ne ubriaca, ben consapevole della violenta fine a cui sono destinati.  
“La ragione non ha tutte le risposte e spero non penserai davvero, il tuo scetticismo m’impedirà di darti una bella strigliata.”
Sherlock sorride.  Cambia l’angolo del viso e le loro labbra si sfiorano. L’osserva socchiudere le palpebre da sotto le ciglia, mentre il suo respiro leggero s’infrange contro la sua bocca.
È un bacio appena percettibile.  Effimero e fragile, nasconde dentro di sé tutte quelle parole, quei sentimenti che non sarà mai capace di pronunciare.
“C’è una cosa che devi fare per me,” la voce abbandona  le labbra pallide di John in un sospiro. Ha gli occhi lucidi e la pelle fredda. “Ancora un’ultima cosa” Respira il suo odore incurante del tremendo dolore che ognuna di quelle minuscole particelle gli provoca.   “Un ultimo miracolo, Sherlock, per me.”
Sherlock non è sicuro, ma crede di sentire lacrime bagnargli  il volto. John si solleva sulle punte, preme le labbra contro le sue in un altro bacio delicato, piccolissimo. Ma questa volta  non ha la forza necessaria per rispondergli.
Serra la mandibola mentre immagini differenti cominciano a danzare  dietro agli occhi. Riesce a vederlo; lì in piedi di fronte alla lastra scura, mentre supplica per un unico atto di clemenza, piange sui petali dei crisantemi pallidi, soffoca urla disperate contro il pugno chiuso. Mentre tenta di fuggire da quella casa infestata in cui  non c’è più nessuno che possa sottrarlo ai suoi demoni, salvare la sua anima mutilata. E ricorda con quanta fatica è riuscito impedirsi di seguire quel moto  nato all’altezza dello stomaco ed irradiatosi per tutto il petto, uscire allo scoperto e spazzare via quelle lacrime che il vento avrebbe seccato con il suo alito gentile. A soffocare quel qualcosa di fastidioso e doloroso, che con voce lasciva e provocatoria gli suggeriva di metter fine alla stupida farsa, interrompere quel gioco crudele.
 “Poteresti farlo per me? Smettila di essere morto con me” continua John, aprendosi in un sorriso meraviglioso nel tentativo di corromperlo, rendere accettabile quel suo imperativo, ma in verità è soltanto capace di far pentire ogni più piccola cellula del suo corpo di non essersi ancora spenta con lui.
Vorrebbe annuire, fingere di credere che quell’assurdo delirio dettato dalla cocaina sia in realtà veritiero, così da liberarsi di John e tornare a morire in santa pace. Ma la verità è che non vuole ingannarlo ancora, né tanto meno vuole liberarsi di lui. Resta in silenzio incapace di slacciare i loro sguardi, di lasciarselo scivolare tra le dita. Spaventato da quella realtà fatta di braccia vuote, solitarie.
“Non ci si abitua mai a questo tipo di assenza. La gente dice che si va avanti, che dopo un po’ smette di far male. Ma non è così. Non smetterà mai di farti male,  di scavarti un cratere spaventoso  nel petto. Imparerai  semplicemente a convivere con il dolore, ad accettarlo e portarlo con te. Sarò un segnalibro fastidioso, ma riuscirai comunque a voltare pagina. So che puoi farlo” John continua a parlargli con tono dolce, pacato, cercando di convincerlo. La speranza riflessa nelle sue dita incastrate fra i suoi ricci, le labbra torturate dai denti e gli occhi pieni di insicurezza.
A Sherlock non importa. Non vuole andare avanti, voltare pagina. Rivuole la sua vecchia vita ed al pari di un bambino testardo non accetterà alcun compromesso.
“Ricomincia a risolvere crimini e aggiorna mio il blog; ti ho lasciato la password appuntata su di un post-it. È sullo specchio della mia camera” soffia contro la sua bocca. E continua a sorridere, perché sa benissimo che non ha alcun bisogno di quel pezzetto di carta colorata.
“Ma ti proibisco di parlare dei tuoi 240 tipi di cenere di tabacco. ”
“243” controbatte automaticamente, completamente prigioniero di quel mondo perfetto. La nostalgia lo avvolge come una nebbia spessa, s’insinua sotto i vestiti  pesanti e gela le sue ossa vuote. 
 “Ero davvero così solo e ti devo davvero tanto. Ti amo così tanto ed al contrario di quanto pensi mi hai dato una vita intera.”
Sherlock lo bacia ancora, questa volta affamato, vorace, soffocando urla di dolore contro la sua bocca. Le dita strattonano con forza il suo maglione, ne strappano fili inermi.
 La sua mente richiama il ricordo di quella notte. La sensazione delle sbarre fredde contro la pelle sottile del viso. Le dita di John serrate intorno al bavaro del suo cappotto scuro, le loro labbra cucite insieme, fameliche e smaniose di trovarsi. La paura dimenticata in un angolo, seppellita da un sentimento più forte, violento, invadente. Il tintinnio delle manette a tenere insieme i loro polsi, intrappolare due anime già intrecciate.
“Non farmi questo.” Implora. Le braccia si serrano maggiormente intorno alla vita del suo  amore perduto. Affonda il viso nella curva dolce del suo collo, ripensando a quelle notti insonni, senza luna , spese insieme ad ondeggiare sulle note di un valzer muto dietro le tende chiuse.
Come può chiedergli di rinunciare a loro?
“Ricomincia a vivere, Sherlock. Fallo per noi e i nostri migliori momenti insieme. Non lasciare che nulla vada perduto.”
Il suo petto si accartoccia su se stesso, come carta lasciata troppo vicina alla fiamma di una candela. E anche se le promesse che John sta tanto disperatamente tentando di strappargli, premono tra le costole rischiando di piegarle al loro volere, Sherlock si ostina a far resistenza. Non gli importa del dolore, non gli importa più di niente. Si sente svuotato, senza energie ed è la prima volta che prova questa sensazione di assoluta distruzione.
Come può essere tanto egoista da chiedergli di sopportare ancora tutto quel dolore?
“Ti prego. Ho bisogno di sapere che starai bene, che non ti ho ucciso.” Le sue  parole,  questa volta, sono soffocate. Non è difficile capire che  si trasformeranno in lacrime da un secondo all’altro.
Sherlock serra le palpebre con forza, mentre il suo cuore si scheggia pericolosamente.
“La mia missione era proteggerti, non ferirti; sono riuscito a fare completamente il contrario.” Soffoca in un singhiozzo John, calde lacrime macchiano la pelle pallida del viso. Sherlock le asciuga con movimenti frenetici dei pollici.
Mentre quelle goccioline salate s’insinuano tra i suoi polpastrelli e le gote arrossate del dottore, il suo egoismo riesce ancora una volta a piegargli le ginocchia con il suo peso. Anche adesso, John tenta di salvarlo da se stesso. Si affanna per proteggerlo, offrirgli un’opportunità di salvezza, una fune nella tempesta per sottrarlo alle grinfie di un mare famelico.
E Sherlock ancora una volta lo sta lasciando indietro. Sta rifiutando il suo aiuto, la sua protezione. Continua a ferirlo incurante del suo dolore, accusandolo di essere egoista nonostante sappia bene quanto quella disperazione sia  familiare per il dottore.
John era già stato condannato, aveva scontato la sua pena senza alcuna grazia. Era stato lui il giudice spietato che  aveva emesso la giusta sentenza,ma. Adesso che quelle stesse catene imprigionavano i suoi polsi, non era più certo che quella legge avesse una valenza universale. 
Così. 
 “Dovrei essere io a regalarti dei giacinti” si ritrova a sussurrare. La bocca contro la sua pelle profumata, il cuore in pezzi sul fondo dello stomaco. Il bisogno di proteggerlo da tutto quel mare di dolore a pizzicare le sue corde vocali. 
“Puoi ancora farlo.”
Le labbra di John si spaccano in un sorriso, il più luminoso che gli abbia mai visto fare. Ha capito, lo fa sempre.
 L’angolo della sua bocca s’inarca in un riflesso perfetto, quasi fosse la superficie riflettente di uno specchio. Non è poi così lontano dalla realtà.
“La gente parlerà”
John sorride ancora scrollando le spalle. Bianchissimo, bellissimo, perfetto. “Fanno poco altro”.

 

Ed a quel punto si era svegliato.
La pelle madida di sudore, lo stomaco aggrovigliato tanto da dargli la nausea. La gola fragile, incapace di sopravvivere alla pressione dei respiri affannosi che il petto reclamava con assoluta urgenza.
Lo ha sognato per la prima volta dopo mesi. Si era addormentato sulla poltrona accanto al camino, ed al suo risveglio,  per un istante,  aveva avuto difficoltà a mettere ben a fuoco la realtà. Ma quando aveva notato l’assenza della sua poltrona, la stessa che adesso giaceva nascosta nella sua camera chiusa a chiave, non aveva faticato a rendersi conto di quale fosse la verità.
Si era così preso la briga di buttarsi addosso qualcosa di pulito e aveva indossato il cappotto. Speso fino all’ultimo centesimo nella cocaina tagliata più grossolanamente,  per impedire al suo cervello di accelerare correttamente.
Non troppo inconsciamente, spera che il suo cuore decidesse di fermarsi, immemore della sua muta promessa.

John Watson è stato la cosa migliore che gli fosse mai capitata.
Ha lottato con lui e per lui, ma adesso è completamente solo e non sa come tornare indietro.
Riprendere la sua vecchia vita, fingere non fosse mai capitato. Dimenticare tutto quell’assurdo sentimento che lentamente gli sta corrodendo il petto, rende difettoso quell’organo cavo e devia la ragione.  
E nell'incespicare tra un vicolo e l'altro, si  era ritrovato a contare sulle dita ciò che gli è rimasto. In realtà ha ancora tutto, anche di più, ma ai suoi occhi ogni cosa appare vuota, priva di significato . Inutile come avere tutti gli elementi chimici necessari ma non il reagente che consentirà la reazione.
Baker Street , senza la sua presenza, non è più così accogliente. Le sue finestre sono ora prive di tende; le aveva strappate via qualche giorno dopo la sua assenza; non avevano ragione d’esistere adesso che non vi sarebbe stato più nessuno con cui improvvisare un valzer nel cuore della notte. Persino il suo violino si è rifugiato in un angolo polveroso, solo e privo d’anima senza il suo pubblico da dilettare.

Ma, quando in pieno delirio, i suoi occhi si erano posati sui giacinti di un piccolo negozio, il filo che lo teneva sospeso si era definitivamente spezzato.
 
Ed ora eccolo lì, privo dell’esatta metà della sua anima. La schiena premuta contro il manto erboso, il corpo di John separato dal suo da metri di terra.  
Le sue dita si chiudono intono ai petali dei giacinti, ne saggia la delicata consistenza sotto i polpastrelli. Il desiderio di andar via è ancora lì, più  forte che mai. Le spalle gravate dal peso dei suoi demoni, il senso di colpa a soffocarlo. E se solo si lasciasse scivolare tra le acque fredde del Tamigi, è certo non troverebbe nessuna difficoltà nel raggiungere il fondo. Ma non poteva farlo, non adesso. Non con il bisogno di proteggere John, mantener fede a quella promessa a tener a galla la sua anima. 

John Watson è stato la sua luce in un mare di oscurità. 
Lo è anche adesso e lo sarà sempre;  gli serviva solo il suo aiuto per capirlo. 
Ed è suo compito proteggerla, preservarla. Farà tutto quanto è in suo potere per impedire a quella luce di affievolirsi sotto il soffio gelido e spietato del dolore.
 
 


  "Allora Sherlock Holmes, accetti il mio caso?”  
è un sussurro che si porta via il vento, ma
 Sherlock riesce a coglierne perfettamente ogni sillaba.
 “Sì” pronuncia tranquillo, guardando il cielo.
 


Qualche mese dopo Sherlock è in piedi di fronte alla finestra.
Il violino stretto tra la guancia e la spalla, l’archetto a sfiorare le corde tese come le dita esperte di un’amante sulla pelle arrossata. Note dolci riempiono il silenzio del 221B di Baker Street.
La sua vestaglia profuma di lavanda. Ci sono di nuovo le tende alle finestre e la vecchia poltrona rossa è di nuovo al suo posto. Solleva le palpebre, liberandosi così  dalla loro dolce prigione.
Il suo sguardo corre sulla strada illuminata dai lampioni ed è in quel preciso istante che gli sembra di vederlo; bellissimo, bianco, perfetto sotto la luce pallida della luna. Gli sorride mentre porta le mani alla bocca e soffia un bacio nella sua direzione.
Sherlock sorride in risposta, tornando a chiudere gli occhi.
L'eco dolce della risata di John riecheggia tra le pareti del suo cuore. S'insinua tra le crepe allargandole appena, facendogli male in modo quasi piacevole, per poi spegnersi sul LA del violino.
 
   
 
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