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Autore: marea_lunare    05/03/2017    5 recensioni
Sherlock ha sempre avuto bisogno di John, fin dal loro primo incontro. Quando però John se ne va, Sherlock non è più lo stesso. Nonostante tenti di avere la meglio sulla sua parte più umana, essa lo vince e il detective perde la strada di casa.
"Ti sto portando a casa, Sherlock."
Genere: Drammatico, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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LOST IN YOUR MIND

“John, aiutami..”
“Sono qui, Sherlock..”
 
                                                             ***************************
 
“John, devi fare assolutamente qualcosa!” urlò Lestrade al telefono.
“Ma cosa posso fare io?!” sbraitò John di rimando.
 
John non era ancora tornato a vivere a Baker Street, doveva ancora assorbire totalmente il lutto della moglie. Non era ancora pronto a perdonare Sherlock. Non ancora.
 
“John, ti prego. Sono giorni che sta così. Non mangia, non beve, non parla. Da quando te ne sei andato non fa che tormentarmi, è arrivato a chiedere dei casi persino a Mycroft. A MYCROFT!”
“Ossignore..” sfuggì a John.
“Poi quando non ha trovato nessun caso, si è rinchiuso nel suo palazzo mentale e non ne è più uscito. Ormai è più di una settimana e la sig.ra Hudson è preoccupata. Ti prego John. Sei l’unico che lo può aiutare.”
 
John sospirò. Nonostante tutto, sapeva di non poterlo abbandonare a se stesso. Lui c’era sempre stato per Sherlock Holmes e nemmeno stavolta si sarebbe smentito, anche se avrebbe dovuto. Chiamò Molly per lasciarle la piccola Rosie e si diresse a Baker Street. Quando arrivò, Lestrade lo accolse con una stretta di mano e un abbraccio.
“Io devo tornare in centrale. Aggiornami” gli disse scendendo le scale.
 
Quando John rimase solo con Sherlock, gli si prospettò davanti uno spettacolo pietoso. Il dottore avrebbe potuto giurare di sentire lo stomaco di Sherlock che gorgogliava per la fame. Se possibile, l’appartamento era più disordinato del solito. C’erano fogli di carta ovunque, gli spari sul muro da due erano diventati cinque, probabilmente il risultato di un attacco di noia acuta. Il salotto puzzava di chiuso, così John decise di aprire la finestra e far passare un po' d’aria. Il detective era sdraiato sul divano, con indosso la sua amata vestaglia azzurra. Aveva i piedi nudi, gli occhi chiusi, il volto corrucciato e le dita nella tipica posizione quando si concentrava: pollici uniti a sostenere il mento, indici allungati a toccare le labbra.
Il cuore di John ebbe un sussulto mentre il suo sguardo scorreva sul corpo del detective: “Era sempre stato così bello?”
 
Cacciò via quel pensiero inopportuno e si concentrò: doveva farlo tornare alla realtà, lì con lui.
Si avvicinò in punta di piedi, accucciandosi accanto al divano, vicino al viso del detective.
“Sherlock” lo chiamò in un sussurro.
Holmes non ebbe nessun tipo di reazione.
“Sherlock” disse con voce un po' più alta.
Ancora niente.
Gli appoggiò una mano sulla spalla.
Sherlock sussultò, ma non accennò ad aprire gli occhi.
“Sherlock..” lo chiamò ancora una volta, accarezzandogli la guancia.
Niente.
“Sherlock, ti prego.. Torna qui. Devi risolvere ancora tanti casi. Londra ha bisogno di te. Ti scongiuro, Sherlock.” gli disse con voce tremante.
 
Improvvisamente, John ebbe un giramento di testa.
Si sedette per terra e chiuse gli occhi, aspettando che passasse.
Provò ad alzarsi per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina, però servì solamente ad aumentare i capogiri.
Impreco tra sé e sé, tornando a concentrarsi su Sherlock.
L’ultima cosa che John vide fu la pelle candida del detective, che contrastava con i suoi capelli corvini e ribelli.
Poi il buio.
 
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“Dove diavolo sono?” si domandò John, alzandosi a fatica.
Era tutto bianco.
Un bianco vuoto, da claustrofobia.
“Che posto è questo?” provò ad articolare, ma la voce non uscì. Che fosse diventato muto?
Non sapendo cosa fare, iniziò a camminare lentamente e a guardarsi attorno, sperando di trovare qualcosa. Mano a mano che andava avanti, delle stanze iniziarono a formarsi attorno a lui. Un pavimento di legno gli comparve sotto i piedi. Delle porte di vetro conducevano da una stanza all’altra.
Questi dettagli però non aiutarono John a capire dove si trovasse.
“John..” sentì qualcuno chiamare. Si girò, ma non vide nessuno.
Così continuò a camminare, trovandosi davanti migliaia e migliaia di porte. Quel posto era un labirinto.
Entrò nella prima porta alla sua destra e si trovò in aperta campagna, vicino ad un lago. Tre bambini giocavano sul laghetto insieme ad un cane.
Un nome si formò automaticamente nella sua mente: “Barbarossa”. Perché gli era venuto in mente quel nome?
 
Solo allora si accorse del sentimento di tristezza che gli aveva invaso il cuore.
Sentiva la malinconia farsi strada nel suo petto. Tutto ad un tratto, l’immagine divenne sfocata fino a scomparire e, pochi secondi dopo, vide un piccolo Sherlock piangere, a fianco del cane di poco prima. Il piccolo Sherlock tentò di toccarlo, ma il cane scomparì e nella mano del bambino rimase solo un teschio umano, un piccolo teschio umano.
 
Sherlock iniziò a piangere più forte, guardando verso John. Ora l’ex soldato aveva paura.
Istintivamente scappò ritornando sui suoi passi e chiudendosi la porta alle spalle con violenza.
Aveva il fiato corto e il battito cardiaco accelerato. Era stata una visione a dir poco inquietante.
Dopo essersi calmato, fece un respiro profondo e continuò a camminare evitando molte porte, spaventato da ciò che vi avrebbe trovato dietro.
 
Dopo molto indugiare, alla fine prese una decisione ed entrò di botto nella porta alla sua sinistra, piombando dentro il prossimo scenario.
 
Stavolta si trovava dentro il Bart’s.
Davanti a lui c’erano Sherlock, Molly, Mike Stamford e.. lui stesso.
Il lui di anni prima, quando aveva incontrato Sherlock per la prima volta.
Un senso di sorpresa iniziò a scorrergli in corpo, lo stesso che aveva provato Sherlock non appena lo aveva visto. Dietro quella maschera di ghiaccio, non solo aveva nascosto la timidezza di un adolescente che faceva nuove conoscenze (il tutto reso più difficile dalle sue scarse capacità di interazione sociale), ma anche il senso di affetto immediato e di amicizia che aveva provato verso John.
“Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street.”
 
John uscì da quella stanza con il cuore stranamente leggero, conscio del fatto che Sherlock gli aveva voluto bene fin dal primo giorno, ma lo aveva nascosto per non esporsi eccessivamente.
“Stupido Sherlock” pensò John, non riuscendo a trattenere un mezzo sorriso.
 
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Entrò in un’altra stanza ancora, ma ebbe un tuffo al cuore.
Si trovava al pranzo del suo matrimonio.
Tutto era perfetto.
Un giorno assolato, Mary in abito bianco, lui e Sherlock in smoking, Molly e la signora Hudson che piangevano commosse.
Vide Mary ed ebbe l’istinto di avvicinarsi, di accarezzarle il viso. Lo fece, ma la sua mano non toccò nulla, ovviamente: era solo un ricordo.
Sherlock fece il suo splendido discorso e John non poté evitare che gli occhi gli si riempissero di lacrime, perché la tristezza lo aveva invaso quasi completamente.
 
Non appena Sherlock iniziò a suonare, il suono divenne pian piano più ovattato, fino a quando la scena non cambiò e John si trovò a Baker Street.
Mycroft era seduto sul divano da solo, di Sherlock non c’era traccia. Non appena il dottore formulò questo pensiero, Sherlock comparve sull’arco della porta con il volto tirato.
Mycroft lo guardò con rammarico e tenerezza, un’espressione insolita per il Governo Inglese.
Sherlock si irrigidì non appena lo vide.
Fece qualche passo in avanti, lentamente, tentando di nascondere le labbra tremanti.
Nello stesso momento, Mycroft si alzò dal divano e raggiunse Sherlock, che nel mentre si era inginocchiato piangendo.
Inconsciamente, Sherlock avvolse le braccia attorno al collo del fratello e lo strinse a sé, affogando i singhiozzi nella sua spalla.
 
“Mycroft.. Perché ha voluto lei e non me? Io.. Io.. ero disposto ad amarlo, ma lui..” disse mugugnando “.. non se ne è mai accorto!” urlò nascosto nell’abbraccio di suo fratello.
Mycroft gli accarezzò i capelli: “Sherlock, l’amore non è da un Holmes..”
“Non è vero, tu.. tu hai Lestrade.”
“Lo so, e me ne ritengo fortunato. Però purtroppo John non riesce a leggere il linguaggio del corpo come fai tu.. E sei stato assente due anni, John aveva bisogno di qualcuno vicino.”
“Ma io ci sono sempre stato. Sono stato via due anni solo per proteggerlo!” protestò Sherlock.
“Lo so fratellino.. E vedrai che se ne renderà conto anche lui, presto o tardi.” Concluse Mycroft, mentre Sherlock continuava a piangere.
 
John rimase sbigottito, interdetto davanti a quella scena.
I sensi di colpa iniziarono a farsi sentire in qualunque parte del suo corpo, che cozzavano violentemente contro la parte razionale del soldato che dava ragione a se stesso. Ti ha fatto credere di essere morto per due anni, cosa pretendeva, che continuassi a piangerci sopra in eterno?!
Però forse, lui non se ne era mai accorto prima che Sherlock si buttasse dal tetto del Bart’s.
John dentro di sé sapeva di provare qualcosa per il detective, ma non aveva mai voluto accettarlo. Aveva troppo da perdere: la loro amicizia, la loro complicità.. e Sherlock stesso.
Non sapeva come avrebbe potuto reagire, perciò dalla paura si era ritirato ed era andato avanti con il macigno del dolore che costantemente gli gravava sul petto.
Baker Street scomparì sotto gli occhi umidi di John insieme a Mycroft e Sherlock, ma stavolta non comparve più nulla.
 
Il dottore uscì a passi lenti e pesanti da quella stanza, chiudendosi con gentilezza la porta alle spalle e vi si appoggiò contro con la testa tra le mani.
“Che testa di cazzo” si autoappellò.
Lui aveva avuto i suoi motivi per andare avanti, perché quel bastardo del suo coinquilino lo aveva abbandonato, facendo finta per due anni di essere cadavere. Era più che normale la reazione di John. Aveva dovuto trovare un modo per elaborare il lutto, altrimenti sarebbe morto dal dolore.
Se si fosse accorto prima dell’amore di e per Sherlock?
Forse Sherlock non lo avrebbe abbandonato, ma lo avrebbe portato con sé per proteggerlo personalmente?
SMETTILA DI DARTI LA COLPA”  si disse.
 
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John si stava incamminando lungo un altro corridoio, quando fu interrotto da un grido strozzato.
Poi un grido più forte.
Era la voce di Sherlock.
John tentò di chiamarlo per nome, ma la voce non uscì di nuovo.
Sherlock continuò ad urlare finché John non irruppe dentro una porta a vetri macchiata di sangue.
 
La scena che gli si parò davanti gli tolse letteralmente il fiato.
Sherlock era in ginocchio, i polsi intrappolati in un paio di manette, le quali erano attaccate al muro di fronte a John, costringendolo a tenere le braccia alzate.
Era completamente abbandonato a se stesso, aveva il capo chino, barba e capelli incolti, il petto nudo era completamente sfigurato da contusioni e ferite aperte o infettate. Segni di tortura.
John fu sul punto di avere un infarto.
E questo quando era successo?!
Quel posto aveva tutta l’aria di essere una cella, se non una camera di tortura.
 
Arrivò il carceriere, un uomo alto, brutto e corpulento.
Parlava con una voce viscida e roca in una lingua straniera che John non comprese e alla quale Sherlock rispose con uno sputo vicino ai piedi dell’uomo.
Quest’ultimo per tutta risposta gli mollò un pungo in piena faccia e un calcio nello stomaco, facendogli sputare sangue.
Le mani di John iniziarono a tremare dalla rabbia e si gettò sull’uomo corpulento, trapassandolo di netto come prima con Mary.
Poteva solo guardare. Guardare Sherlock che veniva preso a pungi e calci davanti ai suoi occhi.
Il detective però non parlava. Il suo silenzio era impenetrabile e nemmeno la raffica di botte che lo colpirono in sequenza continuata riuscì a spezzarlo.
John fremeva dalla rabbia e ogni fibra del suo corpo era talmente tesa da potersi spezzare al primo movimento. Avrebbe voluto spaccare la faccia a quell’energumeno, perché lui era l’unico che si sarebbe mai potuto permettere di mettergli le mani addosso. E lo aveva anche fatto, perché attribuiva a Sherlock la colpa della morte di Mary.  Ma nonostante il loro rapporto si stesse pian piano ricomponendo, era un momento molto difficile per entrambi. In ogni caso, se avesse mai incontrato dal vivo chiunque fosse quel verme, lo avrebbe ucciso seduta stante, si promise.
 
La raffica di colpi non terminava, mentre l’uomo continuava a urlargli incomprensibili parole in lingua a cui Sherlock rispondeva sempre con il silenzio. John gli si avvicinò quando l’uomo smise di colpirlo.
Era ridotto in condizioni penose. E se questo fu capace di straziargli il cuore, ciò di cui si accorse dopo glie lo fece letteralmente a pezzi.
Tra un pungo o un sospiro e l’altro, Sherlock recuperava fiato solo per riuscire a pronunciare un nome: John. Non smetteva di ripeterlo, digrignando i denti per il dolore e costringendosi a non gemere.
“John.”  “John.”  “John.”  “John.”
Cinque, dieci, venti volte lo ripeté, tanti i calci e i pungi.
John sbarrò gli occhi mentre le lacrime iniziavano ad invadergli il volto.
“No. No, no no!”   pensava dentro di sé, alzandosi in piedi per allontanarsi da quella scena segnante.
Aveva visto amici e compagni morire in guerra. Aveva visto Mary morire davanti ai suoi occhi. Ma vedere Sherlock morire mentre pronunciava il suo nome.. non esiste.
Non sapeva cosa fare, perciò iniziò a mugolare, spingendo le corde vocali fino a farle bruciare pur di riuscire a dire qualcosa.
Sherlock era da solo dentro il suo palazzo mentale, solo.
Lui non c’era, come non c’era stato in quel momento. L’unico periodo in cui questo episodio sarebbe potuto accadere era quello dei suoi due anni di assenza, perché altrimenti John era sempre rimasto al suo fianco.
 
Perciò aveva ragione. Lo aveva pensato ogni singolo giorno e voleva veramente proteggerlo.
La verità colpì John in faccia come uno schiaffo, facendolo piangere ancora di più e facendolo sentire un verme. Si faceva pena: un ex soldato dell’Afghanistan chiuso in un angolo a piangere.
Doveva fare qualcosa.
Si alzò raccogliendo tutte le sue forze e più volte si parò davanti a Sherlock pur di proteggerlo dai colpi che puntualmente andavano a segno.
“Ti prego, basta..” implorava John nella sua mente, mentre Sherlock digrignava sempre di più i denti.
La frustrazione si stava facendo strada nell’animo di John, ormai disperato. Quello era un ricordo, non avrebbe mai potuto cambiarlo. Tutto quello Sherlock lo aveva subìto per proteggerlo e che cosa aveva ottenuto in cambio? Essere picchiato ulteriormente.
Il dolore diventava sempre più grande, quasi insostenibile.
Il senso di colpa e l’amore per Sherlock lo stavano divorando dentro.
“Sherlock..” pensava “Sherlock, Sherlock..”
 “John, aiutami..” sussurrò Sherlock all’improvviso. Stava piangendo.
Alla fine, con le lacrime che lo inondavano, John prese fiato e gettò fuori tuta la sofferenza: “SHERLOCK!” gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Lo aveva urlato così, con le braccia aperte, il respiro corto e il viso bagnato.
 
 Sentì un rumore come di vetri infranti o una bottiglia di vino che viene stappata. Qualcosa era cambiato, John lo percepiva. Alzò lo sguardo verso l’energumeno che gli stava di fronte e lo guardava con aria stralunata. Gli fece una domanda in quella lingua che non sconosceva, ma che probabilmente significava “E tu chi sei? Da dove diavolo salti fuori?”.
 
L’espressione dell’uomo cambiò in due secondi da stupita a furiosa, dato che John lo stava dividendo dalla sua preda. Quando il viscido verme sbuffò dal naso come un toro, John sentì l’adrenalina che iniziava a pompargli nelle vene. Ora lo vedeva, ora poteva toccarlo. John si buttò di peso in avanti, tenendo la testa piegata in avanti come se fosse un ariete e gli si fiondò contro lo stomaco.
Con un’imprecazione il carceriere arretrò e si piegò su un ginocchio per il dolore.
Come alzò lo sguardo, incrociò per un attimo gli occhi di John che lo colpì con un pungo sotto il mento, facendogli sanguinare la bocca.
 
La rabbia lo stava invadendo e la sfogò tutta su quell’uomo.
Essendo un dottore sapeva dove colpire senza rischiare di ucciderlo, perciò evitò accuratamente la gola: non aveva voglia di sporcarsi le mani per quel tizio. I gioielli di famiglia non furono però risparmiati, tanto che l’uomo svenne dal dolore.
“John..” sussurrò Sherlock “ Come sei arrivato qui?..” Cos..”
Watson lo raggiunse e gli fece alzare il volto affaticato. Le lacrime che una alla volta uscivano dai suoi occhi servivano a ripulirgli la pelle pallida dal sangue e dallo sporco, creando delle linee chiare.
John tirò fuori un fazzoletto di stoffa che usò per pulirgli il volto, mentre gli occhi di Sherlock lo guardavano commossi.
Come ebbe finito, John lo baciò.
“Volevo farlo da così tanto tempo” gli sussurrò sulle labbra.
“Oh John..” disse Sherlock, gli occhi liquidi.
John lo abbracciò, strappandogli un gemito di dolore.
Dopo aver sussurrato un imbarazzato “scusa”, Watson si alzò e prese le chiavi di quelle stupide manette dalla cintura del carceriere e liberò Sherlock, che gli cadde tra le braccia respirando a malapena.
“Mi dispiace Sherlock, sono stato un idiota. Tu hai sopportato tutto questo mentre io.. io..” disse abbracciandolo con più attenzione.
“Va tutto bene John, lo.. lo so” gli assicurò Sherlock, appoggiando una sua mano sporca sui capelli biondo cenere dell’altro.
“Aspetta..” John si tolse la giacca e la appoggiò per terra, facendovisi stendere sopra la schiena martoriata di Sherlock, che gemette.
Cercò una cassetta del pronto soccorso, ma era una stanza molto spoglia. Dopo aver ispezionato ogni parete, vide un buco in un angolo basso del muro di destra.
“L’hanno.. nascosta lì affinché i prigionieri non la potessero vedere. Molti qui.. sono morti a causa dell’infezione delle ferite” disse sommessamente Sherlock.
 
John prese la cassetta, corse da Sherlock e iniziò a disinfettargli le ferite ormai incrostate, mentre ricuciva quelle ancora aperte. Mise una manica della giacca in bocca a Sherlock per fargliela mordere e sfogare il dolore dell’ago sulla pelle. Ogni ferita che cuciva era per Sherlock un dolore enorme, che finiva in lacrime.
John si chiede perché lo stesse facendo. Era un ricordo e aiutarlo non avrebbe cambiato nulla. Però lo fece comunque, perché sapeva essere la cosa giusta. Magari Sherlock avrebbe aggiunto una seconda versione di questo dolore, una variante in cui John era al suo fianco per condividere con lui questo dolore.
Quando ebbe concluso e Sherlock si fu ripreso, lo fece appoggiare lentamente al muro con la sua giacca indosso, per evitare che le ferite entrassero in contatto con il muro sudicio.
 
John si mise in ginocchio tra le gambe di Sherlock e gli scostò i capelli troppo lunghi e sporchi dal volto.
L’espressione del detective era serena.
“Se ti stai chiedendo perché ho fatto questo, John.. È perché per te ne vale sempre la pena. Per te vale la pena morire e perdere due anni della propria vita per proteggerti. TU ne vali la pena.” Sussurrò Sherlock con sforzo.
Vedendo che tentava di alzare un braccio, John lo aiutò e si portò la sua mano alla guancia, bagnandola con una lacrima trasparente come il cristallo.
Gli si avvicinò lentamente, facendo sfiorare le proprie labbra con le sue.
 
“Devi ritornare da me, Sherlock.. Sei chiuso qui dentro da una settimana.. Devi uscire.” Lo incitò John.
“Non ci riesco John. Mi sono.. perso”
“Allora ti riporterò io alla luce del sole, tra noi.”
“Non posso, John. Non posso lasciare questo posto. Io sono uno Sherlock del passato.. E questo è il mio luogo. Non me ne posso andare.”
“Ma quindi.. dovrai vivere per sempre questo momento? Questo.. dolore?” chiede John
“Si. Però ora sarà piacevole, perché so che arriverai tu a salvarmi. Ogni volta che vorrò, potrò sentire le tue mani che mi curano.. E vedere i tuoi occhi per tutta la vita.”
“Non avrai bisogno di ricordare. Quando ti avrò fatto uscire da qui, non ti lascerò mai più. Te lo giuro”
Sherlock sorrise debolmente “Allora vai..”
“Non uscirò da qui senza di te. Se non riuscirò a riportarti nel mondo reale, rimarrò qui con te.”
“No John.. Non puoi..”
“Posso e lo farò. Per te ne vale sempre la pena, Sherlock.”
Il detective gli sorrise amorevole e John lo baciò un’ultima, dolce volta, promettendogli la vita.
 
Lo guardò chiudere serenamente gli occhi e uscì, chiudendo la porta.
 
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Il dottore era più determinato che mai: Sherlock doveva uscire da lì.
Si perse di nuovo in quel continuo apparire di porte nuove. Una in particolare lo colpì, perché al di là di essa sentì la voce di Molly che parlava, con un leggero cinguettio in sottofondo.
L’aprì e si trovò di fronte a casa sua, la casa dove viveva con Mary e Rosie.
Superò il cancello e vide Sherlock davanti alla porta, mentre Molly usciva con la bambina in braccio.
“Sherlock.. John al momento non è in casa e non penso voglia vederti. Mi.. mi ha detto che vorrebbe vedere chiunque, tranne te.”
 
Il detective rimase di sasso a quell’affermazione e John vide i suoi occhi spegnersi nel dolore.
“E... mi ha dato questo per te” aggiunse, porgendogli un foglietto piegato a metà.
John ricordava quel foglietto. Dentro aveva scritto due parole soltanto, ma che nel momento in cui erano state scritte si erano automaticamente trasformate nelle più dolorose della sua vita.
Sherlock la guardò per qualche secondo senza parole (il che diede a John una piccola soddisfazione, ma che venne subito sostituita dai sensi di colpa. Si sentiva uno stronzo.)
Prese silenziosamente il foglietto e la ringraziò con un sorriso forzato.
 
Accennando un “mi dispiace” in labiale, Molly tornò in casa.
Il volto del detective si incupì ancora di più, perché ogni traccia di speranza era scomparsa. Con il volto indurito dalla lastra di ghiaccio che nascondeva i sentimenti dalla sua quotidianità, si diresse a passo spedito verso la strada, prendendo il primo vicolo che gli capitò a tiro e lontano da occhi indiscreti.
Era un vicolo cieco tra due palazzi di mattoni rossi; una puzza di spazzatura e pipì di gatto invadeva l’aria e rendeva quel luogo il meno accogliente che fosse mai esistito sulla faccia della Terra, il che avrebbe aiutato Sherlock nella ricerca della sua privacy.
 
Si appoggiò con la schiena al muro e si massaggiò gli occhi con il pollice e l’indice, provando a concentrarsi su quel semplice foglietto. Sherlock trasse un respiro profondo e, serrando le labbra in una sottile fessura, lo aprì. Non ebbe alcuna reazione, il che preoccupò John. La bocca tornò semplicemente alla sua forma originale, mentre il detective stringeva il foglietto in una mano.
Lo accartocciò e lo gettò a terra con un urlo primordiale.
Digrignò i denti e appoggiò la nuca contro il muro, guardando verso il cielo londinese grigio e prossimo alla pioggia.  Una sola e triste lacrima gli scese lungo la guancia destra, mentre chiudeva gli occhi sconsolato. Rimase così per diversi minuti, di cui John approfittò per raccogliere il biglietto e realizzare che aveva voluto ferire Sherlock fino in fondo, fino alla fine.
 
Aprì il biglietto e guardò quelle due parole, che ogni volta bruciavano come un coltello incandescente nel petto.
“Goodbye, Sherlock”
Ormai era fatta, ma John sapeva di avere una possibilità per rimediare. Magari Sherlock non poteva vederlo o sentire la sua voce, ma forse poteva riuscire a fare qualcosa sull’ambiente circostante. Provò a toccare il muro e constatò con gioia che la sua mano non lo aveva trapassato, così come non aveva trapassato il biglietto.
Grazie a Dio aveva sempre una penna con sé.
Pregò il cielo che funzionasse, perché Sherlock doveva tornare a casa. Scarabocchiò qualcosa sul foglietto e lo lanciò ai piedi di Sherlock.
Quando il detective se lo ritrovò ai piedi, lo raccolse svogliatamente e, con un sospiro, lo scartocciò, tentando di sistemarlo alla bell’ e meglio.
Quando lo aprì per sistemarlo, i suoi occhi ebbero un guizzo e il suo cuore perse tre battiti.
 
"Goodbye, Sherlock"
“Come with me, Sherlock”
 
Sherlock si guardò attorno spaesato.
“John” sussurrò.
Il dottore sorrise: doveva riportare Sherlock davanti al suo appartamento, alla porta del palazzo mentale.
Batté le nocche sul muro e Sherlock si girò in direzione del suono.
John continuò a camminare, producendo sempre un rumore, come le nocche o il palmo aperto contro la parete. Così, Sherlock iniziò a seguirlo, con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta, la sua tipica espressione di stupore.
 
“Vieni con me, Sherlock” sussurrava John ogni tanto e in quei momenti una folata di vento sferzava il volto pallido e tagliente del consulente investigativo.
Con le nocche ormai sbucciate, John arrivò finalmente davanti al suo appartamento. Ora Sherlock doveva solo superare il cancello.
John lo oltrepassò, toccando con una mano la porta della stanza del palazzo, pronto a buttarci dentro Sherlock. Batté un piede per terra e Sherlock si avvicinò al punto in cui si trovava John.
Watson si soffermò per un secondo su quei due oceani che Sherlock aveva come occhi, maledicendosi per tutte le lacrime che gli aveva fatto versare.
 
Lo amava. Lo amava ed era finalmente pronto ad ammetterlo.
Allo Sherlock di due anni e qualche mese prima aveva promesso la vita, gli aveva promesso di rimanere al suo fianco. E nemmeno stavolta si sarebbe smentito.
Lo fissò negli occhi, mentre quelli di Sherlock lo trapassavano, dato che non poteva vederlo.
Strinse più forte la maniglia e aprì la porta.
“Io ti amo, Sherlock Holmes” disse a voce alta.
Una folata di vento investì Sherlock, che allungò la mano verso John. Lui glie la prese. Watson lo tirò con tutta la sua forza e gettò se stesso e il compagno oltre la porta.
 
“Ti sto portando a casa, Sherlock.”
 
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John si svegliò con la testa appoggiata contro il petto del detective.
“Sherlock!” esclamò.
Il consulente investigativo sbarrò gli occhi all’improvviso e il respiro affannoso, come se si fosse appena svegliato da un incubo.
“Oh buon Dio, Sherlock!” sussurrò John, abbracciandolo d’impulso e stringendolo a sé. “Perdonami, ti prego. Sono stato un idiota. Ho visto cosa hai sofferto durante questi due anni, ho visto il dolore per il matrimonio di Mary. Ti prego, Sherlock, perdonami. Io.. io..”
Sherlock lo zittì ricambiando l’abbraccio.
Si strinsero come due anime gemelle che si erano appena ritrovate, il che effettivamente era vero.
“Grazie John. Come sempre mi hai salvato la vita.”
“E lo rifarei altre mille volte. Per te ne vale sempre la pena, ricordi?”
 
Si sorrisero con dolcezza e le loro labbra si sfiorarono, come se avessero paura di quel sogno così bello ormai divenuto realtà.
Sherlock gli accarezzò una guancia con il pollice freddo e, per la prima volta, ammise ciò che si era sempre rifiutato di vedere e accettare: “Anche io John Watson. Anche io ti amo.”
 
                                                                    ******************************
 
“Pronto? Lestrade? Si, sono io. Sì. L’ho riportato a casa.”

 
 

 
 
Angolo dell’autrice: Buonasera a tutti! Eccomi di nuovo qui con la seconda fanfiction, di cui sono particolarmente entusiasta <3
Se ve lo state chiedendo.. Sì, ADORO le Johnlock :’3 Solitamente scrivo di getto tutto quello che mi passa per la testa, poi lo rileggo un paio di volte apportando qualche modifica qua e là e, OVVIAMENTE, lo scritto passa sotto le mani della mia Beta Alice, che mi aiuta sempre tanto e che mi ha incoraggiata in un passo del genere. Perciò, vi ringrazio ancora una volta per aver letto tutta la storia e per aver dato un significato così importante al tempo che ci ho speso sopra <3
A presto!
   
 
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