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Autore: MelBlake    26/03/2017    3 recensioni
"«Bellamy… » lo chiamò piano, accarezzando lievemente una guancia del ragazzo.
Nel sentire la sua voce il ragazzo aprì appena gli occhi, due fessure scure come l’ossidiana, si infransero dritte nel cielo azzurro che erano gli occhi di Clarke.
Quante volte aveva guardato quegli occhi, che, nonostante tutto, ora conservavano ancora quel barlume di luce che Clarke aveva imparato a conoscere così bene. Quella scintilla di vita così radicata in Bellamy. Quel ragazzo che aveva rischiato la vita così tante volte per lei, per Octavia, per la loro gente.
Lui che aveva combattuto con tutte le sue forze e che, fino al suo ultimo respiro, lo avrebbe fatto. Quell’ultimo respiro che Clarke temeva sarebbe arrivato fin troppo presto."
Piccolo momento di disagio delle due di mattina... buona lettura!
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Octavia Blake, Raven Reyes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LAST BREATH




E dunque ecco che la fine era arrivata. C’era stato vicino così tante volte, scampandola all’ultimo, volte in cui era preparato a morire, perché sapeva che probabilmente sarebbe stato un viaggio di sola andata. Ma non quella volta.
Ora era stato colto completamente alla sprovvista e aveva scelto di agire. Aveva scelto di agire perché non farlo non era un’opzione, non per lui.
Se non fosse stato per il dolore lancinante all’addome e ai polmoni ad ogni suo respiro, che gli costava sempre più fatica, gli sarebbe quasi venuto da ridere.
Fece un debole sorriso in direzione della ragazza che gli stava accanto, mentre le lacrime scendevano sul viso di lei, infrangendosi poi sul suo.
«È ora di andare, Raven. Non è sicuro restare qui per te».
«Non ti lascio» disse lei, spezzando la frase per via di un singhiozzo involontario.
«Ascoltami… potrebbero arrivarne degli altri».
Ma la ragazza scosse con vigore la testa, le labbra serrate l’una sull’altra per tentare di contenere quegli spasmi che le squassavano il petto.
«Mi dispiace» disse con un filo di voce, gli occhi quasi liquidi per via delle lacrime, la fronte increspata, le mani tremanti.
Mani ricoperte di sangue. Sangue non suo, ma di Bellamy, che inesorabile continuava a sgorgare dalla ferita procurata da una lancia. Il proprietario di quella lancia ora era riverso a terra, in una pozza di sangue e con un buco in testa, opera di Raven.
«Bell…».
«Sssh…» la interruppe lui «… è tutto ok, Reyes. Va bene così, era così che doveva andare».
Un altro singhiozzo, Raven chinò il capo, strizzando gli occhi in un’espressione addolorata.
Bellamy ricordava bene quando l’aveva tenuta tra le braccia la notte della morte di Finn, ricordava lo straziante grido di dolore della ragazza e il modo in cui si era aggrappata a lui come se ne andasse della propria vita. Lo ricordava come se fosse ieri. E ricordava come, da quel momento, il loro rapporto fosse cambiato.
«È stata colpa mia, Bellamy».
«No» disse lui.
Ironico, pensò, erano riusciti a sfuggire un mucchio di volte alla morte. Erano perfino riusciti a sconfiggere madre natura, trovando una soluzione alle radiazioni, ma d’altra parte Bellamy l’aveva sempre saputo: non c’era niente peggio degli esseri umani e gli esseri umani sarebbero stati la fine dell’umanità stessa.
Lui e Raven erano semplicemente usciti per un giro di ricognizione, ora che non avevano più il peso del problema delle radiazioni ad incombere sulle loro teste, dovevano pur riprendere la vita di tutti i giorni.
Caccia, rifornimenti, insomma… la solita routine. Un paio di giorni prima Kane era tornato con una squadra dicendo che in un bunker avevano trovato del materiale di ricambio che per Arkadia sarebbe stato utile, d’altra parte qualche guasto c’era sempre, così Raven e Bellamy erano andati a controllare e Raven si era detta entusiasta di aver trovato quella roba. Il ragazzo non aveva capito molto, se non la parte in cui la sua amica aveva detto che avrebbe potuto utilizzare alcuni filtri in quel bunker per purificare l’acqua contaminata dalle radiazioni.
Quella in effetti era un’ottima notizia perché i loro rifornimenti iniziavano a scarseggiare e l’acqua era vitale.
Sembrava perfino essersi instaurata una sorta di pace con i terrestri, quand’ecco che tutto ad un tratto il rover era stato accerchiato da un gruppo di cinque uomini.
Un piccolo clan di ribelli, nemici di Azgeda che non aveva affatto apprezzato la coalizione tra Roan e popolo del cielo.
Era stata questione di un secondo: Raven si era ritrovata contro un albero, senza vie di fuga e Bellamy si era frapposto tra lei e la lancia di quel terrestre.
Il dolore gli aveva tolto il respiro e lui era crollato in ginocchio, facendosi sfuggire di mano la pistola, che prontamente era stata recuperata dalla ragazza, la quale non ci aveva pensato due volte prima di fare fuoco.
«Raven, ascoltami bene ora… ho bisogno… ho bisogno che tu dica a mia sorella che… ».
«No! No, sarai tu a dirglielo. Ti riprenderai Bellamy. Ti riprenderai, ne hai passate di peggio… ».
Ma non si sarebbe ripreso, lo sapeva bene. Le forze gli venivano meno, il respiro sempre più rapido e superficiale e l’iniziale dolore straziante ormai era diventato sordo e ovattato, i suoni e il mondo esterno si facevano sempre più confusi e sfocati.
«Bellamy devi resistere, ok? Gli altri stanno arrivando. Octavia, le squadre mediche… tra poco ti riporteranno ad Arkadia e sapranno cosa fare, andrà tutto bene».
Lui annuì, ma lo fece solo per lei e non per una vera convinzione. Sapeva che non avrebbe visto Arkadia mai più.
Si chiese se nella squadra di soccorso ci sarebbe stata anche Clarke… avrebbe voluto rivederla almeno un’ultima volta.
Poi un suono ruppe quella calma ovattata. Ma che cos’era? Inizialmente non capì, poi lo riconobbe: zoccoli. Un cavallo. Octavia?
Per un istante il dolore si attenuò mentre lui cercava di guardare oltre il corpo di Raven, contro il quale era appoggiato, per vedere se davvero si trattasse di lei. Poi eccola: la chioma scura di Octavia sferzò l’aria, avanzando a velocità folle mentre il suo cavallo quasi volava attraverso la prateria.
Bellamy si lasciò sfuggire un sospiro mentre la sua testa tornava a rilassarsi sulle gambe di Raven. Sapeva che Octavia probabilmente ancora lo odiava, ma avrebbe almeno potuto scusarsi un’ultima volta per ciò che aveva fatto.
Il cavallo si fermò poco distante da loro e la ragazza saltò giù senza il minimo cenno di sforzo. Per un istante rimase in piedi, immobile, a fissare la scena… un attimo dopo si tuffò su di loro, prendendo con una mano la mano del fratello e intrecciando le loro dita e accarezzando lievemente la guancia di lui con l’altra.
«Ehi O…» sentiva il sangue in gola, dannazione, non voleva che lei lo vedesse in quello stato, a breve avrebbe iniziato a tossire convulsamente, sputando sangue dappertutto.
«Bell… » gli occhi di lei erano lucidi, piano, scostò una ciocca ribelle di capelli dall’occhio sinistro del fratello.
Lui deglutì, ma quel liquido denso e dal sapore metallico lo soffocò e voltò la testa di scatto, sputandolo sull’erba.
«Mi dispiace O… mi dispiace per i miei errori. Ti saresti meritata qualcosa di meglio di ciò che hai avuto. Una vita migliore… un fratello migliore» parlava a fatica.
Octavia scosse vigorosamente la testa.
«Non è vero. Sono stata una persona orribile, ti ho incolpato per ogni cosa, ma… non è stata colpa tua. E non avrei mai potuto desiderare un fratello migliore. Tu ti sei preso cura di me… mi hai protetta dal giorno in cui sono nata… ti prego… resta con me, fratellone».
Lui gemette. Se ne stava andando. Sentiva il sangue defluire dal suo volto più rapidamente adesso ed ogni respiro era una stilettata al cuore.
«Te la caverai, sorellina. Te la caverai come hai sempre fatto. Sono… sono così orgoglioso di te».
Octavia si ruppe in un singhiozzo.
«Non posso, Bellamy. Non di nuovo. Non posso passare quel dolore di nuovo… resisti» disse prendendo tra le mani il suo volto e posando la fronte sulla sua.
Una lacrima ora solcò anche il viso del ragazzo. Lei era la ragione per la quale era sceso sulla Terra, aveva giurato di proteggerla e aveva fallito ed ora non avrebbe mai più potuto fare nulla per aiutarla. Questo lo terrorizzò più della morte che inesorabile, lo sentiva, sopraggiungeva.
«Sii forte, O. Proteggi la nostra gente. Abbi cura di Clarke».
«Clarke sta arrivando Bellamy. Lotta, vedo il rover! Stanno arrivando», ma questa volta Bellamy non ebbe nemmeno la forza di guardare oltre sua sorella, sarebbe stato inutile, il solo stringere le dita di sua sorella gli costò uno sforzo disumano.
«Ti voglio bene O… ».


Clarke, seduta al fianco di Murphy, era terrorizzata.
Raven li aveva avvertiti via radio del fatto che durante il ritorno lungo la strada per Arkadia erano stati attaccati e che Bellamy era rimasto ferito. Dall’urgenza nella voce dell’amica, Clarke aveva capito che non poteva essere nulla di buono.
Respirava velocemente, il cuore che batteva all’impazzata, le mani tremanti. Non poteva perdere Bellamy. Lei semplicemente non poteva.
Il groppo alla gola che provava era quasi doloroso, guardò il viso teso di Murphy e lui le restituì un veloce sguardo che, a lei non sfuggì, tradiva una certa preoccupazione.
«Lui ha la pelle dura. Vedrai, si rimetterà» cercò di rassicurarla, ma nonostante le sue parole, quella volta Clarke aveva un brutto presentimento.
Gli rivolse un debole sorriso, poi, in lontananza, vide la sagoma del cavallo di Octavia. Poco più in là, per terra, erano accucciate tre figure: Raven, contro un albero, la testa china. Octavia, inginocchiata, che teneva sulle sue gambe la terza figura, mentre tentava di sorreggere quella schiena larga con un suo braccio esile, ma forte. Bellamy.
Bellamy.
Era lì, sdraiato al suolo, la testa contro quella della sorella.
Clarke perse un battito.
«Accelera!» esclamò.
Il corpo di Bellamy era fin troppo immobile e per un attimo credette di svenire. Murphy affondò il piede sull’acceleratore, procedendo a tavoletta.
Bellamy non poteva… non poteva essere… dio, non voleva neanche pensarci.
Il cuore della ragazza batteva all’impazzata mentre già sentiva le lacrime premere con prepotenza contro le palpebre, che serrò, tentando di arginare quel pianto che minacciava di sgorgare come un fiume in piena.
Le sembrò che il rover ci mettesse un’eternità prima di fermarsi e lei balzò fuori ancor prima che Murphy spegnesse il motore.
Si avvicinò a grandi passi verso i tre e, con passo sempre più incerto, si arrestò al fianco di Octavia.
La ragazza alzò lo sguardo, il viso rigato di lacrime che scendevano silenziose, mentre Raven non riuscì a trattenersi, prorompendo in un altro singhiozzo.
Murphy le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla mentre Raven tentava di articolare sconnessamente una frase: «È stata colpa mia… è stata tutta colpa mia… se non fosse stato per la mia stupida gamba… », ma non riuscì a finire e il ragazzo al suo fianco la sollevò tra le braccia, portandola all’interno del rover.
Clarke si chinò, continuando a fissare la minore dei Blake dritto negli occhi, sperando che le dicesse una parola di conforto, che lui si sarebbe rimesso, che la ferita non era così grave.
Ma Octavia si limitò a scuotere lievemente la testa, guardandola con quegli occhi colmi di un dolore indescrivibile. Non le aveva mai rivolto uno sguardo tanto carico di significato, non una volta da quando erano atterrati con la navicella dei cento.
Octavia poteva capirla. Lei conosceva quel dolore straziante.
Tremando, la bruna posò il corpo del fratello tra le braccia di Clarke, che fece posare il capo di Bellamy contro la sua spalla e finalmente lo vide.
Il viso del ragazzo era quasi esangue ormai, due profondi segni scuri segnavano i suoi occhi e a un lato della bocca partiva un fiotto di sangue che proseguiva fino al collo.
Clarke lo strinse a sé, cullando quel corpo che le era sempre parso così grande, ma che ora le dava l’impressione opposta.
«Bellamy… » lo chiamò piano, accarezzando lievemente una guancia del ragazzo.
Nel sentire la sua voce il ragazzo aprì appena gli occhi, due fessure scure come l’ossidiana, si infransero dritte nel cielo azzurro che erano gli occhi di Clarke.
Quante volte aveva guardato quegli occhi, che, nonostante tutto, ora conservavano ancora quel barlume di luce che Clarke aveva imparato a conoscere così bene. Quella scintilla di vita così radicata in Bellamy. Quel ragazzo che aveva rischiato la vita così tante volte per lei, per Octavia, per la loro gente.
Lui che aveva combattuto con tutte le sue forze e che, fino al suo ultimo respiro, lo avrebbe fatto. Quell’ultimo respiro che Clarke temeva sarebbe arrivato fin troppo presto.
«Ehi principessa… » la sua voce era incrinata e debole, ma lei sapeva quanto disperatamente Bellamy stesse tentando di nascondere il suo dolore perché, ancora una volta, si stava preoccupando più per lei che per lui.
Al solo udire quel nomignolo Clarke non ce la fece. Sentì tutto il suo corpo spezzato da un singhiozzo che deflagrò con la stessa potenza di una bomba, ogni suo osso avrebbe potuto rompersi da un momento all’altro, l’addome teso e dolorante per il vano sforzo di trattenere quelle lacrime dentro di sé.
«Clarke… ssh, andrà tutto bene» ma la voce di Bellamy era sempre più flebile, tra poco sarebbe diventata un sussurro appena e poi ci sarebbe stato solo il silenzio. Quel silenzio assassino che le sarebbe rimbombato in testa fino a farle perdere il lume della ragione. Clarke non avrebbe potuto farcela stavolta, lo sapeva. Lo sentiva.
Con la testa di Bellamy contro la sua spalla, continuò ad accarezzargli il viso con una mano, mentre con l’altra tentava di arginare quel lento fiume color cremisi che inesorabilmente sgorgava dalla ferita aperta nell’addome di lui.
Non poteva farcela, ma non poteva nemmeno permettere che nei loro ultimi momenti insieme, Bellamy la vedesse in quello stato.
Tentò debolmente di abbozzare un sorriso , posandogli un bacio umido di lacrime sulla fronte e quando tornò a guardarlo negli occhi, anche lui sorrideva. Era appena un accenno, ma sorrideva. Clarke aveva come l’impressione che ormai ogni minimo movimento gli costasse uno sforzo sovrumano.
«Eccola qui la mia principessa… » la sua voce era sempre più labile e la ragazza sentì un fremito nello stomaco.
«Sssh, non parlare. Sono qui… sono qui Bellamy» disse posando due dita sulle labbra del ragazzo, vano tentativo di fargli risparmiare quel minimo di forze che gli erano rimaste.
«No… no, Clarke. Sono stato zitto per troppo tempo ed ora devo dirti una cosa, lo devo fare. Ne ho bisogno».
Ormai le lacrime avevano preso a rigare incontrollabilmente il viso di Clarke.
«Ma io ho bisogno di te, Bellamy. Non posso farcela da sola».
«Ce la farai, te lo assicuro. Sei sempre stata la più forte tra di noi».
Un altro singhiozzo di lei, non riusciva più a parlare, quindi si limitò a scuotere disperatamente la testa.
«Abbi cura di loro Clarke. Hanno bisogno di te. Continua… » s’interruppe per via di un violento colpo di tosse e dalla sua bocca uscì un altro fiotto di sangue, poi riprese, Clarke non seppe con quale forza. «… continua a guidarli e proteggerli come hai sempre fatto, sii forte e sii giusta. Clarke… » con uno sforzo il ragazzo alzò il braccio fino a posare la mano sulla guancia di lei, che la premette a sé con più forza. «… ti amo. Credo di averti sempre amata ed ora è troppo tardi, ma almeno sono riuscito a dirtelo».
A quelle parole un gemito più potente degli altri la scosse.
«Ti amo anch’io».
Lui annuì debolmente, cominciando a chiudere gli occhi.
«No, Bellamy! Ti prego, resta qui con me, guardami!» ormai le parole di Clarke erano un ammasso di suoni disarticolati e sconnessi.
«Vieni qui, principessa. Ho fatto un sacco di errori, mi sono trasformato in un assassino, c’è così tanto sangue sulle mie mani. Ma ho sempre cercato di darti tutto. Permettimi di darti anche il mio ultimo respiro».
Il dolore che Clarke provò a quelle parole fu indescrivibile. Fu come se mille lame trafiggessero ogni millimetro del suo corpo, come se il cuore le fosse stato strappato dal petto e bruciato con un tizzone ardente.
Piano, si avvicinò alle labbra del ragazzo e lo baciò. La bocca di Bellamy era fredda contro la sua, lo sentì respirare e poi il suo torace restò immobile.
Quando si staccò da lui i suoi occhi erano chiusi, chiusi per non riaprirsi mai più. Quella era stata la fine di Bellamy Blake il leader, Bellamy Blake il guerriero. Quella era la fine del suo Bellamy, semplicemente.
Posò la fronte contro quella del ragazzo e lanciò un grido disperato che rimbombò nella vastità di quella prateria, echeggiando in un silenzio spaventoso.
Un suono strozzato e indistinto provenne dalle sue spalle e piano voltò la testa per vedere una disperata Octavia che si aggrappava convulsamente alla giacca di Kane, mentre lacrime silenziose scorrevano anche sul viso di lui, pallido come un fantasma, mentre sua madre, poco distante, aveva portato le mani alla bocca, in una muta espressione di dolore.
A Clarke non importava. Strinse a sé il corpo di quel ragazzo che, proprio come aveva detto, le aveva dato tutto, compreso il suo ultimo respiro, e restò lì. Restò lì con la voglia di non alzarsi mai più.



NOTE:
Momento di disagio risalente a qualche settimana fa e poi rimosso totalmente dalla testa perché mi sono auto procurata troppo dolore.
Spero vi sia piaciuto!

Mel
   
 
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