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Autore: daisyssins    07/05/2017    0 recensioni
"...Le sembrava quasi impossibile non dare “troppo peso” ad una persona come Luke Hemmings, perché certe persone, quando ti entrano dentro, non è che tu possa farci un granché. Lei lo odiava, non aveva mai odiato tanto una persona quanto lui, sapeva chi era, aveva paura di lui, una fottuta paura, perché le ricordava tutto quello da cui stava scappando."
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«Sei strana. E sei bellissima» sussurrò lui come se fosse la cosa più naturale del mondo, facendo scorrere le dita tra i capelli corti della ragazza.
Phillis sbottò in una breve risata sarcastica, prima di «E tu sei matto.» rispondere divertita.
«Io sarò anche matto, ma tu resti strana. E bellissima.»
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«Luke, ho paura, stai perdendo sangue..»
«Ancora non te l'hanno insegnato, Phillis? Il sangue è il problema minore. E' questo ciò che succede quando cadi a pezzi.»
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La verità ha un peso che non tutti, e non sempre, hanno la forza di reggere.
Trailer Pieces: https://www.youtube.com/watch?v=vDjiY7tFH8U&feature=youtu.be
Genere: Angst, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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12. Game Over

 

Tornare a scuola, dopo gli eventi delle ultime giornate, era surreale.
Trovarsi circondata dalle stesse persone, gli stessi volti di sempre - conosciuti ma non troppo – era il ritorno alla routine più brusco che Phillis potesse immaginare ma, nonostante questo, per una volta si sentì grata.
Aveva bisogno di normalità nelle sue giornate, di monotonia, per poter rimettere in ordine i propri pensieri e per poter capire cosa provava, nei confronti di chi.
Aveva visto Luke, quel giorno. Era sui gradini della scuola, c’era Ashton con lui: le aveva sorriso, e per la prima volta nella sua vita quel sorriso l’aveva fatta star bene, l’aveva sollevata dalle ansie. Lo stesso sorriso che mai lui le aveva rivolto e che, comunque, pochi mesi prima l’avrebbe semplicemente terrorizzata. Phillis aveva ricambiato, rivolgendogli un cenno della mano, ma non si era fermata. Anche Luke era uno dei tanti punti interrogativi della sua vita. Anche su di lui sentiva di dover fare chiarezza al più presto, prima che la testa le scoppiasse: e, ultimamente, la bionda si era sentita come se la cosa sarebbe dovuta accadere da un momento all’altro, a causa di tutte le novità, gli alti e bassi e le informazioni che aveva dovuto accumulare e metabolizzare in poco tempo.
Scorse da lontano la chioma rossa di Lucy, all’entrata, ma decise appositamente di evitarla: non le piaceva tenere nascoste cose alla sua migliore amica, che si trattasse di sciocchezze o eventi importanti, ma proprio non ce l’avrebbe fatta, quel giorno, a spiegarle cosa era accaduto – e d’altra parte come fare, se neanche lei lo aveva ancora capito bene? Come fare a spiegare a Lucy il suo dissidio interiore, il caos dei suoi pensieri e quello ancora più intricato dei suoi sentimenti, se era lei la prima a non riuscire a capirlo?
Anziché decidersi ad entrare, quindi, la ragazza puntò al cortile sul retro della scuola, più che decisa a nascondersi lì, almeno per tutta la durata delle prime lezioni di quella giornata. La routine le faceva bene, sì, ma sentirsi obbligata a dover fingere concentrazione, magari dover anche rispondere a domande – o peggio, ad un’interrogazione – quel giorno sarebbe stato semplicemente impensabile.
Si sedette sul marciapiede sporco, i piedi affondati nell’erba delle aiuole abbastanza alta a coprirla fino alle ginocchia. Se fosse arrivato qualcuno avrebbe potuto semplicemente nascondersi lì, stendersi tra i fili verdi e sporchi di smog, e nessuno l’avrebbe notata: d’altra parte, l’erba lì non veniva mai tagliata, così come nulla in quell’edificio era mai stato curato. La bionda rivolse uno sguardo alle mura grigie, sporche e scrostate, e sentì con chiarezza il peso di un macigno posarsi sul suo stomaco.
Tutto, lì, era grigio. Tutto era sporco, consumato, tutto era privo di vita. Era privo di anima, come era solita pensare lì. Phillis si chiese distrattamente se, passando tanto tempo tra quelle mura, avrebbe perso anche lei la sua anima: si chiese nuovamente se, piuttosto, un’anima la avesse.
Se l’aveva, beh, era stata messa a dura prova dai colpi di quelle giornate.
Suo padre era tornato per restare: aveva detto questo, la sera prima, dopo che sua madre l’aveva convinta a scendere per la cena e “mangiare almeno un po’”; non se ne sarebbe andato, prometteva, e Phillis avrebbe voluto crederci, ma non sapeva come fare e in più ormai non era più abituata a fidarsi delle persone. A sperare di potersi tenere qualcuno vicino, aveva scoperto, si finiva solo col perderlo nei modi peggiori. Perciò aveva annuito, tenendo lo sguardo basso senza rispondere nulla, ché tanto di parole non ne aveva, e avrebbe potuto solo ripetere qualche frase scontata. Aveva finito la sua cena in silenzio, era salita nella sua stanza e poi, sul suo letto, aveva fatto qualcosa che odiava, ma che nell’ultimo periodo era capitato troppo spesso: raggomitolata sulle coperte sfatte, aveva pianto. Perché era stanca, forse, o perché la sua armatura si stava lentamente frantumando; perché nulla, nella sua vita, aveva più un senso, e perché lei semplicemente avrebbe potuto essere una ragazza come le altre. Avrebbe voluto capire di più se stessa, la sua famiglia, sapere cos’era che faceva suo padre, perché per tutto quel tempo era stato costretto a stare lontano da casa. Avrebbe voluto capire anche i sentimenti, come funzionava quello strano meccanismo di emozioni e farfalle e poi groppi in gola e macigni che, ultimamente, aveva scagliato contro di lei i suoi colpi peggiori. E l’aveva colta impreparata, inesperta, e la sua armatura di cinismo e sarcasmo iniziava a vacillare. Non era mai stata messa così tanto alla prova, non era fatta per così tante battaglie.
Phillis strappò un ciuffo d’erba sporca, ci giocò sovrappensiero, prima di lasciarlo volare via.
Si concentrò sulla seconda, grande incognita delle sue giornate.
Luke.
“Un nome, una garanzia” aveva pensato con amarezza, sorridendo tra sé e scuotendo la testa. Perché non aveva alcun senso che, da un giorno all’altro, la paura che provava nei confronti di quel ragazzo – una paura istintiva, irrazionale ma senz’altro motivata – si fosse trasformata in qualcosa di indefinito, qualcosa che non sapeva comprendere. Quante cose che non capiva, e in mezzo a tutto quel caos c’era lei.
Lei che, era vero, da Luke era sempre stata terrorizzata.
L’avevano terrorizzata i suoi occhi azzurri, così glaciali, così indifferenti.
L’avevano terrorizzata le sue mani bianche, da pianista, che però nei suoi ricordi erano ancora sporche, zuppe di sangue.
L’avevano terrorizzata i suoi discorsi con Michael, le sue risate sarcastiche, il suo carattere altalenante e il suo cinismo – così diverso da quello della ragazza, così tremendamente definitivo.
Infine, l’aveva terrorizzata più di ogni altra cosa il mettere in ordine alcuni tasselli del puzzle, che l’avevano portata a rendersi conto che, per un motivo o per un altro, Luke sicuramente conosceva suo padre. Non si era mai fermata a riflettere su quel particolare, talmente importante che si era data mentalmente dell’idiota almeno un centinaio di volte, nell’ultima ora. Non aveva mai riflettuto sulla presenza di suo padre in quel vicolo, tanti anni prima, il giorno in cui lo zio di Luke era morto.
Non si era mai fermata a riflettere neanche sul comportamento freddo del ragazzo, quella notte in cui, riaccompagnandola a casa, era diventato glaciale dopo aver lanciato un solo sguardo alla sua abitazione.
Appiattendosi per terra, tra l’erba, sentendo dei passi avvicinarsi, un singolo, semplice pensiero si fermò nella mente della ragazza: non sapeva cosa suo padre c’entrasse con la morte di quell’uomo, tanti anni prima, né che legame corresse tra lui e gli Hemmings; nonostante questo, era intenzionata a scoprirlo.
E lo avrebbe fatto a modo suo.

 

**

Luke camminava a passo svelto, le mani infilate nelle tasche della felpa grigia, il cappuccio ben calato sul viso.
Aveva salutato Calum e Michael, dandosi appuntamento con quest’ultimo per l’allenamento, quella sera. Nessuno dei due sapeva cosa aveva intenzione di fare, in quelle ore che lo dividevano dall’allenamento serale, e forse era meglio così: forse avrebbero provato a fermarlo, forse gli avrebbero fatto notare che era una pazzia.
E fermarsi a riflettere era l’ultima cosa di cui Luke aveva bisogno.
Ciò che stava per fare andava fatto, per tanti motivi che fino a quel momento non erano mai stati abbastanza validi: mancava il carburante, l’energia, quel qualcosa capace di smuovere la sua coscienza, di fargli desiderare di cambiare le cose per poter ottenere qualcosa di diverso, qualcosa di più.
Mancava quel qualcosa che era Phillis Turner.
Luke non aveva dimenticato chi era il padre della ragazza, e neanche la sua diffidenza nei confronti di Phillis era completamente scemata; ma quel bacio, quell’unico bacio e la fiducia totale che lei gli aveva – inconsciamente – dimostrato quella sera, raccontandogli ricordi del suo passato, erano bastati perché qualcosa, dentro di lui, prendesse vita.
Aveva riacceso i suoi colori, la Turner, e neanche lo sapeva. Gli stava ridando la voglia di prendersi ciò che gli spettava, ciò per cui un normale diciassettenne non avrebbe dovuto lottare, perché diritto inalienabile. Una vita normale. Amici, scuola, amore.
Era affetto quello che provava per la ragazzina, sicuramente, e non sapeva neanche perché, ma non era bravo a gestire se stesso e i propri sentimenti, quindi preferiva non interrogarsi.
Mentre svoltava nel vicolo sporco, con il forte odore di candeggina che gli penetrava nelle narici e i mattoni rossi dei palazzi che gli riempivano la vista, Luke si sentì nuovamente motivato. Stava facendo la cosa giusta, stava scegliendo – per una volta – se stesso.
“Hemmings. Che sorpresa, ragazzo”.
Luke si voltò di scatto, preso in contropiede, e l’uomo alle sue spalle ostentò un sorrisetto divertito.
“Signor Clifford” rispose il biondo con un cenno, mantenendo la voce dura nonostante il cuore avesse preso a battergli più veloce.
Se Michael, nella sua manifestazione più reale, era un invasato, suo padre era anche peggio. Aveva occhi verde slavato, chiarissimi, da automa. Si muoveva come un automa, parlava con voce bassa, scattante. Un automa. Non sembrava una persona umana, non trasmetteva umanità.
“Qual buon vento ti porta qui?”
Luke strinse impercettibilmente le labbra. “Si tratta di Andrew Turner, signore”
L’espressione dell’uomo mutò repentinamente. I suoi occhi si assottigliarono, la vena sulla tempia ebbe un guizzo.
“Cosa cazzo è successo?”
Aveva parlato a voce bassa, ma la rabbia di quella singola frase bastò perché il ragazzo si sentisse attanagliare dalla paura. Nonostante questo, si costrinse a mantenere un tono di voce normale mentre rispondeva.
“Ho solo bisogno di… una risposta, signore”
L’uomo lo squadrò, diffidente.
“Probabilmente – si disse Luke – si starà chiedendo se spararmi qui e ora o aspettare almeno di sentire cosa voglio”. Passarono alcuni attimi, poi il padre di Michael annuì. Poteva chiedere.
“Tutto questo… tutto questo finirebbe, se lui venisse sbattuto dentro, giusto?”
“Tutto questo cosa, Hemmings? Vai al punto.”
“Tutto, signore. La faida. Gli omicidi, le ronde notturne… tutto” ripeté Luke, costringendosi a mantenere il proprio sguardo di ghiaccio negli occhi dell’uomo.
Sembrò soppesare a lungo la domanda, ponderando fino all’ultima virgola la sua risposta. Luke non era neanche sicuro che l’avrebbe avuta, una risposta, ma doveva quanto meno sperarci.
“Tutto questo finirebbe, sì. C’è altro?”
Il ragazzo scosse la testa. “No, signore”
“Bene allora. Torna da dove sei venuto”
E, voltategli le spalle, Clifford si allontanò velocemente, scomparendo nella seconda porta a sinistra di un anonimo palazzo. Un palazzo che Luke, però, conosceva fin troppo bene.
Si avviò nuovamente sui propri passi, con una strana sensazione al petto e una nuova consapevolezza, l’abbozzo di un’idea che premeva contro la sua mente per essere notata.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa, però, dalla strada principale venne un rumore estremamente noto alle orecchie del ragazzo: fece appena in tempo a correre, uscire dal vicolo, e l’immagine che gli si parò davanti agli occhi gli gelò il sangue nelle vene.
Phillis Turner era lì, di fronte a lui: i grandi occhi erano sgranati, la bocca aperta in una muta esclamazione. Posò lo sguardo sul ragazzo, le iridi velate di tristezza, prima di scivolare lentamente a terra, sbattendo sul marciapiede con un rumore sordo.
Le sue piccole mani, fino ad un attimo prima premute con forza contro il costato, ricaddero ai suoi fianchi.
Le sue piccole, pallide mani, erano sporche di sangue.



 


Hei there.
Non preoccupatevi: se vi state chiedendo in che modo, dopo tanti anni, io abbia l'ardire e la pretesa di tornare qui, con un nuovo capitolo, sappiate che è la stessa domanda che mi sto ponendo io.
Però negli ultimi mesi ho letto e riletto Pieces, e mi sono resa conto che questa storia - per quanto iniziata tre anni fa, da una me diversa e scritta in balìa di sentimenti diversi - meritava la sua conclusione. Conclusione che, tra l'altro, ho sempre saputo quale sarebbe stata, quale sarebbe dovuta essere.
Non spero che ci siate ancora, non spero che non l'abbiate abbandonata: è più comprensibile farlo, dopo due anni di pausa.
Se però Phillis e Luke vi erano mancanti, se Pieces è stata nei vostri pensieri... beh, eccoli qui una volta di più. Si spera che tornino presto, di nuovo.
Come vi ho già scritto su, in ogni caso, io sono cambiata: probabilmente noterete differenze nel modo di scrivere, di esprimermi, ma dietro tutto questo ci sono io, e trovo... realistico, che la storia si evolva insieme a me.
Wow, da quanto non scrivevo un angolo autrice.
Beh, direi che questo è quanto. Vi chiedo ancora scusa ma, soprattutto, grazie. Grazie a chi c'è stato, a chi c'è ancora, a chi ci sarà anche in futuro.
Grazie.
Ida, x

 

  
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