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Autore: marea_lunare    29/05/2017    2 recensioni
La fronte ti si imperla di sudore, mentre tenti di tirare fuori le chiavi dalla tasca, le mani che ti tremano convulsamente.
I flash.
Il dolore.
Manca l’aria. Non respiri.
Il sangue, la carne viva, le urla di sofferenza.
ELIJAH.
Genere: Angst, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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When John Watson had a panic attack                                                  (song-fic: Monster, Imagine Dragons)
 
 
“SHERLOCK!”
Lo gridi come se fosse l’unica tua speranza di salvezza, accasciato contro il portone del 221b.
Hai paura.

*******
                                                                                                                                            

Ever since I could remember,
Everything inside of me,
Just wanted to fit in (oh oh oh oh)
I was never one for pretenders,
Everything I tried to be,
Just wouldn’t settle in (oh oh oh oh)
 
 
Era stata una giornata come un’altra.

I soliti clienti, le solite visite di circostanza, qualche mamma troppo apprensiva e preoccupata per il figlio a causa di uno stupido raffreddore, candide vaginali, problemi alla prostata, sciroppi per la tosse o ritensioni idriche.

Ne avevi abbastanza anche per oggi, perché erano problemi talmente futili che avresti voluto sbattere fuori a calci dal tuo studio tutti quegli ipocondriaci.

Però non potevi. Eri un dottore e questo era il tuo mestiere, perciò dovevi svolgerlo adeguatamente.

Ti era sempre piaciuto fare il dottore, per ciò hai fatto la facoltà di medicina, spinto dalla consapevolezza che un giorno avresti potuto salvare delle vite umane.

E proprio per questo ti sei buttato con tanta dedizione negli studi, dando sempre il meglio di te e venendo egregiamente ricompensato con il massimo dei voti.

Poi ti sei arruolato e, anche lì, hai salvato moltissime vite.

Purtroppo però, c’è stato qualcuno che ha dovuto curare anche te.

Ricordi ancora quell’orribile sensazione che ti ha preso tutta la spalla, bloccandoti il braccio.

Ricordi la paura di perdere l’arto, magari la pallottola aveva intaccato qualche nervo, oppure il semplice terrore di poter morire dissanguato.

Fortunatamente però ti hanno preso in tempo ed estratto il proiettile prima ancora che tu potessi urlare dal dolore.

Ed ora eccoti qui, a Londra, camminando lungo le vie della città che con il tempo hai iniziato a chiamare casa, nonostante all’inizio ti considerassi uno straniero, un ramingo, un girovago senza meta, famiglia, senza né arte né parte.
 

Stanotte hai sognato di nuovo la guerra, hai sognato di nuovo quella pallottola che ti colpisce e ti getta a terra come fossi stato un ramoscello piegato dal vento.

Stranamente non hai urlato.

Ti sei solamente agitato nel letto come un’anguilla, mugolando.

Hai aperto gli occhi all’improvviso, ansimando, accorgendoti che Sherlock ti guardava con i suoi occhi di ghiaccio, disteso al tuo fianco.

Si è alzato su un gomito per osservarti meglio e ti ha chiesto come stessi.

Tu non hai risposto, ti sei limitato a guardare il soffitto, perso.

Allora il tuo compagno di ha scosso leggermente, ti ha chiamato di nuovo.

Tu ti sei girato verso di lui, la bocca ancora semichiusa dal respiro accelerato.

“Sto bene” gli hai detto, facendo un sorriso tirato.

Hai guardato l’orologio: le sei.

L’ambulatorio apriva alle sette e, nonostante oggi non fosse previsto un tuo turno lì, hai deciso che qualsiasi cosa sarebbe stato meglio che rimanere a letto.

“Devo andare in ambulatorio” hai sussurrato poi, stiracchiandoti nel letto, cercando di far uscire da te quella negatività che, ne eri certo, ti sarebbe aleggiata attorno come un’aura maledetta.

“Non toccava a Sarah, oggi?” ti ha chiesto Sherlock, la voce impastata dal sonno.

“Lo so” hai sospirato guardandolo negli occhi, uno sguardo che chiedeva pietà.

“D’accordo” ha sussurrato lui, infilandosi la vestaglia azzurra che tanto gli dona.

“Dove vai?” gli hai chiesto, stralunato.

“Non ho più sonno” ti ha risposto con un sorriso, andando in cucina a preparare il tè.

Tu hai sorriso a tua volta, sospirando rassegnato.
 

Avete fatto colazione insieme, in silenzio, ti sei andato a vestire, in silenzio, e altrettanto in silenzio hai racimolato la tua attrezzatura da dottore e hai salutato Sherlock, dandogli un bacio sulla fronte.

Sei uscito in strada con l’aria gelida di Londra che ti avvolgeva da capo a piedi, ma avevi la testa altrove.

Appena lasciata Baker Street hai subito iniziato a sentire una sensazione di rabbia e frustrazione che ti hanno preso lo stomaco come se niente fosse, senza che tu sapessi dargli una spiegazione logica.

Quella sensazione di irritazione ti ha accompagnato per tutta la giornata ed è per questo che i tuoi sorrisi oggi sono stati più tirati, le tue risposte più secche e concise e la tua pazienza ha raggiunto il limite dopo a malapena mezz’ora di visite.

Quando finalmente sei riuscito ad uscire dall’ambulatorio e poi dal tuo studio, erano ormai le otto di sera. Cammini a passo svelto, come quando eri ancora un soldato e vi facevano fare le esercitazioni alle quattro di mattina.

Correvate tutti insieme a petto nudo e pantaloni mimetici con il freddo che vi intirizziva ogni singolo muscolo, dalla fronte fino alla vita.

Cinquanta giri di campo, poi infinite serie di addominali.

All’inizio è stata un’impresa prendere il ritmo di quegli addestramenti così duri, ma il tuo fisico ancora oggi ben scolpito è eternamente grato a quegli anni di attività fisica.

Mentre ripensi alla tua carriera militare, dei flash iniziano a comparirti negli occhi, ti ricoprono le iridi e ti annebbiano la vista.

Hai un capogiro e rallenti, il battito cardiaco inizia ad accelerare, i flash continuano in rapida successione, non riesci più a respirare bene.

“Sei quasi arrivato a casa. Resisti” ti dici, mentre imponi alle tue gambe di continuare a camminare.

Ora sei più lento, ma vai avanti lo stesso.

Corrughi la fronte e chiudi gli occhi compulsivamente, tenendoti la fronte con una mano, cercando di cacciare quelle immagini.

Perché ora non pensi più all’addestramento, ma alla guerra.

Vedi la polvere e il fumo che ti si mescolano negli occhi, facendoteli lacrimare.

Senti gli scoppi delle bombe che ti fanno fischiare le orecchie.

“John! Aiutami!” senti gridare i tuoi commilitoni, in mezzo alla desolazione e la distruzione che ti circondano.

“John, non lasciarmi morire… Ti prego, salvami…”

Questo ti aveva implorato un ragazzo, una volta.

Si chiamava Elijah Nordbourne.
 

If I told you what I was,
Would you turn your back on me?
Even if I seem dangerous,
Would you be scared?
I get the feeling just because,
Everything I touch isn’t dark enough
If this problem lies in me
 


Eravate in pieno attacco, la battaglia era già iniziata da diverse ore e vi spostavate verso nord, cercando di espugnare il fronte nemico.

Eravate rimasti in pochi, una ventina al massimo, mentre i colpi di mitragliatore dei nemici continuavano imperterriti. Se uno di voi si fosse alzato, sarebbe stato fatto a brandelli.

Elijah era poco più che diciottenne, tu avevi trentadue anni.

Era come un fratello minore per te. Lui ti prendeva come esempio, tu gli insegnavi come difendersi e lo aiutavi in ciò che non riusciva a fare.

Gli volevi un bene dell’anima.
 
 
Quella fatidica mattina, lo scontro a fuoco si stava rivelando più difficile del previsto.

Era estenuante: riuscivate a muovervi solo di pochi metri ogni ora.

Elijah era una testa calda, questo lo sapevi anche tu. Era giovane e spavaldo, ancora non abituato agli orrori che i tuoi occhi avevano già visto più di una volta.

Ti aveva superato di qualche metro, andando in ricognizione durante quei pochi minuti che separavano una sparatoria dall’altra. Gli avversari avevano finito provvisoriamente i proiettili e, sentendo il silenzio, quella giovane recluta ne aveva approfittato.

“No, fermati!” gli avevi intimato, cercando di acciuffarlo per un braccio, ma era sgusciato via, scattando in avanti come una lepre.

Nel silenzio tombale che regnava si sentivano solo i vostri passi e i lamenti dei feriti che giacevano a terra in procinto di morire. Soccorrevi chi potevi, affidandoli ai tuoi colleghi che li portavano via in barella.

Dovevate battere in ritirata finché potevate, non c’era altra soluzione.

Gli altri se ne erano già andati, tu eri rimasto ad aspettare Elijah, chiamandolo più volte e cercando di non attirare l’attenzione nemica.

Ma lui non ti aveva sentito, era ancora convinto che steste combattendo.

Quando lo stavi per raggiungere, lui si è improvvisamente fermato e solo quando hai sentito quel click, il cuore ti è sprofondato sottoterra.

Il suo piede destro era finito direttamente su una mina.
 

“Elijah…” lo avevi chiamato sottovoce, arrivandogli di fronte.

“John…” aveva bisbigliato lui, il panico tangibile nella sua intonazione “Credo di aver fatto una colossale cazzata”.

“Merda” avevi sibilato, digrignando i denti “Perché diavolo non mi hai aspettato?!”

“Mi dispiace, io-“

“Non importa, ragazzo. Dobbiamo trovare il modo di portarti via”

“Potremo trovare qualcosa del mio stesso peso e mettercelo sopra?” aveva azzardato Elijah, guardandoti speranzoso.

“Non credo funzioni” avevi risposto tu, fissandolo “Ci sarebbe comunque un intervallo di qualche millesimo di secondo. Queste mine sono fin troppo sensibili e nessun escamotage sarebbe efficace”.

A quelle parole, il volto del ragazzo era diventato una pura espressione di panico.

“Non voglio perdere la gamba, John… Non voglio!” aveva iniziato a mugolare, la schiena scossa dai singhiozzi.

“Elijah, guardami” gli avevi ordinato.

Lui lo aveva fatto.

I suoi occhi erano di un marrone così scuro da sembrare quasi neri. Occhi che avevano paura. Occhi disperati, terrorizzati e atterriti.

“Farà male, Elijah. Questo non lo posso negare. Però c’è una possibilità che tu possa uscirne vivo. E fidati, amico mio, questo è il meglio a cui potresti aspirare. Senza una gamba ti rimanderanno a casa, dalla tua famiglia, dai tuoi amici e dalla tua fidanzata. Sarai sopravvissuto alla guerra e avrai tentato di servire la tua patria, con onore. Hai commesso un errore, Elijah, ma hai l’occasione di salvarti”.

Avevi detto queste parole a cuore aperto, mentre le scariche di mitra erano ricominciate inarrestabili sopra i vostri elmetti.

Il ragazzo ti aveva guardato, completamente distrutto.

“Farà male, John” aveva detto, la voce rotta dal pianto.

“Lo so, Elijah. Ma ti prometto che andrà tutto bene”.

Delle urla dall’altra parte del campo di battaglia avevano annunciato l’arrivo imminente dei nemici.

Avevi rinfoderato la tua arma, Elijah aveva gettato la sua, pronto a saltare.

In pochi secondi eri riuscito ad individuare una jeep che vi aspettava a qualche centinaio di metri di distanza, lungo la ‘terra di nessuno’.

Nonostante fossi stanco, una scarica di adrenalina ti era corsa lungo le vene.

Elijah ti aveva guardato, il volto contratto da mille emozioni.

Tu ti eri allontanato di un paio di metri e avevi aperto le braccia, pronto a prendere al volo il ragazzo, che intanto aveva caricato la gamba sinistra per
slanciarsi in avanti.

Tutto era successo in pochissimi secondi: Elijah aveva saltato, l’esplosione della mina gli aveva investito la schiena e accecato i tuoi occhi; al volo lo avevi preso e, con le urla di dolore di lui nelle orecchie, avevi iniziato a correre disperatamente per raggiungere la jeep, rimanendo chino in avanti per evitare di essere colpito dai proiettili.

Arrivato al veicolo avevi subito iniziato a fasciare il moncherino di Elijah, che lanciava strazianti urla di dolore, stringendosi convulsivamente la coscia. Una pozza di sangue si stava formando sulle tue mani e sul panno che gli avevi appoggiato sotto ciò che rimaneva della sua gamba.

Un ammasso informe di tendini, pelle, una parte di osso che sporgeva dalla carne rosea, imbrattata di sangue.

Il tuo amico urlava, sbraitava fino a farsi male alle corde vocali, la saliva gli scorreva dai lati della bocca, un dolore incontenibile che non riusciva ad esprimere.

“Ti prego, John… Non farmi morire così!” ti implorava e ti guardava, tra le grida.

“Andrà tutto bene. La tua vita non finisce qui, Elijah. Se esiste qualcuno lassù, dove gli uomini non possono arrivare in forma corporea, ti giuro che ti rimanderò vivo a casa”.

Gli avevi preso la mano e la stringevi tra le tue, tirando fuori quel briciolo di religione e speranza che ti rimaneva.

Arrivati all’accampamento, era stato portato d’urgenza nella tenda medica e tu stesso ti eri occupato di lui.

Subito una siringa di morfina era finita nelle sue vene. Avevi dovuto legarlo al lettino per evitare che si divincolasse.

Tutti gli strumenti medici erano stati disinfettati e sistemasti quel moncherino come potevi, Elijah stordito dall’enorme quantità di antidolorifico che gli avevi sparato in corpo.


Erano state due ore estenuanti, in cui il ragazzo aveva continuato a mugolare come se fosse tormentato dalle visioni, o semplicemente allucinato dalla sofferenza fisica.

Una volta finito il tuo lavoro, ti eri asciugato la fronte con la manica della tua divisa ed eri rimasto ancora un po' con quel giovane, ad occuparti di lui, sperando che il mattino seguente si sarebbe un minimo ripreso.

Sfortunatamente, però, non fu così.

“Allora Elijah, stai meglio?” avevi detto il giorno dopo, superando la tenda che vi separava, sorridendo al ragazzo che aveva ancora gli occhi chiusi.

Ti eri avvicinato e gli avevi accarezzato un braccio.

“Hey amico, mi senti?” lo avevi chiamato, sorridendo ancora.

Poi ti eri accorto che il suo petto non si muoveva.

Gli avevi preso il polso: battito cardiaco assente.

“Dio, no…Elijah!” avevi esclamato scuotendolo più forte.

“Elijah! Elijah! Rispondimi!” lo supplicavi.

Non c’era più nulla da fare.

Togliendo la benda, ti eri accorto del peggioramento della ferita e del pus giallo che si era sparso per tutto il moncherino.

Infezione.

Non potevi crederci. Non volevi crederci.
 
 
Non avevi mai dimenticato il volto dei suoi genitori, il cui mondo era crollato non appena ti eri presentato alla loro porta, tenendo in mano i pochi effetti personali che appartenevano ad Elijah, rimasti all’accampamento.

Tutti soffrivano per la sua dipartita, tu compreso.

Ma chi avrebbe pianto per la tua di morte, John Hamish Watson?
                                                                                                             

I’m only a man with a chamber who’s got me,
I’m taking a stand to escape what’s inside me.
A monster, a monster,
I’m turning to a monster,
A monster, a monster,
And it keeps getting stronger.
 

Mentre questi pensieri ti annebbiano e dilaniano, inciampi sugli scalini del 221B, dove sei arrivato senza nemmeno rendertene conto, barcollando.

Il petto continua a comprimersi, come se volesse schiacciare il cuore sotto il suo peso. Il battito cardiaco accelera ancora, seguito dal respiro che si fa affannoso.

La fronte ti si imperla di sudore, mentre tenti di tirare fuori le chiavi dalla tasca, le mani che ti tremano convulsamente.

I flash.

Il dolore.

Manca l’aria. Non respiri.

Il sangue, la carne viva, le urla di sofferenza.

ELIJAH.


Spalanchi il portone con uno spintone, cadendo carponi per terra, appoggiandoti al muro, mentre vedi la stanza rimpicciolirsi intorno a te, tentando di rinchiuderti, tentando di farti sparire.
 
In fondo chi piangerebbe la tua morte, John Watson? Non hai dei genitori, per tua sorella non esisti.

Sei un reietto, un estraneo a questo mondo.

Tu conosci solo la guerra. Non sei fatto per il mondo dei civili.

Non hai niente.
                                                                 



Can I clear my conscience,
If I’m different from the rest,
Do I have to run and hide? (oh oh oh oh)
I never said that I want this,
This burden came to me,
And it’s made it’s home inside (oh oh oh oh)
 
 

Cerchi di alzarti, ma devi appoggiarti al muro.

Il malessere fisico e quello mentale si mescolano, diventando un unico dolore, potente e devastante, che ti annienta e ti fa cedere le gambe.

Senti un mostro crescerti dentro, che con i suoi affilati artigli ti afferra le gambe e le braccia, ti prende e ti trascina con sé nel suo mondo maleodorante, scuro, senza giorno né notte, senza sole né luna.

“Sherlock…” mormori, credendo di urlare.

Il mostro continua a trascinarti, ti fa cadere per terra, nonostante tu sia ancora in piedi.

Con le unghie gratti il pavimento, creando delle linee continue, mentre quelle mani continuano a portarti via dalla tua vita, dalla signora Hudson, da Lestrade, Molly e...

“SHERLOCK!” stavolta lo gridi veramente, buttando fuori quel poco di aria che hai racimolato.

Una porta si spalanca all’improvviso e sbatte contro il muro.

Sherlock spunta dall’appartamento della signora Hudson, spaventato dalle tue grida.

Quando ti vede appoggiato al muro, il volto rigato di lacrime e il respiro irregolare, si paralizza. Non sa cosa fare.




If I told you what I was,
Would you turn your back on me?
Even if I seem dangerous,
Would you be scared?
I get the feeling just because,
Everything I touch isn’t dark enough
If this problem lies in me
 


“Cristo Santo, John! Che ti è successo?!” ti chiede con apprensione raggiungendoti, esaminandoti dalla testa ai piedi, sorreggendoti per le spalle.

Ci vogliono pochi millesimi di secondo prima che il suo mind place gli dia una risposta.

“Attacco di panico” ti dice, spalancando quegli enormi occhi azzurri.

Tu annuisci debolmente.

“Oh povero John…” pigola la sig.ra Hudson, rimasta dietro al detective, osservando allibita la scena.

Sherlock ti circonda la vita con un braccio aiutandoti a camminare, ma tu non riesci.

Perciò scivoli, ma lui ti prende al volo e ti fa sedere per terra, la schiena rivolta al muro.

“John, guardami” ti sussurra, accarezzandoti piano la testa per darti la sicurezza del calore umano, ma evitando di offuscare ulteriormente la tua visuale e aumentare il senso di oppressione.

“C’è un mostro Sherlock” ansimi spaventato.




I’m only a man with a chamber who’s got me,
I’m taking a stand to escape what’s inside me.
A monster, a monster,
I’m turning to a monster,
A monster, a monster,
And it keeps getting stronger.
 


“Che mostro, John? Di che mostro stai parlando?”

“È dentro di me Sherlock… Io n-non riesco a sfuggirgli. Mi ha preso e non mi lascia più andare. Mi ha afferrato qui” piangi, stringendoti la camicia a scacchi azzurri proprio sopra il cuore “e non mi vuole lasciare andare” concludi in un singhiozzo.

Senti la disperazione prenderti di nuovo, mentre con l’altra mano afferri la camicia viola di Sherlock, aggrappandoviti come se fosse la tua unica speranza di salvezza.

“John…” ti chiama il detective “Non è stata colpa tua”.

Una nuova scossa di singhiozzi si impossessa di te.

Sherlock sa di Elijah, glie lo hai raccontato.

“Va tutto bene, John. È tutto passato. La guerra è lontana ormai. Sei a Londra. La tua città” ti dice, guardandoti.

“Sono un mostro, Sherlock. Non sono riuscito a salvarlo. Non ho salvato Elijah!” esclami tra un singhiozzo e l’altro, le lacrime che ti invadono il volto.

“Non lo dire, John. Non sei un mostro. Non sei riuscito a salvare Elijah perché non ne avevi i mezzi. Non darti la colpa di cose che sono scientificamente irrealizzabili. Quel ragazzo si sarebbe potuto salvare solo in un ambiente sterile, senza possibili contaminazioni esterne. Ma sarebbe morto in mano ai nemici, se non fosse stato per te. Tu hai tentato di salvarlo, John. Tu non sei un mostro, sei un eroe. E tra le tante vite umane, hai salvato anche la mia” ti bisbiglia Sherlock, accucciato di fronte a te, attento a non avvicinarsi troppo.

Tu spalanchi gli occhi e lo guardi, perdendoti in quel colore indefinito che ti ha magnetizzato dal primo giorno.

Smetti di respirare, ti blocchi.

La sicurezza di Sherlock vacilla, spaventato dalla possibilità di aver peggiorato ancora di più le cose.

“John…” ti chiama, le labbra semichiuse e l’espressione preoccupata.

“Sembra un bambino che ha appena rotto un vaso a cui la mamma teneva tanto” ti ritrovi a pensare, intenerito.

Affoghi in quel mare azzurro e ti culli in quella dolcezza, quella tranquillità e quell’innocenza spropositata che ti trasmettono.

Molli la presa sulla tua camicia e lasci cadere la mano al suolo con un leggero tonfo, mentre la voce di Sherlock si alza di un’ottava, continuando a chiamarti.

“John!” esclama, scuotendoti piano.

Lasci anche la sua di camicia, ma quella mano non scivola a terra.

Raggiunge il viso di Sherlock e lo accarezza piano, come se stesse per rompersi.

Lui ti sorride, rinfrancato da quel tuo contatto.

Il tuo respiro si calma, le lacrime si seccano sulle guance.

“Mi hai fatto prendere un colpo” ti sussurra lui, facendo una risata accennata.

Tu sorridi a tua volta, un piccolo sorriso sincero, di gratitudine.

Il petto si è svuotato in quel pianto disperato, il mostro se ne è andato, nonostante il ricordo di Elijah rimanga.

Sherlock aspetta ancora qualche minuto, poi ti aiuta ad alzarti e ti porta di sopra, un tuo braccio attorno alle sue spalle, un suo braccio attorno alla tua vita.

Nonostante abbia un fisico esile, ti sorregge perfettamente, ti porta di peso praticamente.

Arrivate nel vostro appartamento e ti fa sdraiare sul divano.

“Signora Hudson, può preparare del tè?” grida dalla tromba delle scale.

“Certo caro, arrivo subito!” cinguetta l’anziana donna dal piano di sotto.

Sherlock ti si avvicina di nuovo e ti guarda, inginocchiato al tuo fianco.

“Chi piangerebbe per la mia morte?” sputi fuori all’improvviso, inconsciamente.

Il consulente ti guarda storto, spiazzato da quella domanda.

Poi ti guarda e sospira, appoggiando sulla tua guancia una sua mano, contro cui tu ti spingi leggermente.

“Io. E non sarei l’unico” ti sussurra, sfiorandoti le labbra.

“Riposati”.

Ti giri su un fianco, la mano di Sherlock intrecciata con la tua.

E mentre guardi quelle lunghe dita affusolate, così diverse dalla tua mano da soldato, senti che accarezza con il pollice il tuo palmo. Piano, delicatamente, amorevolmente.

Senti il tuo corpo che inizia a rilassarsi, stremato da tutta la tensione provata fino a pochi attimi prima. Senti le gambe leggere, la testa pesante dal dolore del pianto.

Chiudi gli occhi che ancora bruciano e lentamente cadi in un sonno senza incubi, perché sai che ci sarà Sherlock a proteggerti dal quel mostro. Da tutto e da tutti.

Per sempre.
 


I’m only a man with a chamber who’s got me,
I’m taking a stand to escape what’s inside me.
A monster, a monster,
I’m turning to a monster,
A monster, a monster,
And it keeps getting stronger.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
   
 
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