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Autore: _Pulse_    05/06/2009    3 recensioni
Quella voce, quel viso, quelle labbra, quegli occhi… ma soprattutto quel sorriso le scatenarono in testa una confusione tale da chiudere gli occhi. Venne travolta da miriadi di immagini: risate, sorrisi, scherzi, litigate, pianti, la luna, parole, un’onda, il mare, il sole che calava al tramonto, ma erano tutte così mescolate e, come dire, sfuocate che non ci capì niente. In più, era da tantissimo tempo che non la chiamavano più Jinny. C’era qualcosa che non quadrava, assolutamente.
«Jennifer, stai bene?», le chiese preoccupata la madre, raggiungendola e mettendole una mano sulla fronte.
«Sì, mamma, sto bene, è stato solo un… giramento.»
Fissò i ragazzi di fronte a sé e sentì la testa pulsare. Sapeva chi erano, era fin troppo semplice capire che quei quattro erano i Tokio Hotel, uno dei gruppi più famosi in Germania, ma c’era qualcos’altro di cui sentiva l’importanza, ma che non riusciva a ricordare.
Li aveva visti altre volte, in televisione, sui giornali, e non le aveva mai fatto nessun effetto. Perché dal vivo sì? Perché sentiva dei ricordi premere così tanto nella sua testa, senza sapere quali ricordi?
(Sequel di "Surf che Passione"!!!)
Genere: Romantico, Triste, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: Eccolo qui, l'attesissimo sequel di "Surf che Passione" Embè, embè... eccolo qui. Non so che dire, oltre al solito insulso "Spero che vi piaccia". Beh, la verità è sempre una qualità apprezzata, no? Quindi, Spero che vi piaccia! Che sia all'altezza delle vostre aspettative e... Passo ai saluti, se no non lo posto più questo capitolo ^^ :
Scarabocchio_: Socia, grazie di tutto. Sia per i commenti che per le belle serate passate a chiacchierare su msn. Ci scarichiamo addosso tutti i problemi del mondo, ma in un certo senso è bella come cosa. Sono contenta di averti conosciuta e, come sai (Hai le anticipazioni, gli altri ti odieranno!), questo sequel è per te. Credo molto in te, pessimista, e a volte riesci a tirarmi giù, di nuovo con i piedi per terra, perchè nel mondo non bisogna mai essere troppo positivi... Va bè, questa è una cosa nostra. Comunque, grazie per tutte le recensioni che hai lasciato e ne aspetto ancora tante per questo! Ti voglio bene, by your optimistic Socia! Bacio gigante!!
tokiohotelfurimmer: Ciao! Ma come stai?! A me non è ancora arrivato niente, eh... O_o Vedrai che Bill e Camilla combineranno molto più un qualcosa, e Jinny e Tom... beh, leggere per sapere! La solita miss pefidia.
marty sweet princess: Amante degli happy ending che spera sempre e comunque in un lieto fine, ci si rivede! Spero che con questo sequel sarai felice, perchè ne combinerò delle belle!
Ladysimple: Grazie mille per i complimenti, sono molto felice che questa resterà la tua fanfiction preferita! Wow, sono commossa... Va bè, non mi potete vedere, ma piango ogni volta che ci penso. Vedrai, Tom, quel buzzurro, ne combinerà delle belle anche qui, ma userà un pò di più la testa, e quella cosa tanto fragile e segreta che ha in mezzo al petto... il cuore. Strano, ne? Basta con le anticipazioni!!
niky94: Grazie, perchè non te ne perdi una!! Un bacio grande grande.
Kvery12: Grazie! Spero che questa volta... faccia uno strappo alla regola, ti deve piacere!! Eheh, un bacio!

Grazie anche a tutti quelli che hanno letto, anche se mi aspetto molte nuove persone a commentare, perchè io non mi accontento mai, lo ammetto!! Un bacio, la vostra stramba "autrice" Ary.



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Sometimes we don't learn from our mistakes
Sometimes we've no choice but to walk away, away
Tried to break my heart
Well it's broke
Tried to hang me high
Well I'm choked
Wanted rain on me
Well I'm soaked
Soaked to the skin

It's the end where I begin
It's the end where I begin

1
The end
where I begin

 

Erano passati otto mesi. Otto cavolo di mesi senza lei, spenti seppure fossero stati molto impegnativi tra le interviste, la promozione dell’album, che avevano registrato quando ancora lei c’era, e il nuovo tour.

Non riusciva a capire bene cosa c’era che non andava: avevano tutto, eppure… Forse faceva finta di non vedere, cercava in ogni modo di convincersi che non era la sua assenza la causa del suo umore sempre fiacco, ma che da un po’ di tempo era stressato. Ma tutti sapevano che non era così.

C’era Bill che ogni tanto cadeva in stati di tristezza assoluta durante i quali non voleva fare altro che piangere perché le aveva fatto una promessa e, a causa della lontananza, degli impegni e anche un po’ del fratello e di quello che provava lei ogni volta che lo sentiva, non era riuscito a mantenerla. Ci era riuscito per un paio di mesi, ma poi il loro rapporto sembrava così freddo che aveva preferito non chiamarla più, anche per il suo stesso bene.

Mentre Tom era lì seduto a pensare a tutte quelle cose e molte ragazze gli lanciavano occhiate seducenti, si scolava un bicchiere dopo l’altro, evidentemente poco attratto da quel party, e guardava con la coda dell’occhio Gustav e la sua nuova ragazza, conosciuta un pomeriggio di ben tre mesi prima, prima di un concerto, scambiarsi smancerie che lo deprimevano sempre di più.

«Che fai Tom, te ne stai lì impalato o ti decidi e te ne scopi una?», chiese Georg scocciato da quel Tom non più Tom.

Se gli mancava così tanto, perché non la chiamava? Georg Se lo chiedeva spesso, ma capiva bene il perché, dopotutto. Era stata solo colpa sua se si erano lasciati e non voleva ammettere così grossolanamente il suo errore. Però… quando gli sarebbe passata? Non gli piaceva vedere Tom in quelle condizioni, anche perché se stava così lui, Bill stava dieci volte peggio a causa della sua trasparenza d’animo. Tom tendeva a nascondersi e a tenersi tutto dentro, mentre Bill si lamentava continuamente con loro, fino ad assorbirgli tutta la linfa vitale.

Mancava a tutti, non c’erano dubbi, ma in qualche modo dovevano pur andare avanti.

«Allora?», chiese ancora all’amico che fissava con occhi languidi il suo bicchiere mezzo vuoto.

«No, stasera non mi va, vai tu», gli disse.

«Senti», si mise seduto al suo fianco sul divanetto e gli mise una mano sulla spalla. «Non puoi andare avanti così!»

«Bill finalmente mi ha detto quel famoso: “Te l’avevo detto!”, sai?», sospirò.

«E quando?»

«Stamattina.»

«È per questo che oggi sei più giù del solito?»

«Più giù del solito? Oh, grazie Georg, questo sì che mi tira su di morale!»

«Ma scusa… perché non metti da parte l’orgoglio e la chiami?»

«Non mi vuole più sentire e fa bene.»

«E chi te lo dice?»

«È così, so che è così! Dopo tutto quello che le ho fatto… non merito una seconda opportunità, nemmeno da lei.»

«Tom, tutti meritiamo una seconda possibilità, se siamo sinceri.»

«Già, con lei non mi sono comportato bene.»

«Invece ti sei comportato bene, secondo me.»

«Mi stai prendendo per il culo?»

«No. Tom, tu le hai detto subito di non sperare troppo nel lieto fine, mi sembra. Sei stato onesto, non l’hai presa in giro e te ne sei sbattuto la minchia come avresti fatto con una qualunque.»

«Ma lei non è una qualunque, lo so. Ho sbagliato. Di brutto.»

«Tom, devi riprenderti. Non so come, ma in qualche modo devi, non sopporto di vederti così, nessuno di noi può. Ok?»

«Ok, ci proverò. Grazie.»

«Dovere, amico. Che hai intenzione di fare, ora?»

«Credo che tornerò a casa.»

«Ok, portati dietro anche Bill, non si diverte per niente.»

«Ci copri tu con David?»

«Ci mancherebbe altro. Ci vediamo domani, allora.»

«Ok, notte Georg.»

Si alzò dal divanetto e si stiracchiò le braccia. Incrociò lo sguardo di Gustav e lo salutò con una mano. Lui ricambiò distratto, così preso dalla sua bella.

Non credeva potesse mai succedere, ma in quel momento lo invidiò perché lui aveva la persona che amava al suo fianco e lui no.

Cazzo, era innamorato di lei e non se ne era mai reso conto, non aveva mai aperto gli occhi veramente e quelle erano le conseguenze che doveva pagare.

Girò per l’intero locale fra le luci soffuse dei privè, quelle appena più forti del bar e quelle della pista da ballo, un po’ preoccupato perché non trovava Bill da nessuna parte.

Finalmente lo vide in un angolo, che rideva da solo con un grande bicchiere in mano. Lo raggiunse quasi di corsa e lo sorresse mettendogli un braccio intorno alla vita.

«Ehi, fratellone!», gridò.

«Molla l’osso, sei ubriaco», gli disse un Tom severo rubandogli il bicchiere di mano.

«Uffa, sei proprio un guastafeste!»  

«Sì, ringrazia solo di avere un guastafeste che ti vuole bene. Forza, andiamo a casa.»

Lo condusse fuori dal locale e lo fece sedere in macchina. Stava per mettere in moto, quando si sentì osservato e lo guardò: stava piangendo.

«Perché piangi, Bill?», gli chiese a fatica con un groppo in gola.

«Mi manca Jinny.»

Tom chiuse gli occhi e sospirò appoggiando la testa al sedile.

«A chi non manca, eh?»

«Perché non la chiamiamo?»

«Solo le tre del mattino, Bill.»

«E allora? Dai, ti prego, chiamiamola.»

Odiava vedere suo fratello in quelle condizioni e per il fatto che erano gemelli riusciva a percepire il suo malessere come se fosse proprio, e non era una bella sensazione. Sospirò addolcendosi e tirò fuori il cellulare.

«Se non ci risponde la prima volta basta, ok?», gli disse, ma Bill era troppo contento anche solo per ascoltarlo.

Tom ci mise infinitamente poco a trovare il suo nome in rubrica, abituato com’era a fissarlo nelle notti insonni, e con gli occhi lucidi mise il vivavoce.

C’era il silenzio più assoluto e così anche loro avevano trattenuto il respiro, poi una voce addormentata li fece sobbalzare.

«Si può sapere chi cazzo è quest’ora di notte?! Io domani ho anche scuola!», gridò alquanto impedita da uno sbadiglio.

Si fissarono e Bill si lasciò scappare un sorriso, mentre Tom era imbambolato, i polmoni stretti in una morsa d’acciaio.

La sua voce era… era lei, la stava sentendo, dopo otto mesi di silenzio era di nuovo lì, che gli parlava. Era fin troppo irreale.

«Allora, si può sapere con chi ho l’onore di parlare?!»

«Ciao, sono Bill!», urlò lui ancora fra le lacrime.

«Chi?! Io non conosco nessun Bill, mi sa che hai sbagliato numero! E ora buona notte!»

Chiuse la chiamata e Bill guardò il cellulare, una nuova fitta nel cuore lo percosse e si trovò a piangere più di prima.

«Era lei…», soffiò. «Non mi vuole più sentire…»

«Magari non ti ha riconosciuto», optò il chitarrista, ma con speranze pari a zero.

«Tomi, voglio che torni tutto come prima!»

«Bill, non so che altro dirti oltre che è stata tutta colpa mia. Se ti avessi ascoltato, a quest’ora…»

Tom venne travolto da Bill che lo abbracciò e lo strinse forte a sé, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla.

«Tomi, non dire così», sussurrò.

«Ma è la verità!»

«Voglio andare a casa», si scostò e lo guardò intensamente negli occhi prima di sedersi nella maniera più composta possibile sul proprio sedile ed asciugarsi le lacrime sulle guance.

«Ok, andiamo, domani ci aspetta una lunga giornata.»

 

***

 

Ok, se l’erano cercata, Benjamin aveva tutta la ragione e il diritto del mondo a rimproverarli, ma Tom vedeva che negli occhi del loro management c’era anche qualcos’altro, soprattutto contro di lui. Non bastava il dolore che già di per sé provava? No, ci si doveva mettere pure lui con le sue frecciatine.

Da quando aveva saputo da suo fratello quello che era successo alla sua nipotina Jinny e quello che aveva fatto Tom, anche se lei aveva detto poco o niente di tutto quello che avevano combinato, l’aveva sempre guardato male, con quel cenno di ostilità nei comportamenti e negli sguardi.

Tom era sempre rimasto in silenzio e aveva subìto, così come doveva essere, ma quando Benjamin metteva in mezzo quella storia con cose che non c’entravano niente, come il ritardo di mezz’ora che avevano fatto lui e Bill quella mattina, no, non lo sopportava. Ma era stato zitto anche in quel caso, lottando contro la rabbia, perché sapeva che non sarebbe andata a finire bene comunque.

Finita la ramanzina aveva solo voglia di andare a prendersi un caffè, visto che quella mattina non avevano fatto in tempo a fare niente a causa del mostruoso ritardo, perché ne aveva davvero bisogno. E poi fare quattro passi lo avrebbe aiutato a scaricare la tensione.

Arrivò alla macchinetta con le mani nelle tasche e si accorse di non avere con sé la chiavetta. Doveva averla lasciata a casa nella fretta.

Di bene in meglio, complimenti!

Sospirò infastidito e si mise appoggiato al muro di fronte ad essa, a guardare il pavimento e a riflettere.

Si rese conto che Benjamin non aveva mai parlato esplicitamente di Jinny con lui e che lei non era mai sulla sua bocca. Per certi versi era un bene, per altri un male: se ne avesse parlato si sarebbe trovato con il cuore spaccato ad ogni singola parola e non poteva permettere di far vedere a tutti come soffriva; ma se non ne parlava lui si ritrovava costretto a viaggiare con la fantasia e ad immaginarsela. Non sapeva che faceva, come stava… non sapeva nulla di lei, era come sparita dalla faccia della terra.

Una volta l’aveva pure sognata: era bellissima, come sempre, senza il gesso alla caviglia, e sorrideva al sole, sdraiata sulla sabbia. Poi era arrivato Riky e il sogno si era chiuso in bellezza con un bacio e una risata fra i due alle spalle di Tom, trasformandosi in un incubo. Quella notte non era più riuscito a dormire.

«Ehm… mi scusi…»

Sgranò gli occhi nel sentire quella voce così simile alla sua. Era la donna seduta dietro il bancone della reception, che lo guardava e sorrideva imbarazzata. Aveva due occhi verdi che Tom associò dolorosamente identici a quelli di Jinny, ma preferì non pensarci troppo.

«Ha bisogno di qualcosa?», gli chiese.

Era una donna sulla quarantina, di corporatura esile, i capelli biondi e corti, anch’essi molto simili a quelli di Jinny, raccolti in una coda sulla nuca.

«No, non si preoccupi. Lei è nuova? Non mi sembra di averla mai vista prima.»

«No, in verità sono qui da una settimana.»

«Oh, non me ne sono accorto.»

«Sembra molto sulle nuvole in questo periodo, Herr Kaulitz.»

«Come fa a sapere chi sono?»

«Beh, chi non vi conosce?», sorrise e Tom si impose di non pensare a quanto simile fosse a quello di Jinny, ma lo fece lo stesso.

«Già, me ne ero dimenticato. Comunque puoi chiamarmi semplicemente Tom.»

«Ok, come preferisci. Io sono Victoria.»

«Piacere.»

«Piacere mio. Scusa se sono impertinente, ma posso sapere che fai qui? Benjamin non sembrava contento del vostro ritardo.»

Tom la guardò stranito. Cos’era tutta quella confidenza con il loro management?

«Volevo dire… Herr Ebel, ovviamente», si corresse arrossendo.

«Sì, mi sto prendendo una pausa. Avevo l’intenzione di prendermi un caffè, ma mi sono accorto di aver dimenticato la chiavetta a casa. E visto che non avevo voglia di tornare indietro sono rimasto qui.»

«Oh, capisco. Se vuoi posso offrirti qualcosa io.»

«Non ti disturbare.»

«Nessun disturbo, so come può essere dura incominciare la giornata senza caffeina.»

Ancora quel sorriso gli fece male ed evitò di guardarlo.

Victoria gli porse gentilmente il bicchierino di caffè e tornò alla sua postazione dietro al computer. Lui la osservava di sottecchi, senza farsi notare.

Era pazzesco come si somigliassero! Tentava di non pensarci, ma era più forte di lui.

«Tom!»

Si sentì chiamare e vide Bill, Georg e Gustav venirgli incontro.

«Che ci fate tutti qui fuori?», chiese.

«Siamo venuti a cercarti, visto che non tornavi più!»

«Mi sono solo preso una pausa.»

«Un po’ troppo lunga per i gusti di Benjamin», fece notare Gustav.

«Me ne frego, oggi è insopportabile.»

«C’è anche da dire che la colpa è vostra», disse Georg.

«Sì, ma può capitare! Non vedo perché debba fare le tragedie greche!»

Rimasero tutti a fissarsi per qualche secondo in silenzio quando sentirono una voce alle loro spalle, che Tom riconobbe subito come quella di Victoria.

«Oh, no! Si è impallato di nuovo il computer! E adesso?»

Si girarono tutti contemporaneamente e la guardarono. Lei sorrise imbarazzata e fece un cenno con la mano come per scusarsi, per poi cercare qualcosa nella borsa. Tirò fuori il suo cellulare e chiamò qualcuno, il tutto guardata dai ragazzi.  

«Jennifer? Oh, menomale che hai risposto! Si è impallato ancora in computer! Non è che potresti fare un salto qui? Non me la sento di chiamare… ecco. Già l’altra volta mi ha fatto la ramanzina perché credeva che fosse stata colpa mia, quindi… Grazie tesoro, sei un amore.»

Ci sono milioni di Jennifer al mondo, ci sono milioni di Jennifer al mondo, ci sono milioni di Jennifer al mondo… si disse Tom con i pugni stretti nelle tasche.

«Scusate, potreste non dire niente a… Herr Ebel?», chiese con tono supplichevole.

«Ok, non ti preoccupare. So come ci si sente ad essere presi di mira», disse Tom facendole l’occhiolino.

 

***

 

Era in un ritardo pazzesco all’appuntamento con Camilla e in più ci si era messa pure sua madre ad incasinarle tutto. In verità era andato tutto male da quella mattina, quando, alle tre, qualcuno che probabilmente aveva sbagliato numero l’aveva svegliata chiamandola al cellulare.  

Ok, calma, rilassati, si disse, ma al contrario cominciò a correre presa dal panico immaginandosi la faccia furiosa di Camilla quando l’avrebbe vista.

Andò a sbattere accidentalmente contro una ragazza sbucata fuori dal nulla e tutti i suoi disegni si sparsero sul marciapiede.

«Oddio, scusa!», disse subito la ragazza, chinandosi ad aiutarla.

«No, figurati, non è colpa tua. Sono io che ti sono venuta addosso.»

«Va bè, questo non importa. Guarda che disastro!»

Li raccolsero in più fretta possibile e la ragazza non poté non notare che aveva un vero talento nel disegnare e si complimentò facendola arrossire.

«Oh, scusami tanto, io sono Arianna.» 

«Piacere Arianna, io sono Jennifer.»

«Ok, Jennifer. Dove dovevi andare così di corsa?»

«Al lavoro da mia madre, alla Universal!»

«Tua madre lavora alla Universal?»

«Sì, fa la segretaria, perché?»

«Non mi pare di averla mai vista.»

«Anche tu frequenti la Universal?»

«Sì, ci… lavora il mio ragazzo!»

«Oh, capisco! Allora possiamo fare la strada insieme!»

«Oh, va bene!»

 

***

 

Sì, era impossibile. Oddio, visto come si somigliavano poteva anche essere, ma si rifiutava anche solo di pensare che fosse così. Non poteva esserlo e basta. Non poteva essere la sua Jennifer, punto e stop.

«Non credevo avessi una figlia, non hai nemmeno la fede», disse Tom sporgendosi sul bancone.

«Oh, beh, io e mio marito abbiamo divorziato tempo fa», disse con amarezza.

«Mi dispiace», balbettò.

Era stato fin troppo duro e non se n’era nemmeno accorto preso com’era a negare l’eventualità che quella Jennifer fosse proprio la sua.

«E quanti anni ha tua figlia?»

«Tom, sarà meglio andare», disse Bill che sentiva già puzza di guai e di ricordi.

«No, aspetta un attimo», lo azzittì e tornò a guardare Victoria.

«È un po’ più piccola di te, ha fatto diciotto anni ad agosto.»

Si sentì mancare, per fortuna c’era il bancone a sorreggerlo.

«Tom, stai pensando a quello che penso io, vero?», chiese Gustav.

Tom annuì e guardò Victoria confusa, che guardava a turno tutti i ragazzi che avevano pian piano allargato un sorriso sulle labbra, tranne Tom che era quasi impallidito.

Sentirono la porta scorrevole aprirsi dietro di loro e si girarono di scatto, pronti ad accogliere la bellissima sorpresa che gli era capitata in quella giornata iniziata con il piedi sbagliato.

Entrarono due ragazze: una familiare e una fin troppo familiare.

La prima era Ary, la ragazza di Gustav, la seconda era… Jennifer, o, per meglio dire, Jinny. Non era cambiata molto, a parte l’altezza e i capelli biondi di nuovo lunghi e divisi in piccole treccine che da lontano potevano pure sembrare rasta sottili, raccolti in una coda sulla nuca.

«Jinny, sei proprio tu!», urlò Tom ben radicato sul posto.

Aveva tentato in tutti i modi di non illudersi, di non sperare inutilmente che quella fosse la sua Jennifer, ma quella che era entrata era proprio lei, proprio la sua piccola Jinny.   

 

***

 

Quella voce, quel viso, quelle labbra, quegli occhi… ma soprattutto quel sorriso le scatenarono in testa una confusione tale da chiudere gli occhi. Venne travolta da miriadi di immagini: risate, sorrisi, scherzi, litigate, pianti, la luna, parole, un’onda, il mare, il sole che calava al tramonto, ma erano tutte così mescolate e, come dire, sfuocate che non ci capì niente. In più, era da tantissimo tempo che non la chiamavano più Jinny. C’era qualcosa che non quadrava, assolutamente.

«Jennifer, stai bene?», le chiese preoccupata la madre, raggiungendola e mettendole una mano sulla fronte.

«Sì, mamma, sto bene, è stato solo un… giramento.»

Fissò i ragazzi di fronte a sé e sentì la testa pulsare. Sapeva chi erano, era fin troppo semplice capire che quei quattro erano i Tokio Hotel, uno dei gruppi più famosi in Germania, ma c’era qualcos’altro di cui sentiva l’importanza, ma che non riusciva a ricordare.

Li aveva visti altre volte, in televisione, sui giornali, e non le aveva mai fatto nessun effetto. Perché dal vivo sì? Perché sentiva dei ricordi premere così tanto nella sua testa, senza sapere quali ricordi?

«Come… come fai a sapere come mi chiamo?», chiese al ragazzo biondo dalla pettinatura rasta. Se non sbagliava era il chitarrista della band e si chiamava Tom, fratello gemello di Bill, quello con i capelli neri, affianco a lui.

«Che cosa?», chiese a bocca aperta.

«Jinny, siamo noi!», disse Bill quasi spaventato.

«Voi… Voi siete i Tokio Hotel, giusto?»

«Sì! Ma noi siamo anche… amici. O, perlomeno, lo eravamo. Non so se lo siamo ancora, comunque spero di sì perché…»

«Bill, smettila di parlare, non si ricorda di noi», sussurrò Gustav ad occhi sgranati, la mano sulla bocca di Bill.

«Davvero non ti ricordi tutto quello che abbiamo passato assieme?», chiese ancora più piano Georg.

Jinny spalancò gli occhi, quasi in lacrime, indietreggiando, e si portò le mani alla testa, sembrava davvero spaventata.

«No, io… io non mi ricordo… Mamma…»

«No, Jinny, sono qui! Non ti preoccupare, va tutto bene.»

La abbracciò e Jinny nascose il viso nella sua spalla, visto che era qualche centimetro più alta di lei.

«Jinny!», gridò Benjamin vedendola fra le braccia di sua madre. «E voi, tornate subito in studio!», ringhiò ai ragazzi, indicandogli la strada con il braccio.

Loro, assieme ad Ary, iniziarono ad avviarsi, ma continuavano a guardare quello strano trio: Jinny, sua madre Victoria e Benjamin.

«Victoria, ti avevo detto di non farla venire qui!», le gridò lui.

«Lo so, ma mi si è impallato di nuovo il computer!»

«Sai che me ne frega di quel cavolo di computer! Lei non doveva venire qui!»

«Ma perché?!»

«Ah, vi prego, smettetela!», gridò Jinny e i due si guardarono truci, chiudendo le bocche.

Jinny li guardò e si passò le mani sul viso, poi si sistemò la coda e per un brevissimo ma lunghissimo momento incontrò lo sguardo di Tom, ancora lì a guardare.

Non sapeva perché, ma quegli occhi le facevano venire i brividi.

Chi era lui? Chi era lui per lei? Perché il cuore le batteva così forte? Perché la faceva sentire così fragile e allo stesso tempo così invincibile? Mai come prima sentì il bisogno di sapere chi fosse.

Il suo cellulare suonò e la distrasse dal suo sguardo magnetico, costringendola a cercarlo nella borsa e a rispondere.

«Pronto?», tremò, incrociando di nuovo quel nocciola stupendo.

«Jinny! Ma dove sei? Cavolo, ci dovevamo vedere un’ora fa!»

«Sì, lo so Camilla, scusami. Arrivo subito.»

Guardò sua madre e suo zio e fece un breve cenno del capo prima di girarsi e di far aprire le porte scorrevoli. La tentazione fu troppo forte: controllò ancora all’interno e di nuovo il suo sguardo la fece rabbrividire, ma allo stesso tempo arrossì e si trovò a fare un timido sorriso.

 

 

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Nota: La canzone che dà il titolo a questo capitolo, oltre che a questa FF (continuo di “Surf che Passione”), è The end where I begin, dei The Script. E questa è la traduzione, per chi è interessato:
A volte non impariamo dai nostri errori / E volte non abbiamo scelta ma camminiamo via, via / Prova a rompere il mio cuore / Bene, si è rotto / Prova a mandarmi in alto / Bene, soffoco / Pioggia carente su me / Bene, sono impregnato / Impregnato sulla mia pelle / È la fine dove io inizio / È la fine dove io inizio.
Grazie a tutti, grazie per il supporto, vi voglio bene *__*  Ary

   
 
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