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Autore: JKiryu    01/03/2017    1 recensioni
«Buon compleanno, Akutagawa-kun.»
Sapeva che non era reale, tuttavia la voce gli risuonò così viva e chiara nelle orecchie che gli sembrò quasi che Dazai fosse davvero lì di fronte a lui, in piedi a fissare fuori dalla finestra e perso forse in chissà quale stupido pensiero suicida dei suoi. Era un'immagine familiare nella sua mente, quella figura alta e snella che era solito seguire con lo sguardo ovunque andasse. Akutagawa alzò gli occhi di scatto, ma quando si ritrovò di nuovo faccia a faccia con il vuoto della stanza e con la certezza che niente di quello che avrebbe sperato accadesse sarebbe divenuto reale, le sue labbra tremarono appena, obbligato ad affrontare per l'ennesima volta la dura realtà dei fatti.
Dazai non sarebbe mai tornato.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ryuunosuke Akutagawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    Si dice che non importa quanto l'essere umano si circondi di persone se esso deciderà comunque di avere il cuore arido come un deserto soffocante, nel quale non vi è altro che distese di sabbia e il silenzio di un'anima che ha scelto di chiudersi in sé stessa. A volte si dimentica quanto ci si possa sentire persi in mezzo ad una folla, tanto quanto essere abbandonati in un luogo desolato.
    Eppure esistono persone che scelgono questa strada, imparando così l'essenza del saper contare solo sulle proprie forze. Esse non sono spaventate dai silenzi, in quanto vivono di essi e non ne soffrono. Sono coloro che tramutano quella che di solito viene considerata una maledizione in una benedizione, che trovano sollievo nel concetto a cui di solito viene dato il nome di solitudine.

    Tuttavia, c'era un ragazzo che neanche conosceva il significato di questa parola, in quanto per lui la scelta di vivere distaccato dagli altri non era nient'altro che banale normalità, qualcosa che era sempre stato presente nella sua vita, fin dalla più tenera età. Essere solo non aveva importanza per lui, così come non lo aveva essere circondato da quelli che alcuni comunemente avrebbero chiamato "amici". Non c'erano mai state alternative per Akutagawa Ryunosuke, ma a lui questo non era mai importato. In fondo perchè mai avrebbe dovuto preoccuparsi di ciò di cui ignorava l'esistenza? Non poteva esistere la solitudine se neanche sapeva di che cosa si trattava, non poteva soffrirne se ne era sempre stato inconsapevolmente avvezzo.

    Ma nascere e crescere in una fredda innocenza che proteggeva il suo cuore da sentimenti simili non significava esserne immuni per sempre. Il ragazzo iniziò a capirlo il giorno in cui quella che ormai considerava normalità venne sconvolta per sempre.
    La stessa notte in cui il suo mentore sparì senza lasciare traccia.


 

    Varcare la soglia di quella stanza angusta e buia significava sempre provare quella strana sensazione, quella fastidiosa fitta al petto che lo faceva sospirare e corrugare le sopracciglia in una smorfia infastidita appena accennata. Akutagawa si sentiva come smarrito – odiava ammetterlo – quando entrava nel vecchio studio di Dazai; quel luogo era tale e quale a come era stato lasciato, con solo più strati di polvere e molti più fantasmi del passato ad abitarlo. Nessuno aveva spostato niente da quella notte, perché nessuno della Port Mafia si sarebbe mai sognato di reclamare quelle quattro mura umide che davano l'aria di uno scantinato piuttosto che dell'ex-ufficio mezzo vuoto di colui che un tempo era stato uno dei membri più importanti.
    Il ragazzo non sapeva spiegarsi perché in alcune notti finisse per ritrovarsi di nuovo lì, a vagare in quella stanza con lo sguardo. Ignorava il motivo per cui la luna che filtrava dalla piccola finestra, mostrando timidamente il pulviscolo in controluce, lo facesse sentire a quel modo. Erano emozioni confuse, sentimenti anomali che detestava perché lo facevano sentire disorientato, ma ai quali si abbandonava quando, di sua spontanea volontà, decideva di riaprire quella porta per annegare in un passato che ormai non esisteva più da anni.

    Ricordava ancora la prima volta in cui ci aveva messo piede. La sua attenzione era subito stata catturata dall'unica libreria in legno scuro, abbastanza grande da riempire una parete, ma quasi priva di qualsiasi oggetto che la potesse colmare, se non per qualche libro sparso qua e là, posto in maniera disordinata come se fosse stato messo lì obbligatoriamente per riempire uno spazio altrimenti vuoto. Persino la scrivania al centro della stanza dietro alla quale sedeva Dazai sembrava intoccata; non un documento, non un calamaio o una penna, niente di niente. Solo una piccola lampada vicino allo scrittoio, che Akutagawa aveva fissato per tutto il tempo che aveva trascorso in quella stanza la notte in cui era stato condotto alla Port Mafia, per paura di incrociare quegli occhi di cui aveva già un timoroso rispetto. Sembrava un ricordo così lontano, quando poi il rispetto di quel bambino raccolto per strada si tramutò in assoluta devozione, quando finalmente smise di abbassare la testa quando entrava in quello studio. Il ragazzo iniziò ad affrontare gli occhi del suo mentore con voglia di dimostrare quanto valesse, vivendo giorno per giorno con l'assoluta certezza che ogni punizione, ogni percossa, ogni lezione che Dazai gli impartiva fosse giusta e meritata. Era con la forza d'animo di chi era stato abituato a contare solo su sé stesso che lo guardava dall'altra parte della scrivania, incrociando l'oscurità di quello sguardo che, se il giovane fosse stato più incline a comprendere l'animo altrui, avrebbe scoperto essere il riflesso di un'anima simile a quella stanza arredata a stento con l'essenziale, al solo scopo di non evidenziare il vuoto di quei mobili che coprivano le pareti come scheletri lasciati a marcire.

    Dall'altra parte della scrivania però non vi era ormai più nessuno. Non c'era più qualcuno da guardare con assoluta reverenza, nessuno che con tono annoiato gli rivolgeva spiegazioni con parole troppo difficili da comprendere – forse di proposito, per far sentire Akutagawa solo un povero stupido che non sapeva ascoltare. C'era soltanto una vecchia sedia abbandonata coperta di polvere che il ragazzo, senza neanche accorgersene, stava fissando con una strana luce negli occhi, rivivendo ombre di qualcosa che mai avrebbe potuto riavere indietro. Non sapeva esattamente che cosa significasse essere nostalgici o sentire la mancanza di qualcuno. Non aveva mai provato niente di simile e mai avrebbe voluto farlo, perché in cuor suo sapeva che certe emozioni avrebbero portato soltanto ad una debolezza a cui non aspirava per niente al mondo. Però, mentre i suoi passi riempivano il silenzio e un colpo di tosse gli sfuggiva dalle labbra per l'aria pesante, iniziò a domandarsi che cosa fosse quella stretta al petto che ogni volta finiva per soffocarlo a quel modo.
    Nessun pazzo avrebbe voluto rivivere ciò che Akutagawa aveva passato con Dazai, ma lui invece non ne sembrava minimamente sconvolto. Era stata dura, a tratti quasi insopportabile, ma mai se ne era lamentato, come se sapesse che quella era la giusta via, l'unico modo in cui poteva e doveva essere trattato. Non era masochismo, niente del genere. Ancora una volta, il ragazzo non aveva avuto scelta se non quella di considerare quell'apparente crudeltà come la più normale delle esistenze, crescendo con la convinzione che tutta quella violenza servisse soltanto a renderlo più forte e dargli uno scopo.
    Forse per questo faceva così nostalgicamente male quando provava a ricordarlo, nonostante fossero memorie di qualcosa di così terribile, quando di punto in bianco iniziava a sentire quella mancanza e quel senso di rabbia che gli mozzavano il respiro, facendogli venire voglia di gridare al vento senza un valido motivo. Erano passati anni, ma ancora certe notti entrava in quello studio, come se questo potesse riempire quel vuoto che era stato lasciato molto tempo addietro dentro di sé. Certe emozioni non avevano un nome e neanche voleva darglielo, perché sapeva che altrimenti sarebbe stato tutto molto più difficile da affrontare.
    Akutagawa sospirò e, dopo un attimo di incertezza, si sedette su quella sedia che scricchiolò appena sotto il suo misero peso. Si sentiva come se stesse facendo qualcosa di sbagliato, come se non dovesse essere lì seduto, da dove il suo ex-mentore era un tempo solito giudicarlo. La stanza da quella prospettiva sembrava ancora più spoglia e deprimente, acuendo la consapevolezza che era solo e che nessuno lo avrebbe sgridato per quello che aveva appena fatto.

    Solo. Come era sempre stato in fondo.
    Che cosa era cambiato quindi?

    Le sue braccia si incrociarono sulla superficie di legno, vicino allo scrittoio, e Akutagawa poggiò il mento su di esse. L'odore forte del legno consumato e la polvere lo fecero tossire di nuovo, lasciandogli un fastidioso pizzicorio nel naso che non lo abbandonò neanche poco dopo, quando i suoi occhi si posarono sulla porta da cui era entrato, ora chiusa. Quante volte Dazai lo aveva visto entrare da quella stessa porta? Osservarlo rimanere in piedi di fronte alla scrivania, senza dire una parola, mentre Akutagawa cercava disperatamente di capire che cosa si celasse dietro agli sguardi enigmatici che gli venivano rivolti? Erano ricordi impressi nella sua mente, che rivedeva come una vecchia pellicola proiettata quando vagava con lo sguardo in tutti gli angoli di quella stanza. Proprio come un film, che il ragazzo ogni volta riavvolgeva e riosservava in quello studio ormai dimenticato da chiunque tranne che lui.
   Che ne era stato dello scopo che Dazai avrebbe dovuto dargli? Di ogni allenamento, del sangue e del sudore versato per essi? Dove erano finite tutte le promesse della notte in cui Akutagawa era stato "salvato"?
   Mentre nascondeva il viso tra le braccia e chiudeva gli occhi, non poteva che porsi queste domande, fremendo di rabbia che cercava in tutti i modi di sopprimere. Era una sensazione di completa impotenza che gli dava sui nervi, di non aver potuto fare niente per impedire che Dazai se ne andasse senza dire una parola, per impedire che potesse essere bollato come traditore. Di certo non lo avrebbe fermato, ma avrebbe avuto così tante cose da dirgli, così tante cose da rinfacciare a quel bastardo che lo aveva lasciato senza il minimo rimorso.
   Le domande si accavallavano l'una sull'altra quando si trovava in quel luogo, i pensieri si intrecciavano tra loro in una rete di ragno in cui si intrappolava da solo inconsapevolmente, in un silenzio che lo trascinava a fondo in una lunga serie di riflessioni totalmente estranee al modo in cui di solito ragionava.


    Ti importava davvero così poco di me?

    Sei un bugiardo.

    Perché mi hai lasciato indietro?

    Non guardarmi così.

    A che cosa ti sono servito?

    Dimmi qualcosa!

    Perché te ne sei andato?

    Dimmi che non sono debole!

    Dimmi... che non sono un tuo fallimento.


    Un tonfo sordo rimbombò nella stanza, proveniente dalla scrivania dove Akutagawa aveva appena sbattuto il pugno. Il suo volto era ancora nascosto, ma le spalle che tremavano di collera tradivano quel sentimento così forte e devastante che provava quando ripensava a Dazai. Non riusciva a sfuggirne, finendo sempre con il farsi del male come un cane che si mordeva la coda all'infinito.
   Era infantile da parte sua voler essere notato da quella persona? Era sbagliato inseguire colui che gli aveva cambiato la vita, che gli aveva insegnato così tanto? Colui che quel giorno aveva dato un valore ad un'esistenza che altrimenti avrebbe avuto fine in nome di una cieca vendetta? Ma soprattutto, era davvero così stupido sperare che una delle volte in cui Akutagawa avrebbe aperto la porta di quella stanza, avrebbe ritrovato Dazai a giudicarlo di nuovo con il suo sorriso annoiato e lo sguardo perso chissà dove?
   Rimanere lì e ricordare il passato era tutto ciò che gli era concesso, visto che Dazai era ormai lontano dalla Port Mafia, facilmente raggiungibile fisicamente, ma allo stesso tempo inarrivabile, fuori dalla portata di quello che avrebbe voluto Akutagawa, per via delle parti opposte dalle quali entrambi si erano schierati. Ormai immaginare era tutto ciò che gli era rimasto, rivivere quei momenti che aveva dato per scontati fino al giorno in cui gli erano stati strappati via con la forza l'unica consolazione che aveva.
    E solo per quella notte, il giovane si concesse un pensiero in più. Un pensiero folle, se ne rendeva conto, ma del quale ingenuamente cadde preda quando gli sembrò che una mano gli avesse scompigliato leggermente i capelli, soffermandosi su di essi per un breve istante, evanescente come uno di quei fantasmi del passato che infestavano quello studio.

   «Buon compleanno, Akutagawa-kun.»

    Sapeva che non era reale, tuttavia la voce gli risuonò così viva e chiara nelle orecchie che gli sembrò quasi che Dazai fosse davvero lì di fronte a lui, in piedi a fissare fuori dalla finestra e perso forse in chissà quale stupido pensiero suicida dei suoi. Era un'immagine familiare nella sua mente, quella figura alta e snella che era solito seguire con lo sguardo ovunque andasse. Akutagawa alzò gli occhi di scatto, ma quando si ritrovò di nuovo faccia a faccia con il vuoto della stanza e con la certezza che niente di quello che avrebbe sperato accadesse sarebbe divenuto reale, le sue labbra tremarono appena, obbligato ad affrontare per l'ennesima volta la dura realtà dei fatti.

    Dazai non sarebbe mai tornato.

    Non importava quante volte il giovane varcasse quella soglia, quella stanza sarebbe rimasta vuota per sempre. Vuota come lo spazio che colui che un tempo era il suo mentore aveva lasciato nel cuore di Akutagawa, che faceva bruciare il petto del ragazzo e che gli bloccava il respiro come un nodo stretto alla gola.
    Mentre di nuovo abbassava lo sguardo e un nuovo fremito scuoteva il suo corpo, Akutagawa si alzò di scatto, facendo cadere la sedia che rimbombò nel silenzio come un fracasso assordante. Era furioso, così adirato che non si curò neanche di rimetterla a posto mentre si avviava verso l'uscita con passo svelto e deciso. Odiava sentirsi insicuro, essere vittima di emozioni che non voleva e che soprattutto non sapeva spiegarsi. Aveva sempre vissuto da solo, senza dipendere da nessuno, quindi perché doveva avere quei pensieri? Perché colui che avrebbe dovuto renderlo più forte lo stava invece facendo diventare così fragile?
    Nello sbattere la porta dello studio di Dazai, forse – sperava – per l'ultima volta, Akutagawa comprese il peso di voler accanto qualcuno, di essere lasciati indietro, di soffrire per una persona per la quale si provava totale fiducia e rispetto.

    Non c'erano mai state alternative per Akutagawa Ryunosuke a parte la solitudine, ma a lui questo non era mai importato. In fondo perchè mai avrebbe dovuto preoccuparsi di ciò di cui ignorava l'esistenza? Non poteva esistere la solitudine se neanche sapeva di che cosa si trattava, non poteva soffrirne se ne era sempre stato inconsapevolmente avvezzo.

    Questo era valso fino al giorno in cui finalmente comprese che cosa significasse davvero.
    Fino al giorno in cui Dazai Osamu lasciò che la polvere si accumulasse sui mobili di quello studio vuoto, colmi solo della solitudine che si era lasciato alle spalle.

 

 

 

NdA: è sempre molto bello augurare buon compleanno ad un personaggio con una tonnellata di angst

   
 
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