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Autore: nuvolenere_dna    13/04/2017    8 recensioni
[Ambientata dopo la saga di Bu, circa 3000 parole]
Quel piccolo fiore era perfetto. Aveva guardato i ciliegi fiorire e cadere ogni anno da quando era nata, ma mai aveva notato che ogni singolo fiore fosse così perfetto. Forse perché non era un fiore qualunque. Era il fiore che era caduto fra di loro nella dichiarazione d’amore più potente e inesorabile che lui le avesse mai fatto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Un po' tutti, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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HANAMI
Ciao a tutti! ^///^ Grazie per essere qui!
Vorrei fare una premessa, prima che mi lanciate i pomodori. Questo NON è il mio genere, di solito sono abituata a scrivere storie angstiose e piene di sangue, ma ho voluto cimentarmi ugualmente in qualcosa di diverso vista la stagione primaverile e allegra, coi fiorellini etc etc!
Quindi abbiate tanta pietà :) E spero di non essere andata OOC, il romance è rischioso :)
Vi mando un grosso abbraccio e vi aspetto, per chi lo desidera, nelle recensioni.
Ditemelo se è meglio che continuo con l’angst senza fare altri esperimenti *ride*
PS: “Hanami” è la parola giapponese che indica la tradizione di guardare i ciliegi in fiore.
  

HANAMI 




When it all falls, when it all falls down 

I'll be your fire when the lights go out 
When there's no one, no one else around 
We'll be two souls in a ghost town 

[Madonna – Ghosttown]




Il vento fluiva leggiadro, insinuandosi fra una moltitudine di piatti di carta, di posate improvvisate e bicchieri traballanti, facendo oscillare tutto in un fruscio. Sembrava ridere, complice del sole che perforava invadente il tavolo, frantumandosi in un centinaio di schegge di luce, filtrate dai rami frondosi di un albero.
Si trovavano tutti insieme in campagna, in un luogo lontano da Città dell’Ovest, di proprietà della famiglia di Bulma. Circondata dai ciliegi, dagli abeti e dalla foresta tutta, si apriva una radura intima, bellissima, puntinata dalle margherite che vibravano al sole, specchi di quel sole verso cui si esibivano entusiaste.
Una piccola casa di montagna si stagliava modesta al limitare del bosco, intagliata in un legno antico, lo stesso legno degli alberi che proteggevano come in un abbraccio la radura.
Il fumo si levava alto per poi disperdersi timido nel cielo terso, il profumo di carne e peperoni arrostiti riempiva l’aria. Goku rideva a crepapelle, osservando Goten e Trunks fare a gara per chi riusciva a mangiare più costolette d’agnello, ben sicuro del proprio primato. Chichi, in sottofondo, gridava preoccupata per la salute del figlio, strattonando Gohan che rideva più del padre. Piccolo e Tenshinhan erano immersi in una conversazione animata su una nuova tecnica di arti marziali vista ad un recente torneo, ascoltati distrattamente da Jaozi, ben più concentrato sulle verdure che arrostivano sulla brace. Il Genio, visibilmente ubriaco, cantava stonato battendo sulle spalle di Crilin, che non riusciva a mangiare perché continuamente interrotto dai suoi spintoni. Videl e i genitori di Bulma si occupavano della brace, aiutati da Puar che all’occorrenza si trasformava nel mantice che avevano dimenticato alla Capsule Corporation.
Yamcha, pensieroso, cercava di inserirsi in una qualsiasi conversazione con una delle sue solite battute spiritose, ma il sorriso stentato che aveva stampato in volto tradiva uno strano malumore.  Un rumore bianco aveva iniziato a ronzare di nuovo nella sua mente, una scatola sul punto di straripare che cercava di tenere chiusa con tutte le sue forze.
Ma, all’ennesima visione di Bulma, voltata di spalle, intenta ad guardare a qualche metro di distanza dal tavolo intorno a cui erano tutti seduti, cedette.
Agganciata ai primi alberi al limitare della foresta, una grande amaca era trattenuta da due corde rinforzate da un perno metallico. Su di essa, si scorgeva una schiena fasciata di grigio, una spalla nuda che si alzava e abbassava ritmicamente, una chioma di capelli corvini e un piede che penzolava, sfiorato dai lunghi fili d’erba incolti del bosco.
Doveva sempre farsi desiderare, lui.
«Vegeta? Non vieni?» gridò Bulma, vagamente irritata, le sopracciglia aggrottate.
Non era da lui ignorare un’offerta così abbondante di cibo, Vegeta non era per nulla socievole in quel genere di occasioni mondane, ma quando si trattava di cibo non era mai schizzinoso, specialmente di fronte alla carne. Attese qualche secondo, le orecchie tese a captare qualunque segnale proveniente da lui.
Silenzio.
Yamcha sospirò, seccato, lo sguardo che incontrava complice quello divertito di Crilin.
La verità era che, come sempre, non riusciva a non preoccuparsi per Bulma. Ripeteva spesso a se stesso che la sua preoccupazione non fosse la tipica maschera per la gelosia di un uomo tradito e gettato via come un giocattolo noioso: il suo era soltanto affetto, una premura spontanea verso quella che era stata la donna più importante della sua vita e che rimaneva ancora la sua migliore amica.
Yamcha non poteva dimenticare gli occhi spietati di Majin Vegeta, cerchiati di nero, brutali come era stata la sua risata di scherno al suo primo arrivo sulla Terra. Dopo tutti quegli anni, Yamcha aveva ricominciato ad avere gli incubi, non avrebbe mai potuto dimenticare il terrore che aveva provato, in piedi, tremante di fronte a lui e Nappa. Aveva pensato di trovarsi di fronte al demonio, dissimulato alla perfezione per sembrare un uomo come tutti gli altri.
I Saiyan sembravano umani, respiravano come umani, parlavano come umani, ma non avevano un’anima. Ad eccezione di Goku, cresciuto sulla Terra, per Yamcha i Saiyan non erano altro che mostri, privi del minimo sentimento, incapaci di qualsiasi cosa che non fosse disprezzo e volontà di distruggere.
Quando Vegeta aveva venduto l’anima al Mago Babidi, una parte di Yamcha aveva esultato: la sua teoria era stata confermata, Vegeta era sempre lo stesso e aveva riposato inquieto in attesa di un’occasione propizia per acquisire il potere necessario per farli tutti a pezzi. Nulla aveva potuto far traballare la sua ormai inossidabile teoria: a nulla era servito apprendere del suo sacrificio, divenuto per lui l’ennesima dimostrazione di forza, anche se pagata a caro prezzo.
«Vegeta!» lo chiamò ancora, stizzita. Bulma si alzò frettolosamente, guardando per un attimo Trunks: forse sarebbe stato meglio mandare lui a chiamare suo padre, alcune volte sapeva essere più persuasivo di lei. Ma lo vide ridere a crepapelle, spintonato da Goten che lo indicava, le gote umide di lacrime, e decise di non andare a disturbarlo.
Eppure, ripensando a quella mattina, Vegeta le era sembrato stranamente... di buon umore, non palesemente maldisposto rispetto alla baraonda festosa che di solito aveva la proprietà di fargli saltare i nervi al solo pensiero. Evidentemente si era sbagliata: suo marito aveva resistito in mezzo a loro per il tempo necessario ad ingurgitare la prima, generosa portata, per poi girarle la schiena e andare a guardare le nuvole filtrate dagli alberi del bosco.
Si diresse spedita verso di lui, osservata dagli occhi inquieti di Yamcha.
«Vegeta, non dico che devi metterti a intrattenere gli ospiti, però almeno degnarti di rispondere quando ti si chiama...» la sentì borbottare, la voce che si disperdeva con la distanza che aumentava fra loro.
Il cuore nel petto di Yamcha fece un salto, che cercò di reprimere muovendo lo sguardo sul Genio e sull’ennesima caduta che lo aveva portato a sbucciarsi le ginocchia. Ma non rise, distaccandosi dal divertimento generale. Vegeta non gli era mai piaciuto, ma dopo quel brusco salto nel passato avvenuto dopo quasi sei anni, in tempi decisamente non più sospetti, la sua fiducia verso quel Saiyan era, se possibile, diminuita ulteriormente.
Come poteva lei fidarsi?
Come poteva permettergli di vivere ancora in quella casa?
Li aveva visti, al Palazzo del Supremo, al ritorno del Saiyan dall’Inferno. Bulma e Trunks erano felici di vederlo, lo avevano abbracciato forte, Bulma piangeva dalla felicità e Trunks gli era praticamente saltato in grembo, stringendogli forte una mano.
Ma cosa c’era di così buono, in lui?
Quando aveva esposto a Crilin la sua inquietudine il suo volto si era composto in un sorriso enigmatico, smarrendosi nel ricordo di quando aveva visto con i suoi occhi Vegeta stringere suo figlio fra le braccia e metterlo in salvo prima di farsi esplodere nel tentativo di eliminare Bu. Da quel momento aveva conquistato la fiducia di Crilin, che lo aveva guardato liberare tutta la sua potenza centimetro dopo centimetro, fino a sfracellarsi a terra in un vortice di cenere.
A sentire lui, Vegeta aveva rinunciato alla vita, per Bulma, per Trunks, per tutti.
Ma Yamcha, a questa versione dei fatti, faticava a credere. 
 
Quando Bulma arrivò dall’amaca, le scarpe che per la fretta si erano riempite di terra, si accorse che Vegeta era semplicemente addormentato. Riposava, abbandonato, il petto che si alzava e si abbassava con lentezza, fasciato in una canottiera morbida in cui si insinuava la brezza fresca, il volto disteso in un’espressione serena, le labbra leggermente dischiuse.
Bulma sorrise, un lampo di tenerezza che sfolgorava nei suoi occhi.
Il Principe dei Saiyan.
L’uomo di Freezer.
Il rivale di Kakaroth.
Identità ormai logore che imputridivano all’Inferno. Le aveva conosciute tutte, in una sequenza infinita di doppelganger in lotta l’una contro l’altra, personalità multiple di uno stesso uomo, tutte sofferenti di un’insonnia divorante, che lo avevano spinto ad allenarsi anche di notte, fino a svenire, a vomitare per la fatica, che digrignavano i denti nel sonno, che avevano gli incubi, che gridavano nella lingua Saiyan parole a lei sconosciute che avevano il solo suono del dolore e della morte, tradite dai suoi occhi violacei al risveglio.
Ridotte finalmente ad ombre nelle sue vene, quelle figure lo avevano abbandonato.
L’uomo che giaceva addormentato di fronte a lei era Vegeta, il suo uomo, suo marito.
Lo accarezzò, passando le dita sui suoi zigomi pronunciati, nobili, su cui riposavano le sue lunghe ciglia, sorprendendosi di quanto fossero eleganti i suoi lineamenti non contratti nel solito cipiglio teso.
Si abbassò e lo baciò lentamente sulle labbra, godendosi il contatto con le sue labbra fresche succhiandole piano, rubando il suo respiro calmo. Vegeta mugugnò, ancora a occhi chiusi, una mano che si inabissava rapida nei suoi capelli fini, l’altra che cercava il suo corpo per stringerla a sé.
Improvvisamente le sue iridi si spalancarono, umide, spaventate dalla luce.
« Ma che fai? » le domandò, rude, la voce roca e impastata dal sonno. Si staccò bruscamente e la fissò, sentendosi avvampare per l’imbarazzo, perplesso per l’essersi addormentato nel frastuono di quel pranzo improvvisato. Subito il suo sguardo andò a controllare la tavolata che tranquilla proseguiva a mangiare fra le risate e gli scherzi.
« Nulla, ti ho chiamato più volte ma non venivi, pensavo che fossi seccato o che non ti andasse di mangiare con noi... »
Il Saiyan non rispose, lo sguardo smarrito fra ciliegi in fiore, le cui foglie cantavano accarezzate dal vento. A chiunque altro sarebbe sembrato arrabbiato, seccato, ma lei comprese.  
Vegeta era in pace.
Non si trovava più sulla nave spaziale di Freezer. Non sentiva più la necessità di distruggere nulla e nessuno. Si sentiva lontano anni luce dalle migliaia di pianeti in cui aveva portato la morte.
Il terrore, l’angoscia di morte imminente che aveva compresso la sua gabbia toracica per trent’anni, da quando era stato costretto a lasciare il Palazzo Reale insieme a Zarbon e Dodoria, si era affievolita. Neppure l’ambizione che lo aveva portato quasi ad uccidersi, prima dell’arrivo dei cyborg, neppure l’invidia verso Kakaroth, riuscivano più a corromperlo al punto da fargli perdere il controllo.
Vegeta non sentiva nulla, vuoto e ricolmo al tempo stesso, stordito dal fluire della Vita che in mezzo alla foresta assorbiva come uno delle migliaia di fiori.
« Sto bene. » le disse, atono, specchiandosi nei suoi occhi chiari, ritrovandosi ad ardere di un desiderio che lo riempì nuovamente di imbarazzo. Avrebbe voluto possederla lì, su quell’amaca, aprirle le cosce nel silenzio di quel bosco in cui avevano fatto l’amore altre decine di volte.
Ma, contemporaneamente, voleva anche baciarla, stringerla, proteggere quel corpo esile, così indifeso rispetto al suo. Quando si era sacrificato, convinto che non avrebbe mai più rivisto lei e Trunks, Vegeta aveva provato una disperazione cocente, peggiore di quando era esploso il suo pianeta, anche peggiore di quando Freezer lo aveva trucidato. Ma, per la prima volta, aveva provato un senso di giustizia, di chiusura, come se qualcosa si fosse compiuto in modo solenne.
«Non lasciarmi sola.»
Lo sguardo scuro di Vegeta la trapassò, attraversandola come un lampo. I lineamenti dolci di Bulma erano improvvisamente seri, i suoi occhi chiari adombrati da uno spettro.
Il Saiyan capì immediatamente che non si riferiva a quella assurda giornata nel bosco.
Dopo quasi sette anni, ancora non riusciva ancora a capacitarsene.
Ma cosa c’era di così buono, in lui?
Senza dubbio si riteneva un combattente eccezionale, indomito e spregiudicato, come Saiyan era quanto di più si potesse desiderare, poiché il valore di un Saiyan si riassumeva nella sua potenza fisica. Al contrario, aveva notato che sulla Terra si ragionava perseguendo altri standard: le coppie non si sceglievano in base alla forza, ma ad altri criteri come la bellezza, la bontà, l’affidabilità, la simpatia.
Di tutti questi requisiti, non sentiva di possederne nessuno: senza dubbio non era né buono, né simpatico, né tantomeno affidabile, e la sua bellezza era quel genere di bellezza decadente, temprata nel fuoco e nel sangue, inossidabile come il metallo, durissima come uno schiaffo, che non riteneva adatto alle donnette terrestri.
Eppure, Bulma aveva scelto proprio lui.
E non per esibirlo come un trofeo, come tante femmine svenevoli incontrate nella sua carriera di conquistatore di galassie avevano tentato di fare, aprendogli le gambe avide della sua stessa fama, del suo nome caduto in disgrazia.
Le sue pupille cupe scivolarono sul viso preoccupato di sua moglie, sulle sue labbra appena dischiuse. L’idea che qualcuno potesse averlo scelto, proprio lui, in mezzo a tutti gli altri, e soffrire alla sola idea di perderlo, era quantomeno bizzarra.
Aveva capito cosa provava Bulma per lui soltanto in quel momento, quando aveva sentito la vita fluire dal suo corpo e non aveva pensato all’orgoglio in frantumi, all’esito della battaglia, ma soltanto il suo volto gli aveva riempito la mente, come una gigantografia, ovunque, lo aveva visto ovunque dentro la sua testa, moltiplicarsi come un frattale impazzito. Più aveva cercato di scacciarlo, più i dettagli del suo viso, del suo corpo, erano divenuti vividi, ricchi di dettagli.
Un istante prima dell’esplosione aveva sentito una stretta allo stomaco e al cuore, ma non per la fatica, non per le molecole del suo corpo che si disgregavano nel fuoco divorante della sua passione.
Ora lo sapeva perché.
Non voleva perderli.
“Amore”
 Anche lui era stato stregato, alla fine, da un maleficio così potente da farlo star male alla sola idea di perderli.
« Lo farò di nuovo, se sarà necessario. » 
La sua voce fu dura, quasi aggressiva, la mascella che si gonfiava rigida ai lati del suo volto.
Un fiore di ciliegio volteggiava fra loro, frenando la sua caduta sul petto di Vegeta.
Bulma lo fissò, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Allungò lentamente una mano per raggiungerlo e lo sfiorò con le dita, insensibile al cuore caotico di Vegeta, che pulsava frenetico un paio di centimetri sotto il suo polso.
Quel piccolo fiore era perfetto. Aveva guardato i ciliegi fiorire e cadere ogni anno da quando era nata, ma mai aveva notato che ogni singolo fiore fosse così perfetto. Forse perché non era un fiore qualunque. Era il fiore che era caduto fra di loro nella dichiarazione d’amore più potente e inesorabile che lui le avesse mai fatto.
Una promessa di morte.
Per Vegeta non c’era mai stato nulla di più prezioso della vita, l’unica cosa che fosse intimamente sua. Gli era stato sottratto tutto, il trono, la famiglia, la dignità, eccetto la tenace consapevolezza di essere ancora vivo, l’unico sopravvissuto in una terra crudele che aveva tentato di ucciderlo con ogni mezzo. Oltre a quello che Goku le aveva raccontato, Bulma sapeva ben poco del suo passato. Ma non aveva bisogno di chiedergli nulla, era in grado di scorgere da sola il dolore profondissimo che infestava i suoi occhi, la paura che incarnava il suo corpo, sempre nervoso e pieno di spasmi, le cicatrici bianche della sua schiena. Sapeva che Vegeta era stato picchiato a sangue, fatto letteralmente a pezzi, minacciato e terrorizzato al punto da riuscire a dominare quel terrore, diventandone esecutore. Non poteva invece immaginare quanto Vegeta avesse implorato, pianto e supplicato dentro di sé che quel dolore finisse, infinite volte, nel corso di quei trentacinque anni.
Perché, nonostante tutto, Vegeta non aveva mai voluto morire.
Lui voleva vivere.
Ma adesso non gli bastava più vivere e basta, voleva vivere accanto a lei.
Le lacrime iniziarono a scorrere sul volto di Bulma, lo sguardo ancora concentrato su quel piccolo fiore rosa, i cui petali morbidi erano piegati contro la sua canottiera, ipnotizzato al punto da non vedere la mano di Vegeta avvicinarsi e racchiudere la sua, con una delicatezza estranea alla violenza che era abituata ad esercitare.
Il Saiyan non disse nulla, inanellando le dita alle sue, tornando finalmente a guardarla negli occhi. Si trapassarono a vicenda, ma fu Vegeta a distogliere lo sguardo per primo, le guance avvinte da un calore improvviso. L’amore che vide negli occhi di Bulma risuonò come in una eco, fuori e dentro di lui. Un sorriso si aprì sul volto della donna, più luminoso e cristallino del sole. Lo conosceva troppo bene, sapeva decifrare tutti i suoi sguardi, i suoi piccoli movimenti, i toni impercettibili della sua voce, la sua assurda timidezza, il pudore tipico di un uomo cresciuto in mezzo agli uomini.
Bulma accarezzò il dorso della sua mano ruvida e glabra, godendosi il suo calore, la potenza vitale, ripensando involontariamente a quella primavera in cui era incinta e sola, su quella stessa amaca, a guardare i ciliegi traballare insieme alla certezza che Vegeta sarebbe tornato dopo averla abbandonata per allenarsi nello spazio. Eppure, una piccola parte di lei non aveva mai smesso di crederci. Anche quando tutti le avevano detto di dimenticarlo, quando tutti insistevano nel sottolinearle che Vegeta era soltanto un guerriero spietato che non l’aveva mai amata e che non avrebbe mai iniziato a farlo.
Con arroganza lo tirò a sé e baciò uno dei suoi palmi, stropicciato dalle linee, respirando contro la sua pelle umida.
 
Yamcha li guardava da lontano, spudoratamente, talmente sorpreso da non riuscire a nascondere la propria incredulità. Quelle carezze, la mano di Bulma scomparsa nello stesso punto in cui era scomparsa quella di Vegeta, l’espressione emozionata di lei, gli occhi lucidi e il sorriso che si era aperto sul suo volto, quel bacio. A quel punto il Saiyan si voltò leggermente, come se avesse sentito la sua invadenza. Non appena incontrò lo sguardo di Vegeta il sentì il cuore accelerare, la tensione immediata nell’innervare i suoi muscoli aumentando leggermente il suo ki. Ma non successe nulla, i suoi occhi neri erano vuoti, rilassati, privi del solito sarcasmo e della solita aggressività.
Fu Yamcha ad abbassare lo sguardo per primo, pieno di imbarazzo per quella sua curiosità fuori luogo.
Forse, dopotutto, Crilin aveva ragione.
 
Sovrastati dai ciliegi, Bulma e Vegeta si tenevano la mano guardando la foresta scura e lontana. Era un caleidoscopio di colori, i papaveri di porpora che giocavano a rincorrersi sospinti dal vento, la vita che brulicava lenta, incarnata nelle cicale che cantavano melodie antiche.
L’ombra scendeva inesorabile, combattuta strenuamente dai raggi solari che si opponevano ribelli al tramonto.
Non avevano più bisogno di parlare.
I fiori di ciliegio continuavano a cadere, come rintocchi silenziosi di un tempo irreversibile, di momenti perduti per sempre, dispersi nella corrente della Vita.
 
***
 
  
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