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Autore: Made of Snow and Dreams    26/03/2017    2 recensioni
Strani eventi cominciano a disturbare la vita dei nostri killer: macabre scoperte, gente spaventata per un pericolo sconosciuto, corpi ammassati nella foresta. Cosa sta succedendo? Chi sta minacciando il territorio dei nostri assassini? Chi è il nemico?
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Un paio di avvertimenti è sempre meglio farli:
Il linguaggio, con la venuta di Jeff e l'alternarsi delle vicende, non sarà proprio pulitissimo.
Dato che il mio progetto include la presenza dei miei Oc (quindi ho detto tutto), saranno presenti scene di violenza varia con un po' di sangue (un po'? Credeteci pure...).
Spero vi piaccia.
P.S. Fate felice una scrittrice solitaria con una recensione, si sentirà apprezzata!
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Notti di noi





Intermezzo: Conclusioni



 

‘Tornate dentro. ‘ ordinò la voce, e nell’istante in cui il timbro grave e minaccioso tagliò i pochi metri che lo separavano dalle due donne, Polly Smith ebbe un sussulto. Boccheggiò per lo spavento e il petto tremolò sotto la camicia in flanella. Fissava nella sua rigidità ipnotica l’orizzonte spoglio e deserto, dalle dune verdeggianti stagliate sotto un cielo grigio e plumbeo. Tempo per la pioggia: l’aria era pregna di quell’odore dolciastro e delicato che rilasciava il muschio dopo un violento temporale.
Si accorse di aver affondato le unghie nelle spalle di Patricia solo quando un gemito fu soffiato in una spirale di alito caldo verso il suo orecchio. La sua amica le cingeva saldamente i fianchi fino a premere il suo ventre contro il diaframma, e per un attimo Polly si sentì mozzare il respiro, schiacciata da quella massa fibrosa e ingombrante. Patricia, il volto impallidito e gli occhi immensi, scandagliava ogni centimetro di sottile nebbiolina che poteva celare l’origine della voce estranea, cattiva.
‘Avete capito? ‘ ripeté la voce, più affilata e sprezzante che mai. Polly e Patricia, ancorate l’una all’altra come due naufraghi, arretrarono di qualche passo senza distogliere lo sguardo dalla direzione da cui proveniva il monito. Lentamente, con la gola secca, entrambe si avvicinarono al tendone chiuso; ma nessuna delle due volle toccarlo per scostare i drappi che le separavano dall’unico luogo che, paradossalmente, sembrava il più sicuro. ‘Entrate dentro. Carognette. O preferite assistere qui al Gran Finale? ‘
Ride! Formulò in un uragano di parole mescolate Polly, frastornata dalla scoperta orribile e grottesca. Era semplicemente inconcepibile la sola ipotesi che il detentore di quella voce potesse imprimere l’ombra dell’ilarità nelle sue parole, eppure eccolo lì nell’aria e nelle sue orecchie, quel suono rotto e sotterraneo, sommesso e volutamente beffardo: talmente palpabile e presente che ebbe la netta percezione di essere circondata, osservata da un paio di occhi itterici e felini con l’attenzione predatrice e crudele che un macellaio riserva nello sgozzare un vitellino inerme.
No, no, no. Non è possibile che… eppure non può essere tutta un’allucinazione, santo cielo!
‘C-Chi è lei? ‘ balbettò con esitazione Polly, stringendo con fermezza la sue presa sulla schiena di Patricia. ‘Noi dobbiamo… ‘ Coraggio, Polly, vai avanti! ‘Dobbiamo andare a casa, mi dispiace. Ma abbiamo gradito lo spettacolo, e sono più che sicura che il finale sarà degno della vostra bravura. ‘ sorrise, un sorriso forzato. ‘Ma ora si è fatto davvero tardi, e la mia amica, come può vedere, non è in condizione…’
‘Siete forse sorde? Ho detto che dovete entrare dentro il tendone. E non ha alcuna importanza se la tua amica è gravida o no. Obbedite! ‘ replicò la voce interrompendola.
Autoritaria e litigiosa, e Polly detestava coloro che imponevano i loro bisogni e le loro regole sugli altri e su di lei – Vero, papà?

Come suo padre. Un alcolizzato che picchiava la moglie, sua madre, tutte le notti in cui i suoi passi pesanti e trascinati risuonavano del fetore dell’alcool, e non si faceva scrupoli a lasciare lividi violacei anche in sua presenza. Una bambina brava e ubbidiente come Polly si era impegnata a diventare per non irritarlo ulteriormente non avrebbe fiatato sulle percosse ogni notte sempre più violente – e lei era rimasta silente, soffocando le grida di terrore ogni volta che sua madre perdeva l’equilibrio e cadeva sul pavimento, con gli occhi pesti e il naso rotto. Ma da ragazza, dopo che la sua povera, stupida e ingenua mamma era stata ricoverata in ospedale per una costola incrinata di troppo…



Papà, tu sei solo un povero disperato che non sa altro che insultarci, me e la mamma! Chiamerò… no, non ti avvicinare, fermo con il matterello! ... chiamerò la polizia se non ti fermi, povero beone, beone idiota!



‘Lei non è nessuno né per darmi del ‘tu’ né per ordinarci cosa fare, capito? ‘ sibilò con voce consunta, rossa in viso, con il cuore che echeggiava tonante nelle orecchie. La risatina acerba divenne fragorosa, volutamente canzonatoria, con una sfumatura di piacere ancor più esasperante del sarcasmo. La sensazione di essere studiata con altezzosità crebbe d’intensità, fino a mutare in una certezza: gli occhi itterici si erano avvicinati senza preavviso, osservandola deliziati. ‘E se non la smette con il suo comportamento, chiamo la polizia! ‘ squillò, giocandosi l’ultima carta che teneva in serbo, quella che generalmente dissuadeva qualsiasi ladro dai suoi propositi.
La risata evolse. In quel lago di sogghigni graffianti e sardonici la nebbia artificiale sembrò contrarsi in se stessa. Un trucco illusionistico, ma Polly Smith ebbe il tempo necessario per scorgere una figura umana, quella che – sperava, perché era sempre meglio sapere l’esatta posizione di un probabile aggressore – si era occultata fino a quel momento e che, la donna ne possedeva l’assoluta sicurezza, era sempre rimasta pazientemente dietro lo quinte.
La figura era alta e con le spalle ampie. Con la schiena appoggiata a una massiccia trave di legno, da dietro una tenda di serici capelli lisci, neri come il carbone, un paio di occhi, con la cornea giallognola e le iridi scurissime, le scrutavano con inaudita intensità. Un brivido di disagio si diramò per l’intera schiena di Polly.

‘Piaciuto l’effetto scenico? ‘ chiese l’uomo. Le sue spalle ebbero un guizzo e i muscoli del collo si contrassero. Storse la linea sottile che era la sua bocca corrucciata fino a delineare un sorriso criptico – Non propriamente rassicurante, pensò Polly. Indossava una camicia bianca inamidata con delle ampie maniche a sbuffo, stirata a dovere da dei pantaloni bordeaux leggermente aderenti. Quando si muoveva il completo creava delle pieghe ampie e morbide sul suo corpo, rendendolo simile ad un uomo di altri tempi, ma erano quegli occhi, sì, quegli occhi gialli a rovinare l’aspetto completo, ed ora che l’uomo si avvicinava ulteriormente Polly notava la consistenza spugnosa e spenta delle pelle, costellata di piccole croste marroncine, e gli occhi stessi erano stranamente sporgenti come quelli dei pesci, e minuscole vene erano in rilievo sugli zigomi alti e affilati-
E’ un drogato. Lo sguardo è quello dei drogati, o mi sbaglio? C’è qualcosa che stona…
In un batter d’occhio era di fronte a loro. Patricia sembrò ritrovare il minimo di calma per slacciare le braccia dal torso di Polly, ma decise di restare comunque al suo fianco. L’uomo seguì con quelle iridi quasi innaturali i polsi che scivolano sul vestito gonfio, frusciando contro la stoffa tesa, e l’angolo della sua bocca si alzò lievemente quando Patricia incagliò entrambe le braccia attorno al suo ventre per proteggerlo.
‘Non vi farò niente se fate come vi dico, ‘ aggiunse piuttosto soavemente, ‘ma se continuate ad agire di testa vostra, dovrò prendere provvedimenti per conto del mio capo. ‘
‘Quali provvedimenti? Noi vogliamo solo tornare a casa… ‘
‘Non potete. ‘ replicò l’uomo. ‘Dovete tornare dentro. Nessuno tornerà a casa oggi. ‘ aggiunse trionfante. Le cornee si tinsero nuovamente del color ocra, come se ad ogni scoppio di rabbia uno sbuffo di pittura si dissolvesse in due pozze d’acqua cristallina. Due minuscoli capillari trasparirono dallo strato apparentemente fragile dell’epidermide grigiastra, per poi scomparire subito dopo.
Polly e Patricia si scambiarono un’occhiata interrogativa, sgomente. Poi Patricia proruppe: ‘Che significa ‘nessuno tornerà a casa oggi’? ‘
L’uomo scrollò la testa. I capelli neri ricaddero sulla camicia bianca in un tuffo di seta lucida. ‘Significa che il Gran Finale è vicino. ‘ Dal tendone si levarono degli applausi concitati e risuonarono alcune risatine infantili, e lui sorrise, stirando talmente tanto le labbra da sbiancarle. ‘Molto, molto vicino. ‘
Patricia sbuffò esasperata e intontita. Levò gli occhi al cielo in una buffa parodia di un Santo che invoca il cielo per un miracolo al momento giusto. ‘Senta, per quanto io sia sicura che il finale sia davvero meraviglioso e imperdibile, noi dobbiamo assolutamente andare. Mi dispiace, ma…’
‘Allora non ci siamo proprio capiti. ‘ insistette lui. E c’era qualcosa di nuovo nel suo timbro vocale e nella minima facciale che suggerì a Patricia e a Polly di non rispondere, qualcosa di vagamente temibile e oscuro. L’uomo indietreggiò ad ampie falcate, con lo sguardo inchiodato a loro e la bocca contorta in una smorfia di stupore contrito – Stupore? Lui? - come se stesse in realtà squadrando due mostri dalla forma indicibile. ‘E io che speravo foste intelligenti… ‘ sospirò deluso. ‘Ma a quanto pare bisogna ricorrere alle maniere forti per farvi apprendere la lezione. Devil, bello, vieni qua… ‘

Si udì uno scatto metallico, una maniglia arrugginita azionata dopo chissà quanto tempo. L’uomo rivolse alle donne un sorriso pieno di sadismo, illuminato dai suoi occhi opachi ma gioiosi; a Polly gelò il sangue nelle vene.
Il cane con il collare borchiato era gigantesco. Il suo pelo nero era ispido e incrostato di fanghiglia. Il muso appuntito gocciolava dei rivoli di saliva e l’alito pestilenziale aleggiava nell’aria in nuvole di condensa. Ringhiava, e dalle sottili fessure che possedeva al posto degli occhi filtrava un ruggito di collera e aggressività.
Cristo, peserà almeno novanta chili!
‘Vi presento Devil, il nostro Rottweiler. ‘ disse con nonchalance l’uomo, chino a carezzare la pelliccia folta del cane. ‘Come potete vedere, è… piuttosto affamato. E’ da un po’ che sta a secco. ‘
‘Bel modo di trattare gli animali… ‘ sibilò Polly, le orbite incastonate in quelle iniettate di collera dell’animale.
‘Davvero, è un peccato. Bel modo di trattare… ‘  Slegò il guinzaglio dal collare.
Oddio, no! No!
‘… gli animali come voi. ‘
‘NO!!!
 
 
 


Delle strilla laceranti interruppero il sipario comico. Gli spettatori delle ultime file si voltarono di scatto, interdetti, e allungarono il collo verso l’uscita nel tentativo di scrutare ciò che avveniva fuori.
Poi fu il turno delle file centrali, e pochi secondi dopo dei posti attigui alla scena. Chaos e Mirror si scambiarono un’occhiata di complice intesa e scesero dal palcoscenico dai lati opposti con flemma, con un lungo sorriso impresso sui volti.

‘Ma che è successo? ‘
‘E’ accaduto qualcosa alle due signore, sono sicura! ‘
‘Davvero erano uscite? Io non le ho viste, non erano tornate? ‘
‘Ma qualcuno apri il tendone, per carità! Se sono in pericolo, magari qualcuno… ‘

Il sardonico sorriso di soddisfazione della Clown mutò in un enorme ghigno di soddisfazione. Gli occhi le si illuminarono di una luce ardente, effervescente e vogliosa. Le code ondeggiarono, strusciarono sulle spalle coperte dalla corta giacchetta, il corpo che si dondolava avanti e indietro, con il peso che gravava da una gamba all’altra, in un ritmo languido e serrato. Osservò con sereno e placido distacco quella massa brulicante in movimento, un afflusso diretto verso l’apertura del tendone.
Poi fu un attimo. Il secondo indispensabile per occhieggiare Mirror, posizionatosi dietro le quinte, e poi con voce cicalante e stridente strillò: ‘ CHIUDETE IL TENDONE! ‘
Le luci improvvisamente si spensero. Vi fu un attimo d’incredulità da parte degli spettatori, annichiliti di fronte a quella situazione così surreale, fuori dall’ordinario, priva di alcuna logica, che nessuno ebbe la forza di muoversi mentre dall’esterno risuonava un forte gemito cigolante, il suono delle catene che venivano sbattute e poi trascinate con prepotenza sul terreno, e lo schiocco di un catenaccio. Immersi nel buio, persino gli adulti in quel paradossale frangente sembravano dei bambini indifesi in balia del genitore, zittiti con i loro figli stretti tra le loro braccia.
Protetta dall’oscurità, Chaos schioccò le dita. Un fascio di luce bianca, condotto direttamente da un solo riflettore posto al di sopra delle insigne rosse, accese il palcoscenico, ora non più vuoto.
‘Vi è piaciuto lo spettacolo, miei adorabili, piccoli vermi? ‘ articolò la clown con le braccia oscillanti contro i fianchi. ‘Vi sono piaciuti i nostri numeri, miei schifose caramelle marcite? Sì? Ma bene! Ma bravi tutti! ‘ Il tono raschiò, divenne più sibilante, aggressivo. Guardava i volti attoniti di madri e bambini con superiorità, con un rancore represso ed ora esternato, che attendeva solo l’attimo giusto per esplodere come una bomba ad orologeria. ‘Visto che avete gradito, perché non applaudite per l’ultima volta della vostra disgustosa vita i nostri artisti, eh? Forza, applaudet- applaudite, schifosi! Schifosi! ‘
‘La prego, la smetta! ‘ sentenziò una voce decisa e grintosa dal pubblico rappreso come del sangue coagulato – tutti si erano accucciati, chi più e chi meno, l’uno contro l’altro, sperando di raggiungere il più velocemente possibile il centro, ma la preghiera si disperse nell’aria satura di calamità quando, da dietro il sipario, uscirono tutti gli artisti che si erano esibiti: tutti gli acrobati, trapezisti, equilibristi e funamboli, con i loro volti duri e affilati, distanti; la contorsionista formidabile con la schiena più flessibile che Jarod avesse mai notato; alcuni giocolieri, la bambina- ventriloqua con il pupazzo trascinato con fermezza, il mimo.
‘Che sta succedendo, Susanne? ‘ singhiozzò un bambino dal viso umido e pallidissimo, così fragile e impotente che rischiarò nell’ombra come una fragile maschera di cera. Ancorato al corpo tremante della sorella, gli occhi roteavano febbrilmente per il terrore. Ma nessuno applaudì. C’era chi piangeva e chi sussurrava tenere parole di conforto, chi strattonava il proprio figlio verso il centro della muraglia umana e chi era capitolato sotto il peso del trauma, ma nessuno applaudiva.
Susanne deglutì rumorosamente, gli occhi sbarrati, simili a due grottesche biglie. Non riusciva più a muoversi, né le sembrava di respirare ancora. Le membra non rispondevano più agli ordini pronunciati da quei filamenti grigi e contorti che s’inerpicavano lungo la sua spina dorsale, le gambe tremavano senza controllo. Orinò. Ne trasse solo un’indistinta sensazione di calore.
Il cellulare trillò, sepolto dal tessuto della sua camicetta. Ma nessuno rispose mai.
 
 

Il fiato rovente della bestia s’infranse sul ventre di Patricia Anderson, l’interno del tutto esposto alla sua ferocia. Lembi di pelle giacevano maciullati sul terreno, immersi in quel fiumiciattolo la cui fonte era la gola della donna. La parete tendinea era lucida e viscosa, traboccante di spirali contorte di intestini penzolanti come tanti sacchetti sgonfiati. Ad ogni affondo il mastino aumentava la sua voracità, ad ogni morso la sua lingua s’infiltrava in quella massa viva e innocente, spargendo la superficie sottile e delicata con calda saliva. Sorvegliato dallo sguardo vigile e freddo dell’uomo, l’animale smembrò con dovizia l’organo più grande che avesse mai mangiato, una grossa sacca appena rosata e traslucida, stranamente viscida.

Il feto di otto mesi venne straziato senza troppi problemi. Gli arti vennero strappati con degli strattoni in avanti e successivamente masticati. La testa era sufficientemente piccola da entrare nella cavità orale del cane scodinzolante; si udì un leggero Crack!, poi le zanne sfondarono il cranio sottile con una serie di schiocchi liquidi. Ciò che una volta era stato il figlio mai nato di Patricia Anderson era stato ridotto ad un agglomerato di fluidi e poltiglie dai contorti umanoidi, ma non più riconoscibili. Una mosca si posò sulla cornea immobile di Polly Smith.
 
 


Tutti scappavano, tutti erano terrorizzati. Il tendone si era trasformato in una gigantesca bolla di vetro infrangibile, e il ruggito disperato della folla era niente se paragonato allo scrosciare infinito di risate e pigolii proveniente da dietro le quinte.
La prima ad attaccare fu la ventriloqua: la vittima, una bambina alta quanto lei, ebbe solo il tempo di voltare la testa nella direzione di quel soffiare ferino prima che il buio l’accecasse senza rimedio. Il sangue le macchiò le guance e spruzzò sul petto da uccellino dalle orbite oculari svuotate senza ritegno, mentre un dolore sordo e muto le permetteva di udire solo le proprie grida, isolate da quelle esterne. Amy, le iridi azzurre empie e furiose, tentennavano su quelle due masse biancastre e sode, sanguinolente, strizzate lentamente nelle sue mani curiose come fossero due giocattoli di gomma. ‘Hai guardato il mio fratellino e non me. Io volevo la tua attenzione su di me, e tu non hai capito. I tuoi occhi, il tuo pagamento, me li dovevi! ‘ si giustificò lamentosamente.

Una donna urlò. Inciampò sul corpicino del figlio mutilato, che giaceva bocconi e boccheggiante sulle fredda scalinata in pietra. Floscio e disarticolato, l’ombra dell’ecchimosi sulla gola, sulle ginocchia e sui gomiti, la contorsionista gli aveva prima torto i fibrosi legamenti che mantenevano uniti la coscia con il polpaccio, e poi con uno scatto lo aveva strattonato. Le articolazioni erano collassate, il bambino aveva strillato, e lei lo aveva abbandonato sul pavimento; un bambolotto dal petto pulsante, un’offerta al taglierino di Chaos.
La madre era crollata a fianco di quel corpicino, strangolata dal mimo. Mirror regalò un sottile ghigno di trionfo alla contorsionista, un sorriso incoraggiante e famelico, terribilmente somigliante a quello della clown. Poi entrambi sparirono, risucchiati dal vortice di braccia e gambe di una folla ormai fuori controllo.
 
 
La nana Margot caricò il martello con tutta la sua forza. Allungata in avanti, con le ginocchia divaricate tra loro e gli occhi ardenti, colpì un anonimo genitore alle costole. Si udì uno schiocco secco e arido, un tonfo potente e forte che rimbombò in tutto il corpo dell’uomo. Urlò, la mano allacciata a quella del figlio di due anni, e crollò sul pavimento. Fremette. Aveva la schiena inarcata in avanti come un gatto e le pupille allucinate per il dolore. Il bambino pianse, al suo fianco.
Margot gli fu di nuovo sopra; alcune ciocche biondastre erano sfuggite alla stretta crocchia sulla nuca, e ad ogni sobbalzo spruzzavano minuscole goccioline vermiglie. Calò il martello ancora, urlò come se dovesse intimidire l’avversario, e quando colpì il cranio dell’uomo le sembrò di aver affondato il manico in una brodaglia liquida e gelatinosa, fluida. L’altro gemette sommessamente, cercando di schivare ogni schianto, ogni mazzata. Aveva sollevato leggermente la gamba destra quando la nana fece schiantare il martello nella sua testa per l’ultima volta; certa di aver smantellato ogni difesa ossea, il suono di liquidi tonfi le suggerì che era meglio dedicarsi al faccino pallido e piangente al fianco del cadavere. Quindi si avvicinò, la bocca ridotta a una sottilissima fessura diritta, mentre si spalmava gli spruzzi di sangue sulle guance.
 
 
 

Ansimava.
Intercettò gli occhi azzurri, enormi e sgranati, del fratello. Non c’erano domande al loro interno, né risposte. Solo una cupa accettazione che un bambino non avrebbe mai dovuto dimostrare.
Osservò la clown emergere dalle lande desolate dei corpi sparpagliati come una dea maligna e sanguinaria. La vide sorriderle innocentemente.
Quando Chaos le si avvicinò, intonando un tranquillo motivetto, non indietreggiò. Limitandosi ad abbassare il capo, rassegnata, si sforzò d’ignorare la gonna e i leggins macchiati; eppure non riuscì nel suo intento: due grossi lacrimoni le rotolarono violentemente sulle guance. Strizzò gli occhi, Terrorizzata. Posso ammetterlo, ora? sentendo la salda morsa delle braccia di Jarod attorno alla sua vita.
Un fruscio.
Vai, finiscici, se è questo che vuoi. In fretta.
‘Piaciuta la sorpresa? ‘ Un sussurro dolce, languido.
Dio, una psicopatica mi sta parlando! Un’assassina di fronte a me, di fronte a me, di fronte a…
‘ Non è finita qui. ‘
E di questo ne era più che certa. Niente più sorprese, al massimo l’ultimo stallo del loro spettacolo personale. Carne da macello: erano tutto ciò che sono ai loro occhi lincei, predestinati al mattatoio.
‘Cosa vuole fare ancora? ‘ implorò Jarod, e Susanne non ebbe bisogno di schiudere le palpebre per sottintendere le graziose e piccole gocce che fluivano sulle sue guance. Tremante, la sua voce terrorizzata. Soffocò un singhiozzo e sobbalzò quando una stretta al cuore la mortificò, i sensi di colpa a disegnare spirali mentre strizzavano l’organo lacerato. Non doveva passare in quel modo la serata, no, non doveva…
E la mamma? Mamma e la spesa, il traffico, e la torta da cucinare per l’onomastico della zia? No, non posso...
Una donna con la trachea foderata di rosso, quasi luminescente.
Non posso morire, prima voglio toccare e sentire e sentire… No, io voglio vivere, vivere, vivere!
Chiuse gli occhi.
Immaginò di sprofondare nei recessi più remoti della sua mente. Desiderò di rifugiarsi negli archivi del suo cervello, come se stesse giocando a nascondino in una gigantesca e labirintica biblioteca. Lei era lei, solo che non si trovava più lì: i suoi occhi, due fotocamere abbandonate sul luogo del massacro e nonostante tutto ancora registranti, semplicemente obbedivano agli impulsi del cervello e riprendevano assenti l’entrata in scena di un semplice tavolino coperto da una tovaglia nera e un mazzo di carte a coronarne l’aspetto.
Non aprì bocca. Nessun singulto a spezzare la magia. Qualcuno la stava scrollando da dietro, percepiva l’impronta delle dita al di sopra della stoffa. Una mano robusta ma senza dubbio femminile. La gracchiante voce di Chaos.
‘Su, accogliete in scena la ciliegina dello spettacolo! Su, da brava… ‘
Un giovane uomo con i capelli neri e lucidi, adorno di uno dei costumi di scena più ricchi e festosi che avesse mai visto, con gli occhi dolci e il sorriso sincero –
No, voglio tornare in me stessa, seppellitemi in me stessa! No, non voglio guardare, non voglio l’agonia, non… perché le carte? Cosa vuole fare? E cos’è quella cosa che brucia? No, no, no, non toccatemi! NON VOGLIO!
‘Lasciala stare, Chaos! Ha paura, non vedi? Poverina. ‘
- e la sua voce grave, gutturale, ammiccante e melodica…
‘Ma di cosa dovresti avere paura, ora? ‘ chiese l’uomo con un sorriso comprensivo. ‘Ci sono solo delle carte qui sopra. Vedi? Solo delle semplici carte. ‘ Picchiettò la nocca dell’indice guantato sul legno, e quei brevi e concisi colpetti la innervosirono ancor di più. Istintivamente arretrò, ma finì per scontrarsi con un muro – No, non è un muro, è Chaos! Togliti di mezzo, stronza!
‘No, non andare via! ‘ lo sentì rassicurare. ‘Non ti voglio fare del male, sai? Solo un’innocua partita a carte. Sai giocare ai solitari? Su, vieni qui, siediti di fronte a me, facciamo una partita. E un accordo. No, non indietreggiare… Ho detto di no! Chaos, Mirror, prendeteli entrambi. ‘
Quando un paio di mani immensamente forti e rugose l’afferrarono per le spalle, ogni fibra di autocontrollo che Susanne Moore avesse mai posseduto si disintegrò in un istante. Si dimenò, si contorse, scalciò selvaggiamente, ma non urlò, non implorò. Rinnovate lacrime fiottarono dai suoi occhi rossi e gonfi mentre il mimo la conduceva dall’uomo.
E’ la fine. Cristo, questa è davvero la mia fine.
Si sentì sollevare e poggiare sullo sgabello attiguo come se fosse una bambola senza alcuna volontà nelle mani di un bambino annoiato. Lui ora era vicinissimo; il suo fiato s’infrangeva sul mazzo di carte che esponeva e carezzava come il più caro dei trofei. Sorrideva. Sulla sua maschera bianca e circense non v’era traccia apparente di cattiveria.
‘Sei buono? ‘ sentì sussurrare da una voce estranea a lei, roca e infranta da numerosi singhiozzi, disperata. ‘Com’è possibile? ‘
Lui annuì piano. Le iridi la scrutarono con fermezza e severità, squadrandole il viso imporporato e le mani tremanti. Storse il naso e grugnì quando captò l’odore acre e pungente dell’urina provenire dalle pieghe umide della gonna: digrignò i denti in aperto disgusto. ‘Non hai proprio dignità, eh? Vedi di non sporcare il palco, almeno. Ma adesso… ‘ Gli occhi brillarono di gioia malsana. ‘giochiamo. Un solo round. Una sola possibilità di vittoria. E una sola regola. ‘
Le porse il mazzo. Lo divise con fare esperto e sicuro in due piccoli blocchi che adagiò con estrema delicatezza sulla tovaglia nera. Poi, categorico, disse: ‘Se vinci, vivi. Se perdi, muori. ‘
 
 
Temette più di una volta di essere al limite della sua sopportazione, e una crisi isterica era imminente.
Mi sento come una pentola che bolle, ora. Mi costringono all’orlo dell’ebollizione, ma non mi permettono mai di oltrepassare il livello.
Rischiò di far cadere le carte che pinzettava con i polpastrelli sotto gli occhi di quel pazzo criminale. Lui, che aspettava solo…
Lui, che aspetta solo un mio errore. Cazzo, come si giocava al solitario?
Stese le prime dieci carte sul tavolo. Evitò di alzare lo sguardo per incontrare quello paziente e controllato dell’altro, perché in ogni frangente le percepiva, quelle iridi d’oro a raschiare ogni centimetro di orgoglio e dignità dal suo corpo trapassandolo da parte a parte.
Pescò.
Cinque. Di cuori. Non credo sia utile. Devo forse rimetterlo nel mazzo grande?
Allungò cautamente, sperando una conferma, il braccio sudato verso il mucchio. Gemette quando quest’ultimo la bloccò con un pesante schiaffo sulle dita.
‘Troppo facileeee… ‘ sentì cantilenare alle sue spalle dalla clown e qualcuno ridere, una voce infantile.
Arretrò la mano: le dita erano arrossate e pulsavano. Ripose la carta nel mazzo a sua disposizione e pescò nuovamente.
Re di quadri.
Bingo! Rise, istericamente. Sfilò la carta vincente per depositarla davanti a sé, quasi fosse un miraggio.
Ne servono altri tre di questi re, cazzo! O un asso, dammi un asso…
Sei di fiori. Accanto al re.
O una regina, dammi una regina! No, mi servono gli assi, solo quelli. Devo concentrarmi, devo...
Quattro di fiori, un tre di cuori, un jack di picche.
No, no, no! Uno stramaledetto seme, o un re, mi servono loro!
Sette di picche, due di quadri, e…
Il suo cuore mancò un battito. Era riuscita a trovare l’asso di quadri, e ora che lo reggeva in mano le sembrava di aver scovato l’oro.
Sì. Sì, sì, sì! Ho già il due di quadri, vero? Iniziamo a fare scala!
Forse non era impossibile. Forse non era tutto perduto. Forse poteva permettersi il beneficio della speranza. Quando osò rivolgere gli occhi insicuri all’avversario, venne ricambiata con un sardonico sorriso di sfida.
 
 
Era riuscita ad intercettare il seme di cuori e l’asso di picche.
Aveva trovato il due di picche e il tre di quadri e aveva sbuffato quando le sue unghie avevano graffiato un numero infinito di carte marchiate con il fiore. Aveva raggruppato il mazzo in religioso silenzio, per quanto il battito del cuore le rimbombasse e il sangue le scrosciasse nelle orecchie. Attorno al tavolino si erano radunato gli altri mostri, la ventriloqua curiosa e gli acrobati imbrattati di materia celebrale, di cui riuscì ad adocchiare le mani insanguinate – si sforzava di distogliere lo sguardo e s’impose d’ignorare l’odore ripugnante da maiale scuoiato che emettevano, perché sapeva che altrimenti avrebbe ceduto all’istinto di scappare via o di vomitare… e non aveva alcuna intenzione di scoprire la reazione di colui che si era rivelato essere a tutti gli effetti il capo del circo.
Alcuni commentavano interessati le mosse, altri tacevano, altri ancora ridevano. Aveva intercettato il pianto di Jarod poco distante da lei, ma era troppo terrorizzata per poter azzardare e voltarsi.
Pescò. Il mazzo si era ridotto notevolmente, solo un raggrumo di quattro carte disponibili.
Sette di picche: inutilizzabile; ancora l’otto di quadri: inutile, se non aggiungeva il sette alla scala. Bastava che rimanesse una carta inutilizzabile sul tavolino, ed sarebbe stata finita.
Per me e per Jarod.
Due di fiori, cinque di quadri, jack di cuori.
Bingo, il jack! Scala…
Una carta disponibile.  Otto di quadri! Timorosa, lo ripose vicino al sette e chiuse la prima scala. Sussurri sorpresi si levarono dai visi contorti, ma bastò un solo sguardo ammonitore del capo che tutti tacquero come cuccioli ammaestrati con dovizia.
Due carte sul tavolino. La totale e definitiva resa dei conti. Una giusta e una sbagliata. Un cinque e una regina. Una l’avrebbe fatta vivere, l’altra l’avrebbe condannata a morte. Ironia, come il suo destino fosse determinato da una banalissima carta da gioco.
Il terrore la soverchiò. Lasciò che la pervadesse – Tanto che ho da perdere, ormai? – e fu in quel momento che la sua mano si mosse da sola: le falangi si chiusero sui bordi affilati della carta a sinistra e lentamente -
Dio,Dio,Diotipregoseesistisalvamimeemiofratello, Tipregotipregotipregotipregotiprego…
- la voltarono.
Regina di fiori.
 
 
 
Scattò in avanti, fulmineo. Susanne Moore non ebbe nemmeno il tempo di emettere l’ultimo urlo: le labbra si disincagliarono quando si sentì squarciare a metà. Strillò, rovesciò il capo all’indietro, una massa di luci indistinte esplose nei suoi occhi quando un coltello tranciò con furia micidiale e l’impeto di un macellaio le sue pareti addominali per estrarne le interiora: un gomitolo di intestini strabordò sul pavimento, una fila di spirali calde e grigiastre, e fu allora che Jarod Moore abbandonò ogni possibilità di fuga. Si gettò al fianco della sorella senza una parola, arrendevole, e un getto di vomito zampillò dalla sua bocca, mescolandosi alla pozza di sangue in cui Susanne si era accasciata.
Bastò uno sguardo rivolto a Chaos, e la clown capì immediatamente. Afferrato il martello retto da Margot, gli disintegrò le vertebre del collo con un solo e micidiale colpo; le ossa collassarono e intaccarono la pelle sottile, la giugulare si spappolò, recisa dai frammenti coriacei. Jarod Moore collassò sul petto di Susanne senza nemmeno un gemito.
 
 
 
 
 
 
 


Angolo Autrice
Credo che questo sia il capitolo più sanguinolento e splatter che io abbia mai scritto, davvero. A volte mi stupisco di me stessa…
In ogni caso, chiedo perdono a TUTTI per essere sparita! Il motivo? Ho avuto una ricaduta e di conseguenza sono tornata in ospedale. Ora mi sono stabilizzata del tutto (più o meno…).
Ma spero che questo aggiornamento più lungo del solito possa aiutare a perdonare la sottoscritta per l’assenza prolungata; non ho molto da dire a proposito, solo che ho tantissimo lavoro arretrato con questa storia e che di conseguenza devo rimettermi in carreggiata. E ringrazio mille volte jumby per essersi anche preoccupato per me. L’ho apprezzato davvero, sai? ;)
Spero che anche questo vi sia piaciuto, alla prossima!
 
Made of Snow and Dreams.
 

 
  
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