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Autore: Chipped Cup    10/05/2017    6 recensioni
[ One Shot | John Watson (+ Sherlock Holmes) | Johnlock | inspired by Doctor Who, Turn Left ]
La one shot segue solamente la linea generale della puntata indicata, può essere letta benissimo anche da chi non segue la serie.
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Dalla storia:
«Se potessi tornare indietro, rifaresti tutto in modo diverso? Eviteresti la strada che ti ha portato a Sherlock?»
John lo fissò, provando a studiarlo come aveva visto fare a Sherlock così tante volte. Cercava di capire dove lo volesse portare con quella domanda. A una riflessione interiore? Semplice e mera curiosità? O c'era qualcosa di più? John si domandò quando era stata l'ultima volta che lo aveva visto così serio. Insomma, Mycroft Holmes era perennemente serio, ma quella volta c'era qualcosa di diverso, qualcosa che lo spaventava. «Ora come ora?» Domandò, a mo' di sfida, sperando di cacciargli fuori qualche altra parola o qualche comportamento sospetto. Non arrivò niente. «Sì»
Genere: Angst, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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A Lidia, che ha "ascoltato" questa one shot in super anteprima e mi ha leggermente minacciata esortata affinché la pubblicassi quanto prima, ♥

Turn Left




La piccola Rosie aveva cominciato a piangere e Mrs Hudson era corsa a prenderla tra le sue amorevoli braccia, così da rassicurarla. «Va tutto bene, tesoro. Sai come sono fatti quei due, non c'è niente di cui preoccuparsi», le sussurrava dolcemente, alternando delle dolci carezze a qualche bacio qua e là tra quei boccoli d'oro. Una seconda raffica di sfuriate era appena cominciata, al 221b; andava avanti da un paio d'ore ormai, interrotta solamente da qualche breve pausa qua e là.
Mrs Hudson ci aveva fatto l'abitudine, anche se, ogni volta, le si spezzava il cuore nel sentire John e Sherlock urlarsi contro in quel modo, per un motivo futile o per uno più serio. Erano come figli suoi, sapeva che le tempeste fra loro non duravano mai troppo a lungo, ma non poteva restarne completamente impassibile. Prima o poi quei due testoni l'avrebbero fatta morire di crepacuore, lo sapeva.
John le aveva lasciato Rosie, quella mattina, prima di uscire dall'appartamento alla ricerca di Sherlock. Non sapeva tutti i dettagli, aveva solamente visto John tornare a casa qualche ora dopo, telefono all'orecchio e sguardo torvo. Sherlock era tornato circa un'ora dopo di lui, invece, piuttosto mal ridotto e zoppicante. La buona padrona di casa era accorsa preoccupata, ma dietro di lei era arrivato John, che si era letteralmente precipitato dalle scale, pronto ad inveire contro il consulente investigativo. Si erano rintanati tutti e due al piano di sopra e da allora non erano più usciti. Aveva sentito, mal volentieri, il dottor Watson rimproverare al compagno di essersi buttato in quel nuovo caso da solo, di averlo lasciato fuori e di essersi quasi fatto ammazzare per quello. Sherlock, dal canto suo, si difendeva spiegandogli come avesse avuto tutto sotto controllo per tutto il tempo e che se non fossero sorte complicazioni sarebbe tornato a casa tutto intero per l'ora del tè. Questo non aveva certamente calmato John, che anzi aveva cominciato ad alzare ancora di più la voce. Probabilmente l'intero vicinato era in ascolto.
«Per l'ultima volta, Sherlock. Non mi serve la tua protezione. Non se devi farti ammazzare!» La voce di John irruppe dalle scale, Mrs Hudson poteva tranquillamente vederlo, mentre indossava il suo cappotto – sempre, a suo parere, troppo leggero per le temperature di quei giorni – per prepararsi ad uscire per una lunga e intensa passeggiata, dove avrebbe smaltito gran parte della rabbia. Rosie, nel frattempo, si era calmata e ora anche lei se ne restava in ascolto e in attesa.
«Oh, per l'amor del cielo, avevo tutto sotto controllo!» Ripeté per l'ennesima volta l'altro, prima di andargli dietro; John aveva deciso di ignorarlo, scuotendo il capo contrariato, e cominciando a scendere lungo i gradini. «Dove stai andando?» La testa di Sherlock, ora, faceva capolino da sopra la rampa di scale.
«Esco.»
«Questo lo vedo», commentò sottovoce il detective, ferito: odiava veder andare via John, senza di lui e arrabbiato, aveva paura di non vederlo più tornare. «Passa da Mycroft, prima. Informalo che ho... che il caso è risolto!» Gli urlò prima che fosse fuori dal suo campo visivo. Si maledisse, un secondo dopo, per aver formulato quella frase come un ordine e non come una richiesta. John si fermò sul posto, inspirò profondamente, serrò i pugni, chiuse gli occhi e cacciò fuori il fiato. Ripeté quell'operazione tre volte, senza replicare. Sherlock non osava muoversi, impaziente; decise di provare a rimediare a quello che aveva appena detto. «John–»
«Va bene!» Gridò il dottore, spazientito, prima di uscire premurandosi di sbattere il portone violentemente alle sue spalle.


Per prima cosa, John si fermò da Angelo così da mandare giù qualche boccone, cosa che non faceva dalla sera prima. Pessima idea, constatò presto, dato che il ristoratore passò tutta la durata del suo pasto a riempirlo di domande, più o meno personali. Il primo pensiero dell'uomo andò a Rosie, non la vedeva da un po', disse, doveva esser cresciuta almeno di dieci centimetri dall'ultima volta! Gli chiese poi perché non fosse venuto insieme a Sherlock, se le cose tra loro andassero bene, correggendosi da solo, subito dopo, con un “ma certo che va tutto bene, fra voi!” Non notò l'espressione esausta e infastidita del dottore, così continuò a tempestarlo di domande riguardanti Sherlock, l'ultima persona di cui voleva parlare John al momento.
Passeggiò poi per il parco, cercando un modo per riempire il tempo, ma la cosa durò poco: la felicità e la spensieratezza delle persone che lo circondavano cominciavano a dargli sui nervi. Incontrò Sarah, Cristo, non ricordava neanche quando era stata l'ultima volta che l'aveva vista. Si era fidanzata ufficialmente e aveva da poco scoperto di aspettare un figlio. Il matrimonio si sarebbe svolto fra un mese, per evitare il pancione. Ovviamente lui e Sherlock erano invitati. E Rosie, naturalmente. La famiglia Watson-Holmes al completo, precisò senza lasciargli modo di replicare, accettare o declinare quell'invito.
Arrivò al Diogenes Club nel tardo pomeriggio. Immaginò che Mycroft lo aspettasse già da un po', così si sbrigò a raggiungerlo senza emettere il minimo fiato – aveva imparato la lezione già la prima volta. Chiuse la porta alle sue spalle e andò a sedersi davanti al più grande degli Holmes, senza premurarsi neanche di salutare, prima sarebbe terminato quell'incontro meglio sarebbe stato. O forse no, non moriva proprio dalla voglia di tornare a Baker Street, non aveva ancora digerito la discussione con Sherlock.
«Problemi in paradiso?» Lo punzecchiò Mycroft, mentre posava il giornale che stava leggendo e lo ripiegava con cura prima di posarlo sopra il tavolo. John mise su un sorriso di circostanza, piuttosto tetro e raccapricciante a dire il vero, e costrinse se stesso di non assecondare uno degli uomini più potenti della Gran Bretagna, di farlo per il suo amico Greg. No, non per Sherlock, per Greg1. Mycroft capì l'antifona, commentò con un'alzata di sopracciglia e alla fine si decise a parlare del caso che aveva affidato a Sherlock qualche giorno prima.
«Non posso dirti troppi dettagli, Mycroft», sbottò ad un certo punto il dottore, scocciato, tutta la tensione della giornata stava riemergendo, «io stesso sono all'oscuro della maggior parte. Sherlock voleva soltanto farti sapere che i gioielli sono al sicuro e che il caso può essere archiviato, se sapere come sia arrivato a concluderlo è di così vitale importanza, allora dovrete vedervela voi due. Arrivati a questo punto, io non voglio saperne più nulla», concluse nervoso, passandosi una mano fra i capelli. Doveva calmarsi, si disse fra sé.
Mycroft lo studiò silenzioso per qualche secondo, John ne approfittò per passarsi una mano sugli occhi ed emettere qualche respiro profondo. Alla fine si decise di replicare. «Mio fratello si è dimostrato abbastanza sconsiderato da portare una bambina sulle scene di vari crimini, ma, anche lui possiede un senso del limite e, sono certo, avrà considerato la situazione troppo pericolosa così da decidere di affrontarla da solo in modo da tenerti al–»
«Io non – oh per l'amor del cielo!» John scattò in piedi, stanco di quella discussione che proprio non voleva saperne di giungere a una fine. Quello che gli avevano detto Mycroft, e Sherlock, circa un milione di volte prima di lui, erano tutte cose che lui già sapeva, ed era proprio questo che lo mandava su tutte le furie. Aveva odiato quella giornata, così come ne aveva odiate tante altre identiche: svegliarsi e non trovare Sherlock; cominciare a tempestarlo di messaggi; provare a chiamarlo e a pregare in una qualche risposta; non sapere se stesse bene, se fosse al sicuro, cosa stesse facendo o dove si trovasse. Non poteva vivere così, con la costante paura di perderlo senza aver fatto nulla per evitarlo. Odiava sentirsi talmente impotente e Sherlock pareva non rendersene conto. Quel giorno era tornato a casa ferito, e se un'altra volta non fosse più tornato? Non avrebbe potuto sopportarlo. «Certe volte penso che sarei stato meglio, se non mi fossi trasferito a Baker Street», espresse quel pensiero ad alta voce, senza rendersene conto, capo basso e pugni chiusi. Respirò forte e voltò le spalle a Mycroft, deciso ad andarsene.
«Ne sei così convinto?» La voce dell'altro lo raggiunse e lo bloccò proprio davanti la porta, la mano ferma sulla maniglia. Girò appena il capo, notando come Mycroft stesse fissando un punto indefinito vicino a lui, sovrappensiero, forse. Sibilò un “Come?” non intuendo il filo del discorso, solo allora l'uomo parve ridestarsi e tornare a guardarlo. «Se potessi tornare indietro, rifaresti tutto in modo diverso? Eviteresti la strada che ti ha portato a Sherlock?»
John lo fissò, provando a studiarlo come aveva visto fare a Sherlock così tante volte. Cercava di capire dove lo volesse portare con quella domanda. A una riflessione interiore? Semplice e mera curiosità? O c'era qualcosa di più? John si domandò quando era stata l'ultima volta che lo aveva visto così serio. Insomma, Mycroft Holmes era perennemente serio, ma quella volta c'era qualcosa di diverso, qualcosa che lo spaventava. «Ora come ora?» Domandò, a mo' di sfida, sperando di cacciargli fuori qualche altra parola o qualche comportamento sospetto. Non arrivò niente. «Sì», rispose alla fine, non sapendo neanche perché fosse ancora lì, ad assecondarlo. «Ma tanto è impossibile, giusto?» Si ritrovò poi a chiedere, tanto per esserne sicuri. Dio solo poteva sapere a che tipo di diavolerie il governo britannico stava lavorando in segreto.
«Tanto è impossibile, certo», ripeté Mycroft, tranquillo, tornando a prendere il giornale che stava leggendo prima che arrivasse John. Il dottore sentì i muscoli distendersi. Aprì la porta, ma fu fermato di nuovo. «Gira a destra, questa volta.» John decise di non dare troppo peso a quell'affermazione e di non farsi troppe domande, doveva uscire da lì alla svelta o sarebbe impazzito. Silenzioso, attraversò le stanze del Diogenes Club, aprì la porta d'ingresso ed uscì fuori.


Come ci era finito, seduto sulla sua scrivania, proprio non riusciva a ricordarlo. Tornò a fissare lo schermo del suo portatile, la pagina del suo blog aperta, nessuna parola ancora scritta. Ma cosa doveva scrivere, poi? Quella pagina, pensò, andava a braccetto con la sua vita: era completamente vuota, nonché niente di eclatante o importante, niente che meritava di essere scritto nero su bianco e condiviso con altre persone. Faceva tutto così schifo.
Guardò l'orologio, poi lanciò un'occhiata fuori la finestra così da poter scorgere quell'inaspettato sole che spiccava sul cielo inglese di fine gennaio. Ella gli aveva suggerito di buttare giù qualche parola, riusciva quasi a sentire la sua voce, l'ennesimo rimprovero. Decise di ignorarla, avrebbe scritto dopo, una boccata d'aria fresca non poteva fargli che bene, del resto, no? Magari avrebbe assistito ad un episodio eccezionale, magari avrebbe aiutato un agente a sventare una rapina, magari la sua vita sarebbe cambiata in meglio proprio quel giorno. Certo, John, e magari avrebbero scoperto un modo per tornare indietro nel tempo.
Recuperò le sue cose, si aggrappò al suo fidato e odiato bastone ed abbandonò quelle quattro mura che cominciavano ad andargli fin troppo strette. Comprò subito un giornale e andò a sedersi sulla prima panchina libera che riuscì a trovare, dei bambini davanti a lui giocavano con uno skateboard. Cominciò a dare un'occhiata ai vari annunci, per prima cosa gli appartamenti, sperava di trovarne uno che non costasse troppo. Prese a cerchiare qualche prezzo, consapevole che non sarebbe andato a vederne neanche uno. Cercò tra le offerte di lavoro, niente che richiedesse “medico” e “soldato” tra le esperienze. Forse doveva provare in qualche studio privato, ma con quella gamba tutti lo avrebbero guardato come paziente e non come dottore.
Decise presto, dopo aver buttato via il giornale nel cestino più vicino, di rintanarsi dentro un bar per prendere un caffè, nero e senza zucchero, come piaceva a lui. Declinò il più educatamente possibile l'invito di prendere il posto della famigliola che gli stava davanti nella fila, il tutto per via di quel dannato bastone. Le cose non andarono migliorando, una ragazza – piuttosto carina a dire il vero – vedendolo avviarsi verso l'uscita, tazza di caffè in una mano e bastone nell'altra, gli si avvicinò e gli aprì gentilmente la porta per lasciarlo passare. John sorrise amaro, e le passò davanti senza guardarla negli occhi. Si domandò se la terapia lo avrebbe mai aiutato ad uscire da quella situazione, se sarebbe tornato a camminare normalmente. Ma niente di quello che gli aveva suggerito Ella aveva funzionato, e lui cominciava davvero a perdere le speranze. Finì il caffè e buttò la tazza.
E ora cosa fare? Non ricordava neanche più il motivo per cui era uscito di casa, a dirla tutta. Cercava davvero l'avventura? Era stato davvero convinto di poterla trovare così, che gli piombasse addosso all'improvviso? Si sentì un idiota per averci anche solo pensato. E magari un idiota lo era davvero. Si incamminò verso casa, a testa basta. Arrivato al solito bivio si paralizzò: girare a destra equivaleva tornare nella sua piccola e opprimente stanza, a contare lo scorrere dei minuti e a sentirsi soffocare; a sinistra c'era il parco. John voltò la testa per osservarlo da lontano, un brivido lo attraversò. Ne fu terrorizzato, ma allo stesso tempo incuriosito, attratto. C'era qualcosa che lo attirava da quella parte, qualcosa che gli diceva che era lì che doveva andare, lì che sarebbe cambiato tutto. Era come se fosse legato ad un filo invisibile e improvvisamente qualcuno dall'altra estremità aveva deciso di attirarlo a sé. Gira a sinistra. Era il suo cuore a parlare? Credette di sì, per un solo singolo istante valutò l'idea di seguire quello strano istinto, un piccolo e breve sorriso si dipinse sul suo volto, forse neanche se ne accorse. Si sentiva felice a quell'idea, inspiegabilmente felice. Gira a destra, disse un'altra voce, una voce che non riconobbe come sua, ridestandolo da quella specie di sogno. John ubbidì.


«Non hai scritto niente sul blog in questi giorni», Ella sapeva dirsi infinitamente ripetitiva alle volte. John faticava ad ascoltarla quel giorno, la sua testa era da tutt'altra parte. Se gli avessero chiesto a cosa stesse pensando non avrebbe neanche saputo rispondere, sapeva solo che qualcosa di brutto era successo, aveva una terribile sensazione addosso e si sentiva in colpa. Per cosa, però, non sapeva dirlo. Sicuramente non per non aver scritto niente sul blog per due giorni interi, di quello gli importava veramente poco.
«Non ho avuto niente da scrivere», commentò, anche lui ripetitivo, distogliendo lo sguardo dalle gocce di pioggia che lentamente scivolavano lungo il vetro della finestra. Le loro sedute ormai si svolgevano sempre allo stesso modo, pensava fosse arrivato il momento di interromperle ma non ne trovava il coraggio; una parte di lui aspettava ancora quel qualcosa che potesse aiutarlo a migliorare, l'altra parte lo rimproverava per essersi lasciato scappare quell'occasione quando ne aveva avuto la possibilità. John non riusciva a capire. O forse lo faceva, ma non se ne rendeva conto.
«Non deve per forza succederti qualcosa, John», continuò la donna, con un tono di voce fin troppo calmo per i suoi gusti. Gli scoppiava la testa, non vedeva l'ora di tornarsene a letto, ingoiare un sonnifero e sperare che gli incubi lo avrebbero lasciato in pace, per una volta. «Puoi scrivere qualunque cosa, puoi scrivere i tuoi pensieri», alzò gli occhi al cielo e sbuffò, a nessuno importava di quello che pensava e, al momento, la sua testa era un vero campo di battaglia, lui stesso faticava a venirne fuori. «Puoi parlare dei tuoi sentimenti, puoi sfogarti. Anche se provi rabbia, puoi–»
«Non sono arrabbiato», la interruppe, strofinandosi l'occhio sinistro con la mano, «non provo niente, niente di niente. Né gioia o tristezza, o paura. E decisamente non rabbia», aveva creduto di esserlo, qualche volta, ci aveva sperato. Avrebbe preferito essere costantemente arrabbiato, tutto sarebbe stato meglio di quel vuoto che avvertiva addosso. Forse era depresso e non se ne rendeva conto.
Ella cominciò a parlare, ma aveva smesso di ascoltarla, la pioggia era tornata ad interessarlo più di quella seduta. Abbassò poi lo sguardo e notò il giornale appena comprato, arrotolato e abbandonato sul tavolino al suo fianco. In quel minimo frangente riuscì a individuare solamente una parola, un nome: Holmes. Il cuore prese ad accelerare all'impazzata, non poté controllarlo in alcun modo. Allungò una mano, sorprendendosi da solo nel vederla tremare, afferrò il pezzo di carta e cominciò a leggere. Forse la donna seduta davanti a lui lo chiamò per nome un paio di volte, sorpresa da quella mancanza di rispetto, ma la ignorò. Con il cuore in gola, cominciò a leggere quelle poche righe che lo avevano colpito tanto: Continua la misteriosa serie di suicidi nel cuore di Londra; Vittima, questa volta, è Sherlock Holmes, consulente investigativo abbastanza noto a Scotland Yard. Holmes, che aveva appena cominciato a lavorare al caso, è stato rinvenuto morto la sera del 30 Gennaio 2010. La polizia ritiene che si tratti di suicidio. Continua così–.
Si sentì mancare, la stanza prese a girare inaspettatamente. Si prese il viso tra le mani e cominciò a respirare profondamente, per calmarsi. Non sapeva cosa gli stesse succedendo, ma quella notizia lo aveva sconvolto, si sentiva come se gli fosse crollato il mondo addosso. Non conosceva quell'uomo, non sapeva neanche che faccia avesse, eppure la sua morte era riuscita a fargli scattare qualcosa dentro di lui, nel profondo del suo cuore, qualcosa che non provava da diverso tempo. Era... dolore? Non lo sapeva, credeva di no. Avrebbe volentieri pianto, però. Avrebbe voluto cacciare fuori tutto, magari urlare. Alzò gli occhi e continuò a leggere l'articolo, diceva che il funerale si sarebbe svolto proprio quel pomeriggio. John controllò l'orologio, probabilmente era già cominciato.
«Mi dispiace, mi sono ricordato di un... impegno. Ci vediamo martedì prossimo», biascicò quella scusa e scappò via, per quanto la gamba glielo consentisse, certo.
Il taxi lo portò al cimitero in una decina di minuti, John si odiò per non essere riuscito ad arrivare prima. Avevano appena riposto la tomba; una donna piangeva tra le braccia del marito (i genitori, presuppose), un'altra, sola, seguiva il suo esempio singhiozzando silenziosamente, una ragazza dai capelli raccolti in una alta coda di cavallo sembrava abbastanza commossa, per il resto sembravano tutti leggermente spaesati e fuori posto. Un po' come lui. Un uomo gli passò avanti frettolosamente a testa basta, non si accorse della sua presenza e lo urtò brusco. Si voltò mortificato e a John parve di averlo già visto da qualche parte.
«Mi scusi tanto, non l'avevo assolutamente vista... ero di fretta sa, ho fatto di tutto per non perdermi l'inizio della cerimonia ma sono stato trattenuto», cominciò a spiegarsi esprimendo ad alta voce le scuse, sincere, che, John ebbe come il presentimento, aveva ripassato nella sua mente, lungo la strada. L'ex soldato annuì appena con il capo, mormorando qualche suono, niente che si potesse anche solo avvicinare a delle vere parole di senso compiuto, in uno scarso tentativo di rassicurarlo. Lo osservava attento però, cercando di metterlo a fuoco; alla fine ricordò di aver visto una sua foto sul giornale di pochi giorni fa: era l'ispettore Lestrade, se la mente non lo ingannava, si occupava lui del caso di quegli assurdi suicidi seriali. «Anche lei era uno dei suoi clienti?» Gli domandò ad un certo punto, a bassa voce.
John scosse la testa, mormorando un debole «No no», si guardò intorno, nel frattempo, domandandosi se la maggior parte dei presenti al funerale fossero clienti del signor Holmes, persone che lui aveva aiutato, negli anni.
«Oh, è un parente, quindi», concluse l'ispettore, turbando appena John, che scosse il capo. Lestrade parve abbastanza sorpreso e confuso, «Era un suo amico?» Domandò, questa volta visibilmente curioso della risposta.
«No, io...», cominciò a dire, rendendosi improvvisamente conto che la sua presenza lì era completamente immotivata. Non aveva sentito neanche mai parlare di Sherlock Holmes, prima di quel giorno «E' complicato», mormorò infine a bassa voce, una mezza verità. «Non lo conoscevo molto, che tipo era?» Si ritrovò a chiedere, mosso da un'innaturale curiosità.
Lestrade si grattò il capo. «Non saprei dirlo, ci aiutava – beh, mi aiutava a risolvere i casi più difficili. Era piuttosto strambo, non aveva amici, viveva da solo. Gli interessava solamente del suo lavoro; quelli che vede qui presente sono tutti suoi clienti, qualcuno lo conosco, tanti di loro mi odiano perché pensavo fossero colpevoli», John si guardò in giro, provò una specie di rabbia nei loro confronti, non trovava accettabile che loro avessero avuto la possibilità di conoscere e interagire con quell'uomo e lui no. Sentiva che le cose non sarebbero dovute andare così e si stupì da solo per quei pensieri. «Aveva anche un blog, La scienza della deduzione.» Per un momento pensò che lo stesse prendendo in giro, ma l'ispettore appariva più che serio e si calmò. Anche quel Holmes teneva un blog, gli strani casi della vita. Si annotò quel nome a mente, deciso ad andarlo a cercare una volta tornato a casa.
Non chiese più niente a Lestrade e lui, d'altro canto, non aggiunse nient'altro. A funzione finita i due uomini si salutarono educatamente, John non poté non restarsene in disparte ad osservare le persone allontanarsi dalla tomba di Sherlock Holmes. Prima di andarsene, scorse una macchina nera, tra gli alberi, e un uomo lì in piedi con un ombrello nero in mano, aperto per proteggersi dalla pioggia che non aveva accennato a voler smettere neanche per un secondo, che aveva osservato per tutto il tempo quella scena da lontano.


In poco tempo, Sherlock Holmes divenne la sua ossessione. Passò intere giornate sul suo blog, studiò ogni suo post trovandoli folli, assurdi e geniali al tempo stesso. Riuscì a contattare qualcuno dei suoi vecchi clienti, si fece raccontare le loro storie e come Sherlock li avesse aiutati. Fu tentato più volte di cercare i suoi genitori, ma non osò mai oltrepassare quel limite. Non sapeva cosa lo spingesse verso quelle ricerche, qualcosa nel suo cuore gli diceva che doveva farlo, che era il suo destino. Aveva trovato, su un vecchio giornale, una sua fotografia e gli era sembrato più giovane rispetto alla sua età; aveva ritagliato quella fotografia e adesso la teneva dentro al portafoglio, sempre mezzo vuoto, senza un apparente motivo. In qualche modo si sentiva confortato nel tenerlo vicino. Era una situazione così assurda.
Sentiva di avere diversi punti in comune con quell'uomo, non si fermava mai dal cercare nuove informazioni su di lui quasi ad avere conferme a riguardo. Tutte le persone che aveva ascoltato gli erano stati più o meno utili, in questo: lo avevano definito riservato, nessuno sapeva niente della sua vita privata e tanti pensavano che quasi non ne avesse; nessuna ragazza, o ragazzo; nessun amico o confidente. Era praticamente solo al mondo, come lui. Una delle donne che aveva visto al funerale, una certa Mrs Hudson, la sua padrona di casa, gli disse che non si era mai preso troppa cura di sé, che dormiva poco e niente, che spesso e volentieri neanche mangiava, che suonava il suo violino nella maggior parte del tempo – lei pensava lo facesse per riempire e coprire il suono della sua solitudine. Alcuni lo definirono arrogante, qualcuno si spinse un po' oltre definendolo come “una vera testa di cazzo”. Si domandò se sarebbero andati d'accordo, o se avessero litigato dopo soli due minuti. John aveva cominciato a immaginare, sempre più spesso, come sarebbe stata la loro vita all'insegna dell'azione; magari, pensava, tra un caso e l'altro gli avrebbe insegnato a suonare il violino.
Aveva sentito anche altre voci, decisamente poco amichevoli. C'era chi diceva che fosse un drogato, o che avesse un passato come tale. Non si era mai dato peso di scavare così a fondo nel suo passato, forse preferiva non pensare a dove, la sua solitudine, lo aveva portato, a quanto male doveva avergli inferto e come nessuno lo avesse mai saputo.
L'unica sua certezza, era che più cose scopriva, più John rimaneva affascinato da quell'uomo. Ma non era solo questo. Si sentiva davvero legato a Sherlock Holmes, riusciva a percepire il legame che li univa. Un legame che non aveva mai sentito con nessun altro.
Avrebbe voluto stargli vicino, avrebbe voluto fermarlo, impedirgli di mettere fine alla sua vita. Avrebbe voluto, avrebbe dovuto, essere lì ad aiutarlo. Scagliò il bicchiere d'acqua che stava bevendo contro la parete, a quel pensiero. Le cose non sarebbero dovute andare così.


Non aveva mai parlato di Sherlock Holmes con Ella, era sicuro che non avrebbe capito, benché meno approvato. In realtà non ne aveva parlato con nessuno dei suoi conoscenti, anche se moriva dalla voglia di far loro sapere quanto brillante e geniale fosse quel detective, quell'uomo. Avrebbe voluto farlo sapere al mondo intero, e allo stesso tempo voleva tenerlo, egoista forse, esclusivamente per sé, in modo da sentirlo suo e di nessun altro.
Sherlock Holmes era diventato ormai una costante, nella sua vita, la costante che gli era mancata da troppo tempo. Non sapeva dire se fosse un bene o un male, tante volte, per questo, si chiudeva in se stesso fregandosene di quello che accadeva fuori. La vita andava avanti, lui c'era dentro, ma poco gli importava di quello che succedeva – aveva quasi del tutto ignorato la notizia di un attentato aereo avvenuto qualche tempo prima2. Aveva trovato lavoro e aveva provato a frequentare una sua collega, Sarah. Le cose, per un po', sembravano andare bene, fino a quando la donna stessa non notò come lui avesse costantemente la testa da un'altra parte. “C'è già un'altra persona, nei tuoi pensieri”, gli aveva detto, “me ne sono accorta da tempo, ma credevo che sarebbe passata”. Lo aveva lasciato, se così si poteva dire, e lui aveva mollato il lavoro. Poco gli era importato di entrambe le cose.
Non cercò lavoro per un po', per questo fu sorpreso di ricevere la chiamata di un noto ospedale di Londra, il St. Barts. Era stato ampiamente raccomandato da qualcuno di importante, qualcuno che voleva rimanere anonimo; John cercò ogni tipo di spiegazione ma non riuscì a trovarne neanche mezza. Cominciò a lavorare l'indomani mattina, costretto ad abbandonare ogni ulteriore ricerca che aveva in mente su Sherlock Holmes.


In ospedale regnava il caos. C'era da dire, che tutta Londra era nel caos, l'intera nazione addirittura, forse l'intera Europa. Ma mai quanto l'ospedale. John era in piedi da 24 ore, così come più o meno tutti gli altri medici che non si erano fermati un attimo e correvano da un paziente all'altro. Gli sembrava di essere tornato in Afghanistan, era da tempo che non si sentiva così carico.
In realtà, la situazione era critica e c'era poco da sentirsi bene al riguardo: la notte prima, Londra era stata colpita da un attentato terroristico ai danni del parlamento britannico.3 Avevano smesso di contare i feriti, avevano improvvisato dei lettini e avevano rimandato a casa i famigliari per liberare la sala d'attesa e sistemare quelli messi meglio. John provava così tante emozioni diverse che era convinto di poter esplodere da un momento all'altro: eccitazione, lutto, rabbia, angoscia, preoccupazione e un incredibile senso di colpa. Quest'ultimo era quello che lo spaventava di più. Ogni morte lo gettava in un baratro, si sentiva responsabile per tutte quelle vittime, gli sembrava che ogni cosa fosse accaduta per colpa sua. Espresse questo pensiero ad un suo collega e si sentì dire di non essere ridicolo. Ed aveva anche ragione, cosa c'entrava lui, John Watson, un insignificante dottore d'ospedale, in un attacco terroristico? Come avrebbe potuto prevederlo o evitarlo? Non poteva, eppure c'era quella voce che continuava a ripetergli che fosse tutta colpa sua, che se non fosse stato per lui le cose non sarebbero andate così.
«John?» Un'infermiera lo chiamò, correndogli incontro. «C'è un uomo qui, vuole parlarti», le lanciò un'occhiataccia, guardandosi poi intorno: le sembrava il momento di parlare con qualcuno? Non aveva tempo da perdere con qualche parente di un qualche ferito. «No, non può aspettare. E' sul tetto, Mr. Holmes, se non ho capito male.»
Il suo cuore perse un battito. Se non aveva capito male? Come poteva aver capito male un dettaglio tanto importante? Holmes? No, non era possibile, non poteva essere vero. Lui era morto, era addirittura stato al suo funerale, aveva assistito alla sua sepoltura. Che avesse inscenato tutto, per qualche motivo? E perché chiedeva di lui? Aveva scoperto che era andato in giro a ficcanasare sul suo conto? Magari era venuto lì per dirgli di piantarla e di farsi una vita. No, non poteva essere lui.
Si precipitò subito verso le scale, corse via lasciandosi il bastone alle proprie spalle, senza neanche rendersene conto. Stava tremando visibilmente, notò, il suo battito era accelerato oltre ogni misura – tanto che temette di essere colpito da un infarto da un momento all'altro. Era emozionato, non poteva neanche pensare di controllarsi, non provò nemmeno di respirare normalmente per darsi una calmata, non ci sarebbe riuscito neanche a volerlo. Era emozionato e, soprattutto, agitato. Avrebbe osato dire spaventato. Stava per incontrare l'uomo che era stato per mesi interi al centro dei suoi pensieri, il detective che aveva sostituito i suoi incubi di guerra con piacevoli sogni basati su immagini di quella vita quotidiana trascorsa insieme che non avevano mai vissuto. John voleva sapere tante cose, mentre correva per la rampa di scale, saltando uno scalino e anche l'altro, cercava di organizzare un discorso, o di mettere in ordine le domande che voleva porgli da chissà quanto tempo.
Perché aveva finto il suicidio, tanto per cominciare. Perché si era mostrato solamente allora. E lui, cosa gli avrebbe risposto lui? Era terrorizzato all'idea di essere mandato al diavolo. E in più aveva davvero paura di quella che sarebbe stata la sua prima vera impressione su Sherlock Holmes. E soprattutto dell'idea che Holmes si sarebbe fatto di lui.
«Dottor Watson», si sentì chiamare da una figura nascosta nell'ombra. Era davvero la sua figura? La figura di Sherlock Holmes? E la sua voce... no, c'era qualcosa di sbagliato in quella voce, tutto gli suonava sbagliato in quel momento. Gli sembrava di aver appena udito un estraneo, pronunciare il suo nome, quel suono non gli aveva scaturito il minimo effetto o la minima emozione. Era... deluso, sì. E confuso, molto. La figura uscì alla luce, rivelando un uomo che non aveva mai visto prima, un uomo che, certo era, non era il suo Holmes. John si sentì sollevato ma allo stesso tempo afflitto da quella rivelazione.
«Ci conosciamo?» Si ritrovò a chiedere con un filo di voce, mentre quello gli si avvicinava lentamente per poi pararglisi davanti, facendo roteare platealmente l'ombrello nero che si portava dietro. Lo aveva già visto prima, ne era certo.
«Mycroft Holmes», si presentò l'uomo, studiando l'espressione del dottore che fece di tutto per apparire totalmente indifferente, fallendo e trasalendo soltanto a sentire il suono di quel nome. Mycroft inarcò le sopracciglia, soddisfatto. «Non ci conosciamo, dottor Watson, o almeno lei non conosce me. Non in questo tempo, almeno», John lo guardò interrogativo, non stava capendo una sola parola di quello che diceva. «L'ho tenuta d'occhio, i suoi movimenti intendo, e non ho potuto non notare la sua particolare ossessione per mio fratello.»
Il fratello, quell'uomo era suo fratello. Doveva capirlo fin da subito, si disse, era ovvio che non poteva trattarsi di Sherlock Holmes in persona, lui era morto ormai da anni, era stato veramente uno stupido a credere il contrario, anche se solo per un momento. Cercò di studiare Mycroft, il modo in cui parlava o quello in cui si muoveva, le espressioni che faceva e come si rivolgeva a lui; si domandò se anche solo una minima parte di quei gesti fosse appartenuta anche a Sherlock, se qualcosa di lui vivesse ancora in suo fratello. Si concentrò poi su quello che gli disse, ingoiò saliva aspettando che lo intimasse di lasciarlo perdere o di farsi una vita propria. Era pronto a replicare, ma quello sembrava aver detto già tutto. «Senta, siamo in piena emergenza», disse, tanto per cominciare, «può arrivare dritto al punto e non farmi perdere altro tempo prezioso?» Si mise sulla difensiva senza volerlo, pentendosene subito dopo.
Mycroft neanche si premurò di nascondere un ghigno. «E va bene, dottor Watson, non le farò perdere altro tempo. Come reagirebbe se le dicessi che ci troviamo in una realtà parallela e che niente di tutto quello che è successo, specialmente a lei, negli ultimi anni, sarebbe dovuta accadere?»
«Direi che, al contrario dei suoi buoni propositi, mi sta facendo perdere tempo con queste stupidaggini», rispose subito apro il dottore, ritrovando subito coraggio e autorità; non gli piacevano le prese in giro, le aveva sempre odiate, e poco gli importava chi fosse quell'uomo, era pronto a tagliare alla radice qualunque assurdità volesse dirgli. C'era, però, una cosa, tra quello che aveva detto, che gli aveva fatto rizzare i capelli: non sarebbe dovuto accadere. Era una delle cose che si ripeteva continuamente, soprattutto quando pensava a Sherlock Holmes. Aveva quella costante sensazione che tutti gli ultimi anni sarebbero dovuti andare diversamente.
«Prevedibile», commentò quello, che non parve per niente scottato dalle sue parole o dal suo tono, quanto piuttosto annoiato. «Sarei stato veramente lieto di risparmiare tempo a parlare dell'argomento, infondo anche lei sa che le mie parole non sono quelle di un pazzo o di un impostore. Inoltre, che motivo avrei avuto a venire fin qui unicamente per dirle delle menzogne?» Non aveva alcun motivo, lo sapeva, e quella verità lo infastidiva. In cuor suo stava vivendo un profondo conflitto: non sapeva se avrebbe preferito che fosse tutto vero o se si stesse solamente prendendo gioco di lui. Non sapeva quale delle due alternative fosse la più semplice. Restò in silenzio, sentendosi con le spalle al muro, ma scuotendo ugualmente la testa per ciò che stava udendo. «Andiamo, mi guardi. Le sembra che stia mentendo?»
«Io la conosco», disse invece, ignorando la domanda e sorprendendo, finalmente, l'uomo, «l'ho vista», si corresse un secondo dopo, guardandolo negli occhi. «Era al suo funerale», sentì che non ci fosse il bisogno di specificare a cosa si riferiva.
Mycroft inghiottì saliva «Immagino di sì», commentò a bassa voce, colpito.
«Immagina?» Gli fece eco John, alzando un sopracciglio.
«Dottor Watson», partì l'altro, parlando in modo calmo e lento, come se certi concetti gli sarebbero entrati in testa meglio facendo così, trattandolo come uno stupido. «Quello che lei ha visto, non ero io. Era il Mycroft Holmes di questo tempo.» John rise, una risata bassa che suonò come uno sbuffo, mentre voltava la testa da un'altra parte. Non poteva credere a quello che stava sentendo, non ci riusciva, gli sembrava fantascienza. «Il 29 gennaio 2010, tornando verso casa, si è ritrovato davanti a un bivio, non è vero? E ha scelto di proseguire verso destra», l'ultima parte non si curò neanche di formularla come una domanda.
«E io dovrei ricordarmi di una cosa successa tre anni fa?!» Esclamò spazientito e allarmato. In realtà ricordava bene quella giornata, se chiudeva gli occhi riusciva addirittura a provare le stesse sensazioni di allora e la data... sì, se la ricordava benissimo, quella data, dato che un paio di giorni dopo aveva appreso del suicidio di Sherlock Holmes.
«Dottor Watson, sarebbe davvero molto più semplice se riuscissimo ad essere completamente onesti tra di noi, in questo momento almeno», sbuffò allora Mycroft, facendolo sentire scoperto, come messo a nudo; ebbe la sensazione di non poter riuscire a nascondere nulla a quell'uomo, immaginò che con Sherlock fosse la stessa cosa o non sarebbe mai stato un così brillante detective. Forse doveva essere una dote di famiglia. Restò in silenzio, odiandosi. Mycroft ne approfittò «A questo proposito, devo confessare di essere l'artefice di questa... spiacevole situazione», John alzò un sopracciglio e gli rivolse uno sguardo torvo, non aveva ancora deciso a cosa credere, ma certo era che stava combattendo contro la voglia di tirargli un pugno in piena faccia. «Devo aver approfittato di un diverbio fra voi due, in modo da poter sperimentare una macchina attualmente in mano al governo, così da farla tornare indietro nel tempo – a proposito, devo ringraziarla, il suo contributo è stato molto cruciale. Girando a destra, però, ha cambiato la sorte, ha rimescolato tutto e ha creato questa specie di universo parallelo. Tutti questi anni sono sbagliati, non sono altro che un errore.»
John rimase in silenzio per qualche istante, il tempo sufficiente per metabolizzare tutto. «Una macchina del tempo? Cos'è, tecnologia aliena?» Si ritrovò a chiedere, sentendosi, sì, stupido, ma preferendo soffermarsi sull'ultima cosa veramente importante in quel momento. Un modo per guadagnare tempo.
«Tecnologia aliena?» Ripeté l'altro divertito «Si tratta di scienza, dottor Watson.» John annuì sovrappensiero, incrociando le braccia. Non riusciva davvero a credere ad un'eventualità del genere, viaggi nel tempo, universi paralleli, erano solamente delle stronzate. Ma dall'altra parte, c'erano tutte quelle sensazioni che provava e che giravano intorno a Holmes, il legame che sentiva, come un qualcosa che sarebbe dovuto essere. Non ne aveva mai parlato ad anima viva perché sapeva che nessuno avrebbe capito, lui stesso non lo capiva. Mycroft, invece, sembrava l'unico in grado, non solo di comprenderlo, ma anche di dargli una spiegazione. Quel giorno avrebbe dovuto girare a sinistra, e poi cosa? Si sarebbe imbattuto in Sherlock Holmes? Sarebbero diventati amici, forse altro? Era questo il suo destino? La sua strada e quella di Sherlock Holmes si sarebbero dovute incrociare? «Il punto è», Mycroft ruppe nuovamente il silenzio, salvandolo da quel vortice di pensieri in cui si era andato ad infilare, «che mio fratello non sarebbe dovuto morire, quella sera.» John alzò il capo e lo guardò serio, l'uomo sembrava sinceramente distrutto a quel pensiero per quanto provasse a non farlo vedere.
«E' una cosa che mi sono ripetuto spesso, in questi anni», commentò John, non sapendo bene cos'altro aggiungere. Gli sarebbero piaciuti dei dettagli, magari in quel modo si sarebbe convinto, ma l'altro non sembrava intenzionato a darglieli.
«Devo ammettere che non sapevo bene cosa aspettarmi da lei, dalla sua vita senza di lui», mormorò ad un tratto, gli angoli della bocca incurvati verso l'alto in un sorriso... compassionevole? Commosso? Drammatico? Tutte quelle cose insieme? «Mi sorprende come, in un modo o nell'altro, sia riuscito ad influenzarla completamente. Perfino adesso, senza averla mai incontrata, la sua vita gira intorno a Sherlock Holmes. Non so se esserne toccato, o sorpreso, o se invece dovevo semplicemente aspettarmelo.»
«Mi dica lei», ribatté il dottore, a mezza bocca. Si sentiva toccato sul personale, adesso; era irrequieto, non sapeva cosa pensare o come agire. Non si trovava nella sua posizione preferita.
«Posso dirle che io l'ho vista entrare in questo ospedale zoppicando con il suo bastone, mentre adesso la vedo qui, davanti a me, sull'attenti, ritto e in piedi sulle proprie gambe come se niente fosse. E' bastato sentire il suo nome per farla precipitare qui e lasciarsi tutto alle spalle, non è vero?» Ma John aveva smesso di ascoltarlo qualche secondo prima, all'incirca quando aveva nominato il suo bastone. Istintivamente aveva abbassato lo sguardo alla sua destra e quello che non aveva trovato lo lasciò senza respiro. Quando era successo? Come? Possibile che fosse bastata davvero la convinzione che Sherlock Holmes lo stesse cercando, per fargli dimenticare di tutto il resto? «Oh», mormorò Mycroft, a bassa voce «non se ne era ancora accorto. Come l'altra volta, del resto», l'altra volta. John si riscosse.
«Non ho ancora ben chiaro il motivo della sua visita», affermò soltanto, ignorando ancora una volta tutto il resto, tutte le insinuazioni, tutte le domande lasciate in sospeso. Sentiva il bisogno di chiudere quella conversazione alla svelta.
«John», l'uomo rabbrividì, era la prima volta che lo chiamava per nome da quando aveva avuto inizio quell'assurdo colloquio, «devo chiederglielo: cosa è disposto a fare per riavere Sherlock indietro?» Riaverlo indietro, perché gli suonava tutto così folle ma così giusto allo stesso tempo? Non aveva mai incontrato gli occhi di Sherlock Holmes, né aveva mai sentito la sua voce o imparato a riconoscere il rumore dei suoi passi, ma c'era quel qualcosa infondo al suo cuore che gli diceva di aver fatto ciascuna di queste cose, se non di più, in una vita passata, o in tante altre ancora.
«Darei la mia vita, per lui», la convinzione che mise in quelle parole lo colse completamente impreparato e lo lasciò di sasso; la stessa cosa, tuttavia, non si poteva dire di Mycroft Holmes, che ebbe appena la decenza di abbassare lo sguardo quel tanto che gli consentisse di nascondere quel suo piccolo ghigno di soddisfazione. Sembrava che avesse ottenuto ciò per cui era venuto, peccato che a John sembrava di non avergli dato niente. «Senta», cominciò alla fine, stanco «supponendo che tutta la sua storia sia vera e che io ci creda, cosa succede adesso? Bisogna premere una sorta di tasto di reset per far tornare tutto alla normalità? Oppure io... tornerò indietro con lei? E' per questo che è qui?»
Mycroft alzò entrambe le sopracciglia, indignato per quelle assurdità «Non esiste nessun tasto di reset, non funzionano in questo modo le cose – non ancora, almeno. E no, non può tornare con me, questo universo è stato creato da lei, non può uscirne in questo modo», al dottore cominciava a girare la testa, ormai aveva perso il filo del discorso.
«Quindi devo restare qui? Non c'è proprio niente che io possa fare?»
«A tempo debito, lo saprà», si sentì rispondere, un'altra risposta vaga, un altro significato da leggere tra le righe. A John quei giochetti, quegli indovinelli, non piacevano per niente. Mycroft sembrava aver detto, invece, tutto, per questo gli voltò le spalle e fece per allontanarsi lasciandolo tornare così al suo lavoro.
«Lo ha fatto per darmi una lezione, non è vero?» Questo bastò a fermarlo, nonché a farlo voltare nuovamente in modo che potesse fronteggiarlo.
«Come?»
«La discussione con Sherlock. Non mi ha mandato indietro per testare una stupida macchina: mi ha suggerito di ricominciare da capo, di provare a vivere senza di lui. Mi conosco, so che in una discussione potrei arrivare a dire delle cose pesanti, cose dette senza riflettere e di cui potrei pentirmi subito dopo, o magari no. Tutto questo è stato fatto per provare a me stesso quanto mi sbagliassi, dico bene?»
Mycroft lo scrutò in silenzio, studiando la possibilità di rispondergli o meno. John non batté ciglio, restituendogli uno sguardo serio, deciso, sicuro di sé e pronto a tutto. Uno sguardo da soldato, avrebbe detto. Alla fine, Holmes non aggiunse nient'altro, se non «Spero di rivederla presto, John.» Un attimo dopo era scomparso infondo la rampa delle scale.
Si ritrovò di nuovo da solo, solo come era stato per la maggior parte della sua vita, solo come di sicuro era stato una volta tornato dall'Afghanistan. Doveva tornare dai suoi pazienti, era scomparso da, quanto?, un'ora? Ad occhio e croce gli sembravano passati degli anni e allo stesso tempo pochi secondi. Le sue gambe cedettero, alla fine; si accasciò a terra e poggiò la testa sul cornicione. A cosa doveva credere? Lui era un uomo di scienza, lo era sempre stato, e tutte quelle storie sui viaggi nel tempo gli erano sempre parse, per l'appunto, storie, nient'altro, solamente delle utopie. Dubitava fortemente che la scienza avrebbe mai raggiunto quel livello. Ma lui era anche un romantico, per quanto quel termine potesse sembrare stupido alle orecchie della gente, perfino alle sue, sapeva di esserlo, ne era convinto, o non avrebbe mai passato gli ultimi tre anni della sua vita dietro a un uomo, morto, che non aveva mai incontrato. Tutto per cosa? Per una sorta di connessione che sentiva di avere con lui, nient'altro.
Si spostò appena sul fianco destro, in modo da recuperare il suo portafoglio dalla tasca posteriore sinistra. Macchinalmente, tirò fuori la foto di Sherlock presa dal ritaglio di un giornale datato, gli pareva, una vita fa; cominciava a sbiadirsi, in più era tutta stropicciata, colpa delle volte che l'aveva presa per guardarla. Ogni volta sembrava di scoprire nuovi dettagli e dava loro una storia diversa. Forse davvero stava impazzendo. Sherlock lo guardava, dall'immagine, con quei profondi occhi azzurri che tanto gli sembrava lo stessero studiando. John ricambiò lo sguardo con un mezzo sospiro. Gli riscaldava il cuore, e non parlava della foto. Bastava il solo pensiero di quell'uomo, lo aiutava a sentirsi meno solo e miserabile, cosa che, a conti fatti, era.
Alzò gli occhi al cielo scuro, in Sherlock aveva trovato una sorta di appiglio, un motivo per andare avanti. Se non avesse letto quel giornale, quella famosa mattina, se non avesse scoperto della sua esistenza, se non avesse mai nemmeno sentito il suo nome, cosa ne sarebbe stato di lui? Non aveva difficoltà a ricordare il vuoto che il ritorno dalla guerra gli aveva provocato, forse perché non aveva mai smesso di provarlo. Non doveva negarlo, aveva sentito pronunciare il suo nome, quella sera, gli avevano detto che lo stava cercando e si era sentito vivo per la prima volta dopo così tanto tempo. Cos'era lui? Aveva passato i trentanni e non aveva progetti, non aveva affetti, non aveva amici. Non sentiva sua sorella da mesi e quasi non gli mancava. Non parlava con nessuno, anzi, non aveva nessuno con cui parlare o con cui uscire a bere una birra. Aveva smesso perfino di andare alle sedute e non era riuscito ad entrare in confidenza con nessuno dei suoi colleghi. Aveva ottenuto un lavoro che non aveva neanche mai cercato – cominciava a credere che centrasse Mycroft Holmes, in qualche modo, non sapeva come. Non usciva con una donna da tempo, non ricordava neanche quando era stata l'ultima volta che aveva baciato qualcuno. E non sentiva neanche il bisogno di farlo, non con una persona qualunque, almeno. Non voleva conoscere gente, sapeva che nessuno sarebbe mai stato all'altezza di Sherlock Holmes, o quantomeno della sua fantasia.

A tempo debito, lo saprà”, l'eco della voce di Mycroft gli risuonò nel cervello, più volte. John non era felice della sua vita, ma almeno aveva trovato una sorta di stabilità, seppure effimera. E poi quell'uomo era arrivato, gli aveva insinuato vari dubbi e domande nella testa, e poi se n'era andato. Era tutto così assurdo. Anzi, no, non lo era per niente. Credeva a quello che gli aveva detto? No. Sì. Probabile? Non riusciva a decidere, sapeva di star vivendo una battaglia interiore. Cosa doveva fare? Forse lo sapeva, l'idea, paradossalmente, non lo terrorizzava neanche.
Darei la mia vita, per lui” aveva detto e non lo rinnegava. Lo avrebbe davvero fatto. E cominciava a credere che fosse quello il suo destino, almeno in quella vita. Mycroft gli aveva detto che lui era l'artefice dell'esistenza di quell'universo, che lo aveva creato nel momento in cui aveva scelto la strada sbagliata, riscrivendo in quel modo una triste, vuota e nuova storia. Non vedeva altre soluzioni, un altro modo per cancellarla non c'era, non dal suo punto di vista. Se tutte quelle cose che aveva sentito erano vere, Sherlock era morto per causa sua e non se lo sarebbe mai perdonato. Avrebbe continuato a vivere gli anni che gli restavano con quel rimorso. No, non ne aveva la minima intenzione. Non voleva vivere, quanti, altri trenta o quarant'anni senza di lui.
Pensò alla pistola gelosamente custodita nel cassetto della sua scrivania. Era sempre stata lì, non l'aveva mai abbandonato. Quella pistola lo aveva tentato addirittura quel lontano 29 gennaio, non lo avrebbe mai dimenticato. Tornare a casa, in quel momento, e farla finita gli sembrava così semplice. Ma d'altra parte non riusciva ad abbandonare quel luogo, non riusciva a muoversi, ma non per codardia. Sentiva di doverlo fare, di doverlo fare lì e in nessun altro posto. Posò una mano sul cornicione alle sue spalle e, con gambe tremanti, si rizzò in piedi e si voltò verso la strada.
Lo stava davvero facendo? Per cosa? Mycroft poteva benissimo essere un pazzo, o una persona che voleva giocargli solamente un brutto tiro. E lui avrebbe posto fine alla sua vita per quello? Ma quale vita? Era giunto a quella conclusione ormai, quella che stava vivendo non poteva assolutamente considerarsi in quel modo. Si fidava di Mycroft Holmes? No, ma aveva fiducia in Sherlock. Lui credeva in Sherlock Holmes.
Guardò un'ultima volta la sua foto, sorrise amaramente e la posò con cura nella tasca superiore del suo camice, quella ad altezza del cuore. Respirò profondamente, poi, e a lungo. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere.


Fu costretto a poggiarsi alla porta dell'edificio dal quale era appena uscito. Aveva il fiatone e non riusciva a smettere di tremare. Fu accolto dal calore dell'inusuale sole posto alto nel cielo di Londra, sbatté più volte le ciglia e cercò di tornare a respirare normalmente. Intorno a lui, genitori passeggiavano con i figli, studenti rientravano a casa, amanti si scambiavano carezze fugaci. Nessuno sembrava notarlo. Si guardò alle spalle e riconobbe il Diogenes Club. Cosa era successo esattamente? Aveva appena chiuso la porta alle sue spalle, lo ricordava. E ricordava anche altro... ricordava... tutto. Com'era possibile? Si era trattato di un sogno o di una allucinazione? O era successo tutto veramente?
Avrebbe potuto tornare indietro da Mycroft e interrogarlo, ma aveva altri pensieri per la testa, qualcosa di più importante. Qualcuno di più importante. Fermò il primo taxi che passava, indicandogli frettolosamente Baker Street, imprecando poi per l'assurda quantità di tempo che stava impiegando per arrivarci; ci avrebbe messo sicuramente di meno a tornare a casa, se avesse corso. Appena scorse il 221 b lanciò all'autista tutti i soldi che aveva in tasca e si scapicollò fuori, senza badare a chiudere neanche la portiera dell'auto. Cacciò fuori le chiavi e fu costretto a provare un paio di volte prima di riuscire ad aprire il portone di casa. Corse lungo le scale e spalancò con forza e violenza la porta dell'appartamento; quella andò a sbattere contro il muro. Sherlock si voltò all'istante, era in piedi davanti la scrivania, intento a suonare il violino per Rosie, impegnata a giocare con dei cubi. Anche lei si era voltata a guardarlo, curiosa. Sherlock fece per aprire bocca, ma John non glielo lasciò fare, precipitandosi su di lui, posando una mano dietro al suo collo e obbligandolo ad abbassarsi, così che potesse poggiare le labbra sulle sue e saziarsi del suo sapore.
«John, io–», provò a dire, interrompendo il bacio poco dopo, per mancanza di fiato.
«Mi dispiace», esclamò subito il dottore, levandogli le parole di bocca, la fronte poggiata su quella dell'altro «mi dispiace», ripeté «ho esagerato. Ho davvero esagerato.»
«No, a me dispiace per averti tenuto fuori. Non sarei dovuto andare senza di te, lo capisco», John annuì contro di lui.
«No, non avresti dovuto», mormorò appena sulle sue labbra. Le accarezzò appena con la lingua, rapido.
«Però lo rifarei», aggiunse Sherlock senza pensare, maledicendosi subito. L'altro parve non farci caso, non interruppe quel momento, non sarebbe mai riuscito a farlo.
«Ovviamente, lo rifaresti», gli fece eco, piuttosto, sorridendo divertito, lasciandosi scappare addirittura una mezza risata. Sherlock allontanò i loro visi per poterlo guardare meglio in faccia, sconvolto. Non riusciva a capire cosa ci fosse da ridere, soprattutto non riusciva a capire perché quella cosa non lo facesse andare su tutte le furie. La verità era che John non sarebbe riuscito ad arrabbiarsi con lui almeno per un bel po', non dopo quello che aveva appena vissuto. Era semplicemente grato di essere tornato e di averlo ritrovato. Gli prese i fianchi, in modo da riavvicinarlo. Si lasciò abbracciare e poi girò leggermente il capo, in modo da lasciargli un bacio sul collo. «Mi sei mancato», gli sussurrò sulla pelle, facendolo rabbrividire. Si staccò, poi, seppur controvoglia, e corse a prendere la bambina fra le sue braccia, stampando anche a lei un dolce bacio sulla fronte, dopo averla sollevata in alto, oltre la sua testa, per farla ridere. «Mi siete mancati entrambi».
«Sei stato via solamente tre ore», affermò Sherlock, posando il violino sulla sua poltrona, prima di dirigersi verso la cucina in modo da poter preparare del tè per entrambi.
«A me è sembrato molto di più, minimo tre anni», esclamò l'altro di rimando, coccolando la sua bimba mentre si sedeva davanti al camino spento.
«Sei così sentimentale», gli urlò dietro Sherlock, facendogli scappare una risata.
In effetti lo era, ma era proprio questo il punto, no? Se non lo fosse stato, forse non sarebbe mai riuscito a tornare a casa. Gli tornò in mente il motivo per cui tutto era cominciato. Magari doveva avercela con Mycroft per il brutto scherzo che gli aveva fatto, ma era troppo impegnato a sputare veleno contro se stesso, contro quello che aveva detto. La sua vita non sarebbe stata più semplice, senza Sherlock, lui non sarebbe stato niente senza Sherlock. Non sarebbe stato più felice, non sarebbe stato più tranquillo, non sarebbe stato più spensierato. Sarebbe stato vuoto, incredibilmente vuoto. E perso. E solo. E sull'orlo di una crisi continua. Non avrebbe mai più detto certe cose, Sherlock non le meritava, la loro vita insieme non lo meritava. Sperava di riuscire a perdonarsi, prima o poi.
Sherlock tornò poco dopo con due tazze fumanti, ne porse una a John e poi si sedette davanti a lui.
«Mi dirai mai dove sei stato stamattina, comunque? Come hai risolto il caso?» Domandò ad un certo punto, curioso e desideroso di conoscere ogni minimo dettaglio, così da poter aggiornare il suo blog e i numerosi lettori che non aspettavano altro. Sherlock fece una smorfia, enfatizzandola con un gesto della mano.
«Non ha importanza», rispose, prima di avvicinare la tazza alle labbra «appartiene al passato, ormai. Un'altra vita, un'altra epoca».
A John andò di traverso il tè, tossì forte e lo guardò allibito. Era stato Mycroft ad affidargli quel caso, John sapeva poco e niente a riguardo, solo i dettagli più importanti o succosi. Che anche Sherlock, quel giorno, avesse affrontato uno strambo viaggio nel tempo? Per questo lo aveva tenuto all'oscuro, tagliandolo fuori? Era questo il pericolo dal quale aveva voluto proteggerlo? O, molto probabilmente, stava solamente diventando paranoico?
Si disse che, no, in realtà non voleva avere davvero una risposta a quelle domande. Certe cose era meglio non saperle, probabilmente. E, del resto, quella storia, ormai, apparteneva al passato. A nient'altro se non al passato.


1. piccolo, piccolissimo, riferimento alla Mystrade. Scusate, non ho potuto farne a meno.
2. riferimento ad A scandal in Belgravia
3. riferimento a The empty hearse

Angolo dell'Autrice: Cos'è questa cosa? Vi giuro, non lo so. Com'è nata? Non so neanche questo, credo di essermi semplicemente fermata a pensare a cosa sarebbe successo se i due non si fossero mai incontrati. Niente di bello, direi. Il paragone con Doctor Who credo sia venuto fuori da solo, adoro quella puntata, è una delle mie preferite e mi è venuto abbastanza spontaneo pensare a Ten/Sherlock e Donna/John (+Rose/Mycroft, più o meno sì). Spero non vi abbia fatto troppo schifo quest'idea, e spero di aver mantenuto IC sia John che Mycroft (così come Sherlock, per quel poco che compare). Fatemi sapere, ho lavorato tanto su questa storia e ci tengo davvero a sapere le vostre opinioni! Grazie a chiunque si sia fermato a leggere :)
Un bacio,

  
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