Film > Star Wars
Segui la storia  |       
Autore: Lechatvert    10/03/2017    3 recensioni
Dieci anni prima di Rogue One, l'Alleanza Ribelle non esisteva. Però esistevano i ribelli.
Erano guidati dalla stessa speranza, dallo stesso fervore dei loro figli e, nelle notti più fredde, si sedevano stretti gli uni agli altri per ascoltare una storia.
E c'erano uomini, c'erano bambini, donne, vecchi. C'erano persino i morti, attorno ai fuochi di Fest, e tutti ascoltavano le storie di Tylan Halos e della sua squadriglia di viaggiatori.
A chi era coraggioso, servivano a prendere sonno.
A chi combatteva da tutta la vita, servivano a far passare la paura.
Genere: Angst, Guerra, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cassian Andor, K-2S0, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
saboteur



«Non ci vorrà molto».
«Lo so, Cassian. Non è la prima volta che mi viene fatto un backup».
«Va bene, allora … registra questo messaggio, per favore».
«Per chi?»
«Non l’ho ancora deciso. Tu fallo».
«Va bene».
«Dunque … ah, sì. Ci sei, Kappa?»
«Quando vuoi».
«Il giorno in cui Travia Chan creò il Gruppo Resistente di Atrivis, unendo per sempre le forze ribelli di Fest con quelle liberatrici del Sistema di Mantooine, noi dell’FRG ci sentimmo inevitabilmente traditi. I miei due compagni di stanza (troppo taciturni perché io ne ricordi il nome a così tanti anni di distanza), lasciarono quella che con solennità chiamavamo “la Resistenza” per passare beceramente all’Impero. «Meglio inculati la divisa che inculati con le palle al freddo e coi mantooiani intorno», mi disse uno di loro poco prima di sbattere la porta e, passata la sorpresa di sentirgli dire più di tre parole nella stessa frase, mi sedetti sulla mia branda a contemplare la stanza nella sua vuota solitudine.
Quel giorno compivo sedici anni».









PARTE QUINDICESIMA – SE SEI SOLO


Come finire una storia che di per sé è già finita? Successero così tante cose, dopo quel giorno, e non ne ricordo nessuna con piacere.
La Squadriglia Anima e il Mercantile Andor atterrarono due giorni dopo su Fedje, un pianeta del Sistema di Atrivis su cui Travia Chan non era ancora arrivata a spadroneggiare dopo aver allargato gli orizzonti del suo gruppo di ribelli. La incontrammo non appena arrivati e riuscì con una buona dose di talento a deludere le aspettative di tutti: era più interessata ai miei resoconti che a quelli dell’Anima, ma sospetto ancora oggi che l’unico motivo del suo entusiasmo nel vedermi vivo e vegeto fosse la possibilità di spiattellarmi in faccia quanto ingenua fosse stata Mariceli a credere di poter giocare con l’Impero una seconda volta dopo essere stata graziata dalla sorte la prima.
Non risposi che a poche domande, poi mi chiusi in un silenzio che durò anni.
«È sconvolto» mi difese Cunha, seppur poco convinto lui stesso. «È un ragazzo».
«Un ragazzo che spara e va in guerra come tutti noi» lo riprese Travia Chan, impassibile. «Non vedo alcuna differenza tra te e lui, Anima Tre, se non nel fatto che a differenza sua tu segui i miei ordini».
Fu l’ultima volta in cui ebbi a che fare con il Gruppo di Atrivis, Travia Chan e tutti gli ex membri dell’FRG.
L’Andor atterrò su Fedje danneggiato dalla fuga e dalla missione e, così come me, da lì non si mosse per molto tempo.
Con il nome di Aach Zanedi e dei documenti falsi che mi procurai con alcuni dei crediti che trovai nascosti sulla nave, riuscii ad accaparrarmi un lavoro come assemblatore presso le Industrie Arakyd, dove imparai a montare e smontare droidi con la stessa velocità con cui al mattino mi alzavo dalla branda per sfuggire agli incubi.
Ricordo che passai mesi dormendo a stento cinque ore a notte. Se non erano gli incubi, a svegliarmi, era il rumore del bastone di Mariceli che batteva contro i pavimenti metallici della navetta. Se non era il bastone, era la risata del Capitano Halos. A volte credevo di vederli, di sentire le loro mani sulle mie spalle, le loro dita tra i capelli. La cosa che faceva più male era il mutismo con cui si dileguavano quando mi chiedevo se fossero reali.
Alternando le allucinazioni al lavoro, tiravo avanti. Di tanto in tanto, Cunha passava a trovarmi e mi portava notizie da Fest. A casa del Capitano Halos insistevano affinché andassi a stare da loro, ma sentivo di non avere nemmeno il coraggio di guardarli in faccia. Ancora oggi, continuo a fuggire.
Avrei potuto andare avanti così fino al giorno in cui avrei delirato completamente, diventando incapace di distinguere dove cominciava l’allucinazione e dove invece finiva la realtà, ma ci si mise di mezzo l’Impero. O meglio, ci si mise di mezzo l’unico imperiale che all’epoca avesse una vaga idea della mia esistenza.
«Aach Zanedi?»
Ricorderò sempre l’ultima volta in cui ebbi la grazia di sentirmi chiamare in quel modo senza sussultare in preda al terrore di essere stato scoperto. Immagino che non avessi davvero niente di cui avere paura, quel giorno, perché ero un ragazzo come tanti altri che tentava con scarso successo di riparare il motore del vecchio rottame su cui abitava.
Prima di voltarmi posai la saldatrice, togliendomi il casco e balzando giù dall’ala sinistra dell’Andor.
«Sì?» chiesi.
L’ufficiale che mi ritrovai a due spanne dal naso piegò gli angoli della bocca in un sorriso cordiale, di cui diffidai immediatamente. «Finalmente, maledizione, eccoti qui» commentò, sospirando. Poi alzò di colpo gli occhi sulla nave. «Non parte più?»
«È vecchia; qualcuno l’ha mollata qui perché fa più danni che altro». Sbottonai la giacca che avevo addosso, l’unica tra quelle del Capitano Halos che riuscissi a indossare senza dovermi perdere nelle spalle ampissime. «Posso esserle utile?» chiesi. Forzai un sorriso, obbligandomi ad apparire cordiale. Avevo smesso da un po’ di andare a cercare problemi, anche se in qualche modo mi ci ritrovavo sempre in mezzo.
«Molto utile, in effetti, ma non qui». Con un cenno del capo, l’ufficiale mi indicò i soldati che componevano la sua scorta, tre assaltatori armati intenti a controllare la nave. «Troviamo un posto tranquillo dove parlare con calma».
Corrugai la fronte, portando istintivamente la mano alla cintura. Oltre il tessuto della giacca aperta sul petto, sentii chiaramente l’impugnatura del mio blaster.
L’ufficiale se ne accorse e soffocò ogni mio intento con un severo cenno del capo. “Non devi per forza morire oggi” mi dissero i suoi occhi neri, colmi di una freddezza che sul momento non mi sembrò del tutto estranea.
Deglutii. «Possiamo andare dentro» proposi.
«Mi sembra un’ottima idea».
Stavo pianificando di scappare non appena la situazione avrebbe preso una brutta piega (ed ero certo che l’avrebbe presa presto, ammesso che non l’avesse già fatto), ma dovetti abbandonare ogni speranza di fuga. Come salimmo sul portellone dell’Andor, il droide di sicurezza che accompagnava gli assaltatori si staccò dal gruppo e ci raggiunse, obbligandomi a constatare con rammarico che la sua stazza era più che sufficiente a mozzarmi un braccio.
«Questo è K-2SO» mi disse l’ufficiale, precedendomi. «Ignoralo e ti ignorerà».
Dubbioso, rimasi a guardare il droide. «Ciao, K-2SO» tentai.
Lui si chinò appena. «Buongiorno, Aach Zanedi».
Si riconosce subito un compagno di vita, quando lo si incontra, anche se all’inizio lo si scambia quasi sicuramente per una gran seccatura.
Passai tutto il tragitto dal portellone alla stazione informatica ad escogitare una maniera sufficientemente efficace di saltargli addosso e strappargli la scheda madre prima che lui potesse strappare un qualsiasi arto a me. Non mi venne in mente niente di buono, perciò mi costrinsi a comportarmi bene e a sperare, visto che la speranza era tutto ciò che mi era rimasto.
Quando varcai la soglia della stazione e mi ritrovai davanti a quell’uomo seduto al computer con le mani già impegnate a tentare l’accesso ai dati della nave, per un brevissimo istante ebbi la netta sensazione di aver perso anche quella.
«Magari posso aiutare a trovare quello che sta cercando» buttai lì, imponendomi risolutezza.
L’uomo si voltò e mi guardò con sufficienza, alzando con noncuranza un sopracciglio come a voler sottolineare il suo scetticismo. «Non c’è nessun Zanedi» disse, con una semplicità che mi colpì forte quanto uno schiaffo. Dopodiché, tornò ad occuparsi del computer. «Ma questo lo sapevo già, perché stavo cercando Willix».
Restai immobile, completamente congelato.
Lui piegò il capo, mostrandomi una piccola cicatrice all’altezza delle labbra. «No?» chiese, in un tono lieve che però non riuscii a percepire come rassicurante. «Allora Joreth Sward».
Seppur nel panico, finsi indifferenza. «Il mio nome è Aach Zanedi».
L’ufficiale alzò le spalle e si voltò nuovamente. «K-2SO, resta di guardia fuori dalla stazione, facci parlare da soli» sospirò, togliendosi il berretto.
Con un ronzio d’assenso, il droide obbedì e andò a piantarsi sul ponte.
Io mi ostinavo a non muovere un muscolo.
«Va bene, ricominciamo» mi concesse con un sospiro l’ufficiale, invitandomi ad avvicinarmi. «Dando per assodato che Aach Zanedi non esisteva fino a un anno fa, sto cercando un tale di nome Willix che si faceva chiamare Joreth Sward».
Avevo la faccia ancora sporca di grasso da macchine per cui, credo, riuscii a nascondere sufficientemente bene la paura che mi fece impallidire. «Io mi chiamo Aach Zanedi» dissi e, in quel momento, implorai me stesso di dimenticare la verità. Aach Zanedi, continuavo a pensare. Come se ripetermi quel nome potesse in qualche modo cancellare quello vero. Aach Zanedi, ti chiami Aach Zanedi, sei orfano e questo mercantile lo hai trovato abbandonato.
Non potevo prevedere ciò che seguì.
L’uomo evitò di rispondere, togliendo le mani dalla tastiera del computer e poggiandosele in grembo. Poi, sbuffando, si piegò su se stesso e batté le nocche sulla gamba destra, all’altezza della tibia.
Nella stazione risuonò il rumore metallico di una protesi.
«È nuova» mi spiegò, alzando le spalle. «Faccio fatica ad abituarmi e me la devono cambiare minimo due volte l’anno. Giuro, è l’ultima volta che ci metto mano». Allungò un braccio nella mia direzione, poi mi sorrise di nuovo. «Presumo che tu abbia già sentito qualche storia su di me. Tenente Molan Solpea, molto piacere».
Sentire quel cognome pronunciato per la prima volta dopo mesi non dalla mia stessa voce ma da quella di qualcun altro, rese tutto quello avevo passato un po’ più reale e vicino di quanto non lo fosse stato nella mia solitudine.
Ebbi la chiara sensazione di sentire i miei organi collassare uno dopo l’altro, ma fu un malessere che non durò che un istante, subito sostituito dallo sgomento, dalla sorpresa, da una paura ancora più grande di quella che avevo avuto addosso fino a quel momento.
Sprofondai sull’unica sedia che trovai, respirando a fondo un paio di volte prima di riuscire a mettere assieme una domanda sensata, una tra le migliaia che la mia testa gridava: «Come mi hai trovato?»
Molan Solpea mi osservò con quella che credo fosse curiosità, una luce sinistra nel nero dei suoi occhi piccoli e tondi. «Ho tirato a indovinare che fossi uno senza un posto dove andare» rispose. «E che saresti rimasto sulla nave».
Sbuffai. «Come hai trovato la nave, allora».
Lui quasi si offese. «Per favore. Mia sorella non ha mai mosso un dito senza che io lo venissi a sapere. Ho seguito questo mercantile ovunque. Su Devon, su Iridium, su Fodro, Gibbela … persino su Wobani, in un certo senso ero con voi».
Mi rabbuiai, e lui lo notò immediatamente.
Provò a rimediare.
«Siamo una famiglia di sabotatori, noi Solpea. Spie, ladri, informatici … brutta gente, dico davvero» raccontò, forzando un sorriso che gli appiattì le labbra in un’espressione innaturale. «Ma oggi sono venuto a porgerti le mie scuse. L’ho tenuta d’occhio, ma non è bastato. Sarei dovuto essere lì con voi».
Sentii i polmoni smettere di dare aria al resto del corpo, e mi costrinsi a scuotere il capo. «No, non è vero» mi ritrovai a rispondere. Quella su Wobani era una questione di Mariceli e Mariceli soltanto; io stesso non ero stato che un ospite, un testimone, anche se alla fine ero diventato un carnefice.
Mi sentii pervadere dallo stesso senso di vuoto che mi prende ancora oggi quando ripenso alle mie dita che premono un grilletto. Su ogni uomo trovo una giustificazione, un appiglio a cui ancorarmi per non cadere vittima dei sensi di colpa. Con Mariceli continuavo a ripetermi di averle fatto un favore, ma era una scusa che aveva smesso di funzionare da tempo.
Seppur nel mio malessere o forse proprio per quello, fu l’unica volta in cui mi trovai accanto a un ufficiale in divisa imperiale senza la sensazione di essere a un passo dalla fine. Era un uomo che aveva seguito in silenzio sua sorella per tutta la vita, che a modo suo l’aveva protetta, che aveva avuto tutti i mezzi per sventare decine di colpi ribelli ma non l’aveva mai fatto. Forse, mi dissi, era un uomo buono.
«Vorrei che mi parlassi di lei».
Molan Solpea si accigliò. «Di mia sorella?» Sono convinto che nemmeno lui riuscisse ancora a pronunciare il suo nome.
«Sì, per favore».
Vorrei poter dire molte cose del Tenente Molan Solpea. Di come mi aiutò a combattere i miei fantasmi, ad esempio. O ancora di come lasciò l’Impero e si unì a me, di come assieme rimettemmo assieme l’Andor che ormai aveva smesso di volare e ci unimmo all’Alleanza Ribelle. Immagino fossi ancora troppo ingenuo per comprendere il vero motivo della sua comparsa; mentre lo ascoltavo parlare di Mariceli con la voce incrinata dalla nostalgia, a stento faticavo a considerarlo un nemico.
Fu così che raggirò ogni mia barriera, con la stessa tecnica che Mariceli mi aveva insegnato su Wobani: provò a diventare mio amico.
«Non ci parlammo per due anni» mi raccontò, perso in una malinconia che credo non facesse fatica a provare. «Quando scoprii che era finita su Fest … avrei voluto radere al suolo il pianeta intero, credo. Mi importava solo di averla a casa».
«Non volle venire?»
«La trovai in una cucina a preparare da mangiare con dei bambini. Piangevano tutti. Una donna li radunò nell’angolo, contro l’armadio, e ordinò loro di guardare il muro. Credeva fossi venuto per ucciderle entrambe. Mia sorella invece non batté ciglio. Raccolse il coltello da carne e me lo puntò contro senza neanche degnarsi di scomporsi. Sul momento, pensai che fosse uguale a nostra madre. “Vattene e non azzardarti mai più a farti vedere da queste parti” mi disse, e intanto continuava a farmi indietreggiare con in mano uno stupido coltello sporco di grasso. “Qui comando io, e se non te ne vai questo te lo pianto in mezzo agli occhi”. E all’epoca avrei anche potuto dimostrare facilmente che quel casale era un covo di ribelli festiani, ma come fai a covare rancore quando la stessa bambina a cui hai insegnato a camminare ti minaccia senza neanche dare segni di rimorso? Cos’eravamo diventati, pensai. Sembravamo davvero una ribelle e un imperiale».
Non mi mossi dalla sedia, completamente rapito. C’era così tanto che volevo sapere.
«Ma lei non mi ha mai parlato di te come un pericolo» sottolineai, stranito.
Molan Solpea accennò un sorriso. «Non lo sono» rispose. «Non per mia volontà, almeno. Ho sempre saputo di mia sorella e non l’ho mai denunciata, nonostante quel giorno. Ma era arrabbiata con me, lo comprendo. È uno screzio che nessuno dei due ha mai dimenticato: per tutto questo tempo, non abbiamo fatto altro che lasciarci soli a vicenda. Però ci volevamo bene».
«Non credo lei si sentisse abbandonata da te».
«Forse quando è morta lo ha pensato».
Forse lo pensò davvero. Chi può dirlo? Kappa una volta ha calcolato che l’ultimo pensiero più comune tra gli uomini morenti ha alte probabilità di essere riservato alla famiglia, ma non mi sono mai trovato d’accordo. Se dovessi essere io, a morire, a chi penserei?
Inoltre, dubito che Molan Solpea potrebbe mai ritrovarsi nella situazione di dover scegliere a chi rivolgere il suo ultimo saluto. In tutte le occasioni in cui ci incontrammo negli anni successivi, sembrò più intenzionato a tenersi cara la vita che a pregare i suoi morti. Ma che a differenza di Mariceli non fosse un uomo dedito a un ideale lo avevo capito dalla prima storia che lei mi raccontò di lui; quelle che ebbi a seguire non furono che conferme. In fin dei conti, non ebbi mai difficoltà a convincermi del fatto che con Mariceli avesse poco o niente a che fare.
Se da una parte la solitudine rende ingenui, dall’altra insegna anche a fiutare il pericolo. Non mi fidavo del Tenente Solpea, non del tutto almeno, anche se sentivo di non essere dinanzi a un nemico. Lo guardavo raccontare di sua sorella in un modo goffo che non c’entrava niente con la maniera suadente che aveva lei di confidare i suoi segreti a chi era disposto ad ascoltarli, e intanto sentivo nella mente le sue parole: “Si arruolò per non avere ulteriori problemi con gli imperiali”.
Non so esattamente quando iniziai a sentirmi in trappola. Molan Solpea non disse niente di particolare, non si mosse quasi dalla sua sedia. Eppure all’improvviso qualcosa in lui mi mise in guardia.
Lo pensai con una calma che a posteriori mi sconvolse: “se non voleva problemi con gli imperiali quando lasciò che sua sorella crescesse da sola su Fest, perché ora è qui e non mi ha semplicemente arrestato?
Non ho mai creduto nella redenzione; non in quella di un vile, ad ogni modo.
Lentamente, allungai il braccio verso il pannello di controllo informatico e sganciai la sicura del sistema di sicurezza.
Molan Solpea mi lasciò fare, e così sigillai ogni uscita. Il portellone della navetta, la botola della plancia, la porta della stazione informatica. K-2SO rimase fuori.
«Il sistema lo ha progettato lei» spiegai, teso. «È a prova di droide».
Molan mi sorrise. «Io li so risolvere in fretta, i sistemi di sicurezza di mia sorella» rispose. «E, nel caso ti fosse venuta in mente qualche idea sconsiderata: ho un blaster».
«Anche io ho un blaster».
«Bisognerebbe vedere chi è più veloce».
Nella paura, soffocai una risata. «No, non serve. Non avresti i riflessi abbastanza pronti». Presi una pausa, imponendomi la calma. Incredibilmente, non lo trovai affatto difficile. «Non sei in veste ufficiale, altrimenti avresti più uomini e non saremmo qui da soli. Però di fatto dei soldati ci sono, non sei venuto su Fedje per delle scuse, quindi … cos’è che vuoi?» chiesi, serio.
Molan Solpea non batté ciglio, ma glielo lessi in faccia che non si aspettava tanta schiettezza. Segretamente, me ne rallegrai.
Giocò al mio stesso gioco, e per una volta fu diretto.
«Voglio che tu ti costituisca» mi disse, schioccando piano la lingua sul palato. «L’Impero ha riconosciuto mia sorella, e adesso sta indagando su di me. Mio padre sovversivo, lei una ribelle che è rimasta su Rasp per un anno fingendosi un ingegnere … ci hanno messo poco fare due più due».
Non gli permisi di riprendere il controllo.
«Non mi posso costituire» sussurrai, stringendo i denti. «Non ho fatto niente».
Lo vidi sospirare, afflitto.
«Senti» disse. «Com’è che ti devo chiamare? Willix? Joreth?»
«Aach andrà benissimo».
«D’accordo, Aach sia. La situazione è questa, Aach: non hai nessuno. Vivi su un vecchio mercantile che non vola più, alla fabbrica mi hanno detto che non hai famiglia, in più mia sorella non mi ha mai parlato di te, quindi la butto lì: probabilmente ti avrà raccolto per strada». Rimasi in silenzio, il che dovette farlo sentire in diritto di continuare. «Io ho cinque figlie, la più piccola ha appena compiuto un anno. Per tenerle al sicuro, ho davvero bisogno che l’Impero chiuda l’indagine su mia sorella, e lo può fare soltanto se ritroverà il ragazzo che si era portata dietro su Wobani».
Non riuscii a trovare la forza di ribattere, non subito. Ero spiazzato: come poteva un tale codardo avere a che fare con la stessa donna che aveva sfidato un impero intero senza mai concedersi il lusso di tremare?
Molan Solpea sospirò pesantemente. «Non è facile, lo so» concluse. «Ma sono cinque bambine che cresceranno senza nessuno. Tu lo dovresti capire meglio di chiunque altro, Aach».
Lo capivo benissimo, per questo per un istante mi convinse a pensare di costituirmi sul serio. Pensai che, in fin dei conti, Mariceli amava suo fratello e le sue nipoti, che per loro avrebbe voluto il meglio. Ora che non c’era lei, a proteggerle, ora che il loro padre si era dimostrato così codardo, forse dovevo esserci io.
Non so bene cosa mi fece esitare. Egoismo, paura, forse la repulsione che provai per quel fratello che non era affatto come me l’ero immaginato. Però non riuscii a dire di sì. Avevo ancora delle cose da fare, anche se fino a quel momento mi ero scavato uno spazio che mi scusasse a non farle.
Mi resi conto che, attraversato il punto che stavo per attraversare, non mi sarei mai più potuto guardare indietro.
«Mariceli» risposi, scoprendo quanto doloroso fosse pronunciare quel nome. «Ha lasciato delle cose». Era una bugia bella e buona, ma sperai che il grasso coprisse la mia incapacità di mascherare la tristezza. «Se mi devo costituire, vorrei che le avessi tu».
Molan Solpea sollevò un sopracciglio. «Delle cose?»
Annuii. «Ci teneva che restassero in famiglia».
«D’accordo, voglio crederti».
Non mi credette neanche per un istante, ne sono convinto. Io stesso non avrei mai creduto a una scusa simile. Eppure sono questi, i compromessi a cui si scende quando si perde qualcuno: si abbassa ogni difesa nella speranza di ritrovarlo. Io l’avevo fatto fidandomi di lui, lui lo stava facendo fidandosi di me. In quel momento, eravamo spaventosamente simili.
Per questo fu un po’ più facile colpirlo.
Mi voltai con la scusa di fargli strada, respirando a fondo mentre gli occhi vagavano nella stanza alla ricerca di qualcosa di sufficientemente pesante. La protesi gli dava fastidio, perciò non poteva avere dei riflessi più pronti dei miei.
Avevamo quasi raggiunto la porta quando notai l’estintore appeso al muro. Sicuramente non avrebbe mai più spento incendi, valutai, e con tutta la forza che avevo nelle braccia lo strappai dal suo supporto e lo gettai sulla gamba di Molan Solpea con l’intenzione di sfondarla.
Piegato su se stesso in un goffo tentativo di ammortizzare il colpo, lui provò a raggiungere il blaster che portava legato alla cintura, ma fu troppo lento.
Fargli del male fu come punire me stesso per qualcosa di cui mi sentivo colpevole.
Mirai volutamente al ginocchio. Avrei potuto colpirlo alla protesi, lo avrebbe ugualmente tenuto a terra. Però con il tempo capii che non avevo altro modo di liberarmi: io avevo sofferto, Mariceli aveva sofferto, il Capitano Halos aveva sofferto. Ora toccava a lui.
Come sparai, si contorse con un grugnito di dolore, il suo blaster ormai abbandonato accanto al fianco. «K-2SO!» gridò, mentre le sue mani annaspavano cercando l’arma che mi premurai di allontanare con un calcio. «Dà l’allarme! Butta giù questa porta!»
Alle mie spalle, sentii il tonfo di un corpo contro l’uscio sbarrato.
Puntai il blaster contro il viso di Molan Solpea e lo guardai dall’alto, senza nemmeno permettermi di respirare.
«Di’ al droide di fermarsi» gli intimai. «O ti uccido qui».
Lui mi fulminò con l’odio acceso dei suoi occhi neri, rantolante al suolo mentre il droide provava a sfondare la porta. «Se muoio io, muori anche tu» mi ricordò.
Ne ero consapevole; non volevo neanche sapere cosa mi avrebbero fatto gli assaltatori che in quel momento probabilmente stavano facendo saltare il portellone. Tuttavia, non mi importava. «Io non ho nessuno» risposi, lucido. «Tu hai cinque figlie. Hai detto che l’Impero sospetta di te, no? Immagina cosa farebbe loro se non dovessi tornare».
Non so se sarei mai riuscito a ucciderlo davvero. Di certo, dovetti sembrare molto convincente.
«Di’ al droide di andare nella navetta di sicurezza e mettersi in ibernazione» dissi di nuovo, affilato, freddo.
Molan Solpea emise l’ennesimo grugnito dolorante, ma alla fine cedette. «K-2SO» sospirò, sconfitto. «Stand-by e navetta d’emergenza. Ora».
Sentimmo gli ingranaggi del droide ronzare, dopodiché l’unico rumore fu quello dei suoi pesanti passi allontanarsi sul ponte della nave.
Trassi un sospiro di sollievo.
«E adesso dove te ne vuoi andare?» mi chiese il Tenente, interrompendo il muto compiacimento della mia vittoria con una risatina che sapeva di sarcasmo. «Su Fest a fare il ribelle?»
Per una volta, non riuscì a spiazzarmi con una domanda messa lì apposta per cogliermi di sorpresa.
«Sono affari miei» ribattei, poi scoccai un’occhiata la computer che ci sovrastava. Quanti dati pericolosi c’erano, lì sopra? Sicuramente c’erano tracciate le rotte di Fest. Dubitavo che Malon Solpea le avrebbe utilizzarle per un attacco, ma c’era pur sempre l’Impero di mezzo … dopotutto, come avrebbe giustificato l’essersi lasciato mettere i piedi in testa da un ragazzo? Senza contare che avrebbe dovuto fornire spiegazioni del perché fosse andato a ficcanasare su Fedje, e che denunciare l’Andor sarebbe stata la scelta più ovvia da parte sua per non incorrere in un richiamo.
Nel dubbio, raccolsi il suo stesso blaster da terra e feci scattare la modalità stordimento.
«Mi dispiace» dissi, guardandolo mentre prendevo la mira. Altra menzogna: non mi dispiaceva per niente.
Lui, intanto, si teneva ancora la gamba. «Mi hai già fatto del male abbastanza per farlo sembrare un attacco» sbottò. «Mi toglieranno comunque dalla lista dei sospetti anche senza lo stordimento, grazie tante».
«Sì, io intanto li avrò dietro per giorni» risposi, sospirando. «Grazie tante a te».
Mentre sparavo, nelle orecchie sentii chiaramente la risata del Capitano Halos. Immaginai che, se fosse stata lì, Mariceli ne sarebbe stata un po’ meno soddisfatta.
Lasciai Fedje così, a bordo di una navetta di salvataggio dopo aver formattato il computer di bordo e con un droide spento in un angolo ponte. Alle mie spalle rimase il mercantile e il Tenente Solpea con una gamba da far operare. Fu fedele a ciò che mi disse, però: non vi mise più mano e, tutte le volte che mi capitò di rivederlo, fu in compagnia di una stampella.
È strano quanto poco riesca a ricondurlo a Mariceli: i figli del Capitano Halos si assomigliavano tutti, in un modo o nell’altro; Mariceli e Malon, invece, non avevano che gli occhi dello stesso colore.


*


Per far perdere le mie tracce, utilizzai tutta l’energia immagazzinata nei motori e mi allontanai quanto più possibile da Fedje. In solitudine, atterrai su Codia, uno dei tanti pianeti sabbiosi attorno alla zona di Jedha, e la prima cosa che feci fu quella di trovare la maniera più scaltra di liberarmi della navetta senza rimanere abbandonato in mezzo al deserto. Certo, non era qualcosa che potessi fare da solo.
Smontare il modello KX di Malon Solpea per infilarci dentro la scheda madre del Capitano Halos e fare in modo che funzionasse fu una gran lunga seccatura, ma a conti fatti ne valse la pena. Non ricordo gioia più grande di vedere quei due occhi biancastri illuminarsi e scrutarmi con diffidenza, né un senso di sollievo più forte di quello che provai guardando quel corpo meccanico muoversi lentamente sul pavimento della navetta.
«C’è del lavoro da fare» fu la prima cosa che mi disse Kappa. Poi mi raccolse letteralmente da terra assieme agli attrezzi che avevo in mano e si sedette al sedile di pilotaggio con la schiena ancora aperta in un continuo guizzare di cavi e ingranaggi. «Andiamo, Cassian. Tylan ci starà aspettando. Sei sempre in ritardo».
Impiegai quasi tutta la sera a spiegargli come fossero andate le cose. Ogni volta che glielo ripetevo, lui entrava in negazione. Mi ricordò più un essere umano che un droide, e forse fu per questo che mi affezionai così tanto a lui da non gettare la spugna e insistere sul mio racconto.
Alla fine, dopo molta pazienza, parve comprendere.
«Dunque hai abbandonato l’Andor» considerò, atono. Stringeva ancora le mani attorno al volante.
Annuii. «Non avevo altro modo, e poi erano anni che Molan Solpea l’aveva tracciato. Mi dispiace».
Lo sentii emettere un suono del tutto simile a un sospiro. «Va bene così, me lo aspettavo che avresti fatto qualcosa di stupido, prima o poi. Ora non abbiamo più un posto dove tornare».
Deglutii. «Non è vero».
«Non penso che l’ottimismo possa aiutare».
«No, dico … abbiamo trovato qualcosa, su Wobani».
«Ah sì?» Gli ingranaggi di Kappa guizzarono di nuovo. «E cosa avreste trovato, su Wobani?»
Mi strinsi nelle spalle. «Un’offerta di aiuto, vedila così». Avevo un’idea molto precisa di cosa avessimo tra le mani, anche se non immaginavo minimamente che cosa poi saremmo diventati.
«Sei un tipo davvero imprevedibile per la tua età, Cassian. Spero tu te ne renda conto».
Contando che Kappa non è un tipo da fare complimenti se non in caso di stretta necessità, a ripensarci mi sento alquanto onorato.
Assieme, risolvemmo Quantificatore, il codice che mi portavo dietro da mesi e che aveva messo radici tanto profonde nella mia mente da prendersi anche i miei sogni. Mi ero chiesto per notti intere: “se non ci sono riusciti i crittografi imperiali, a comprenderlo, come posso riuscirci io?”, e in un certo senso fu quella stessa riflessione a farmi capire. Non c’era niente da decifrare, niente da sognare di notte.
«Il simbolo alla fine dei numeri quantifica la funzione» spiegai a Kappa, al quale avevo affidato il compito di occuparsi dei calcoli. «Si leggono le cifre partendo da destra, e si inseriscono nell’algoritmo originale come risultato. Poi si ricalcola al contrario».
«Io penso …» Gli ingranaggi di Kappa guizzarono in suono del tutto simile alla stizza di chi ha sempre avuto la soluzione sotto al naso ma non è mai stato in grado di coglierla. «… Penso che sia una maniera esageratamente semplice di risolvere la cosa, Cassian. Se fosse come dici tu, l’Impero avrebbe il 100% delle possibilità di rintracciare il segnale».
Strano a dirsi: mi era mancato.
«Infatti l’Impero lo ha rintracciato» risposi. «Ma deve esserci qualche sistema dall’altra parte che filtra i collegamenti e rifiuta quelli provenienti da indirizzi ufficiali».
«E il codice da decifrare sarebbe solo una falsa pista per far passare inosservati i filtri?»
«Si può fare?»
«Nella tua testa pare di sì».
Avevo ragione, anche se non mi è consentito rivelarne i particolari. In generale, tutto Quantificatore ha lavorato per anni grazie al fatto che le forze imperiali sottovalutavano quelle ribelli. Se solo fossero stati più cauti, su Wobani, l’Alleanza stessa forse non sarebbe mai riuscita a nascere.
“Qui Quantificatore”.
La voce che si diffuse quella notte nella navetta non era quella del Generale Draven, ma le somigliava moltissimo.
Trattenni il fiato, stringendo le mani attorno al microfono dell’interfono come se il metallo fosse la mia salvezza. Lo era, in un certo senso, perché il precario equilibrio che mi ero costruito di Fedje era stato distrutto del tutto. «Parla la navetta Andor» risposi, boccheggiante. Per un attimo, dimenticai ogni cosa. «Cassian, sono Cassian».
Il segnale era debole, continuamente interrotto dai fischi di un’altra trasmissione che tendeva a sovrapporsi alla nostra.
La voce esitò un poco, fischiando nell’interfono. “Andor … Cassian?” chiese.
Mi voltai a guardare K-2SO, in piedi al mio fianco con le braccia molli in attesa di ordini. Io e un droide di sicurezza, tutto quello che era rimasto della stessa Squadriglia Andor che un tempo aveva combattuto per Fest. Mi feci un po’ più vicino al comunicatore della plancia. Moriva un eroe, ne nasceva uno nuovo. «Cassian Andor, confermo. Ho sentito il vostro messaggio, e so dove sono i vostri compagni che me lo hanno portato».
“Comunica la tua posizione, Cassian Andor. Ti veniamo a prendere”.
«Potrei avere qualche imperiale alle calcagna, probabilmente ci hanno tracciati».
“Mantieni un basso profilo e il collegamento radio; al resto pensiamo noi. Per ora chiudo”.
Io e Kappa ci scambiammo un’occhiata riluttante.
«Dobbiamo disfarci di questa navetta» dissi.
Lui annuì. «Lo avevo capito da solo, ma grazie della precisazione».
Entrambi restii, abbandonammo l’Andor e ci affacciammo al freddo deserto di Codia. Era notte fonda, una di quelle ventose e gelide in cui il cielo parla.
Mi vestii con tutto quello che riuscii mettermi addosso, compreso quell’enorme giaccone che aveva addosso il pungente odore del Capitano Halos e che avevo usato fino a quel momento su Fedje. Con lo zaino in spalla e Kappa al mio fianco, mi arrampicai sulla cima di una duna. Da lì, guardammo l’Andor bruciare nell’esplosione causata dal tubo del riscaldamento che avevamo spezzato prima di metterci in cammino.
Seppur da lontano, quell’ultimo fuoco di Fest mi tenne al caldo.
Ero di nuovo in fuga, di nuovo braccato, di nuovo all’erta. Solo che stavolta avevo Kappa, e la sola consapevolezza di non stare combattendo una guerra da solo aveva spazzato via ogni angoscia.
«Sembri una brava persona, Cassian» mi disse lui, una volta che entrambi ci fummo ritrovati con la sabbia fin dentro l’anima.
Mi accigliai. «Grazie, Kappa» dissi di rimando. «Anche tu sembri un bravo droide».
Per un istante, ci limitammo a guardare l’immensità del cielo che ci sovrastava. Vidi una stella cadente, credo. Forse fu solo un’impressione, eppure sperai che qualcuno, da là sopra, ci stesse osservando in silenzio.
«Sarai anche un buon amico, Kappa» sussurrai, senza pensarci, rapito dal vuoto che circondava entrambi.
«Oh, grazie.» Nonostante il vento, sentii i suoi ingranaggi ronzare. «Anche tu sarai un buon amico, Cassian».
E poi facemmo grandi cose, Kappa ed io, e molte furono per la Ribellione, altre per Fest, pochissime per noi stessi. Ma non ci separammo mai più.
In fin dei conti, Mariceli aveva ragione: non sono mai riuscito a liberarmi dell’Andor, anche se forse la mia fu una scelta più che una condanna.
La verità è che quel giorno, quando compii sedici anni e Cunha mi reclutò per andare su Rasp, credetti di aver trovato una famiglia. Lo credetti quando passammo la serata a bere e a giocare a carte, quando Mariceli mi permise di pilotare, quando spendemmo notti intere a raccontarci storie, quando guardammo assieme le luci nel cielo spegnersi. Quando su Wobani divenni Willix, poi Joreth, e poi improvvisamente mi ritrovai ad essere Aach.
Erano la mia famiglia, e Kappa era stato il primo ad andarsene. Però fu anche il primo a tornare.








note

Lo so, lo so, lo so, lo so ci ho messo tipo tantissimo e mi scuso veramente tanto. Però ho una buona scusante: ieri ho discusso la tesi e fino a stamattina ho avuto la testa su un altro pianeta. Ho davvero rischiato di inserire pezzi del discorso finale nella fanfiction, ero a tanto così perché ormai me la stavo sognando, quella benedetta tesi. Ma sono viva, quindi yey :D

E ora che dire? Ho finito di raccontare, stavolta sul serio. La storia è finita. Insomma, finita finita proprio no, perché la vita è andata avanti per chi scrive e anche per chi è scritto. Malon Solpea è lì proprio per questo: concludere un arco di vita per aprirne un altro, quello della Ribellione vera e propria.
Penso di aver finito, da aggiungere resta davvero poco.
Al prossimo e ultimo capitolo, vi abbraccerò e coccolerò tutti come si deve. Quindi preparate la tenerezza.

BB8 in mezzo ai pulcini INSOMMA,
Lechatvert

PS: mi sono dimenticata di scriverlo, ma la parte finale di questo capitolo si rifà a questa bellissima fanart che ho trovato tempo fa su Tumblr e per cui ancora piango. E niente, piangete con me!




   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Star Wars / Vai alla pagina dell'autore: Lechatvert