A
Lidia, che
ha "ascoltato" questa one shot in super anteprima e mi
ha leggermente
minacciata esortata
affinché la pubblicassi quanto prima, ♥
Turn Left
La
piccola Rosie aveva cominciato a piangere e Mrs Hudson era corsa a
prenderla tra le sue amorevoli braccia, così da
rassicurarla. «Va
tutto bene, tesoro. Sai come sono fatti quei due, non c'è
niente di
cui preoccuparsi», le sussurrava dolcemente, alternando delle
dolci
carezze a qualche bacio qua e là tra quei boccoli d'oro. Una
seconda
raffica di sfuriate era appena cominciata, al 221b; andava avanti da
un paio d'ore ormai, interrotta solamente da qualche breve pausa qua
e là.
Mrs
Hudson ci aveva fatto l'abitudine, anche se, ogni volta, le si
spezzava il cuore nel sentire John e Sherlock urlarsi contro in quel
modo, per un motivo futile o per uno più serio. Erano come
figli
suoi, sapeva che le tempeste fra loro non duravano mai troppo a
lungo, ma non poteva restarne completamente impassibile. Prima o poi
quei due testoni l'avrebbero fatta morire di crepacuore, lo sapeva.
John
le aveva lasciato Rosie, quella mattina, prima di uscire
dall'appartamento alla ricerca di Sherlock. Non sapeva tutti i
dettagli, aveva solamente visto John tornare a casa qualche ora
dopo, telefono all'orecchio e sguardo torvo. Sherlock era tornato
circa un'ora dopo di lui, invece, piuttosto mal ridotto e zoppicante.
La buona padrona di casa era accorsa preoccupata, ma dietro di lei
era arrivato John, che si era letteralmente precipitato dalle scale,
pronto ad inveire contro il consulente investigativo. Si erano
rintanati tutti e due al piano di sopra e da allora non erano
più
usciti. Aveva sentito, mal volentieri, il dottor Watson rimproverare
al compagno di essersi buttato in quel nuovo caso da solo,
di
averlo lasciato fuori e di essersi quasi fatto ammazzare per quello.
Sherlock, dal canto suo, si difendeva spiegandogli come avesse avuto
tutto sotto controllo per tutto il tempo e che se non fossero sorte
complicazioni sarebbe tornato a casa tutto intero
per l'ora
del tè. Questo non aveva certamente calmato John, che anzi
aveva
cominciato ad alzare ancora di più la voce. Probabilmente
l'intero
vicinato era in ascolto.
«Per
l'ultima volta, Sherlock. Non mi serve la tua protezione. Non se devi
farti ammazzare!» La voce di John irruppe dalle scale, Mrs
Hudson
poteva tranquillamente vederlo, mentre indossava il suo cappotto
–
sempre, a suo parere, troppo leggero per le temperature di quei
giorni – per prepararsi ad uscire per una lunga e intensa
passeggiata, dove avrebbe smaltito gran parte della rabbia. Rosie,
nel frattempo, si era calmata e ora anche lei se ne restava in
ascolto e in attesa.
«Oh,
per l'amor del cielo, avevo tutto sotto controllo!»
Ripeté per
l'ennesima volta l'altro, prima di andargli dietro; John aveva deciso
di ignorarlo, scuotendo il capo contrariato, e cominciando a scendere
lungo i gradini. «Dove stai andando?» La testa di
Sherlock, ora,
faceva capolino da sopra la rampa di scale.
«Esco.»
«Questo
lo vedo», commentò sottovoce il detective, ferito:
odiava veder
andare via John, senza di lui e arrabbiato, aveva paura di non
vederlo più tornare. «Passa da Mycroft, prima.
Informalo che ho...
che il caso è risolto!» Gli urlò prima
che fosse fuori dal suo
campo visivo. Si maledisse, un secondo dopo, per aver formulato
quella frase come un ordine e non come una richiesta. John si
fermò
sul posto, inspirò profondamente, serrò i pugni,
chiuse gli occhi e
cacciò fuori il fiato. Ripeté quell'operazione
tre volte, senza
replicare. Sherlock non osava muoversi, impaziente; decise di provare
a rimediare a quello che aveva appena detto.
«John–»
«Va
bene!» Gridò il dottore, spazientito, prima di
uscire premurandosi
di sbattere il portone violentemente alle sue spalle.
Per
prima cosa, John si fermò da Angelo così da
mandare giù qualche
boccone, cosa che non faceva dalla sera prima. Pessima idea,
constatò
presto, dato che il ristoratore passò tutta la durata del
suo pasto
a riempirlo di domande, più o meno personali. Il primo
pensiero
dell'uomo andò a Rosie, non la vedeva da un po', disse,
doveva esser
cresciuta almeno di dieci centimetri dall'ultima volta! Gli chiese
poi perché non fosse venuto insieme a Sherlock, se le cose
tra loro
andassero bene, correggendosi da solo, subito dopo, con un “ma
certo che va tutto bene, fra voi!” Non
notò l'espressione
esausta e infastidita del dottore, così continuò
a tempestarlo di
domande riguardanti Sherlock, l'ultima persona di cui voleva parlare
John al momento.
Passeggiò
poi per il parco, cercando un modo per riempire il tempo, ma la cosa
durò poco: la felicità e la spensieratezza delle
persone che lo
circondavano cominciavano a dargli sui nervi. Incontrò
Sarah,
Cristo, non ricordava neanche quando era stata l'ultima volta che
l'aveva vista. Si era fidanzata ufficialmente e aveva da poco
scoperto di aspettare un figlio. Il matrimonio si sarebbe svolto fra
un mese, per evitare il pancione. Ovviamente lui e Sherlock erano
invitati. E Rosie, naturalmente. La famiglia Watson-Holmes al
completo, precisò senza lasciargli modo di replicare,
accettare o
declinare quell'invito.
Arrivò
al Diogenes Club
nel
tardo pomeriggio. Immaginò che Mycroft lo aspettasse
già da un po',
così si sbrigò a raggiungerlo senza emettere il
minimo fiato –
aveva imparato la lezione già la prima volta. Chiuse la
porta alle
sue spalle e andò a sedersi davanti al più grande
degli Holmes,
senza premurarsi neanche di salutare, prima sarebbe terminato
quell'incontro meglio sarebbe stato. O forse no, non moriva proprio
dalla voglia di tornare a Baker Street, non aveva ancora digerito la
discussione con Sherlock.
«Problemi
in paradiso?» Lo punzecchiò Mycroft, mentre posava
il giornale che
stava leggendo e lo ripiegava con cura prima di posarlo sopra il
tavolo. John mise su un sorriso di circostanza, piuttosto tetro e
raccapricciante a dire il vero, e costrinse se stesso di non
assecondare uno degli uomini più potenti della Gran
Bretagna, di
farlo per il suo amico Greg. No, non per Sherlock, per Greg1.
Mycroft capì l'antifona, commentò con
un'alzata di
sopracciglia e alla fine si decise a parlare del caso che aveva
affidato a Sherlock qualche giorno prima.
«Non
posso dirti troppi dettagli, Mycroft», sbottò ad
un certo punto il
dottore, scocciato, tutta la tensione della giornata stava
riemergendo, «io stesso sono all'oscuro della maggior parte.
Sherlock voleva soltanto farti sapere che i gioielli sono al sicuro e
che il caso può essere archiviato, se sapere come sia
arrivato a
concluderlo è di così vitale importanza, allora
dovrete vedervela
voi due. Arrivati a questo punto, io non voglio saperne più
nulla»,
concluse nervoso, passandosi una mano fra i capelli. Doveva calmarsi,
si disse fra sé.
Mycroft
lo studiò silenzioso per qualche secondo, John ne
approfittò per
passarsi una mano sugli occhi ed emettere qualche respiro profondo.
Alla fine si decise di replicare. «Mio fratello si
è dimostrato
abbastanza sconsiderato da portare una bambina sulle scene di vari
crimini, ma, anche lui possiede un senso del limite
e, sono
certo, avrà considerato la situazione troppo pericolosa
così da
decidere di affrontarla da solo in modo da tenerti
al–»
«Io
non – oh per l'amor del cielo!» John
scattò in piedi, stanco di
quella discussione che proprio non voleva saperne di giungere a una
fine. Quello che gli avevano detto Mycroft, e Sherlock, circa un
milione di volte prima di lui, erano tutte cose che lui già
sapeva,
ed era proprio questo che lo mandava su tutte le furie. Aveva odiato
quella giornata, così come ne aveva odiate tante altre
identiche:
svegliarsi e non trovare Sherlock; cominciare a tempestarlo di
messaggi; provare a chiamarlo e a pregare in una qualche risposta;
non sapere se stesse bene, se fosse al sicuro, cosa stesse facendo o
dove si trovasse. Non poteva vivere così, con la costante
paura di
perderlo senza aver fatto nulla per evitarlo. Odiava sentirsi
talmente impotente e Sherlock pareva non rendersene conto. Quel
giorno era tornato a casa ferito, e se un'altra volta non fosse
più
tornato? Non avrebbe potuto sopportarlo. «Certe volte penso
che
sarei stato meglio, se non mi fossi trasferito a Baker
Street»,
espresse quel pensiero ad alta voce, senza rendersene conto, capo
basso e pugni chiusi. Respirò forte e voltò le
spalle a Mycroft,
deciso ad andarsene.
«Ne
sei così convinto?» La voce dell'altro lo
raggiunse e lo bloccò
proprio davanti la porta, la mano ferma sulla maniglia. Girò
appena
il capo, notando come Mycroft stesse fissando un punto indefinito
vicino a lui, sovrappensiero, forse. Sibilò un “Come?”
non intuendo il filo del discorso, solo allora l'uomo parve
ridestarsi e tornare a guardarlo. «Se potessi tornare
indietro,
rifaresti tutto in modo diverso? Eviteresti la strada che ti ha
portato a Sherlock?»
John
lo fissò, provando a studiarlo come aveva visto fare a
Sherlock così
tante volte. Cercava di capire dove lo volesse portare con quella
domanda. A una riflessione interiore? Semplice e mera
curiosità? O
c'era qualcosa di più? John si domandò quando era
stata l'ultima
volta che lo aveva visto così serio. Insomma, Mycroft Holmes
era
perennemente serio, ma quella volta c'era qualcosa
di diverso,
qualcosa che lo spaventava. «Ora come ora?»
Domandò, a mo' di
sfida, sperando di cacciargli fuori qualche altra parola o qualche
comportamento sospetto. Non arrivò niente.
«Sì», rispose alla
fine, non sapendo neanche perché fosse ancora lì,
ad assecondarlo.
«Ma tanto è impossibile, giusto?» Si
ritrovò poi a chiedere,
tanto per esserne sicuri. Dio solo poteva sapere a che tipo di
diavolerie il governo britannico stava lavorando in segreto.
«Tanto
è impossibile, certo», ripeté Mycroft,
tranquillo, tornando a
prendere il giornale che stava leggendo prima che arrivasse John. Il
dottore sentì i muscoli distendersi. Aprì la
porta, ma fu fermato
di nuovo. «Gira a destra, questa volta.» John
decise di non dare
troppo peso a quell'affermazione e di non farsi troppe domande,
doveva uscire da lì alla svelta o sarebbe impazzito.
Silenzioso,
attraversò le stanze del Diogenes Club, aprì la
porta d'ingresso ed
uscì fuori.
Come
ci era finito, seduto sulla sua scrivania, proprio non riusciva a
ricordarlo. Tornò a fissare lo schermo del suo portatile, la
pagina
del suo blog aperta, nessuna parola ancora scritta. Ma cosa doveva
scrivere, poi? Quella pagina, pensò, andava a braccetto con
la sua
vita: era completamente vuota, nonché niente di eclatante o
importante, niente che meritava di essere scritto nero su bianco e
condiviso con altre persone. Faceva tutto così schifo.
Guardò
l'orologio, poi lanciò un'occhiata fuori la finestra
così da poter
scorgere quell'inaspettato sole che spiccava sul cielo inglese di
fine gennaio. Ella gli aveva suggerito di buttare giù
qualche
parola, riusciva quasi a sentire la sua voce, l'ennesimo rimprovero.
Decise di ignorarla, avrebbe scritto dopo, una boccata d'aria fresca
non poteva fargli che bene, del resto, no? Magari avrebbe assistito
ad un episodio eccezionale, magari avrebbe aiutato un agente a
sventare una rapina, magari la sua vita sarebbe cambiata in meglio
proprio quel giorno. Certo, John, e magari avrebbero scoperto un modo
per tornare indietro nel tempo.
Recuperò
le sue cose, si aggrappò al suo fidato e odiato bastone ed
abbandonò
quelle quattro mura che cominciavano ad andargli fin troppo strette.
Comprò subito un giornale e andò a sedersi sulla
prima panchina
libera che riuscì a trovare, dei bambini davanti a lui
giocavano con
uno skateboard. Cominciò a dare un'occhiata ai vari annunci,
per
prima cosa gli appartamenti, sperava di trovarne uno che non costasse
troppo. Prese a cerchiare qualche prezzo, consapevole che non sarebbe
andato a vederne neanche uno. Cercò tra le offerte di
lavoro, niente
che richiedesse “medico” e
“soldato” tra le esperienze. Forse
doveva provare in qualche studio privato, ma con quella gamba tutti
lo avrebbero guardato come paziente e non come
dottore.
Decise
presto, dopo aver buttato via il giornale nel cestino più
vicino, di
rintanarsi dentro un bar per prendere un caffè, nero e senza
zucchero, come piaceva a lui. Declinò il più
educatamente possibile
l'invito di prendere il posto della famigliola che gli stava davanti
nella fila, il tutto per via di quel dannato bastone. Le cose non
andarono migliorando, una ragazza – piuttosto carina a dire
il vero
– vedendolo avviarsi verso l'uscita, tazza di
caffè in una mano e
bastone nell'altra, gli si avvicinò e gli aprì
gentilmente la porta
per lasciarlo passare. John sorrise amaro, e le passò
davanti senza
guardarla negli occhi. Si domandò se la terapia lo avrebbe
mai
aiutato ad uscire da quella situazione, se sarebbe tornato a
camminare normalmente. Ma niente di quello che gli aveva suggerito
Ella aveva funzionato, e lui cominciava davvero a perdere le
speranze. Finì il caffè e buttò la
tazza.
E
ora cosa fare? Non ricordava neanche più il motivo per cui
era
uscito di casa, a dirla tutta. Cercava davvero l'avventura? Era stato
davvero convinto di poterla trovare così, che gli piombasse
addosso
all'improvviso? Si sentì un idiota per averci anche solo
pensato. E
magari un idiota lo era davvero. Si incamminò verso casa, a
testa
basta. Arrivato al solito bivio si paralizzò: girare a
destra
equivaleva tornare nella sua piccola e opprimente stanza, a contare
lo scorrere dei minuti e a sentirsi soffocare; a sinistra c'era il
parco. John voltò la testa per osservarlo da lontano, un
brivido lo
attraversò. Ne fu terrorizzato, ma allo stesso tempo
incuriosito,
attratto. C'era qualcosa che lo attirava da quella parte, qualcosa
che gli diceva che era lì che doveva andare, lì
che sarebbe
cambiato tutto. Era come se fosse legato ad un filo invisibile e
improvvisamente qualcuno dall'altra estremità aveva deciso
di
attirarlo a sé. Gira a sinistra. Era il
suo cuore a parlare?
Credette di sì, per un solo singolo istante
valutò l'idea di
seguire quello strano istinto, un piccolo e breve sorriso si dipinse
sul suo volto, forse neanche se ne accorse. Si sentiva felice a
quell'idea, inspiegabilmente felice. Gira a destra,
disse
un'altra voce, una voce che non riconobbe come sua, ridestandolo da
quella specie di sogno. John ubbidì.
«Non
hai scritto niente sul blog in questi giorni», Ella sapeva
dirsi
infinitamente ripetitiva alle volte. John faticava ad ascoltarla quel
giorno, la sua testa era da tutt'altra parte. Se gli avessero chiesto
a cosa stesse pensando non avrebbe neanche saputo rispondere, sapeva
solo che qualcosa di brutto era successo, aveva una terribile
sensazione addosso e si sentiva in colpa. Per cosa, però,
non sapeva
dirlo. Sicuramente non per non aver scritto niente sul blog per due
giorni interi, di quello gli importava veramente poco.
«Non
ho avuto niente da scrivere», commentò, anche lui
ripetitivo,
distogliendo lo sguardo dalle gocce di pioggia che lentamente
scivolavano lungo il vetro della finestra. Le loro sedute ormai si
svolgevano sempre allo stesso modo, pensava fosse arrivato il momento
di interromperle ma non ne trovava il coraggio; una parte di lui
aspettava ancora quel qualcosa che potesse aiutarlo a migliorare,
l'altra parte lo rimproverava per essersi lasciato scappare
quell'occasione quando ne aveva avuto la possibilità. John
non
riusciva a capire. O forse lo faceva, ma non se ne rendeva conto.
«Non
deve per forza succederti qualcosa, John»,
continuò la donna, con
un tono di voce fin troppo calmo per i suoi gusti. Gli scoppiava la
testa, non vedeva l'ora di tornarsene a letto, ingoiare un sonnifero
e sperare che gli incubi lo avrebbero lasciato in pace, per una
volta. «Puoi scrivere qualunque cosa, puoi scrivere i tuoi
pensieri», alzò gli occhi al cielo e
sbuffò, a nessuno importava
di quello che pensava e, al momento, la sua testa era un vero campo
di battaglia, lui stesso faticava a venirne fuori. «Puoi
parlare dei
tuoi sentimenti, puoi sfogarti. Anche se provi rabbia,
puoi–»
«Non
sono arrabbiato», la interruppe, strofinandosi l'occhio
sinistro con
la mano, «non provo niente, niente di niente. Né
gioia o tristezza,
o paura. E decisamente non rabbia», aveva creduto di esserlo,
qualche volta, ci aveva sperato. Avrebbe preferito essere
costantemente arrabbiato, tutto sarebbe stato meglio di quel vuoto
che avvertiva addosso. Forse era depresso e non se ne rendeva conto.
Ella
cominciò a parlare, ma aveva smesso di ascoltarla, la
pioggia era
tornata ad interessarlo più di quella seduta.
Abbassò poi lo
sguardo e notò il giornale appena comprato, arrotolato e
abbandonato
sul tavolino al suo fianco. In quel minimo frangente riuscì
a
individuare solamente una parola, un nome: Holmes. Il cuore prese ad
accelerare all'impazzata, non poté controllarlo in alcun
modo.
Allungò una mano, sorprendendosi da solo nel vederla
tremare,
afferrò il pezzo di carta e cominciò a leggere.
Forse la donna
seduta davanti a lui lo chiamò per nome un paio di volte,
sorpresa
da quella mancanza di rispetto, ma la ignorò. Con il cuore
in gola,
cominciò a leggere quelle poche righe che lo avevano colpito
tanto:
Continua la misteriosa serie di suicidi nel cuore di
Londra;
Vittima, questa volta, è Sherlock Holmes, consulente
investigativo
abbastanza noto a Scotland Yard. Holmes, che aveva appena cominciato
a lavorare al caso, è stato rinvenuto morto la sera del 30
Gennaio
2010. La polizia ritiene che si tratti di suicidio. Continua
così–.
Si
sentì mancare, la stanza prese a girare inaspettatamente. Si
prese
il viso tra le mani e cominciò a respirare profondamente,
per
calmarsi. Non sapeva cosa gli stesse succedendo, ma quella notizia lo
aveva sconvolto, si sentiva come se gli fosse crollato il mondo
addosso. Non conosceva quell'uomo, non sapeva neanche che faccia
avesse, eppure la sua morte era riuscita a fargli scattare qualcosa
dentro di lui, nel profondo del suo cuore, qualcosa che non provava
da diverso tempo. Era... dolore? Non lo sapeva, credeva di no.
Avrebbe volentieri pianto, però. Avrebbe voluto cacciare
fuori
tutto, magari urlare. Alzò gli occhi e continuò a
leggere
l'articolo, diceva che il funerale si sarebbe svolto proprio quel
pomeriggio. John controllò l'orologio, probabilmente era
già
cominciato.
«Mi
dispiace, mi sono ricordato di un... impegno. Ci vediamo
martedì
prossimo», biascicò quella scusa e
scappò via, per quanto la gamba
glielo consentisse, certo.
Il
taxi lo portò al cimitero in una decina di minuti, John si
odiò per
non essere riuscito ad arrivare prima. Avevano appena riposto la
tomba; una donna piangeva tra le braccia del marito (i genitori,
presuppose), un'altra, sola, seguiva il suo esempio singhiozzando
silenziosamente, una ragazza dai capelli raccolti in una alta coda di
cavallo sembrava abbastanza commossa, per il resto sembravano tutti
leggermente spaesati e fuori posto. Un po' come lui. Un uomo gli
passò avanti frettolosamente a testa basta, non si accorse
della sua
presenza e lo urtò brusco. Si voltò mortificato e
a John parve di
averlo già visto da qualche parte.
«Mi
scusi tanto, non l'avevo assolutamente vista... ero di fretta sa, ho
fatto di tutto per non perdermi l'inizio della cerimonia ma sono
stato trattenuto», cominciò a spiegarsi esprimendo
ad alta voce le
scuse, sincere, che, John ebbe come il presentimento, aveva ripassato
nella sua mente, lungo la strada. L'ex soldato annuì appena
con il
capo, mormorando qualche suono, niente che si potesse anche solo
avvicinare a delle vere parole di senso compiuto, in uno scarso
tentativo di rassicurarlo. Lo osservava attento però,
cercando di
metterlo a fuoco; alla fine ricordò di aver visto una sua
foto sul
giornale di pochi giorni fa: era l'ispettore Lestrade, se la mente
non lo ingannava, si occupava lui del caso di quegli assurdi suicidi
seriali. «Anche lei era uno dei suoi clienti?» Gli
domandò ad un
certo punto, a bassa voce.
John
scosse la testa, mormorando un debole «No no», si
guardò intorno,
nel frattempo, domandandosi se la maggior parte dei presenti al
funerale fossero clienti del signor Holmes, persone che lui aveva
aiutato, negli anni.
«Oh,
è un parente, quindi», concluse l'ispettore,
turbando appena John,
che scosse il capo. Lestrade parve abbastanza sorpreso e confuso,
«Era un suo amico?» Domandò, questa
volta visibilmente curioso
della risposta.
«No,
io...», cominciò a dire, rendendosi
improvvisamente conto che la
sua presenza lì era completamente immotivata. Non aveva
sentito
neanche mai parlare di Sherlock Holmes, prima di quel giorno
«E'
complicato», mormorò infine a bassa voce, una
mezza verità. «Non
lo conoscevo molto, che tipo era?» Si ritrovò a
chiedere, mosso da
un'innaturale curiosità.
Lestrade
si grattò il capo. «Non saprei dirlo, ci aiutava
– beh, mi
aiutava a risolvere i casi più difficili. Era piuttosto
strambo, non
aveva amici, viveva da solo. Gli interessava solamente del suo
lavoro; quelli che vede qui presente sono tutti suoi clienti,
qualcuno lo conosco, tanti di loro mi odiano perché pensavo
fossero
colpevoli», John si guardò in giro,
provò una specie di rabbia nei
loro confronti, non trovava accettabile che loro avessero avuto la
possibilità di conoscere e interagire con quell'uomo e lui
no.
Sentiva che le cose non sarebbero dovute andare così e si
stupì da
solo per quei pensieri. «Aveva anche un blog, La
scienza della
deduzione.» Per un momento pensò che lo
stesse prendendo in
giro, ma l'ispettore appariva più che serio e si
calmò. Anche quel
Holmes teneva un blog, gli strani casi della vita. Si annotò
quel
nome a mente, deciso ad andarlo a cercare una volta tornato a casa.
Non
chiese più niente a Lestrade e lui, d'altro canto, non
aggiunse
nient'altro. A funzione finita i due uomini si salutarono
educatamente, John non poté non restarsene in disparte ad
osservare
le persone allontanarsi dalla tomba di Sherlock Holmes. Prima di
andarsene, scorse una macchina nera, tra gli alberi, e un uomo
lì in
piedi con un ombrello nero in mano, aperto per proteggersi dalla
pioggia che non aveva accennato a voler smettere neanche per un
secondo, che aveva osservato per tutto il tempo quella scena da
lontano.
In
poco tempo, Sherlock Holmes divenne la sua ossessione. Passò
intere
giornate sul suo blog, studiò ogni suo post trovandoli
folli,
assurdi e geniali al tempo stesso. Riuscì a contattare
qualcuno dei
suoi vecchi clienti, si fece raccontare le loro storie e come
Sherlock li avesse aiutati. Fu tentato più volte di cercare
i suoi
genitori, ma non osò mai oltrepassare quel limite. Non
sapeva cosa
lo spingesse verso quelle ricerche, qualcosa nel suo cuore gli diceva
che doveva farlo, che era il suo destino. Aveva trovato, su un
vecchio giornale, una sua fotografia e gli era sembrato più
giovane
rispetto alla sua età; aveva ritagliato quella fotografia e
adesso
la teneva dentro al portafoglio, sempre mezzo vuoto, senza un
apparente motivo. In qualche modo si sentiva confortato nel tenerlo
vicino. Era una situazione così assurda.
Sentiva
di avere diversi punti in comune con quell'uomo, non si fermava mai
dal cercare nuove informazioni su di lui quasi ad avere conferme a
riguardo. Tutte le persone che aveva ascoltato gli erano stati
più o
meno utili, in questo: lo avevano definito riservato, nessuno sapeva
niente della sua vita privata e tanti pensavano che quasi non ne
avesse; nessuna ragazza, o ragazzo; nessun amico o confidente. Era
praticamente solo al mondo, come lui. Una delle donne che aveva visto
al funerale, una certa Mrs Hudson, la sua padrona di casa, gli disse
che non si era mai preso troppa cura di sé, che dormiva poco
e
niente, che spesso e volentieri neanche mangiava, che suonava il suo
violino nella maggior parte del tempo – lei pensava lo
facesse per
riempire e coprire il suono della sua solitudine. Alcuni lo
definirono arrogante, qualcuno si spinse un po' oltre definendolo
come “una vera testa di cazzo”. Si
domandò se sarebbero andati
d'accordo, o se avessero litigato dopo soli due minuti. John aveva
cominciato a immaginare, sempre più spesso, come sarebbe
stata la
loro vita all'insegna dell'azione; magari, pensava, tra un caso e
l'altro gli avrebbe insegnato a suonare il violino.
Aveva
sentito anche altre voci, decisamente poco amichevoli. C'era chi
diceva che fosse un drogato, o che avesse un passato come tale. Non
si era mai dato peso di scavare così a fondo nel suo
passato, forse
preferiva non pensare a dove, la sua solitudine, lo aveva portato, a
quanto male doveva avergli inferto e come nessuno lo avesse mai
saputo.
L'unica
sua certezza, era che più cose scopriva, più John
rimaneva
affascinato da quell'uomo. Ma non era solo questo. Si sentiva davvero
legato a Sherlock Holmes, riusciva a percepire il legame che li
univa. Un legame che non aveva mai sentito con nessun altro.
Avrebbe
voluto stargli vicino, avrebbe voluto fermarlo, impedirgli di mettere
fine alla sua vita. Avrebbe voluto, avrebbe dovuto,
essere lì
ad aiutarlo. Scagliò il bicchiere d'acqua che stava bevendo
contro
la parete, a quel pensiero. Le cose non sarebbero dovute andare
così.
Non
aveva mai parlato di Sherlock Holmes con Ella, era sicuro che non
avrebbe capito, benché meno approvato. In realtà
non ne aveva
parlato con nessuno dei suoi conoscenti, anche se moriva dalla voglia
di far loro sapere quanto brillante e geniale fosse quel detective,
quell'uomo. Avrebbe voluto farlo sapere al mondo intero, e allo
stesso tempo voleva tenerlo, egoista forse, esclusivamente per
sé,
in modo da sentirlo suo e di nessun altro.
Sherlock
Holmes era diventato ormai una costante, nella sua vita, la costante
che gli era mancata da troppo tempo. Non sapeva dire se fosse un bene
o un male, tante volte, per questo, si chiudeva in se stesso
fregandosene di quello che accadeva fuori. La vita andava avanti, lui
c'era dentro, ma poco gli importava di quello che succedeva –
aveva
quasi del tutto ignorato la notizia di un attentato aereo avvenuto
qualche tempo prima2. Aveva trovato lavoro e
aveva provato
a frequentare una sua collega, Sarah. Le cose, per un po', sembravano
andare bene, fino a quando la donna stessa non notò come lui
avesse
costantemente la testa da un'altra parte. “C'è
già un'altra
persona, nei tuoi pensieri”, gli aveva detto, “me
ne sono accorta
da tempo, ma credevo che sarebbe passata”. Lo aveva lasciato,
se
così si poteva dire, e lui aveva mollato il lavoro. Poco gli
era
importato di entrambe le cose.
Non
cercò lavoro per un po', per questo fu sorpreso di ricevere
la
chiamata di un noto ospedale di Londra, il St. Barts. Era stato
ampiamente raccomandato da qualcuno di importante, qualcuno che
voleva rimanere anonimo; John cercò ogni tipo di spiegazione
ma non
riuscì a trovarne neanche mezza. Cominciò a
lavorare l'indomani
mattina, costretto ad abbandonare ogni ulteriore ricerca che aveva in
mente su Sherlock Holmes.
In
ospedale regnava il caos. C'era da dire, che tutta Londra era nel
caos, l'intera nazione addirittura, forse l'intera Europa. Ma mai
quanto l'ospedale. John era in piedi da 24 ore, così come
più o
meno tutti gli altri medici che non si erano fermati un attimo e
correvano da un paziente all'altro. Gli sembrava di essere tornato in
Afghanistan, era da tempo che non si sentiva così carico.
In
realtà, la situazione era critica e c'era poco da sentirsi
bene al
riguardo: la notte prima, Londra era stata colpita da un attentato
terroristico ai danni del parlamento britannico.3
Avevano
smesso di contare i feriti, avevano improvvisato dei lettini e
avevano rimandato a casa i famigliari per liberare la sala d'attesa e
sistemare quelli messi meglio. John provava così tante
emozioni
diverse che era convinto di poter esplodere da un momento all'altro:
eccitazione, lutto, rabbia, angoscia, preoccupazione e un incredibile
senso di colpa. Quest'ultimo era quello che lo spaventava di
più.
Ogni morte lo gettava in un baratro, si sentiva responsabile per
tutte quelle vittime, gli sembrava che ogni cosa fosse accaduta per
colpa sua. Espresse questo pensiero ad un suo collega e si
sentì
dire di non essere ridicolo. Ed aveva anche ragione, cosa c'entrava
lui, John Watson, un insignificante dottore d'ospedale, in un attacco
terroristico? Come avrebbe potuto prevederlo o evitarlo? Non poteva,
eppure c'era quella voce che continuava a ripetergli che fosse tutta
colpa sua, che se non fosse stato per lui le cose non sarebbero
andate così.
«John?»
Un'infermiera lo chiamò, correndogli incontro.
«C'è un uomo qui,
vuole parlarti», le lanciò un'occhiataccia,
guardandosi poi
intorno: le sembrava il momento di parlare con qualcuno? Non aveva
tempo da perdere con qualche parente di un qualche ferito.
«No, non
può aspettare. E' sul tetto, Mr. Holmes, se non ho capito
male.»
Il
suo cuore perse un battito. Se non aveva capito male? Come poteva
aver capito male un dettaglio tanto importante? Holmes? No, non era
possibile, non poteva essere vero. Lui era morto, era addirittura
stato al suo funerale, aveva assistito alla sua sepoltura. Che avesse
inscenato tutto, per qualche motivo? E perché chiedeva di
lui? Aveva
scoperto che era andato in giro a ficcanasare sul suo conto? Magari
era venuto lì per dirgli di piantarla e di farsi una vita.
No, non
poteva essere lui.
Si
precipitò subito verso le scale, corse via lasciandosi il
bastone
alle proprie spalle, senza neanche rendersene conto. Stava tremando
visibilmente, notò, il suo battito era accelerato oltre ogni
misura
– tanto che temette di essere colpito da un infarto da un
momento
all'altro. Era emozionato, non poteva neanche pensare di
controllarsi, non provò nemmeno di respirare normalmente per
darsi
una calmata, non ci sarebbe riuscito neanche a volerlo. Era
emozionato e, soprattutto, agitato. Avrebbe osato dire spaventato.
Stava per incontrare l'uomo che era stato per mesi interi al centro
dei suoi pensieri, il detective che aveva sostituito i suoi incubi di
guerra con piacevoli sogni basati su immagini di quella vita
quotidiana trascorsa insieme che non avevano mai vissuto. John voleva
sapere tante cose, mentre correva per la rampa di scale, saltando uno
scalino e anche l'altro, cercava di organizzare un discorso, o di
mettere in ordine le domande che voleva porgli da chissà
quanto
tempo.
Perché
aveva finto il suicidio, tanto per cominciare. Perché si era
mostrato solamente allora. E lui, cosa gli avrebbe risposto lui? Era
terrorizzato all'idea di essere mandato al diavolo. E in più
aveva
davvero paura di quella che sarebbe stata la sua prima vera
impressione su Sherlock Holmes. E soprattutto dell'idea che Holmes si
sarebbe fatto di lui.
«Dottor
Watson», si sentì chiamare da una figura nascosta
nell'ombra. Era
davvero la sua figura? La figura di Sherlock
Holmes? E la sua
voce... no, c'era qualcosa di sbagliato in quella voce, tutto gli
suonava sbagliato in quel momento. Gli sembrava di aver appena udito
un estraneo, pronunciare il suo nome, quel suono non gli aveva
scaturito il minimo effetto o la minima emozione. Era... deluso,
sì.
E confuso, molto. La figura uscì alla luce, rivelando un
uomo che
non aveva mai visto prima, un uomo che, certo era, non era il suo
Holmes. John si sentì sollevato ma allo stesso
tempo afflitto da
quella rivelazione.
«Ci
conosciamo?» Si ritrovò a chiedere con un filo di
voce, mentre
quello gli si avvicinava lentamente per poi pararglisi davanti,
facendo roteare platealmente l'ombrello nero che si portava dietro.
Lo aveva già visto prima, ne era certo.
«Mycroft
Holmes», si presentò l'uomo, studiando
l'espressione del dottore
che fece di tutto per apparire totalmente indifferente, fallendo e
trasalendo soltanto a sentire il suono di quel nome. Mycroft
inarcò
le sopracciglia, soddisfatto. «Non ci conosciamo, dottor
Watson, o
almeno lei non conosce me. Non in questo tempo, almeno», John
lo
guardò interrogativo, non stava capendo una sola parola di
quello
che diceva. «L'ho tenuta d'occhio, i suoi movimenti intendo,
e non
ho potuto non notare la sua particolare ossessione per mio
fratello.»
Il
fratello, quell'uomo era suo fratello. Doveva capirlo fin da subito,
si disse, era ovvio che non poteva trattarsi di Sherlock Holmes in
persona, lui era morto ormai da anni, era stato veramente uno stupido
a credere il contrario, anche se solo per un momento. Cercò
di
studiare Mycroft, il modo in cui parlava o quello in cui si muoveva,
le espressioni che faceva e come si rivolgeva a lui; si
domandò se
anche solo una minima parte di quei gesti fosse appartenuta anche a
Sherlock, se qualcosa di lui vivesse ancora in suo fratello. Si
concentrò poi su quello che gli disse, ingoiò
saliva aspettando che
lo intimasse di lasciarlo perdere o di farsi una vita propria. Era
pronto a replicare, ma quello sembrava aver detto già tutto.
«Senta,
siamo in piena emergenza», disse, tanto per cominciare,
«può
arrivare dritto al punto e non farmi perdere altro tempo
prezioso?»
Si mise sulla difensiva senza volerlo, pentendosene subito dopo.
Mycroft
neanche si premurò di nascondere un ghigno. «E va
bene, dottor
Watson, non le farò perdere altro tempo. Come reagirebbe se
le
dicessi che ci troviamo in una realtà parallela e che niente
di
tutto quello che è successo, specialmente a lei, negli
ultimi anni,
sarebbe dovuta accadere?»
«Direi
che, al contrario dei suoi buoni propositi, mi sta facendo perdere
tempo con queste stupidaggini», rispose subito apro il
dottore,
ritrovando subito coraggio e autorità; non gli piacevano le
prese in
giro, le aveva sempre odiate, e poco gli importava chi fosse
quell'uomo, era pronto a tagliare alla radice qualunque
assurdità
volesse dirgli. C'era, però, una cosa, tra quello che aveva
detto,
che gli aveva fatto rizzare i capelli: non sarebbe dovuto
accadere. Era una delle cose che si ripeteva continuamente,
soprattutto quando pensava a Sherlock Holmes. Aveva quella costante
sensazione che tutti gli ultimi anni sarebbero dovuti andare
diversamente.
«Prevedibile»,
commentò quello, che non parve per niente scottato dalle sue
parole
o dal suo tono, quanto piuttosto annoiato. «Sarei stato
veramente
lieto di risparmiare tempo a parlare dell'argomento, infondo anche
lei sa che le mie parole non sono quelle di un pazzo o di un
impostore. Inoltre, che motivo avrei avuto a venire fin qui
unicamente per dirle delle menzogne?» Non aveva alcun motivo,
lo
sapeva, e quella verità lo infastidiva. In cuor suo stava
vivendo un
profondo conflitto: non sapeva se avrebbe preferito che fosse tutto
vero o se si stesse solamente prendendo gioco di lui. Non sapeva
quale delle due alternative fosse la più semplice.
Restò in
silenzio, sentendosi con le spalle al muro, ma scuotendo ugualmente
la testa per ciò che stava udendo. «Andiamo, mi
guardi. Le sembra
che stia mentendo?»
«Io
la conosco», disse invece, ignorando la domanda e
sorprendendo,
finalmente, l'uomo, «l'ho vista», si corresse un
secondo dopo,
guardandolo negli occhi. «Era al suo funerale»,
sentì che non ci
fosse il bisogno di specificare a cosa si riferiva.
Mycroft
inghiottì saliva «Immagino di
sì», commentò a bassa voce,
colpito.
«Immagina?»
Gli fece eco John, alzando un sopracciglio.
«Dottor
Watson», partì l'altro, parlando in modo calmo e
lento, come se
certi concetti gli sarebbero entrati in testa meglio facendo
così,
trattandolo come uno stupido. «Quello che lei ha visto, non
ero io.
Era il Mycroft Holmes di questo tempo.» John rise, una risata
bassa
che suonò come uno sbuffo, mentre voltava la testa da
un'altra
parte. Non poteva credere a quello che stava sentendo, non ci
riusciva, gli sembrava fantascienza. «Il 29 gennaio 2010,
tornando
verso casa, si è ritrovato davanti a un bivio, non
è vero? E ha
scelto di proseguire verso destra», l'ultima parte non si
curò
neanche di formularla come una domanda.
«E
io dovrei ricordarmi di una cosa successa tre anni fa?!»
Esclamò
spazientito e allarmato. In realtà ricordava bene quella
giornata,
se chiudeva gli occhi riusciva addirittura a provare le stesse
sensazioni di allora e la data... sì, se la ricordava
benissimo,
quella data, dato che un paio di giorni dopo aveva appreso del
suicidio di Sherlock Holmes.
«Dottor
Watson, sarebbe davvero molto più semplice se riuscissimo ad
essere
completamente onesti tra di noi, in questo momento almeno»,
sbuffò
allora Mycroft, facendolo sentire scoperto, come messo a nudo; ebbe
la sensazione di non poter riuscire a nascondere nulla a quell'uomo,
immaginò che con Sherlock fosse la stessa cosa o non sarebbe
mai
stato un così brillante detective. Forse doveva essere una
dote di
famiglia. Restò in silenzio, odiandosi. Mycroft ne
approfittò «A
questo proposito, devo confessare di essere l'artefice di questa...
spiacevole situazione», John alzò un sopracciglio
e gli rivolse uno
sguardo torvo, non aveva ancora deciso a cosa credere, ma certo era
che stava combattendo contro la voglia di tirargli un pugno in piena
faccia. «Devo aver approfittato di un diverbio fra voi due,
in modo
da poter sperimentare una macchina attualmente in mano al governo,
così da farla tornare indietro nel tempo – a
proposito, devo
ringraziarla, il suo contributo è stato molto cruciale.
Girando a
destra, però, ha cambiato la sorte, ha rimescolato tutto e
ha creato
questa specie di universo parallelo. Tutti questi anni sono
sbagliati, non sono altro che un errore.»
John
rimase in silenzio per qualche istante, il tempo sufficiente per
metabolizzare tutto. «Una macchina del tempo?
Cos'è, tecnologia
aliena?» Si ritrovò a chiedere, sentendosi,
sì, stupido, ma
preferendo soffermarsi sull'ultima cosa veramente importante in quel
momento. Un modo per guadagnare tempo.
«Tecnologia
aliena?» Ripeté l'altro divertito «Si
tratta di scienza, dottor
Watson.» John annuì sovrappensiero, incrociando le
braccia. Non
riusciva davvero a credere ad un'eventualità del genere,
viaggi nel
tempo, universi paralleli, erano solamente delle stronzate. Ma
dall'altra parte, c'erano tutte quelle sensazioni che provava e che
giravano intorno a Holmes, il legame che sentiva, come un qualcosa
che sarebbe dovuto essere. Non ne aveva mai parlato ad anima viva
perché sapeva che nessuno avrebbe capito, lui stesso non lo
capiva.
Mycroft, invece, sembrava l'unico in grado, non solo di comprenderlo,
ma anche di dargli una spiegazione. Quel giorno avrebbe dovuto girare
a sinistra, e poi cosa? Si sarebbe imbattuto in Sherlock Holmes?
Sarebbero diventati amici, forse altro? Era questo il suo destino? La
sua strada e quella di Sherlock Holmes si sarebbero dovute
incrociare? «Il punto è», Mycroft ruppe
nuovamente il silenzio,
salvandolo da quel vortice di pensieri in cui si era andato ad
infilare, «che mio fratello non sarebbe dovuto morire, quella
sera.»
John alzò il capo e lo guardò serio, l'uomo
sembrava sinceramente
distrutto a quel pensiero per quanto provasse a non farlo vedere.
«E'
una cosa che mi sono ripetuto spesso, in questi anni»,
commentò
John, non sapendo bene cos'altro aggiungere. Gli sarebbero piaciuti
dei dettagli, magari in quel modo si sarebbe convinto, ma l'altro non
sembrava intenzionato a darglieli.
«Devo
ammettere che non sapevo bene cosa aspettarmi da lei, dalla sua vita
senza di lui», mormorò ad un tratto, gli angoli
della bocca
incurvati verso l'alto in un sorriso... compassionevole? Commosso?
Drammatico? Tutte quelle cose insieme? «Mi sorprende come, in
un
modo o nell'altro, sia riuscito ad influenzarla completamente.
Perfino adesso, senza averla mai incontrata, la sua vita gira intorno
a Sherlock Holmes. Non so se esserne toccato, o sorpreso, o se invece
dovevo semplicemente aspettarmelo.»
«Mi
dica lei», ribatté il dottore, a mezza bocca. Si
sentiva toccato
sul personale, adesso; era irrequieto, non sapeva cosa pensare o come
agire. Non si trovava nella sua posizione preferita.
«Posso
dirle che io l'ho vista entrare in questo ospedale zoppicando con il
suo bastone, mentre adesso la vedo qui, davanti a me, sull'attenti,
ritto e in piedi sulle proprie gambe come se niente fosse. E' bastato
sentire il suo nome per farla precipitare qui e lasciarsi tutto alle
spalle, non è vero?» Ma John aveva smesso di
ascoltarlo qualche
secondo prima, all'incirca quando aveva nominato il suo bastone.
Istintivamente aveva abbassato lo sguardo alla sua destra e quello
che non aveva trovato lo lasciò senza respiro. Quando era
successo?
Come? Possibile che fosse bastata davvero la convinzione che Sherlock
Holmes lo stesse cercando, per fargli dimenticare di tutto il resto?
«Oh», mormorò Mycroft, a bassa voce
«non se ne era ancora
accorto. Come l'altra volta, del resto», l'altra
volta. John
si riscosse.
«Non
ho ancora ben chiaro il motivo della sua visita»,
affermò soltanto,
ignorando ancora una volta tutto il resto, tutte le insinuazioni,
tutte le domande lasciate in sospeso. Sentiva il bisogno di chiudere
quella conversazione alla svelta.
«John»,
l'uomo rabbrividì, era la prima volta che lo chiamava per
nome da
quando aveva avuto inizio quell'assurdo colloquio, «devo
chiederglielo: cosa è disposto a fare per riavere Sherlock
indietro?» Riaverlo indietro, perché gli suonava
tutto così folle
ma così giusto allo stesso tempo? Non aveva mai incontrato
gli occhi
di Sherlock Holmes, né aveva mai sentito la sua voce o
imparato a
riconoscere il rumore dei suoi passi, ma c'era quel qualcosa infondo
al suo cuore che gli diceva di aver fatto ciascuna di queste cose, se
non di più, in una vita passata, o in tante altre ancora.
«Darei
la mia vita, per lui», la convinzione che mise in quelle
parole lo
colse completamente impreparato e lo lasciò di sasso; la
stessa
cosa, tuttavia, non si poteva dire di Mycroft Holmes, che ebbe appena
la decenza di abbassare lo sguardo quel tanto che gli consentisse di
nascondere quel suo piccolo ghigno di soddisfazione. Sembrava che
avesse ottenuto ciò per cui era venuto, peccato che a John
sembrava
di non avergli dato niente. «Senta»,
cominciò alla fine, stanco
«supponendo che tutta la sua storia sia vera e che io ci
creda, cosa
succede adesso? Bisogna premere una sorta di tasto di reset per far
tornare tutto alla normalità? Oppure io...
tornerò indietro con
lei? E' per questo che è qui?»
Mycroft
alzò entrambe le sopracciglia, indignato per quelle
assurdità «Non
esiste nessun tasto di reset, non funzionano in questo modo le cose
–
non ancora, almeno. E no, non può tornare con me, questo
universo è
stato creato da lei, non può uscirne in questo
modo», al dottore
cominciava a girare la testa, ormai aveva perso il filo del discorso.
«Quindi
devo restare qui? Non c'è proprio niente che io possa
fare?»
«A
tempo debito, lo saprà», si sentì
rispondere, un'altra risposta
vaga, un altro significato da leggere tra le righe. A John quei
giochetti, quegli indovinelli, non piacevano per niente. Mycroft
sembrava aver detto, invece, tutto, per questo gli voltò le
spalle e
fece per allontanarsi lasciandolo tornare così al suo lavoro.
«Lo
ha fatto per darmi una lezione, non è vero?»
Questo bastò a
fermarlo, nonché a farlo voltare nuovamente in modo che
potesse
fronteggiarlo.
«Come?»
«La
discussione con Sherlock. Non mi ha mandato indietro per testare una
stupida macchina: mi ha suggerito di ricominciare da capo, di provare
a vivere senza di lui. Mi conosco, so che in una discussione potrei
arrivare a dire delle cose pesanti, cose dette senza riflettere e di
cui potrei pentirmi subito dopo, o magari no. Tutto questo è
stato
fatto per provare a me stesso quanto mi sbagliassi, dico
bene?»
Mycroft
lo scrutò in silenzio, studiando la possibilità
di rispondergli o
meno. John non batté ciglio, restituendogli uno sguardo
serio,
deciso, sicuro di sé e pronto a tutto. Uno sguardo da
soldato,
avrebbe detto. Alla fine, Holmes non aggiunse nient'altro, se non
«Spero di rivederla presto, John.» Un attimo dopo
era scomparso
infondo la rampa delle scale.
Si
ritrovò di nuovo da solo, solo come era stato per la maggior
parte
della sua vita, solo come di sicuro era stato una volta tornato
dall'Afghanistan. Doveva tornare dai suoi pazienti, era scomparso da,
quanto?, un'ora? Ad occhio e croce gli sembravano passati degli anni
e allo stesso tempo pochi secondi. Le sue gambe cedettero, alla fine;
si accasciò a terra e poggiò la testa sul
cornicione. A cosa doveva
credere? Lui era un uomo di scienza, lo era sempre stato, e tutte
quelle storie sui viaggi nel tempo gli erano sempre parse, per
l'appunto, storie, nient'altro, solamente delle utopie. Dubitava
fortemente che la scienza avrebbe mai raggiunto quel livello. Ma lui
era anche un romantico, per quanto quel termine potesse sembrare
stupido alle orecchie della gente, perfino alle sue, sapeva di
esserlo, ne era convinto, o non avrebbe mai passato gli ultimi tre
anni della sua vita dietro a un uomo, morto, che non aveva mai
incontrato. Tutto per cosa? Per una sorta di connessione che sentiva
di avere con lui, nient'altro.
Si
spostò appena sul fianco destro, in modo da recuperare il
suo
portafoglio dalla tasca posteriore sinistra. Macchinalmente,
tirò
fuori la foto di Sherlock presa dal ritaglio di un giornale datato,
gli pareva, una vita fa; cominciava a sbiadirsi, in più era
tutta
stropicciata, colpa delle volte che l'aveva presa per guardarla. Ogni
volta sembrava di scoprire nuovi dettagli e dava loro una storia
diversa. Forse davvero stava impazzendo. Sherlock lo guardava,
dall'immagine, con quei profondi occhi azzurri che tanto gli sembrava
lo stessero studiando. John ricambiò lo sguardo con un mezzo
sospiro. Gli riscaldava il cuore, e non parlava della foto. Bastava
il solo pensiero di quell'uomo, lo aiutava a sentirsi meno solo e
miserabile, cosa che, a conti fatti, era.
Alzò
gli occhi al cielo scuro, in Sherlock aveva trovato una sorta di
appiglio, un motivo per andare avanti. Se non avesse letto quel
giornale, quella famosa mattina, se non avesse scoperto della sua
esistenza, se non avesse mai nemmeno sentito il suo nome, cosa ne
sarebbe stato di lui? Non aveva difficoltà a ricordare il
vuoto che
il ritorno dalla guerra gli aveva provocato, forse perché
non aveva
mai smesso di provarlo. Non doveva negarlo, aveva sentito pronunciare
il suo nome, quella sera, gli avevano detto che lo stava cercando e
si era sentito vivo per la prima volta dopo
così tanto tempo.
Cos'era lui? Aveva passato i trentanni e non aveva progetti, non
aveva affetti, non aveva amici. Non sentiva sua sorella da mesi e
quasi non gli mancava. Non parlava con nessuno, anzi, non aveva
nessuno con cui parlare o con cui uscire a bere una birra. Aveva
smesso perfino di andare alle sedute e non era riuscito ad entrare in
confidenza con nessuno dei suoi colleghi. Aveva ottenuto un lavoro
che non aveva neanche mai cercato – cominciava a credere che
centrasse Mycroft Holmes, in qualche modo, non sapeva come. Non
usciva con una donna da tempo, non ricordava neanche quando era stata
l'ultima volta che aveva baciato qualcuno. E non sentiva neanche il
bisogno di farlo, non con una persona qualunque, almeno. Non voleva
conoscere gente, sapeva che nessuno sarebbe mai stato all'altezza di
Sherlock Holmes, o quantomeno della sua fantasia.
“A
tempo debito, lo saprà”, l'eco della
voce di Mycroft gli
risuonò nel cervello, più volte. John non era
felice della sua
vita, ma almeno aveva trovato una sorta di stabilità,
seppure
effimera. E poi quell'uomo era arrivato, gli aveva insinuato vari
dubbi e domande nella testa, e poi se n'era andato. Era tutto
così
assurdo. Anzi, no, non lo era per niente. Credeva a quello che gli
aveva detto? No. Sì. Probabile? Non riusciva a decidere,
sapeva di
star vivendo una battaglia interiore. Cosa doveva fare? Forse lo
sapeva, l'idea, paradossalmente, non lo terrorizzava neanche.
“Darei
la mia vita, per lui” aveva detto e non lo
rinnegava. Lo
avrebbe davvero fatto. E cominciava a credere che fosse quello il suo
destino, almeno in quella vita. Mycroft gli aveva detto che lui era
l'artefice dell'esistenza di quell'universo, che lo aveva creato nel
momento in cui aveva scelto la strada sbagliata, riscrivendo in quel
modo una triste, vuota e nuova storia. Non vedeva altre soluzioni, un
altro modo per cancellarla non c'era, non dal suo punto di vista. Se
tutte quelle cose che aveva sentito erano vere, Sherlock era morto
per causa sua e non se lo sarebbe mai perdonato. Avrebbe continuato a
vivere gli anni che gli restavano con quel rimorso. No, non ne aveva
la minima intenzione. Non voleva vivere, quanti, altri trenta o
quarant'anni senza di lui.
Pensò
alla pistola gelosamente custodita nel cassetto della sua scrivania.
Era sempre stata lì, non l'aveva mai abbandonato. Quella
pistola lo
aveva tentato addirittura quel lontano 29 gennaio, non lo avrebbe mai
dimenticato. Tornare a casa, in quel momento, e farla finita gli
sembrava così semplice. Ma d'altra parte non riusciva ad
abbandonare
quel luogo, non riusciva a muoversi, ma non per codardia. Sentiva di
doverlo fare, di doverlo fare lì e in nessun altro posto.
Posò una
mano sul cornicione alle sue spalle e, con gambe tremanti, si
rizzò
in piedi e si voltò verso la strada.
Lo
stava davvero facendo? Per cosa? Mycroft poteva benissimo essere un
pazzo, o una persona che voleva giocargli solamente un brutto tiro. E
lui avrebbe posto fine alla sua vita per quello? Ma quale vita? Era
giunto a quella conclusione ormai, quella che stava vivendo non
poteva assolutamente considerarsi in quel modo. Si fidava di Mycroft
Holmes? No, ma aveva fiducia in Sherlock. Lui credeva in Sherlock
Holmes.
Guardò
un'ultima volta la sua foto, sorrise amaramente e la posò
con cura
nella tasca superiore del suo camice, quella ad altezza del cuore.
Respirò profondamente, poi, e a lungo. Chiuse gli occhi e si
lasciò
cadere.
Fu
costretto a poggiarsi alla porta dell'edificio dal quale era appena
uscito. Aveva il fiatone e non riusciva a smettere di tremare. Fu
accolto dal calore dell'inusuale sole posto alto nel cielo di Londra,
sbatté più volte le ciglia e cercò di
tornare a respirare
normalmente. Intorno a lui, genitori passeggiavano con i figli,
studenti rientravano a casa, amanti si scambiavano carezze fugaci.
Nessuno sembrava notarlo. Si guardò alle spalle e riconobbe
il
Diogenes Club. Cosa era successo esattamente? Aveva appena chiuso la
porta alle sue spalle, lo ricordava. E ricordava anche altro...
ricordava... tutto. Com'era possibile? Si era trattato di un sogno o
di una allucinazione? O era successo tutto veramente?
Avrebbe
potuto tornare indietro da Mycroft e interrogarlo, ma aveva altri
pensieri per la testa, qualcosa di più importante. Qualcuno
di più importante. Fermò il primo taxi che
passava, indicandogli
frettolosamente Baker Street, imprecando poi per l'assurda
quantità
di tempo che stava impiegando per arrivarci; ci avrebbe messo
sicuramente di meno a tornare a casa, se avesse corso. Appena scorse
il 221 b lanciò all'autista tutti i soldi che aveva in tasca
e si
scapicollò fuori, senza badare a chiudere neanche la
portiera
dell'auto. Cacciò fuori le chiavi e fu costretto a provare
un paio
di volte prima di riuscire ad aprire il portone di casa. Corse lungo
le scale e spalancò con forza e violenza la porta
dell'appartamento;
quella andò a sbattere contro il muro. Sherlock si
voltò
all'istante, era in piedi davanti la scrivania, intento a suonare il
violino per Rosie, impegnata a giocare con dei cubi. Anche lei si era
voltata a guardarlo, curiosa. Sherlock fece per aprire bocca, ma John
non glielo lasciò fare, precipitandosi su di lui, posando
una mano
dietro al suo collo e obbligandolo ad abbassarsi, così che
potesse
poggiare le labbra sulle sue e saziarsi del suo sapore.
«John,
io–», provò a dire, interrompendo il
bacio poco dopo, per
mancanza di fiato.
«Mi
dispiace», esclamò subito il dottore, levandogli
le parole di
bocca, la fronte poggiata su quella dell'altro «mi
dispiace»,
ripeté «ho esagerato. Ho davvero
esagerato.»
«No,
a me dispiace per averti tenuto fuori. Non sarei dovuto andare senza
di te, lo capisco», John annuì contro di lui.
«No,
non avresti dovuto», mormorò appena sulle sue
labbra. Le accarezzò
appena con la lingua, rapido.
«Però
lo rifarei», aggiunse Sherlock senza pensare, maledicendosi
subito.
L'altro parve non farci caso, non interruppe quel momento, non
sarebbe mai riuscito a farlo.
«Ovviamente,
lo rifaresti», gli fece eco, piuttosto, sorridendo divertito,
lasciandosi scappare addirittura una mezza risata. Sherlock
allontanò
i loro visi per poterlo guardare meglio in faccia, sconvolto. Non
riusciva a capire cosa ci fosse da ridere, soprattutto non riusciva a
capire perché quella cosa non lo facesse andare su tutte le
furie.
La verità era che John non sarebbe riuscito ad arrabbiarsi
con lui
almeno per un bel po', non dopo quello che aveva appena vissuto. Era
semplicemente grato di essere tornato e di averlo ritrovato. Gli
prese i fianchi, in modo da riavvicinarlo. Si lasciò
abbracciare e
poi girò leggermente il capo, in modo da lasciargli un bacio
sul
collo. «Mi sei mancato», gli sussurrò
sulla pelle, facendolo
rabbrividire. Si staccò, poi, seppur controvoglia, e corse a
prendere la bambina fra le sue braccia, stampando anche a lei un
dolce bacio sulla fronte, dopo averla sollevata in alto, oltre la sua
testa, per farla ridere. «Mi siete mancati
entrambi».
«Sei
stato via solamente tre ore», affermò Sherlock,
posando il violino
sulla sua poltrona, prima di dirigersi verso la cucina in modo da
poter preparare del tè per entrambi.
«A
me è sembrato molto di più, minimo tre
anni», esclamò l'altro di
rimando, coccolando la sua bimba mentre si sedeva davanti al camino
spento.
«Sei
così sentimentale», gli urlò dietro
Sherlock, facendogli scappare
una risata.
In
effetti lo era, ma era proprio questo il punto, no? Se non lo fosse
stato, forse non sarebbe mai riuscito a tornare a casa. Gli
tornò in
mente il motivo per cui tutto era cominciato. Magari doveva avercela
con Mycroft per il brutto scherzo che gli aveva fatto, ma era troppo
impegnato a sputare veleno contro se stesso, contro quello che aveva
detto. La sua vita non sarebbe stata più semplice, senza
Sherlock,
lui non sarebbe stato niente senza Sherlock. Non sarebbe stato
più
felice, non sarebbe stato più tranquillo, non sarebbe stato
più
spensierato. Sarebbe stato vuoto, incredibilmente vuoto. E perso. E
solo. E sull'orlo di una crisi continua. Non avrebbe mai più
detto
certe cose, Sherlock non le meritava, la loro vita insieme non lo
meritava. Sperava di riuscire a perdonarsi, prima o poi.
Sherlock
tornò poco dopo con due tazze fumanti, ne porse una a John e
poi si
sedette davanti a lui.
«Mi
dirai mai dove sei stato stamattina, comunque? Come hai risolto il
caso?» Domandò ad un certo punto, curioso e
desideroso di conoscere
ogni minimo dettaglio, così da poter aggiornare il suo blog
e i
numerosi lettori che non aspettavano altro. Sherlock fece una
smorfia, enfatizzandola con un gesto della mano.
«Non
ha importanza», rispose, prima di avvicinare la tazza alle
labbra
«appartiene al passato, ormai. Un'altra vita, un'altra
epoca».
A
John andò di traverso il tè, tossì
forte e lo guardò allibito.
Era stato Mycroft ad affidargli quel caso, John sapeva poco e niente
a riguardo, solo i dettagli più importanti o succosi. Che
anche
Sherlock, quel giorno, avesse affrontato uno strambo viaggio nel
tempo? Per questo lo aveva tenuto all'oscuro, tagliandolo fuori? Era
questo il pericolo dal quale aveva voluto proteggerlo? O, molto
probabilmente, stava solamente diventando paranoico?
Si
disse che, no, in realtà non voleva avere davvero una
risposta a
quelle domande. Certe cose era meglio non saperle, probabilmente. E,
del resto, quella storia, ormai, apparteneva al passato. A
nient'altro se non al passato.
1. piccolo, piccolissimo, riferimento alla
Mystrade. Scusate, non ho potuto farne a meno.
2. riferimento ad A scandal in Belgravia
3. riferimento a The empty hearse
Angolo dell'Autrice:
Cos'è questa cosa? Vi giuro, non lo so. Com'è
nata? Non so neanche questo, credo di essermi semplicemente fermata a
pensare a cosa sarebbe successo se i due non si fossero mai incontrati.
Niente di bello, direi. Il paragone con Doctor Who credo sia venuto
fuori da solo, adoro quella puntata, è una delle mie
preferite e mi è venuto abbastanza spontaneo pensare a
Ten/Sherlock e Donna/John (+Rose/Mycroft, più o meno
sì). Spero non vi abbia fatto troppo schifo quest'idea, e
spero di aver mantenuto IC sia John che Mycroft (così come
Sherlock, per quel poco che compare). Fatemi sapere, ho lavorato tanto su questa storia e ci tengo davvero a sapere le vostre opinioni! Grazie a chiunque
si sia fermato a leggere :)
Un bacio,
Sà