CAPITOLO 1: UNA RAGAZZA POCO COMUNE
Quando
uscii dall’aula, nei corridoi c’era un caos
allucinante: centinaia di studenti si erano riversati lì per
poter andarsene
finalmente a casa.
“Perfetto”
pensai: non ero un’amante dei luoghi
affollati, ma odiavo sicuramente di più quelli in cui vi era
poca gente, poiché
sapevo che finiva sempre allo stesso modo, ovvero che la gente iniziava
a
fissarmi.
Quella
situazione andava avanti così sin da quando
piccola, dall’asilo: le persone non riuscivano a concepire
l’idea che io avessi
le orecchie diverse dalle loro,
tutto
qui. Proprio come mia madre, infatti, non le avevo tonde e piccole, ma
erano a
punta e ciò in più di un’occasione mi
aveva causato l’attribuzione di
soprannomi idioti, quali “Elfo”,
“Folletto” o peggio ancora
“Orecchieapunta”.
Iniziai
quindi ad incamminarmi verso l’uscita, ma
puntualmente le persone che mi passavano di fianco si bloccavano,
iniziando a
sussurrarsi cose all’orecchio e indicandomi: possibile che
anche
all’università, dove si presume che le persone
siano mature, quel piccolo
difetto doveva essere oggetto di scherno?
Sbuffando
uscii a grandi passi da quella bolgia,
dirigendomi verso casa: abitavo nel quartiere di Kensington, a Londra,
lontano
dall’eccessivo traffico del centro. Mentre camminavo,
un’idea si fece largo nel
mio cervello, distraendomi abbastanza da rischiare di andare a sbattere
contro
un palo: quel giorno era l’anniversario della morte della
mamma…
Con
tutto il caos dell’università e lo studio mi era
completamente uscito di mente: arrivata a casa, trovai mio padre seduto
sulla
poltrona del salotto, intento a fissare quello che poteva sembrare una
grossa
pergamena…
-Buonasera
pà – lo salutai con un sorriso, seppur tirato.
Non volevo che mi vedesse mai giù di morale.
Lui
parve non essersi accorto del mio arrivo, tanto che
sobbalzando, si preoccupò subito di riporre ciò
che aveva in mano.
-Ciao
tesoro – rispose lui alzando gli angoli della
bocca.
Io
però avevo visto bene ciò che teneva in mano,
tanto
che lo obbligai a mostrarmelo: era sul serio una pergamena, simili a
quelle che
si vedono nei libri di storia. Sembrava molto antica e su di essa vi
era
disegnata alla perfezione l’immagine dei miei genitori al
carboncino, la mamma
sempre la stessa, papà molto più giovane.
Indossavano degli abiti strani, quasi
d’epoca e in basso a sinistra vi era una dedica che prima non
avevo notato.
“Ad
Othar e Lilith auguro una lunga vita serena, piena d’amore e
di fortuna, e che
insieme possano crescere la piccola Aranel. Con affetto e stima,
Girion”
Guardai
mio padre con aria interrogativa: -Chi è Girion,
Pà? –
Lui
sospirò, con gli occhi velati di tristezza: -Un
vecchio amico… -
Fissai
ancora per qualche secondo la bellissima
riproduzione sulla pergamena: -Certo che era bravo a maneggiare le
matite… era
un pittore? – domandai curiosa.
Lui
sorrise debolmente: -No tesoro, era solo molto bravo.
Lui… - sospirò –aveva una grande
passione per le armi. –
Mi
sembrava triste sentendo parlare di questo Girion,
così sviai il discorso.
-Comunque, ti
ricordi
che giorno è oggi? – chiesi sfiorando con le dita
il ciondolo che portavo al
collo.
-Come
potrei dimenticarlo… - disse papà arrotolando la
pergamena e riponendola nella libreria.
Appena
mi vide maneggiare la collana alzò gli occhi al
cielo, palesemente irritato –Dovresti sapere ormai che
detesto vedere quel
ciondolo… vallo a posare –
Non
mi piacque per nulla quel tono autoritario, ma decisi
comunque di tenergli testa: -Papà, sono otto anni che ripeti
sempre la stessa
cosa – sbuffai - Il punto è: perché?
Cosa può fare di male un ciondolo? Capisco
che ti ricorda la mamma, ma proprio per questo dovresti essere felice
di avere
un suo oggetto privato come memoria… -
Speravo
con tutto il cuore che papà non rimanesse zitto
come tutte le altre volte che glielo avevo chiesto: -Porterebbe solo
guai –
rispose secco. Andò in cucina, iniziando a tirare fuori il
necessario per la
cena. Mi ignorava, lo faceva sempre.
Io
strabuzzai gli occhi per la sorpresa, seguendolo a
grandi falcate: -Oh insomma, che cos’è? Uno strano
ciondolo porta sfortuna? –
Lui
mi guardò impassibile: -Te lo ha detto tua madre a
cosa serve… ma non voglio che tu vada… -
-Ma
andare dove?!?! – gridai esasperata. Mi sembrava che
papà avesse perso il senno, accidenti.
-Andare
ad… non importa. Non voglio litigare proprio il
giorno dell’anniversario della morte della mamma, ok? Quindi
finiamola qui –
disse stancamente passandosi una mano sugli occhi.
Io
non stetti quasi a sentirlo e a passi pesanti mi
diressi in camera mia, preoccupandomi di sbattere bene la porta. Una
volta lì
mi lasciai cadere sul letto, iniziando a giocherellare con il ciondolo.
Era
una catenina leggerissima, composta da minuscoli
anellini finemente incastrati tra di loro, in oro. Al centro
troneggiava un
ciondolo anch’esso d’oro, lavorato a mano, a forma
di sole. Su ciascuno dei
numerosi raggi erano incastonati delle piccolissime pietre luccicanti,
simili a
diamanti.
Quella
catenina aveva sempre avuto un certo fascino su di
me: oltre a ricordarmi la mia adorata mamma mi piaceva immaginare che
fosse
qualcosa di particolare e “sovrannaturale”, come si
vede nei film. La smisi di
fare simili congetture solo quando superai l’adolescenza, ma
mai di rimanerne
affascinata.
Passai
quel che rimaneva del pomeriggio sdraiata in
camera, immersa nei miei pensieri, dimenticandomi addirittura di
studiare per
l’esame che avrei sostenuto la settimana dopo, fino a quando
papà non mi chiamò
per la cena. Anche lì non vi fu un grande scambio di parole:
solo qualche
accenno al cibo e il rumore delle stoviglie di sottofondo.
Dopo
cena uscii con mio padre in giardino, dove c’era la
tomba della mamma: prima di morire infatti aveva chiesto espressamente
di non
essere sepolta in un cimitero comune, ma nel giardino di casa, in modo
che
potessimo sentirla più vicina.
Alla
vista di quella grossa lapide di marmo, la
discussione che avevo avuto con papà poche ore prima si
dissolse dalla mia
mente, lasciando spazio solo a tanta malinconia.
-Papà?
– dissi io con un sussurro, voltandomi a
guardarlo.
-Dimmi
tesoro –
-Ti
voglio bene – dissi gettandomi tra le sue braccia,
stringendolo forse.
-Anche
io Aranel, anche io – rispose lui, dandomi un
bacio sulla fronte. Tirò su con il naso, cercando di
ricacciare indietro le
lacrime.
-Ora
sarà meglio che io vada a dormire… domani mattina
ho
lezione presto! – dissi sbadigliando.
-Certo,
dormi bene stellina- disse lui con un sorriso.
Prima
di andare in camera, passai nel salotto, prendendo
la pergamena di papà dalla libreria, nascondendola nella
tasca della camicia da
notte. Volevo dare meglio un’occhiata a quel ritratto.
Alla fine
mi
sdraiai sul letto stringendo tra le mani il ciondolo della mamma.
Giurai a me
stessa di aver visto un bagliore proveniente dalla collana, forse un
riflesso
della luna proveniente dalla finestra, poi mi addormentai, cadendo in
un sonno
tormentato da strani sogni e da un’inquietante sensazione di
cadere nel vuoto.
Spazio
Autrice:
Ciao
a tutti!
Spero che qualcuno dopo il prologo abbia deciso di
iniziare a leggere la storia vera e se siete arrivati qui, allora vi
ringrazio
fin da subito. Questo è l’unico capitolo che si
svolge nel nostro mondo e mi
serviva fondamentalmente per introdurre il personaggio di Aranel e la
situazione in cui vive. Come avete potuto notare non è
affatto una ragazza
comune, anzi… ma lei ancora non lo sa, quindi tempo al tempo.
Per questa settimana è tutto, ringrazio di cuore chi
legge, recensisce o aggiunge ai preferiti e tutti coloro che seguiranno
quest’avventura insieme a me e ad Aranel.
Alla prossima, un bacio!
Jenny